ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  1  della
legge 24  novembre  1981,  n.  689  (Modifiche  al  sistema  penale),
promosso  dal  Tribunale  ordinario  di  Cassino,  nel   procedimento
vertente tra A.L.T. ed altro ed  il  Ministero  del  lavoro  e  delle
politiche sociali, Direzione provinciale del lavoro di Frosinone, con
ordinanza del 16 novembre 2015,  iscritta  al  n.  104  del  registro
ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2016. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 7 dicembre  2016  il  Giudice
relatore Giuliano Amato. 
    Ritenuto che, con  ordinanza  emessa  il  16  novembre  2015,  il
Tribunale ordinario di Cassino ha sollevato questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 1 della  legge  24  novembre  1981,  n.  689
(Modifiche al  sistema  penale),  nella  parte  in  cui  non  prevede
l'applicazione all'autore dell'illecito  amministrativo  della  legge
successiva piu' favorevole; 
    che viene denunciata la violazione degli artt.  3  e  117,  primo
comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7 della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU); all'art.  15
del Patto internazionale  relativo  ai  diritti  civili  e  politici,
adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso  esecutivo
con legge 25 ottobre 1977, n. 881; nonche' all'art.  49  della  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000; 
    che  il  rimettente  espone  di  doversi  pronunciare  in  ordine
all'opposizione, proposta ai sensi dell'art. 22 della  legge  n.  689
del 1981, avverso l'ordinanza-ingiunzione con cui e' stata contestata
alle parti opponenti la violazione dell'obbligo - previsto  dall'art.
2,  comma  1,  del  decreto  legislativo  25  febbraio  2000,  n.  61
(Attuazione della direttiva 97/81/CE relativa all'accordo-quadro  sul
lavoro a tempo parziale concluso dall'UNICE, dal CEEP e dalla CES)  -
di notificare alla Direzione provinciale del  lavoro  competente  per
territorio l'assunzione di lavoratori a tempo parziale; nel  caso  in
esame, la sanzione per tale condotta omissiva e'  stata  determinata,
ai sensi dell'art. 8, comma 4, dello stesso d.lgs. n.  61  del  2000,
nella misura di euro 129.103,29; 
    che, in seguito, l'art. 85 del decreto legislativo  10  settembre
2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia  di  occupazione  e
mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio  2003,  n.  30)  ha
abrogato la previsione dell'obbligo del  datore  di  lavoro  di  dare
comunicazione  dell'assunzione  del  lavoratore  a  tempo   parziale,
eliminando cosi' anche la relativa disciplina sanzionatoria; 
    che  pertanto,   in   base   alla   normativa   piu'   favorevole
sopravvenuta, non e' piu' prevista  alcuna  sanzione,  in  quanto  la
condotta addebitata agli opponenti non e' piu'  considerata  illecito
amministrativo; tuttavia,  osserva  il  rimettente,  l'applicabilita'
della nuova disciplina nel caso in esame sarebbe preclusa dall'art. 1
della legge n. 689 del 1981, il quale non contempla la retroattivita'
del trattamento sanzionatorio piu' favorevole prevista,  invece,  per
le sanzioni penali, dall'art. 2, secondo comma, del codice penale; 
    che  in  riferimento  alla   non   manifesta   infondatezza,   il
rimettente, pur consapevole della giurisprudenza di questa Corte che,
in passato, ha  escluso  che  l'applicazione  retroattiva  della  lex
mitior in materia di sanzioni amministrative  sia  costituzionalmente
necessitata (ordinanze n. 501 del 2002 e n. 245 del  2003),  ritiene,
tuttavia, che detta soluzione possa essere  riconsiderata  alla  luce
dell'evoluzione della  giurisprudenza,  anche  costituzionale,  degli
ultimi anni e delle esigenze  di  conformita'  dell'ordinamento  agli
obblighi internazionali; 
    che, ad avviso del giudice a quo,  la  mancata  previsione  della
retroattivita' del trattamento sanzionatorio piu' mite, in materia di
sanzioni amministrative, sarebbe in contrasto con l'art.  3  Cost.  e
con i principi di ragionevolezza e uguaglianza; viene richiamata,  al
riguardo, la sentenza n. 393 del 2006, in cui la Corte Costituzionale
ha «chiarito che la retroattivita' della legge piu'  favorevole,  pur
non essendo prevista espressamente dalla Costituzione  (a  differenza
dell'irretroattivita' della legge  sfavorevole),  nemmeno  in  ambito
penale,  deve  comunque  considerarsi  espressione  di  un  principio
generale dell'ordinamento,  legato  ai  principi  di  materialita'  e
offensivita' della violazione, dovendosi adeguare  la  sanzione  alle
eventuali  modificazioni  della  percezione  della   gravita'   degli
illeciti da parte dell'ordinamento giuridico»; 
    che  il  giudice  a  quo  osserva  che,  sebbene   il   principio
dell'applicazione retroattiva della lex mitior non  sia  assoluto,  a
differenza di quello di cui all'art. 2, primo  comma,  cod.  pen.  (e
dell'art. 25, secondo comma, Cost.),  tuttavia  la  sua  deroga  deve
essere giustificata da gravi motivi di interesse  generale  (sentenze
n. 393 del 2006 e n. 236 del 2011); nel caso in esame, tuttavia,  non
sarebbero ravvisabili motivi tali da giustificare il  sacrificio  del
trattamento piu' favorevole, come dimostrerebbe anche l'introduzione,
in alcuni settori dell'ordinamento, di norme del tenore dell'art.  2,
secondo e quarto comma, cod. pen.; 
    che, a questo riguardo, sono richiamati l'art. 23-bis del  d.P.R.
31 marzo 1988, n. 148 (Approvazione del Testo unico  delle  norme  di
legge in materia valutaria), inserito dall'art.  1,  comma  2,  della
legge 7 novembre 2000, n. 326 (Modifiche al testo unico approvato con
D.P.R. 31  marzo  1988,  n.  148,  in  materia  di  sanzioni  per  le
violazioni valutarie); l'art. 3 del decreto legislativo  18  dicembre
1997,  n.  472  (Disposizioni  generali  in   materia   di   sanzioni
amministrative  per  le  violazioni  di  norme  tributarie,  a  norma
dell'articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre  1996,  n.  662);
l'art. 46 del decreto legislativo 13 aprile 1999,  n.  112  (Riordino
del servizio nazionale della riscossione, in attuazione della  delega
prevista dalla legge 28 settembre 1998, n. 337); infine, l'art. 3 del
decreto  legislativo  8  giugno  2001,  n.  231   (Disciplina   della
responsabilita'  amministrativa  delle  persone   giuridiche,   delle
societa' e delle associazioni anche prive di personalita'  giuridica,
a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300);  pur
trattandosi di settori speciali,  non  sussisterebbe  una  differenza
ontologica  tra  gli  illeciti   amministrativi   oggetto   di   tali
disposizioni e la disciplina generale della legge n.  689  del  1981,
ne' sarebbero rinvenibili  motivi  di  interesse  generale,  tali  da
giustificare il diverso trattamento; 
    che,  pertanto,  i  tradizionali  corollari  del   principio   di
legalita',  sinora  riferiti  alla  sola  materia  penale,  sarebbero
espressione di limiti generali al potere punitivo dello Stato, e cio'
anche con riferimento all'applicazione retroattiva della lex  mitior,
nel senso che  l'essenza  afflittiva  della  potesta'  sanzionatoria,
anche amministrativa, dovrebbe essere rapportata alla valutazione che
storicamente  l'ordinamento  operi   della   condotta   che   intende
reprimere; 
    che del resto,  osserva  il  giudice  a  quo,  l'omogeneita'  tra
illecito penale e amministrativo  sotto  il  profilo  delle  garanzie
minime, connoterebbe anche il quadro sovranazionale ed in particolare
la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sull'art.
7 della CEDU, «anche alla luce dell'art. 15 del Patto  internazionale
sui diritti civili e politici e dell'art. 49 della Carta di Nizza»; 
    che vengono  richiamate,  in  particolare,  quelle  pronunce  che
affermano che l'applicazione  delle  garanzie  previste  dall'art.  7
della CEDU non dipende dalla  qualificazione  attribuita  da  ciascun
ordinamento all'illecito e alle sue conseguenze sanzionatorie, avendo
la Corte di Strasburgo elaborato  una  nozione  autonoma  di  materia
penale, legata a parametri sostanziali,  tra  i  quali  rientrano  la
natura del precetto violato, la gravita'  della  sanzione  e  il  suo
carattere afflittivo (Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976,  Engel
ed altri contro Paesi Bassi); 
    che ad avviso del rimettente, dall'applicazione di tali  principi
agli illeciti amministrativi e alle relative sanzioni  discenderebbe,
quindi, l'applicabilita'  agli  stessi  del  principio  di  legalita'
penale  di  cui  all'art.  7  della  CEDU;  detto   principio,   come
interpretato dalla Corte di Strasburgo, comprende anche quello  della
retroattivita' del trattamento sanzionatorio piu' mite,  sopravvenuto
rispetto alla commissione del fatto; 
    che  tale  giurisprudenza  sarebbe   ispirata   all'esigenza   di
conformare il livello di tutela assicurato dalle norme  convenzionali
a  quello  riconosciuto   da   analoghe   disposizioni   di   matrice
sovranazionale - tra le quali l'art. 15 del Patto internazionale  dei
diritti civili e  politici  e  l'art.  49  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea - che hanno innalzato  il  principio
dell'applicazione della lex mitior al rango di principio fondamentale
del diritto penale; 
    che la natura  di  garanzia  convenzionale  del  principio  della
retroattivita'   della   lex   mitior,   unitamente    all'inclusione
dell'illecito amministrativo e delle relative sanzioni nella  materia
penale, ai sensi della CEDU, comporterebbero, quindi,  la  necessita'
di riconsiderare l'impostazione della giurisprudenza costituzionale e
di quella ordinaria, sfavorevole all'applicazione  della  lex  mitior
sopravvenuta nella materia delle sanzioni amministrative; 
    che  il  Tribunale  rimettente  ritiene,   d'altra   parte,   che
l'evidenziato  contrasto  non   possa   essere   risolto   attraverso
un'interpretazione conforme alla CEDU e ai parametri  costituzionali,
in quanto la giurisprudenza di  legittimita'  in  piu'  occasioni  ha
ribadito la non applicabilita'  del  principio  della  retroattivita'
della lex mitior al settore degli illeciti amministrativi,  ritenendo
che gli ambiti specifici nei quali esso opera non  siano  estensibili
in via analogica, e cio' anche alla luce dell'art. 14 delle preleggi; 
    che pertanto, ravvisando un contrasto tra la normativa italiana e
quella convenzionale, il giudice a quo ritiene  che  l'unico  rimedio
sia la rimessione a questa  Corte  della  questione  di  legittimita'
costituzionale,  non   potendosi   ricorrere   alla   tecnica   della
disapplicazione,  la  quale  costituisce  prerogativa   del   diritto
comunitario; 
    che con atto depositato il 21  giugno  2016  e'  intervenuto  nel
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   la
questione  sollevata  sia  dichiarata  inammissibile   o,   comunque,
infondata; 
    che  la   difesa   statale   eccepisce,   in   via   preliminare,
l'inammissibilita' della questione per difetto di  motivazione  sulla
rilevanza,  evidenziando  la  mancata  indicazione  della   data   di
commissione dell'illecito contestato, la quale rivestirebbe  decisivo
rilievo ai fini dell'individuazione della disciplina applicabile; 
    che, quanto alla non manifesta infondatezza, in riferimento  alla
denunciata violazione  del  principio  di  uguaglianza,  l'Avvocatura
generale dello Stato osserva che  la  valutazione  dell'irragionevole
disparita' di trattamento postula la  concreta  comparabilita'  delle
situazioni oggetto di disciplina;  viceversa,  con  riferimento  alla
questione in esame, non sarebbe  possibile  alcun  raffronto  tra  le
discipline settoriali che gia' riconoscono  la  retroattivita'  della
lex mitior e un  corpus  normativo  che,  invece,  fissa  i  principi
generali applicabili a tutti gli illeciti amministrativi; 
    che, d'altra parte, ad avviso della difesa statale, il  principio
di  uguaglianza  avrebbe  dovuto  essere  richiamato  per   sostenere
l'affinita'  tra  le  violazioni  per  le  quali  e'  gia'   previsto
dall'ordinamento il principio di retroattivita' della  lex  mitior  e
quelle  oggetto  del  giudizio  a  quo,  relative  all'omissione   di
comunicazioni obbligatorie da parte dei datori di lavoro; 
    che, in ogni caso, l'obiettivo di estendere  il  principio  della
retroattivita' in mitius ad ogni tipo  di  violazione  amministrativa
non potrebbe essere conseguito mediante il richiamo al  principio  di
uguaglianza  il  quale,  per  sua  natura,   richiede   un   giudizio
comparativo tra fattispecie analoghe; 
    che, con riferimento alla denunciata  violazione  dell'art.  117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 7  della  CEDU,  la  difesa
statale osserva che  la  Corte  di  Strasburgo  ha  elaborato  alcuni
criteri idonei ad individuare di volta in  volta  le  caratteristiche
"intrinsecamente punitive", i quali estendono la portata  applicativa
dell'art. 7 della CEDU anche a fattispecie cui l'ordinamento  interno
attribuisce natura diversa da quella  criminale  (sentenza  8  giugno
1976, Engel e altri contro Paesi Bassi); a questi fini,  il  criterio
seguito per identificare l'ambito di operativita' dell'art.  7  della
CEDU sarebbe  riconducibile  al  fatto  che  si  tratti  di  sanzioni
amministrative, originariamente rilevanti sul piano penale, ovvero di
sanzioni che possano in qualche modo evolvere nella limitazione della
liberta' personale del soggetto sanzionato; 
    che viceversa, nel caso in  esame,  si  tratterebbe  di  illeciti
amministrativi che sfuggono  a  tali  qualificazioni  e  che  vengono
colpiti con sanzioni di natura esclusivamente pecuniaria; 
    che, pertanto, non sarebbe ravvisabile il contrasto con l'art.  7
della CEDU, ne' con l'art. 15 del Patto  internazionale  relativo  ai
diritti civili e politici, ne' con l'art. 49 della Carta di Nizza, di
identico contenuto, e la questione  di  legittimita'  costituzionale,
sollevata in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  sarebbe,  pertanto,
infondata; 
    che  d'altra  parte,  non  sarebbero  ravvisabili   ragioni   per
discostarsi dal consolidato orientamento costituzionale,  secondo  il
quale  rientra  nella  discrezionalita'  del  legislatore   nazionale
«modulare le proprie scelte secondo  criteri  di  maggiore  o  minore
rigore a seconda delle materia oggetto di disciplina»  (ordinanza  n.
245 del 2003; nello stesso senso, ordinanze  n.  501  e  n.  140  del
2002); 
    che ne discenderebbe, quindi, l'infondatezza della  questione  di
legittimita' costituzionale sollevata dal tribunale rimettente. 
    Considerato che il Tribunale ordinario di  Cassino  ha  sollevato
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 della  legge  24
novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella  parte  in
cui   non    prevede    l'applicazione    all'autore    dell'illecito
amministrativo della legge successiva piu' favorevole; 
    che e' denunciata la violazione degli artt. 3 e 117, primo comma,
della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  7  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU); all'art.  15
del Patto internazionale  relativo  ai  diritti  civili  e  politici,
adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso  esecutivo
con legge 25 ottobre 1977, n. 881; nonche' all'art.  49  della  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000; 
    che il giudice a quo riferisce che nel giudizio sottoposto al suo
esame e' in contestazione l'obbligo, per  il  datore  di  lavoro,  di
trasmettere alla Direzione  provinciale  del  lavoro  una  copia  del
contratto di lavoro a tempo parziale, ai sensi dell'art. 2, comma  1,
del decreto legislativo 25 febbraio 2000,  n.  61  (Attuazione  della
direttiva 97/81/CE relativa all'accordo-quadro  sul  lavoro  a  tempo
parziale concluso dall'UNICE, dal CEEP e dalla CES),  successivamente
abrogato dall'art. 85 del decreto legislativo 10 settembre  2003,  n.
276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del
lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30); 
    che,  tuttavia,  l'ordinanza  di  rimessione   omette   qualsiasi
considerazione in ordine alla sentenza del 24  aprile  2008,  con  la
quale la Corte di giustizia dell'Unione europea -chiamata a  decidere
su  rinvio  pregiudiziale  ai  sensi  dell'art.  267   Trattato   sul
funzionamento dell'Unione europea, sottoscritto a Roma  il  25  marzo
1957 - ha affermato l'incompatibilita' della disposizione in tal caso
censurata con la direttiva 97/81/CE del  Consiglio  del  15  dicembre
1997,  relativa  all'accordo-quadro  sul  lavoro  a  tempo   parziale
concluso dall'UNICE,  dal  CEEP  e  dalla  CES,  e  ha  ritenuto  che
l'imposizione dell'obbligo di notificare una copia di ogni  contratto
a tempo parziale, nonche' della sanzione per la sua violazione, abbia
introdotto un ostacolo amministrativo, suscettibile  di  limitare  la
diffusione del contratto di lavoro part-time; 
    che, alla stregua di tale decisione, la Corte di cassazione ha in
seguito  affermato  che  la  disposizione  in   esame   deve   essere
disapplicata e che vengono meno, pertanto, sia l'obbligo de quo,  sia
la relativa sanzione (sentenza della  Corte  di  cassazione,  sezione
lavoro, 15 luglio 2009, n. 16502); 
    che tali considerazioni valgono ad  escludere  la  necessita'  di
fare applicazione nel giudizio a quo della disposizione  censurata  e
si  traducono  nella  manifesta  inammissibilita'  per   difetto   di
rilevanza della questione di legittimita' costituzionale sollevata.