ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 30,  quarto
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla  costituzione  e
sul funzionamento della Corte costituzionale), promosso dal Tribunale
di Como nel procedimento vertente tra M. G. ed altra e  la  Direzione
territoriale del lavoro  di  Como  ed  altra,  con  ordinanza  del  4
febbraio 2015, iscritta al n.  106  del  registro  ordinanze  2015  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  23,  prima
serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visti l'atto di costituzione di M. G. ed altra, nonche' l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  10  gennaio  2017  il  Giudice
relatore Marta Cartabia; 
    uditi l'avvocato Giorgio Albe' per M. G. ed  altra  e  l'avvocato
dello Stato Filippo  Bucalo  per  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 4 febbraio 2015 e iscritta al  n.  106  del
registro ordinanze 2015, il Tribunale ordinario di Como ha  sollevato
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30, quarto  comma,
della legge 11 marzo 1953, n. 87  (Norme  sulla  costituzione  e  sul
funzionamento della Corte costituzionale), lamentando  la  violazione
degli  artt.  3,  25,  secondo  comma,  e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali (d'ora in avanti: CEDU), firmata a Roma  il  4  novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    1.1.- La disposizione censurata prevede che la  dichiarazione  di
illegittimita' costituzionale di  una  norma  in  applicazione  della
quale e' stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna comporta
la cessazione della sua esecuzione e di tutti gli  effetti  penali  a
essa connessi. Ad avviso  del  giudice  rimettente,  l'illegittimita'
costituzionale della disposizione deriverebbe dalla limitazione della
sua portata normativa alle sole sentenze irrevocabili di condanna con
le quali sia stata  inflitta  una  sanzione  penale  nel  significato
proprio  dell'ordinamento  giuridico  italiano,  e  non   anche   nel
significato, piu' ampio, proprio del sistema convenzionale. 
    2.- Il giudice rimettente ritiene la questione  rilevante  e  non
manifestamente infondata. 
    2.1.- Oggetto del giudizio a quo e' un ricorso in opposizione, ai
sensi dell'art. 615 codice di  procedura  civile,  all'esecuzione  di
cartelle di pagamento emesse in conseguenza  dell'accertamento  della
violazione di  disposizioni  in  materia  di  orario  di  lavoro  dei
dipendenti e in applicazione dell'art. 18-bis, comma 4,  del  decreto
legislativo  8  aprile  2003,  n.  66  (Attuazione  delle   direttive
93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione
dell'orario di lavoro), nel testo introdotto dall'art.  1,  comma  1,
lettera f), del decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213 (Modifiche
ed integrazioni al decreto legislativo  8  aprile  2003,  n.  66,  in
materia di apparato sanzionatorio dell'orario di lavoro). Tale ultima
disposizione e' stata dichiarata costituzionalmente  illegittima  con
sentenza n. 153 del 2014, quando il rapporto obbligatorio  era  ormai
esaurito per il passaggio in giudicato della  sentenza  di  condanna,
con cio' escludendo, a dire del giudice rimettente,  diversamente  da
quanto  affermato  dalle  parti,  l'applicabilita'  del  terzo  comma
dell'art. 30 della legge n. 87 del 1953. Tuttavia,  il  passaggio  in
giudicato  non   escluderebbe,   secondo   il   giudice   rimettente,
l'applicabilita' al caso de quo del quarto comma del citato articolo,
ritenendo a esso riconducibili anche le situazioni - come quella  del
caso di specie - in cui la sentenza divenuta irrevocabile  sia  stata
pronunciata  sulla  base  di   una   disposizione,   poi   dichiarata
costituzionalmente   illegittima,   che    prevede    una    sanzione
amministrativa qualificabile come penale  ai  sensi  della  CEDU.  La
rilevanza  discenderebbe,  dunque,  dalla  considerazione  che   solo
l'eventuale accoglimento della  questione  potrebbe  consentire  alla
parte opponente di conseguire un petitum non  altrimenti  ottenibile:
l'applicazione dell'art. 30, quarto comma,  della  legge  n.  87  del
1953, e la conseguente non applicazione dell'art.  18-bis,  comma  4,
comporterebbe la reviviscenza di una  disciplina  sanzionatoria  piu'
favorevole di quella irrogata sulla base della disposizione annullata
dalla   Corte    costituzionale.    Ne'    fungerebbe    da    limite
all'ammissibilita'  della  questione  la  presenza  di  una  sentenza
passata in giudicato, avendo la prima «per oggetto proprio  la  norma
che attribuisce definitivita' al rapporto dedotto in giudizio». 
    2.2.-  La  non  manifesta  infondatezza   della   questione,   in
riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., discenderebbe,  secondo
il giudice rimettente, dal seguente percorso argomentativo. 
    La giurisprudenza della Corte di Strasburgo in diverse  occasioni
(decisioni 8 giugno 1976,  Engel  e  altri  contro  Paesi  Bassi;  21
febbraio 1984, Öztürk contro Germania; 1 febbraio  2005,  Ziliberberg
contro Moldavia) ha affermato la natura  sostanzialmente  penale,  ai
fini dell'applicazione delle garanzie del  giusto  processo  (di  cui
all'art. 6  CEDU),  di  sanzioni  pur  formalmente  qualificate  come
amministrative nell'ordinamento  interno  degli  Stati,  purche'  sia
riscontrata  la  presenza  di  almeno  uno  dei  criteri  (cosiddetti
"criteri Engel") elaborati dalla stessa giurisprudenza sovranazionale
per tale riqualificazione. Perche' una  sanzione  debba  considerarsi
sostanzialmente penale ai  sensi  della  CEDU  occorre  che  presenti
almeno uno di questi caratteri: la  norma  che  commina  la  sanzione
amministrativa deve rivolgersi  alla  generalita'  dei  consociati  e
perseguire  uno  scopo  preventivo,  repressivo  e  punitivo,  e  non
meramente risarcitorio; ovvero la  sanzione  suscettibile  di  essere
inflitta deve comportare per l'autore dell'illecito un  significativo
sacrificio, anche di natura meramente  economica  e  non  consistente
nella privazione della liberta' personale. 
    La sanzione amministrativa inflitta ai  sensi  dell'art.  18-bis,
comma 4, del d.lgs. n. 66 del 2003, alla luce dei  suddetti  criteri,
potrebbe essere qualificata di  natura  sostanzialmente  penale:  sia
perche' tale disposizione, rivolta alla generalita'  dei  consociati,
persegue uno  scopo  non  meramente  risarcitorio,  ma  repressivo  e
preventivo rispetto al  fenomeno  del  cosiddetto  "sfruttamento  del
lavoro";  sia  perche'  la  sanzione  astrattamente  irrogabile  puo'
raggiungere, come nel caso di specie, un importo rilevante. 
    Il   riconoscimento   alla   sanzione   de   qua   della   natura
sostanzialmente  penale  implica  l'applicabilita'  alla  stessa  del
principio di legalita' di cui all'art. 7 CEDU, ai sensi del  quale  i
reati e le pene  devono  essere  previsti  dalla  legge.  Il  giudice
rimettente ritiene, richiamando la giurisprudenza  della  Corte  EDU,
che  la  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  dell'art.
18-bis, comma 4, avrebbe privato  la  sanzione  irrogata  della  base
legale, determinando cosi' una violazione dell'art. 7 CEDU. Di qui la
necessita' che  siano  rimossi  gli  effetti  di  tale  disposizione,
nonostante il passaggio in giudicato dell'accertamento  dell'illecito
cui le sanzioni danno seguito. 
    In  sintesi,  il  giudice  rimettente  -   reputata   la   natura
sostanzialmente penale della sanzione di cui all'art.  18-bis,  comma
4, ritenuta la necessita' che siano rimossi gli effetti  prodotti  da
una sanzione divenuta priva di  base  legale  (in  quanto  dichiarata
costituzionalmente illegittima), richiamata la  giurisprudenza  della
Corte di Cassazione in materia di applicabilita' dell'art. 30, quarto
comma, della legge n. 87 del 1953 anche alle ipotesi di dichiarazione
d'illegittimita'   costituzionale   delle   norme   sul   trattamento
sanzionatorio (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 14  ottobre
2014, n. 42858,  e  7  maggio  2014,  n.  18821)  -  chiede  che  sia
dichiarata   l'illegittimita'    costituzionale    di    quest'ultima
disposizione nella parte in cui, non applicandosi anche alle sanzioni
amministrative qualificabili  come  "penali"  ai  sensi  della  CEDU,
contrasta con gli artt. 6 e 7 CEDU e, per il loro tramite, con l'art.
117, primo comma, Cost. 
    2.3.- Sussisterebbe, secondo il giudice rimettente,  altresi'  la
violazione  degli  artt.  3  e  25,  secondo   comma,   Cost.   Dalla
qualificazione delle sanzioni de quibus come  sostanzialmente  penali
discenderebbe l'estensione  alle  medesime  delle  garanzie  previste
dall'ordinamento giuridico per le sanzioni  qualificate  come  penali
dal diritto nazionale, tra le quali anche l'art.  30,  quarto  comma,
della legge n. 87 del 1953,  considerata  quest'ultima  dalla  stessa
giurisprudenza di legittimita' (Corte di  cassazione,  prima  sezione
penale, 27 ottobre 2011, n. 977) una disposizione attuativa dell'art.
25, secondo comma, Cost. 
    Inoltre, l'applicazione della disposizione  censurata  alla  sola
ipotesi di dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle norme
che  comminano  sanzioni   formalmente   qualificate   come   penali,
determinerebbe  la  violazione   dell'art.   3   Cost.,   in   quanto
implicherebbe un trattamento diverso per  situazioni  sostanzialmente
identiche  senza  che  possa  ritenersi  sussistente  un'effettiva  o
ragionevole giustificazione. 
    2.4.- Il giudice rimettente esclude la possibilita' di superare i
dedotti vizi di illegittimita' costituzionale attraverso il ricorso a
una interpretazione dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del
1953 conforme alla CEDU e ai  parametri  costituzionali  invocati,  a
cio' ostando la lettera  della  disposizione  censurata,  nonche'  il
riferimento al canone ermeneutico  dell'intenzione  del  legislatore.
Ne' soccorrerebbe, secondo il rimettente, la recente decisione  della
Corte di cassazione (Corte di cassazione, quinta sezione penale, ord.
15 gennaio 2015,  n.  1782)  che  incidentalmente  -  ai  fini  della
valutazione  della  rilevanza  di  altra  questione  di  legittimita'
costituzionale  sollevata  con  la  medesima  ordinanza   -   afferma
l'applicazione diretta dell'art. 30, quarto comma, della legge n.  87
del 1953 in caso di  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale
della base legale della sanzione  amministrativa  qualificabile  come
sostanzialmente penale ai sensi della  CEDU,  non  possedendo  questa
ordinanza quei caratteri di stabilita' e  di  consolidamento  atti  a
qualificarla   come   diritto   vivente,   idoneo    a    determinare
l'inammissibilita' della presente questione di costituzionalita'. 
    2.5.- Infine, il giudice  rimettente  esclude  che  la  questione
possa essere risolta con la mera disapplicazione  della  disposizione
censurata, sulla base dell'argomentazione che il  d.lgs.  n.  66  del
2003 sia stato  adottato  in  attuazione  di  direttive  comunitarie,
ritenendo  che  il  denunciato  contrasto  non   determinerebbe   «la
necessita' di disapplicare la disposizione in questione, ma,  semmai,
quella di estenderne  l'ambito  applicativo  a  fattispecie  ivi  non
incluse». 
    3.- Con atto di costituzione depositato in data 24 giugno 2015 si
sono costituite nel presente giudizio di legittimita'  costituzionale
le parti del processo a quo,  per  chiedere  che  sia  dichiarata  la
fondatezza  delle  questioni   come   sollevate   nell'ordinanza   di
rimessione. L'atto di costituzione esprime una posizione adesiva alle
argomentazioni esposte  dal  giudice  remittente,  sia  con  riguardo
all'ammissibilita' che alla non manifesta infondatezza. 
    Le parti ritengono, infatti, che le sanzioni in materia di orario
di lavoro, al di la' del nomen iuris,  sarebbero  qualificabili  come
sostanzialmente  penali  alla  luce   dei   criteri   fissati   dalla
giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo,  e  che  la  permanente
applicazione delle sanzioni, ancorche' la loro base legale sia  stata
dichiarata costituzionalmente illegittima, violerebbe il principio di
legalita' europea di cui all'art. 7  CEDU  e,  per  il  suo  tramite,
l'art. 117, primo comma, Cost. 
    Sono  altresi'  riprese  le  argomentazioni  poste  dal   giudice
rimettente a fondamento della  violazione  degli  artt.  25,  secondo
comma, e 3 Cost. L'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del  1953
opererebbe come disposizione  di  attuazione  dell'art.  25,  secondo
comma, Cost., conseguendone la violazione del principio di  legalita'
in materia penale ove un soggetto fosse sanzionato sulla base di  una
norma dichiarata costituzionalmente illegittima.  Tale  esigenza  non
potrebbe che imporsi, secondo le parti, anche per quelle  norme  che,
seppur non formalmente penali,  presentano  la  medesima  natura.  La
distinzione sulla base della sola  qualificazione  formale,  inoltre,
risulterebbe  in  violazione  del  principio  di   eguaglianza,   non
sussistendo alcuna ragione a sostegno di tale differenziazione. 
    4.- Con atto depositato in data 30 giugno 2015, il Presidente del
Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato, e' intervenuto nel presente giudizio  chiedendo
che la questione sia rigettata. La difesa  statale  osserva  che,  su
impulso della giurisprudenza della Corte di Strasburgo,  il  processo
di  erosione   della   intangibilita'   del   giudicato   ha   subito
un'accelerazione, per la necessita' di dare esecuzione all'obbligo di
ripristinare i diritti del condannato, lesi da violazioni delle norme
CEDU. Sotto  l'influenza  della  giurisprudenza  europea,  anche  gli
ordinamenti  nazionali  hanno  valorizzato  la  reale  natura   della
sanzione alla luce delle sue concrete peculiarita' e caratteristiche,
a prescindere dalla qualificazione giuridica riconosciutale. 
    L'Avvocatura  prosegue  osservando  che  la   giurisprudenza   di
legittimita', in attuazione dei principi elaborati dalla  Corte  Edu,
ha poi affermato  che,  «di  fronte  a  violazioni  convenzionali  di
carattere oggettivo e generale stigmatizzate in sede  europea,  fosse
doveroso   un   intervento   dell'ordinamento   giuridico   italiano,
attraverso  la  giurisdizione,  per  eliminare  una   situazione   di
illegalita'  convenzionale,  anche  sacrificando  il   valore   della
intangibilita' del giudicato». Sulla scorta di tale argomentazione la
Cassazione a sezioni unite ha affermato la possibilita' della  revoca
o  della  modifica  del  giudicato  penale  di   condanna   reso   in
applicazione della norma convenzionalmente illegittima, «imponendo al
giudice nazionale di riconsiderare il punto specifico della decisione
irrevocabile, in ragione della sua non conformita' con la norma della
CEDU, cosi' come interpretata dalla Corte europea». 
    Tale percorso giurisprudenziale sarebbe estensibile,  secondo  la
difesa statale, alle sanzioni amministrative oggetto del  giudizio  a
quo, essendo queste ultime qualificabili come sostanzialmente  penali
alla  luce  dei  cosiddetti  criteri   Engel;   e   l'avvenuta   loro
dichiarazione di illegittimita' costituzionale (sentenza n.  153  del
2014) ne imporrebbe, in ossequio ai principi sovranazionali,  la  non
applicazione. In considerazione  della  evoluzione  giurisprudenziale
sovranazionale  e  nazionale,  secondo  l'Avvocatura  generale  dello
Stato, diversamente da quanto  argomentato  dal  giudice  rimettente,
un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 30,  quarto
comma, della legge n. 87 del 1953 sarebbe pienamente possibile,  come
del resto la piu' recente giurisprudenza della  Corte  di  Cassazione
(quinta sezione penale, ordinanza del 10  novembre  2014,  n.  1782),
menzionata dallo stesso rimettente, confermerebbe. 
    Il ricorso all'interpretazione conforme  determinerebbe,  quindi,
l'irrilevanza della questione, risultando  la  sentenza  n.  153  del
2014,  dichiarativa  dell'illegittimita'   costituzionale   dell'art.
18-bis, comma 4, del d.lgs. n. 66 del 2003, idonea a far rivivere  la
previgente  misura  sanzionatoria,  piu'  mite  rispetto   a   quella
dichiarata incostituzionale. 
    5.- Con memoria depositata in data 20 dicembre 2016, le parti del
processo a  quo  hanno  ribadito  ulteriormente  gli  argomenti  gia'
sostenuti nell'atto di citazione, insistendo affinche'  la  questione
sollevata sia  dichiarata  fondata,  in  particolare  in  riferimento
all'art. 117, primo comma, Cost. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di  Como  ha  sollevato  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 30, quarto comma,  della  legge
11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione  e  sul  funzionamento
della  Corte  costituzionale),  che  stabilisce  che   «[q]uando   in
applicazione  della  norma  dichiarata  incostituzionale   e'   stata
pronunciata  sentenza  irrevocabile  di  condanna,  ne   cessano   la
esecuzione e tutti gli effetti  penali».  La  disposizione  impugnata
sarebbe costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede
la propria applicabilita' alle sentenze irrevocabili con le quali  e'
stata  inflitta  una  sanzione  amministrativa   qualificabile   come
"penale" ai sensi del diritto convenzionale. Cio' determinerebbe  una
violazione  dell'art.  117,  primo  comma,  della  Costituzione,   in
relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (d'ora  in  avanti,
CEDU), oltre che degli artt. 25, secondo comma, e 3 Cost. 
    Nella specie, le sanzioni amministrative oggetto del  giudizio  a
quo sono quelle previste  dall'art.  18-bis,  comma  4,  del  decreto
legislativo  8  aprile  2003,  n.  66  (Attuazione  delle   direttive
93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione
dell'orario di lavoro), nel testo introdotto dall'art.  1,  comma  1,
lettera f), del decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213 (Modifiche
ed integrazioni al decreto legislativo  8  aprile  2003,  n.  66,  in
materia di apparato sanzionatorio dell'orario di lavoro). Ai sensi di
tale disposizione, la violazione, da  parte  del  datore  di  lavoro,
della durata  dell'orario  di  lavoro  e  dei  riposi  giornalieri  e
settimanali dei dipendenti, di cui agli artt.  7  e  9  del  medesimo
decreto legislativo n. 66  del  2003,  «e'  punita  con  la  sanzione
amministrativa da 105 a 630 euro». Il citato art. 18-bis e' stato  da
questa Corte dichiarato costituzionalmente illegittimo,  per  eccesso
di delega, con sentenza n. 153 del 2014, successivamente al passaggio
in giudicato della sentenza di accertamento della violazione, avverso
la cui esecuzione e' stato proposto il ricorso in opposizione che  il
giudice rimettente e' chiamato a decidere nell'ambito del giudizio  a
quo. 
    In   considerazione   dell'elevato   ammontare   della   sanzione
amministrativa in questione - nel caso di specie, circa 177.000 euro,
in ragione del numero di giornate di violazione - e della conseguente
afflittivita'  della  stessa,  nonche'  della  finalita'   che   essa
persegue, non meramente risarcitoria, ma preventiva e repressiva  del
fenomeno dello sfruttamento del lavoro, il giudice rimettente ritiene
che ad essa debba essere riconosciuta natura sostanzialmente  penale,
secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte  europea
dei diritti dell'uomo (cosiddetti "criteri Engel"). 
    Di   qui,   la   questione   di   illegittimita'   costituzionale
dell'impugnato art. 30, quarto comma, nella parte in cui non  prevede
la sua applicabilita' a sanzioni dotate di tali caratteristiche. 
    2.- Deve essere innanzitutto  esaminata  l'eccezione  preliminare
sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato. La questione  sarebbe
inammissibile,  per  difetto  di  rilevanza,   perche'   il   giudice
rimettente avrebbe potuto  interpretare  il  censurato  quarto  comma
dell'art.  30  in  senso   costituzionalmente   e   convenzionalmente
orientato, estendendo la deroga all'intangibilita' del giudicato, ivi
prevista, anche ai casi in cui  siano  dichiarate  costituzionalmente
illegittime norme che prevedono sanzioni amministrative qualificabili
come sostanzialmente penali ai sensi degli artt. 6 e  7  della  CEDU.
Una  tale  interpretazione  dell'impugnato  art.  30,  quarto  comma,
costituirebbe, secondo l'Avvocatura generale dello Stato, un naturale
sviluppo  dell'orientamento  delle  sezioni  unite  della  Corte   di
cassazione  penale,  secondo  il  quale  detta   disposizione   trova
applicazione   nei   casi   di   dichiarazione   di    illegittimita'
costituzionale sia di  disposizioni  penali  incriminatrici,  sia  di
disposizioni penali  sanzionatorie  (sentenza  24  ottobre  2013,  n.
18821; sentenza 29 maggio  2014,  n.  42858).  Inoltre,  prosegue  la
difesa statale, la medesima  Corte  di  cassazione  si  sarebbe  gia'
espressa, sia pure  incidentalmente,  nel  senso  dell'applicabilita'
dell'art.   30,   quarto   comma,   alle   sanzioni    amministrative
sostanzialmente penali, come quelle di specie, con ordinanza n.  1782
del 2015 (quinta sezione penale, 10 novembre 2014, 2015). 
    L'eccezione deve essere rigettata. 
    Invero, il giudice rimettente si  diffonde  in  un  tentativo  di
interpretazione   della   disposizione   impugnata   conforme    alla
Costituzione  e  alla  Convenzione  europea  dei  diritti  dell'uomo,
concludendo, al termine di un articolato  ragionamento,  per  la  sua
impraticabilita'. 
    Dopo aver  esaminato  le  decisioni  della  Corte  di  cassazione
penale, richiamate anche dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il
giudice  rimettente  osserva  che  la  tesi  dell'applicabilita'  del
disposto dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953  alle
sanzioni amministrative e' stata per la prima volta prospettata dalla
stessa Corte di cassazione, con la citata ordinanza n. 1782 del 2015,
in via meramente ipotetica e al solo fine di evidenziare la rilevanza
della questione di legittimita' costituzionale con essa sollevata. 
    D'altra parte, prosegue il giudice a quo,  mentre  non  risultano
altre pronunce ad essa conformi, si rileva  un  precedente  di  segno
contrario, pur se risalente nel tempo  (Corte  di  cassazione,  terza
sezione civile, 20 gennaio 1994, n. 458), che induce a  ritenere  che
la  citata  ordinanza  del  2015  non  possieda  quei  caratteri   di
stabilita' e di consolidamento  atti  a  qualificarla  come  "diritto
vivente". 
    Ostano altresi' a una interpretazione convenzionalmente orientata
tanto il chiaro tenore letterale della disposizione censurata  -  che
parla di «sentenza irrevocabile di condanna» e di «effetti penali» -,
quanto l'intenzione del legislatore. 
    A cio' deve aggiungersi  che,  con  sentenza  n.  102  del  2016,
pronunciata in risposta alla citata  ordinanza  della  Cassazione  n.
1782 del 2015 e successivamente alla ordinanza con  cui  il  presente
giudizio e' stato instaurato, questa  Corte  ha  lasciato  del  tutto
impregiudicata la questione, affermando di  «non  [avere]  motivo,  a
tale proposito, di saggiare la plausibilita' dell'argomentazione  del
rimettente sull'applicabilita'  dell'art.  30,  quarto  comma,  della
legge  n.  87  del  1953  al  caso  in  cui  sia   stato   dichiarato
incostituzionale non un  reato  ma  un  illecito  amministrativo  che
assume veste "penale" ai soli fini del rispetto delle garanzie  della
CEDU». 
    Alla luce di tali elementi, si deve ritenere che correttamente il
giudice rimettente si sia astenuto dal praticare una  interpretazione
convenzionalmente orientata che lo avrebbe  indotto  a  estendere  la
portata applicativa della disposizione  impugnata  senza  coinvolgere
previamente questa Corte. Infatti, secondo un  orientamento  costante
della giurisprudenza costituzionale in materia,  «al  giudice  comune
spetta  interpretare  la  norma  interna  in   modo   conforme   alla
disposizione internazionale,  entro  i  limiti  nei  quali  cio'  sia
permesso dai testi delle  norme.  Qualora  cio'  non  sia  possibile,
ovvero  dubiti  della  compatibilita'  della  norma  interna  con  la
disposizione convenzionale 'interposta', egli deve  investire  questa
Corte  della  relativa  questione  di   legittimita'   costituzionale
rispetto  al  parametro  dell'art.  117,  primo  comma»  (per  tutte,
sentenza n. 349 del 2007). 
    3.- Nel merito, la questione sollevata  in  riferimento  all'art.
117, primo comma, Cost., per contrasto con gli  artt.  6  e  7  della
CEDU, cosi' come interpretati  dalla  Corte  di  Strasburgo,  non  e'
fondata. 
    3.1.- L'impugnato art. 30, quarto comma, della legge  n.  87  del
1953 prevede una deroga all'intangibilita' del giudicato per  i  casi
in cui una sentenza di condanna sia stata pronunciata in applicazione
di una norma dichiarata costituzionalmente illegittima. Il  principio
della retroattivita' degli effetti delle pronunce  di  illegittimita'
costituzionale di cui al terzo comma del  medesimo  articolo  -  che,
come questa Corte ha piu' volte ribadito, «e' (e non puo' non essere)
principio generale valevole nei giudizi davanti a questa  Corte»  (da
ultimo, sentenza n. 10 del 2015) - si estende  oltre  il  limite  dei
rapporti esauriti nel solo ambito  penale,  in  considerazione  della
gravita' con cui le sanzioni penali  incidono  sulla  liberta'  o  su
altri interessi fondamentali della persona. 
    Sulla base di queste ragioni, la Corte di  cassazione  penale  ha
recentemente adottato una interpretazione ampia dell'art. 30,  quarto
comma, qui in discussione, chiarendo che esso riguarda le ipotesi  di
dichiarazione di  illegittimita'  costituzionale  tanto  delle  norme
incriminatrici - che determinano una vera e propria abolitio criminis
- quanto delle norme penali che incidono sul quantum del  trattamento
sanzionatorio. Ponendo fine a un contrasto interpretativo sul  punto,
a partire da alcune sentenze pronunciate a  sezioni  unite  nel  2014
(sentenza 24 ottobre 2013, n. 18821;  sentenza  29  maggio  2014,  n.
42858), la Corte di cassazione ha ritenuto che la ratio dell'art. 30,
quarto comma, sia quella di impedire che venga ingiustamente sofferta
una  sanzione  penale  che,  per   quanto   inflitta   con   sentenza
irrevocabile, sia basata  su  una  norma  successivamente  dichiarata
costituzionalmente illegittima: cio' in virtu' del principio per  cui
la conformita'  della  pena  alla  legge  deve  essere  costantemente
garantita, dal momento della sua irrogazione fino  al  termine  della
sua esecuzione. 
    Di qui, le ragioni del superamento del precedente orientamento  -
ancora recentemente ribadito (tra le altre, sentenza della  Corte  di
cassazione, I sezione penale,  19  gennaio  2012,  n.  27640)  -  che
circoscriveva l'ambito di applicazione dell'art.  30,  quarto  comma,
alle sole norme penali incriminatrici. 
    3.2.- Anche questa Corte  ha  in  diverse  occasioni  riscontrato
nell'ordinamento nazionale l'esistenza di  ipotesi  di  flessibilita'
del principio della intangibilita' del giudicato (sentenza n. 210 del
2013),  necessarie  a  garantire  la  tutela  di  valori   di   rango
costituzionale, legati in particolare ai diritti  fondamentali  della
persona del condannato. 
    Sulla scorta di tale riconoscimento, questa Corte ha ritenuto non
implausibile l'interpretazione  della  Corte  di  cassazione  che  ha
esteso l'applicabilita' dell'art. 30, quarto comma, della legge n. 87
del 1953 alle norme penali sanzionatorie (sentenze n. 57 del  2016  e
n. 210 del 2013). 
    Viceversa, ha lasciato del tutto impregiudicata (come  si  evince
dalla  sentenza  n.  102  del  2016)  la  questione,  sollevata   dal
rimettente, della ulteriore estensione  dell'ambito  di  applicazione
dell'art.  30,  quarto  comma,  alle  norme  che  prevedono  sanzioni
amministrative considerate come  sostanzialmente  penali,  secondo  i
criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. 
    3.3.- Questa Corte osserva che  le  ragioni  addotte  a  sostegno
della questione ora in esame  traggono  origine  dalla  adozione,  da
parte del giudice rimettente, della piu' ampia portata della  nozione
di "sanzione  penale"  elaborata  dalla  giurisprudenza  della  Corte
europea   dei   diritti   dell'uomo   rispetto   a   quella   vigente
nell'ordinamento italiano. 
    La qualificazione giuridica formalmente attribuita a una sanzione
dall'ordinamento nazionale e', per la Corte europea, solo  uno  degli
indicatori di cui tener conto per stabilire  l'ambito  e  il  confine
della materia penale. Cio' che per il diritto interno  non  e'  pena,
puo' invece esserlo per la  giurisprudenza  sovranazionale.  Ai  fini
dell'applicazione delle garanzie  previste  dalla  Convenzione,  sono
infatti riconducibili alla materia penale (secondo quanto affermato a
partire dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976,
Engel e altri contro Paesi Bassi, par. 82) tutte quelle sanzioni che,
pur se non qualificate come penali dagli ordinamenti nazionali,  sono
rivolte alla generalita' dei consociati;  perseguono  uno  scopo  non
meramente  risarcitorio,  ma  repressivo  e  preventivo;  hanno   una
connotazione afflittiva, potendo raggiungere un  rilevante  grado  di
severita'. 
    Alla luce di tali criteri, che si  applicano  alternativamente  e
non cumulativamente (come recentemente ribadito nella sentenza  della
Corte Edu, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro  Italia,  par.
94), il giudice rimettente ritiene che alle  sanzioni  amministrative
di cui all'art. 18-bis, comma 4, del d.lgs.  n.  66  del  2003  debba
essere riconosciuta natura sostanzialmente  penale,  benche'  manchi,
allo stato, una pronuncia della  Corte  europea  che,  con  specifico
riferimento alle suddette sanzioni, si sia espressa in tal senso. 
    Infatti, il giudice a quo evidenzia che la disposizione da ultimo
citata,  rivolta  alla  generalita'   dei   consociati,   mira   alla
prevenzione e alla punizione dello sfruttamento del lavoro, a  tutela
dell'interesse dei lavoratori, di sicuro  rilievo  costituzionale,  e
richiama a tal fine gli artt. 1, 4 e 36 Cost. Inoltre, sottolinea che
la  sanzione  amministrativa  astrattamente   irrogabile   per   ogni
violazione, in se' e per se' di ammontare elevato, puo'  raggiungere,
come avviene  nel  caso  di  specie,  un  importo  considerevole,  in
conseguenza  della  moltiplicazione  dell'importo  ivi  previsto   in
ragione del numero di giornate di violazione. 
    Di qui discenderebbe, secondo il rimettente, la  natura  "penale"
ai sensi della CEDU della sanzione prevista dall'art.  18-bis,  comma
4, del d.lgs. n. 66 del 2003 e, dunque, la questione di  legittimita'
costituzionale oggetto del presente giudizio. 
    3.4.- La nozione di "sanzione penale"  appartiene  al  novero  di
quei concetti che la Corte di Strasburgo ha elaborato,  autonomamente
rispetto agli ordinamenti nazionali, al fine di dare  interpretazione
e applicazione alla Convenzione. 
    La  giurisprudenza  sui  cosiddetti  "criteri  Engel",  come   e'
risaputo, si e' sviluppata  al  fine  di  «scongiurare  che  i  vasti
processi di decriminalizzazione, avviati  dagli  Stati  aderenti  fin
dagli anni  60  del  secolo  scorso,  potessero  avere  l'effetto  di
sottrarre  gli   illeciti,   cosi'   depenalizzati,   alle   garanzie
sostanziali assicurate dagli artt. 6 e 7 della  CEDU  (Corte  europea
dei diritti dell'uomo, 21 febbraio  1984,  Öztürk  contro  Germania)»
(sentenza n. 49 del 2015). 
    L'attrazione di una  sanzione  amministrativa  nell'ambito  della
materia penale in virtu' dei menzionati criteri trascina, dunque, con
se'  tutte  e  soltanto  le  garanzie   previste   dalle   pertinenti
disposizioni  della  Convenzione,  come  elaborate  dalla  Corte   di
Strasburgo. Rimane, invece, nel margine di apprezzamento di cui  gode
ciascuno Stato aderente la definizione  dell'ambito  di  applicazione
delle ulteriori tutele predisposte dal diritto nazionale,  in  se'  e
per se'  valevoli  per  i  soli  precetti  e  le  sole  sanzioni  che
l'ordinamento interno considera espressione della  potesta'  punitiva
dello Stato, secondo i propri criteri. Cio', del  resto,  corrisponde
alla natura della Convenzione europea e del sistema  di  garanzie  da
essa approntato, volto  a  garantire  una  soglia  minima  di  tutela
comune, in funzione sussidiaria  rispetto  alle  garanzie  assicurate
dalle Costituzioni nazionali. 
    Detto diversamente, cio' che per  la  giurisprudenza  europea  ha
natura "penale" deve essere assistito dalle garanzie che la stessa ha
elaborato per la "materia penale"; mentre solo cio' che e' penale per
l'ordinamento nazionale beneficia degli ulteriori presidi rinvenibili
nella legislazione interna. 
    3.5.- Occorre, innanzitutto, verificare se  nella  giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo sia reperibile un principio
analogo a quello previsto dall'art. 30, quarto comma, della legge  n.
87  del  1953,  volto  a  precludere  l'esecuzione  di  una  sanzione
sostanzialmente penale, anche se inflitta con sentenza  irrevocabile,
qualora  la   norma   che   la   prevedeva   sia   stata   dichiarata
costituzionalmente illegittima o altrimenti invalida ex tunc. 
    Ad avviso del giudice  rimettente,  il  «principio  di  legalita'
penale» di cui all'art. 7 CEDU non tollera sanzioni basate  su  norme
illegittime,   sicche'    «la    declaratoria    di    illegittimita'
costituzionale della norma sanzionatrice comporta il venir  meno,  ex
tunc, della base legale (legal basis) della sanzione comminata  e  la
sua illegittimita' ai sensi dell'art. 7 CEDU». 
    Invero, dalla giurisprudenza della Corte Edu non si evince,  allo
stato, una tale affermazione. 
    Il concetto di base legale convenzionale, definito dalla Corte di
Strasburgo in maniera autonoma rispetto agli ordinamenti degli  Stati
aderenti,  e'  stato  infatti  perlopiu'  inteso  in  riferimento  ai
requisiti di accessibilita' e prevedibilita' che devono connotare  il
diritto penale (Corte europea dei diritti dell'uomo, 21 ottobre 2013,
Del Rio Prada contro Spagna; in senso conforme, sentenze  27  gennaio
2015, Rohlena contro Repubblica Ceca,  e  14  aprile  2015,  Contrada
contro  Italia),  sia  quello   scritto   che   quello   di   matrice
giurisprudenziale (Corte europea dei diritti dell'uomo, 6 marzo 2012,
Huhtamäki contro Finlandia). 
    La stessa giurisprudenza richiamata dal giudice  a  quo  -  Corte
europea dei diritti dell'uomo, 22 marzo  2001,  Streletz,  Kessler  e
Krenz contro Germania; 22 marzo  2001,  K.-H.W.  contro  Germania;  3
maggio 2007, Custers, Deveaux e Turkcontro  Danimarca  -  non  sembra
conferente, ne' idonea  a  fornire  spunti  contrari.  Non  risultano
pertinenti le prime due pronunce, in quanto  a  essere  espressamente
considerate  prive  di  base  legale  non  erano  in  esse  le  norme
sanzionatorie, di rango costituzionale  e  ordinario,  in  vigore  al
momento dei fatti, bensi' una prassi statale, invocata dai ricorrenti
come causa di giustificazione rispetto  alla  violazione  di  divieti
discendenti  dal  codice  penale  e  dalla  Costituzione  dell'allora
Repubblica Democratica  Tedesca,  oltre  che  da  norme  di  trattati
internazionali sui diritti dell'uomo ratificati dalla stessa  ex  RDT
(il riferimento era alla prassi di protezione del  confine  "ad  ogni
costo", invalsa tra le guardie di  frontiera  dell'allora  Repubblica
Democratica Tedesca nei confronti di  quanti  tentavano  di  superare
illegalmente la frontiera all'epoca del  muro  di  Berlino).  Non  e'
idonea  a  fornire  spunti  contrari   neppure   l'ultima   decisione
menzionata, in quanto il caso non riguardava in alcun  modo  sanzioni
inflitte sulla base di norme costituzionalmente illegittime: la Corte
di Strasburgo, rigettando le argomentazioni dei ricorrenti (attivisti
di un'associazione ambientalista), ha ritenuto che le norme sulla cui
base erano stati condannati, per avere violato il divieto di ingresso
in zone militari, non erano prive di base legale  e  rispondevano  ai
requisiti di accessibilita' e prevedibilita' di cui all'art. 7  della
CEDU. 
    La diversita' delle situazioni allora trattate rispetto  al  caso
di specie  evidenzia,  dunque,  l'inconferenza  della  giurisprudenza
richiamata a sostegno della questione  di  costituzionalita'  portata
davanti a questa Corte. 
    3.6.- Quanto alla dimensione temporale del principio di legalita'
di  cui  all'art.  7  della  CEDU,  la  giurisprudenza   europea   e'
intervenuta solo sotto il profilo della successione delle  leggi  nel
tempo. 
    In questa prospettiva, fino ad epoca recente, la Corte europea ha
ritenuto  che  la   garanzia   riguardasse   solo   il   divieto   di
retroattivita' delle  norme  incriminatrici  e  della  sanzione  piu'
sfavorevole. A partire dalla sentenza Scoppola contro  Italia  (Corte
europea dei diritti dell'uomo, 17 settembre 2009), la Grande  Camera,
attraverso una interpretazione evolutiva, ha poi  ampliato  la  sfera
delle garanzie coperte dallo  stesso  art.  7,  affermando  che  esso
include anche,  implicitamente,  il  principio  della  retroattivita'
della legge penale meno severa, senza  pero'  che  sia  intaccato  il
valore del giudicato. Sulla  scorta  di  tale  giurisprudenza,  detto
principio e' stato richiamato e ribadito anche da questa Corte  nelle
sentenze n. 230 del 2012 e n. 236 del 2011. 
    Anche  nei  casi,  piu'  recenti  (Corte  europea   dei   diritti
dell'uomo, 12 gennaio 2016,  Gouarre'  Patte  contro  Andorra,  e  12
luglio 2016, Ruban contro Ucraina), in cui alla Corte  di  Strasburgo
si e' posto il problema dell'applicabilita' retroattiva di una  norma
penale  piu'  favorevole  quando  la  condanna  era   gia'   divenuta
definitiva,  essa  ha  affermato  che  l'eventuale  cedevolezza   del
giudicato rispetto alla lex mitior e' consentita in  quanto  prevista
dall'ordinamento interno e non in quanto imposta  dall'art.  7  della
CEDU. 
    3.7.-  Inoltre,   nemmeno   la   giurisprudenza   europea   sulla
problematica distinzione tra norme sulla pena,  che  rientrano  nella
portata dell'art. 7 della CEDU, e  norme  sulla  esecuzione  e  sulla
applicazione della  pena,  che  ne  fuoriescono  (Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, 10 luglio 2003, Grava contro Italia,  par.  51;  3
marzo 1986, Hogben contro Regno  unito,  par.  4,  richiamata  da  29
novembre 2005, Uttley contro Regno Unito;  e  piu'  recentemente,  21
ottobre 2013, Del Rio  Prada  contro  Spagna),  contiene  indicazioni
circa i limiti alla efficacia del giudicato nei  termini  in  cui  la
questione e' ora portata all'attenzione di questa Corte. 
    3.8.- In sintesi, nella giurisprudenza della Corte europea non si
rinviene,  allo  stato,  alcuna  affermazione  che  esplicitamente  o
implicitamente possa avvalorare l'interpretazione dell'art.  7  della
CEDU nel  significato  elaborato  dal  giudice  rimettente,  tale  da
esigere  che   gli   Stati   aderenti   sacrifichino   il   principio
dell'intangibilita' del giudicato nel caso di sanzioni amministrative
inflitte   sulla   base   di   norme    successivamente    dichiarate
costituzionalmente illegittime. Ne consegue la non  fondatezza  della
denunciata violazione degli obblighi internazionali, di cui  all'art.
117, primo comma, Cost. 
    4.- La questione non e' fondata neppure in riferimento agli artt.
25, secondo comma, e 3 Cost. 
    4.1.- L'intervento additivo richiesto dal giudice  rimettente  di
estendere la portata applicativa della disposizione  censurata  anche
alle ipotesi di sanzioni che, seppur qualificate come  amministrative
dal diritto interno, assumono natura convenzionalmente penale, poggia
su un erroneo  presupposto:  ossia,  che  le  garanzie  previste  dal
diritto interno per la pena - tra le quali lo stesso art. 30,  quarto
comma, della legge n. 87 del 1953 nell'interpretazione  consolidatasi
nel  diritto  vivente  -  debbano  valere  anche  per   le   sanzioni
amministrative, qualora esse siano qualificabili come sostanzialmente
penali ai (soli) fini dell'ordinamento convenzionale. 
    Viceversa, come si e' detto poco sopra,  l'ordinamento  nazionale
puo' apprestare garanzie ulteriori rispetto a  quelle  convenzionali,
riservandole  alle  sole  sanzioni  penali,  cosi'  come  qualificate
dall'ordinamento interno. 
    In tale contesto di coesistenza, e non di assimilazione,  tra  le
garanzie interne e quelle convenzionali, si pone dunque la  peculiare
tutela di cui all'art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del  1953,
e la sua applicazione alle sole ipotesi di sopravvenuta dichiarazione
di  incostituzionalita'  di  norme  penali,  e  non  anche  di  norme
amministrative. 
    4.2.- La portata dell'art. 30, quarto comma, della  legge  n.  87
del  1953,  e'  stata  estesa  dalla  consolidata  giurisprudenza  di
legittimita' includendovi anche le norme penali sanzionatorie, in  un
sistema normativo che prevede una fase esecutiva della sanzione,  non
ancora  esaurita  al  momento  della  sopravvenuta  dichiarazione  di
illegittimita' costituzionale. In un  tale  contesto,  garante  della
legalita' della pena e' il giudice dell'esecuzione,  cui  compete  di
ricondurre la pena inflitta  a  legittimita'  (Corte  di  cassazione,
sezioni unite penali, sentenza 29 maggio 2014,  n.  42858).  Evidente
risulta la differenza rispetto alle sanzioni  amministrative  qui  in
discussione, in cui sia la loro comminatoria  sia  la  relativa  fase
esecutiva obbediscono  a  principi  affatto  differenti,  in  cui  il
giudice preposto  e'  investito  della  sola  cognizione  del  titolo
esecutivo. L'incomparabilita' delle situazioni a confronto  non  solo
comporta l'infondatezza della censura ex art. 3 Cost.,  ma  evidenzia
anche  le  ragioni  di  infondatezza  della  censura   sollevata   in
riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost. 
    4.3.- E' pur vero che questa Corte ha, occasionalmente  (sentenze
n. 104 del 2014, n. 196 del 2010, richiamate dalla recente n. 276 del
2016), riferito il parametro di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.
anche a misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto.  Ma
lo ha fatto limitatamente  al  contenuto  essenziale  del  richiamato
precetto  costituzionale,  in  virtu'  del  quale  una   misura   «e'
applicabile soltanto se la legge che la prevede risulti gia'  vigente
al momento della commissione del fatto sanzionato» (sentenza  n.  276
del 2016), e in riferimento  a  misure  amministrative  incidenti  su
liberta' fondamentali che coinvolgono anche i  diritti  politici  del
cittadino. 
    Diverso  e'  il  problema,  posto  dalla  odierna  ordinanza   di
rimessione, dell'applicabilita' alle sanzioni amministrative di tutte
le garanzie previste dalla legge per le sanzioni penali. 
    Nulla impedisce al legislatore di riservare alcune garanzie, come
quelle previste dall'art. 30, quarto comma, della  legge  n.  87  del
1953,  al   nucleo   piu'   incisivo   del   diritto   sanzionatorio,
rappresentato   dal   diritto   penale,   qualificato    come    tale
dall'ordinamento  interno.  Sotto  questo  profilo   deve,   infatti,
ricordarsi  che  questa  Corte  ha,  anche   di   recente,   ribadito
«l'autonomia  dell'illecito  amministrativo   dal   diritto   penale»
(sentenza  n.  49  del  2015),  considerando  legittima  la   mancata
estensione agli illeciti amministrativi di taluni  principi  operanti
nel  diritto  penale,  sulla  considerazione   che   «[t]ali   scelte
costituiscono espressione della discrezionalita' del legislatore  nel
configurare   il   trattamento   sanzionatorio   per   gli   illeciti
amministrativi» (sentenza n. 193 del 2016). La  qualificazione  degli
illeciti e la  conseguente  sfera  delle  garanzie,  circoscritta  ad
alcuni settori  dell'ordinamento  ed  esclusa  per  altri,  risponde,
dunque, a «scelte di politica  legislativa  in  ordine  all'efficacia
dissuasiva della sanzione, modulate in funzione  della  natura  degli
interessi tutelati» (sentenza n. 193 del 2016), sindacabili da questa
Corte solo laddove  trasmodino  nella  manifesta  irragionevolezza  o
nell'arbitrio. 
    5.- Per le ragioni sopra esposte deve essere  dichiarata  la  non
fondatezza delle questioni di legittimita'  costituzionale  dell'art.
30,  quarto  comma,  della  legge  n.  87  del  1953,  sollevate   in
riferimento agli artt. 3, 25, secondo  comma,  e  117,  primo  comma,
Cost.