ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel   giudizio   di   legittimita'    costituzionale    dell'art.
47-quinquies, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354  (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della liberta'),  promosso  dal  Tribunale  di
sorveglianza di Bari nel procedimento relativo a L.A., con  ordinanza
del 12 ottobre 2015, iscritta al n. 52 del registro ordinanze 2016  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  11,  prima
serie speciale, dell'anno 2016. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio  dell'8  marzo  2017  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 12 ottobre 2015,  iscritta  al  n.  52  del
registro ordinanze 2016, il Tribunale  di  sorveglianza  di  Bari  ha
sollevato,  in  riferimento  agli  artt.  3,  29,  30  e   31   della
Costituzione,  questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
47-quinquies, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354  (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della liberta'), nella parte in cui  impedisce
che le modalita' di espiazione della pena ivi previste siano concesse
alle condannate per i delitti di cui all'art.  4-bis  della  medesima
legge. 
    1.1.- Le questioni  di  legittimita'  costituzionale  sono  state
sollevate nell'ambito del procedimento di  sorveglianza  relativo  ad
L.A., condannata, con sentenza pronunciata il 12  aprile  2012,  alla
pena di anni sette di reclusione per il delitto di  cui  all'art.  74
del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia
di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,  prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di  tossicodipendenza),  con
decorrenza dal 19 febbraio 2014 e fine pena al 18 febbraio 2021. 
    Il giudice a quo ricorda che la condannata e' stata ammessa  alla
detenzione domiciliare sino al 17 ottobre 2015,  ai  sensi  dell'art.
47-ter, comma 1-ter, della  legge  n.  354  del  1975,  in  relazione
all'art. 147, comma 1, numero 3), del codice penale, in quanto  madre
di  prole  di  eta'  inferiore  a  tre  anni.  Ricorda   anche   che,
all'approssimarsi del compimento dei tre anni di eta'  della  minore,
e, dunque, del ripristino della detenzione in carcere,  il  difensore
di L.A. ha chiesto al magistrato di sorveglianza la  proroga  in  via
provvisoria  della  detenzione  domiciliare,  e   al   Tribunale   di
sorveglianza la concessione della detenzione domiciliare speciale  ai
sensi dell'art. 47-quinquies, comma 1-bis, della  legge  n.  354  del
1975; in via  subordinata,  ha  chiesto  di  sollevare  questione  di
legittimita' costituzionale  della  disposizione  da  ultimo  citata,
nella parte in cui esclude dalla concessione del beneficio i soggetti
condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis della legge n. 354 del
1975. 
    Il giudice rimettente osserva che, con sentenza n. 239 del  2014,
la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in
cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici  penitenziari
la misura della detenzione domiciliare  speciale  prevista  dall'art.
47-quinquies della medesima legge, nonche'  quella  della  detenzione
domiciliare prevista dall'art. 47-ter, comma  1,  lettere  a)  e  b),
ferma  restando  la  condizione  dell'insussistenza  di  un  concreto
pericolo di commissione di ulteriori delitti. 
    Il giudice a quo ritiene che, pur a seguito  di  tale  pronuncia,
non sia possibile accogliere la richiesta del difensore di  L.A.,  in
quanto la ricordata sentenza n. 239 del 2014 ha  riguardato  il  solo
comma 1 dell'art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975,  in  base
al quale, se non e' possibile concedere il beneficio di cui  all'art.
47-ter della medesima legge, la  detenuta  madre  di  prole  di  eta'
inferiore ai dieci anni puo' espiare la parte residua di  pena  anche
in ambito domiciliare, purche' sia stato  scontato  almeno  un  terzo
della pena ovvero quindici anni nel caso di  condanna  all'ergastolo.
La pronuncia della Corte costituzionale, invece, non  avrebbe  inciso
sul comma 1-bis del ricordato art.  47-quinquies,  il  quale  prevede
modalita' «agevolate» per espiare la frazione  iniziale  della  pena,
con esclusione,  tuttavia,  proprio  dei  condannati  per  i  delitti
elencati all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, anche  nel  caso
in cui costoro collaborino con la giustizia. 
    Il  giudice  rimettente  -  ritenuto,  dunque,  che  difettino  i
presupposti per la concessione della detenzione domiciliare ai  sensi
dell'art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, in quanto non  e'
stato ancora espiato un terzo della pena, e ritenuto  che  la  natura
ostativa del reato oggetto della  condanna  impedisca  l'applicazione
del  comma  1-bis  del  medesimo  articolo  -   chiede   alla   Corte
costituzionale di  dichiarare  l'illegittimita'  di  quest'ultimo  in
riferimento agli artt. 3, 29, 30 e 31  Cost.,  poiche'  «le  esigenze
superiori di tutela della maternita' e del minore anziche'  prevalere
risulterebbero recessive rispetto alla pretesa punitiva dello Stato».
In particolare, il giudice rimettente, sul presupposto che  la  ratio
ispiratrice  dell'istituto  della  detenzione  domiciliare  ex   art.
47-quinquies della legge n. 354 del 1975 prescinderebbe da  qualsiasi
contenuto rieducativo e sarebbe volto esclusivamente  a  ripristinare
la convivenza tra madri e figli, osserva che la logica  sottesa  alla
dichiarazione di illegittimita' costituzionale di cui  alla  sentenza
n. 239 del  2014  dovrebbe  applicarsi  anche  con  riferimento  alla
preclusione assoluta per le madri condannate per taluno  dei  delitti
elencati  nel  citato  art.  4-bis   contenuta   nella   disposizione
censurata:  l'applicazione  di  quest'ultima,  anche  in  assenza  di
concreta  pericolosita'  della   detenuta,   determinerebbe   infatti
l'interruzione del rapporto di convivenza della detenuta  stessa  con
la figlia minore, rapporto che era  stato,  invece,  gia'  preservato
grazie alla  pregressa  concessione  della  misura  di  cui  all'art.
47-ter, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975. 
    Il rimettente sottolinea infine, in ordine al comportamento della
detenuta, l'«assoluta regolarita' comportamentale serbata durante  il
pregresso periodo di restrizione domiciliare», nonche' la  «risalenza
nel tempo dei reati oggetto della condanna». 
    2.- Il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,  intervenuto  in
giudizio, per il tramite dell'Avvocatura generale  dello  Stato,  con
atto depositato il 31 marzo 2016, ha  chiesto  che  le  questioni  di
legittimita' costituzionale  siano  dichiarate  inammissibili  o,  in
subordine, non fondate. 
    Osserva, anzitutto, l'Avvocatura  generale  dello  Stato  che  il
giudice  rimettente  avrebbe  richiamato  la  sentenza  della   Corte
costituzionale n. 239  del  2014  in  modo  non  conferente.  Mentre,
infatti, con tale decisione sarebbe stata dichiarata l'illegittimita'
costituzionale del comma 1 dell'art. 47-quinquies della legge n.  354
del 1975, in quanto impediva in modo assoluto alle condannate  per  i
delitti di cui all'art.  4-bis  della  medesima  legge  l'accesso  al
beneficio, la disposizione ora all'esame della  Corte  costituzionale
non precluderebbe l'espiazione della frazione iniziale della pena con
modalita' agevolate in caso di  riconoscimento  del  requisito  della
collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter della legge n. 354 del
1975, secondo le disposizioni contenute nello stesso art.  4-bis.  Le
questioni di legittimita' costituzionale sollevate dal  Tribunale  di
sorveglianza di Bari sarebbero, dunque, inammissibili «in quanto gia'
oggetto  di  specifica   considerazione»   da   parte   della   Corte
costituzionale. 
    Esse  sarebbero  comunque  non  fondate,  in  quanto  -   osserva
l'Avvocatura generale dello  Stato  -  il  rapporto  tra  i  detenuti
condannati per i delitti compresi nell'art. 4-bis della legge n.  354
del 1975 e i propri figli  sarebbe  tutelato  attraverso  i  colloqui
effettuati in istituto, i  quali  non  sono  ricompresi  nel  divieto
imposto da tale disposizione. 
    L'Avvocatura  statale  ritiene,  infine,  che   il   legislatore,
introducendo  la  misura  alternativa  della  detenzione  domiciliare
speciale di cui all'art. 47-quinquies della legge n.  354  del  1975,
avrebbe effettuato un bilanciamento tra due valori costituzionalmente
protetti, la tutela della famiglia e del  rapporto  tra  le  detenute
madri e i propri figli, da un lato,  e  l'interesse  dello  Stato  ad
esercitare la potesta' punitiva, dall'altro, limitando l'accesso alle
modalita' agevolate indicate nella disposizione  censurata  nei  soli
casi di condotte incriminatrici che assumono un  significativo  grado
di offensivita' in relazione alla rilevanza del bene  protetto,  come
quelle relative ai delitti elencati al citato art. 4-bis, comma 1,  e
soltanto nei casi in cui non sussista ne' la collaborazione  prevista
dall'art. 58-ter della legge n. 354 del 1975, ne' alcuna delle  forme
di collaborazione con la giustizia richiamate  nel  comma  1-bis  del
piu' volte citato art. 4-bis. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Tribunale  di  sorveglianza   di   Bari   dubita   della
legittimita'  costituzionale  dell'art.  47-quinquies,  comma  1-bis,
della  legge  26  luglio  1975,  n.   354   (Norme   sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), nella parte in cui impedisce alle  madri  condannate
per i delitti di cui all'art. 4-bis della  medesima  legge  l'accesso
alle modalita' di espiazione della pena ivi previste. 
    La  disposizione  censurata  stabilisce  che,  «[s]alvo  che  nei
confronti delle madri condannate  per  taluno  dei  delitti  indicati
nell'articolo 4-bis», l'espiazione di  un  terzo  della  pena,  o  di
almeno quindici anni in caso di condanna all'ergastolo  -  condizione
necessaria per accedere alla detenzione domiciliare speciale prevista
nel comma 1 del medesimo art. 47-quinquies - puo' avvenire presso  un
istituto a custodia attenuata  per  detenute  madri  ovvero,  se  non
sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori  delitti  o
di fuga, nella propria  abitazione,  o  in  altro  luogo  di  privata
dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di
provvedere alla cura e all'assistenza dei figli. Essa prevede inoltre
che, in caso d'impossibilita'  di  scontare  la  pena  nella  propria
abitazione o in altro luogo di privata dimora, la stessa puo'  essere
espiata nelle case famiglia protette, ove istituite. 
    Secondo  il  rimettente,  la  preclusione  all'accesso   a   tali
modalita' agevolate di espiazione della pena per le madri  condannate
per taluno dei delitti indicati nell'art. 4-bis della  legge  n.  354
del 1975 si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 29, 30 e 31  della
Costituzione, in quanto ispirata dalla volonta' di far  prevalere  la
pretesa punitiva statale rispetto alle esigenze, che  pur  dovrebbero
essere preminenti, di tutela della maternita' e del  minore.  Sarebbe
cosi'  vanificata  la  stessa  ratio  ispiratrice  della   detenzione
domiciliare speciale, in tesi volta primariamente a  ripristinare  la
convivenza tra  madri  e  figli.  E'  in  particolare  richiamata  la
sentenza di questa Corte n. 239 del  2014,  la  cui  ratio  decidendi
sarebbe conferente anche nel caso in esame nel giudizio principale. 
    Osserva, infine, il rimettente che la disposizione  censurata  si
inserirebbe disarmonicamente in un sistema che consente,  anche  alle
madri condannate per i delitti di cui all'art. 4-bis della  legge  n.
354 del 1975, di  essere  ammesse  sin  dall'inizio  alla  detenzione
domiciliare, a prescindere dall'entita' della pena da espiare, quando
puo'  essere  disposto   il   rinvio   obbligatorio   o   facoltativo
dell'esecuzione di questa, ai sensi degli artt. 146 e 147 del  codice
penale (art. 47-ter, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975).  Tale
disarmonia sarebbe ben illustrata dalle peculiarita' del caso che  ha
dato origine al presente giudizio di legittimita' costituzionale, nel
quale la  madre  condannata,  inizialmente  ammessa  alla  detenzione
domiciliare sino al compimento dei tre anni  di  eta'  della  figlia,
dovrebbe entrare in carcere -  interrompendo  la  convivenza  con  la
bambina - al fine di scontare il terzo di pena necessario per essere,
successivamente, ammessa alla detenzione domiciliare speciale. 
    2.- La questione e' fondata. 
    2.1.-  La   disposizione   censurata   e'   contenuta   nell'art.
47-quinquies della legge n. 354 del 1975, che  disciplina  l'istituto
della detenzione  domiciliare  speciale.  Tale  istituto,  introdotto
dall'art. 3, comma 1,  della  legge  8  marzo  2001,  n.  40  (Misure
alternative alla detenzione a tutela  del  rapporto  tra  detenute  e
figli minori), e' finalizzato ad ampliare  la  possibilita',  per  le
madri  (o  i  padri)  condannati  a  pena  detentiva,   di   scontare
quest'ultima con  modalita'  esecutive  extracarcerarie,  per  meglio
tutelare il loro rapporto  con  i  figli  minori  e  per  evitare  il
fenomeno della "carcerizzazione degli infanti". 
    L'art. 47-ter,  comma  1,  della  legge  n.  354  del  1975  gia'
prevedeva (e prevede  tuttora)  che  la  pena  della  reclusione  non
superiore a quattro anni,  anche  se  costituente  parte  residua  di
maggior pena, nonche' la pena dell'arresto,  possano  essere  espiate
nella propria abitazione o in altro luogo di privata  dimora,  quando
la condannata e' donna incinta o madre di prole di eta' inferiore  ad
anni dieci con lei convivente  (ovvero  padre,  quando  la  madre  e'
deceduta o  assolutamente  impossibilitata  a  dare  assistenza  alla
prole). 
    Con l'introduzione del citato art. 47-quinquies, si e' stabilito,
al comma 1,  che,  «[q]uando  non  ricorrono  le  condizioni  di  cui
all'articolo 47-ter,  le  condannate  madri  di  prole  di  eta'  non
superiore ad anni dieci, se non  sussiste  un  concreto  pericolo  di
commissione di ulteriori delitti  e  se  vi  e'  la  possibilita'  di
ripristinare la convivenza con i figli,  possono  essere  ammesse  ad
espiare la pena nella propria abitazione, o in altro luogo di privata
dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di
provvedere alla cura e alla assistenza dei figli,  dopo  l'espiazione
di almeno un terzo della pena  ovvero  dopo  l'espiazione  di  almeno
quindici anni nel caso di condanna all'ergastolo». 
    In tal modo, si e' consentito anche alle madri condannate a  pene
detentive superiori a quattro anni, o che devono ancora scontare piu'
di quattro anni di pena,  di  accedere  alla  detenzione  domiciliare
speciale, alla condizione, pero', che abbiano gia' scontato almeno un
terzo della pena, ovvero almeno quindici anni  in  caso  di  condanna
all'ergastolo. 
    Al medesimo beneficio sono ammessi i padri detenuti, se la  madre
e' deceduta o impossibilitata e non vi e' modo di affidare  la  prole
ad altri che al padre. 
    Successivamente, la legge 21 aprile 2011,  n.  62  (Modifiche  al
codice di procedura penale e alla legge 26 luglio  1975,  n.  354,  e
altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri  e  figli
minori), ha novellato il comma 1 dell'art.  47-quinquies,  stabilendo
che la prima parte di pena (un terzo  o  quindici  anni  in  caso  di
ergastolo) possa essere espiata «secondo le modalita' di cui al comma
1-bis», e ha introdotto tale comma, oggetto del presente giudizio  di
legittimita' costituzionale. 
    Anche in questo caso, il legislatore ha l'obiettivo  di  ampliare
la possibilita', per le madri condannate a pene detentive, di espiare
la pena attraverso misure extracarcerarie che  permettano  di  meglio
provvedere alla cura e all'assistenza dei figli. A tal fine, il comma
1-bis consente loro di espiare, sin dall'inizio,  la  pena  detentiva
secondo  le  descritte  modalita'  agevolate,  anche  nella   propria
abitazione o in altro luogo di privata dimora, di cura, assistenza  o
accoglienza, purche' non sussista un concreto pericolo di commissione
di ulteriori delitti o di fuga. 
    Tuttavia, e questo e' l'oggetto della censura del giudice a  quo,
dall'accesso a tali modalita' agevolate  di  espiazione  della  prima
frazione di pena sono espressamente escluse le madri  condannate  per
un delitto indicato nell'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. 
    Che tale sia,  in  effetti,  il  significato  della  formulazione
letterale del primo periodo del comma  1-bis  dell'art.  47-quinquies
della legge n. 354 del 1975 («[s]alvo che nei confronti  delle  madri
condannate per taluno dei delitti indicati nell'articolo 4-bis»)  non
puo' essere revocato in dubbio. 
    Secondo   l'Avvocatura   generale   dello   Stato,   invece,   la
disposizione censurata  consentirebbe  alle  condannate  che  abbiano
collaborato   con   la   giustizia,   o   che   si   siano    trovate
nell'impossibilita' di farlo, di accedere alle descritte modalita' di
espiazione della pena. Nella prospettazione della difesa statale,  il
riferimento  alle  madri  condannate  per  i  delitti  indicati   nel
ricordato art. 4-bis non sarebbe, infatti, che un  rinvio  al  regime
sostanziale ivi descritto (che, appunto, consente la concessione  dei
benefici penitenziari ai condannati per i delitti elencati al comma 1
del  medesimo  art.  4-bis,  a  condizione  che  collaborino  con  la
giustizia o che tale collaborazione non sia possibile). 
    L'assunto  della  difesa  statale  non  coglie   nel   segno.   A
prescindere dal fatto che il giudice a quo non  fornisce  indicazioni
su un'eventuale collaborazione della  condannata  con  la  giustizia,
questa Corte ha gia' escluso che il riferimento all'art. 4-bis  della
legge n. 354 del 1975, contenuto nella disposizione censurata,  possa
intendersi come un richiamo alle  differenziate  condizioni  (tra  le
quali la collaborazione con la giustizia) che tale articolo  prevede,
a seconda  del  reato  commesso,  per  la  concessione  dei  benefici
penitenziari. Come e' fatto palese dalla sua formulazione  letterale,
il significato del comma 1-bis dell'art. 47-quinquies  e'  quello  di
impedire in assoluto, alle condannate per i delitti di  cui  all'art.
4-bis, di espiare la frazione iniziale di pena secondo  le  ricordate
modalita' agevolate, anche laddove si sia  verificata  la  condizione
della collaborazione con la giustizia (sentenza n. 239 del 2014). 
    E' dunque  questo  significato  della  disposizione  censurata  a
doversi confrontare con i parametri costituzionali evocati. 
    2.2.- Il comma 1-bis dell'art. 47-quinquies della  legge  n.  354
del 1975 si inserisce nell'ambito di  un  istituto  -  la  detenzione
domiciliare speciale -  che,  pur  partecipando  della  finalita'  di
reinserimento sociale del condannato, e' primariamente indirizzato  a
consentire l'instaurazione, tra madri  detenute  e  figli  in  tenera
eta', di un rapporto quanto piu' possibile "normale" (sentenze n. 239
del 2014 e n. 177 del 2009). In tal senso, si tratta di  un  istituto
in cui assume rilievo prioritario la tutela di  un  soggetto  debole,
distinto dal condannato e particolarmente meritevole  di  protezione,
qual e' il minore (ancora sentenze n. 239 del 2014 e n. 177 del 2009,
e sentenza n. 350 del 2003). 
    Questa Corte ha evidenziato in numerose occasioni (sentenze n. 17
del 2017, n. 239 del 2014, n. 7  del  2013  e  n.  31  del  2012)  la
speciale rilevanza dell'interesse del figlio minore  a  mantenere  un
rapporto continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto
di ricevere cura, educazione e istruzione,  ed  ha  riconosciuto  che
tale interesse e'  complesso  ed  articolato  in  diverse  situazioni
giuridiche.  Queste  ultime  trovano  riconoscimento  e  tutela   sia
nell'ordinamento costituzionale interno - che demanda alla Repubblica
di proteggere l'infanzia, favorendo gli  istituti  necessari  a  tale
scopo  (art.  31,  secondo  comma,  Cost.)  -  sia   nell'ordinamento
internazionale,  ove  vengono  in   particolare   considerazione   le
previsioni dell'art. 3, comma 1, della Convenzione  sui  diritti  del
fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989,  ratificata  e  resa
esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dell'art. 24,
comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del
7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo. 
    Queste  due  ultime  disposizioni  qualificano  come  «superiore»
l'interesse del minore, stabilendo che in tutte le decisioni relative
ad esso, adottate da autorita' pubbliche o istituzioni private,  tale
interesse deve essere considerato «preminente»: «precetto che  assume
evidentemente   una   pregnanza   particolare   quando   si   discuta
dell'interesse del bambino in tenera eta'  a  godere  dell'affetto  e
delle cure materne» (cosi',  in  particolare,  sentenza  n.  239  del
2014). 
    L'elevato rango  dell'interesse  del  minore  a  fruire  in  modo
continuativo dell'affetto e delle  cure  materne,  tuttavia,  non  lo
sottrae in assoluto  ad  un  possibile  bilanciamento  con  interessi
contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali  sono  quelli  di
difesa sociale, sottesi alla necessaria  esecuzione  della  pena.  Lo
dimostra, del resto, la stessa disposizione censurata,  che  consente
alle madri (tranne a quelle condannate per i delitti di cui  all'art.
4-bis della legge n. 354 del 1975) di espiare la  prima  frazione  di
pena presso un istituto a  custodia  attenuata,  ovvero  richiede  al
giudice di  valutare  l'insussistenza  di  un  concreto  pericolo  di
commissione di ulteriori delitti o di fuga, prima di  concedere  alla
condannata l'accesso alla  detenzione  domiciliare  ovvero  in  altri
luoghi di privata dimora, di cura, di assistenza o di accoglienza. 
    Il bilanciamento dell'interesse del minore  con  le  esigenze  di
difesa sociale sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta
al genitore in seguito alla  commissione  di  un  reato,  in  via  di
principio, e'  rimesso  alle  scelte  discrezionali  del  legislatore
(sentenza n. 17 del 2017) e puo' realizzarsi attraverso regole legali
che determinano, in astratto, i limiti rispettivi  entro  i  quali  i
diversi principi possono trovare contemperata tutela. In  tal  senso,
varie disposizioni dell'ordinamento penitenziario  e  del  codice  di
procedura penale assicurano tutela all'interesse dei minori, figli di
soggetti sottoposti a misure cautelari o condannati in via definitiva
a pene  detentive,  a  mantenere  un  rapporto  costante,  fuori  dal
carcere, con le figure genitoriali, ma stabiliscono che tale esigenza
di tutela si arresta al compimento,  da  parte  del  minore,  di  una
determinata eta'. 
    Se invece  il  legislatore,  tramite  il  ricorso  a  presunzioni
insuperabili, nega in radice l'accesso  della  madre  alle  modalita'
agevolate di espiazione della pena e, cosi', impedisce al giudice  di
valutare la sussistenza in concreto, nelle singole situazioni,  delle
ricordate esigenze di difesa sociale, non si e' piu' in  presenza  di
un bilanciamento tra principi, che si traduce nella determinazione di
una ragionevole regola legale: si e' al cospetto dell'introduzione di
un automatismo basato su indici  presuntivi,  il  quale  comporta  il
totale sacrificio dell'interesse del minore. 
    Questa Corte,  tuttavia,  ha  gia'  chiarito  che,  affinche'  il
preminente interesse del minore possa  restare  recessivo  di  fronte
alle esigenze di protezione della societa' dal crimine, la legge deve
consentire che sussistenza  e  consistenza  di  queste  ultime  siano
verificate in concreto, e non gia'  sulla  base  di  automatismi  che
impediscono al giudice ogni margine di  apprezzamento  delle  singole
situazioni (ancora, sentenza n. 239 del 2014). 
    Proprio una tale  preclusione  e'  contenuta  nella  disposizione
censurata. Il legislatore, infatti, esclude in assoluto  dall'accesso
ad un istituto primariamente volto alla salvaguardia del rapporto con
il minore in tenera eta' le madri  accomunate  dall'aver  subito  una
condanna per taluno dei delitti indicati in una disposizione  (l'art.
4-bis della legge n. 354  del  1975)  che  contiene,  oltretutto,  un
elenco di reati complesso, eterogeneo, stratificato  e  di  diseguale
gravita' (sentenza n. 32 del 2016). 
    Non  e'  in  principio  vietato  alla  legge   differenziare   il
trattamento penitenziario delle madri  condannate,  a  seconda  della
gravita' del delitto commesso, ma  la  preclusione  assoluta  ora  in
esame e' certamente  lesiva  dell'interesse  del  minore,  e  percio'
dell'art. 31, secondo comma, Cost. 
    A  causa  della  disposizione  censurata,   vengono   del   tutto
pretermessi l'interesse del minore ad instaurare un  rapporto  quanto
piu' possibile "normale" con la madre, nonche' la stessa finalita' di
reinserimento sociale della condannata, non estranea, come si e' gia'
detto, alla detenzione domiciliare speciale, quale misura alternativa
alla detenzione. Questa sorta di esemplarita'  della  sanzione  -  la
madre deve inevitabilmente espiare in carcere la  prima  frazione  di
pena - non puo'  essere  giustificata  da  finalita'  di  prevenzione
generale o di difesa sociale (sentenza n. 313 del 1990). Infatti,  le
esigenze collettive di sicurezza e gli obiettivi generali di politica
criminale  non  possono  essere  perseguiti   attraverso   l'assoluto
sacrificio della condizione della madre e del  suo  rapporto  con  la
prole. 
    La   disposizione   censurata   e'   dunque    costituzionalmente
illegittima limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti  delle
madri  condannate  per  taluno  dei  delitti  indicati  nell'articolo
4-bis,». 
    L'accertata  violazione  dell'art.  31,  secondo  comma,   Cost.,
determina l'assorbimento delle censure relative agli altri  parametri
costituzionali evocati. 
    E' appena il caso di rilevare, infine, che la presente  pronuncia
d'accoglimento non mette in pericolo le esigenze  di  contrasto  alla
criminalita' che avevano indotto  il  legislatore  ad  introdurre  la
preclusione qui caducata. 
    Da un lato, il comma 1-bis dell'art. 47-quinquies della legge  n.
354 del 1975, oltre a consentire che la prima frazione  di  pena  sia
scontata in un istituto a  custodia  attenuata  per  detenute  madri,
affida al prudente apprezzamento del giudice - come si e' evidenziato
- l'accesso della condannata alla detenzione nella propria abitazione
o in altro luogo di privata dimora,  ovvero  di  cura,  assistenza  o
accoglienza,  condizionandolo  all'insussistenza   di   un   concreto
pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga. 
    Dall'altro,  rientrando  l'istituto  in  oggetto  tra  le  misure
alternative alla detenzione, ai condannati per uno dei delitti di cui
all'art.  4-bis  della  legge  n.  354  del  1975  resta  pur  sempre
applicabile il  complesso  ed  articolato  regime  previsto  da  tale
disposizione per la concessione dei benefici penitenziari,  in  base,
pero', alla ratio della sentenza n. 239 del  2014  di  questa  Corte,
secondo la quale la mancata collaborazione con la giustizia non  puo'
ostare alla concessione di un beneficio primariamente  finalizzato  a
tutelare il rapporto tra la madre e il figlio minore.