ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  8  della
legge della Regione Lazio 3 gennaio 1986, n.  1  (Regime  urbanistico
dei terreni  di  uso  civico  e  relative  norme  transitorie),  come
modificato dall'art. 8 della legge della  Regione  Lazio  27  gennaio
2005, n. 6, recante «Modifiche alla legge regionale 3  gennaio  1986,
n. 1 (Regime urbanistico dei terreni di uso civico e  relative  norme
transitorie) e successive modifiche ed alla legge regionale 6  agosto
1999, n. 14 (Organizzazione delle  funzioni  a  livello  regionale  e
locale per  la  realizzazione  del  decentramento  amministrativo)  e
successive modifiche», promosso  dal  Commissario  regionale  per  la
liquidazione degli usi civici per le Regioni Lazio, Umbria e  Toscana
con ordinanza del 3 ottobre 2017, nel procedimento vertente tra M. C.
e altro e l'Universita' agraria di Valmontone e altra, iscritta al n.
169 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visto l'atto di costituzione di M. C. e altro; 
    udito nella udienza  pubblica  del  10  aprile  2018  il  Giudice
relatore Aldo Carosi; 
    uditi gli avvocati Vincenzo Cerulli Irelli, Edoardo Di Giovanni e
Maria Athena Lorizio per M. C. e altro. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 3  ottobre  2017,  il  Commissario  per  la
liquidazione degli usi civici per le Regioni Lazio, Umbria e  Toscana
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,  9,  117,  secondo  comma,
lettere l) e s), e 118 della Costituzione, questioni di  legittimita'
costituzionale dell'art. 8 della legge della Regione Lazio 3  gennaio
1986, n. 1 (Regime urbanistico dei terreni di uso civico  e  relative
norme transitorie), come modificato dall'art.  8  della  legge  della
Regione Lazio 27 gennaio 2005, n. 6, recante  «Modifiche  alla  legge
regionale 3 gennaio 1986, n. 1 (Regime urbanistico dei terreni di uso
civico e relative norme transitorie) e successive modifiche  ed  alla
legge regionale 6 agosto 1999, n. 14 (Organizzazione delle funzioni a
livello regionale e locale per  la  realizzazione  del  decentramento
amministrativo) e successive modifiche». 
    La   disposizione   censurata,   riportata   integralmente    nel
considerato in diritto, prevede la possibilita' di alienare e  sanare
sotto il profilo urbanistico, le occupazioni di  terreni  gravati  da
uso civico e le costruzioni su di essi  realizzate  a  condizione  di
particolare favore. 
    1.1.- In punto di fatto, il Commissario  rimettente  premette  di
aver iniziato, d'ufficio, a seguito di  un  esposto  dei  consiglieri
dell'Universita' agraria di Valmontone, un processo per  l'azione  di
accertamento della qualitas di un terreno con annesso magazzino  sito
in  Valmontone,  messo  in  vendita  nonostante  non  vi   fosse   un
certificato edilizio in sanatoria. 
    L'Universita' agraria di Valmontone  aveva,  difatti,  deciso  di
alienare un appezzamento di terreno chiedendo alla Regione  Lazio  il
cambio di destinazione d'uso, ai sensi della legge 16 giugno 1927, n.
1766 (Conversione in legge del R. decreto 22  maggio  1924,  n.  751,
riguardante il riordinamento degli  usi  civici  nel  Regno,  del  R.
decreto 28 agosto 1924, n.  1484,  che  modifica  l'art.  26  del  R.
decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio  1926,  n.
895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R. decreto-legge
22 maggio  1924,  n.  751);  quest'ultima  aveva,  invece,  ritenuto,
«trattandosi di alienazione di terreni demaniali edificati, ai  sensi
e per gli effetti del comma 1, lettera a) dell'art. 8 della  L.R.  n.
1/1986 e s.m.i. [....] e' compito degli  Enti  titolari  dei  diritti
civici, procedere autonomamente all'alienazione senza  la  necessita'
di acquisire l'autorizzazione regionale, stante la competenza». 
    La predetta Universita'  agraria  si  era  quindi  avvalsa  della
facolta', concessa dalla norma censurata, di alienare  detti  terreni
di proprieta' collettiva di uso civico. 
    Nelle more del giudizio, il Comune di Valmontone aveva rilasciato
il permesso di costruire in sanatoria, determinando,  secondo  quanto
previsto dalla norma impugnata, il venir meno  degli  usi  civici  e,
conseguentemente, del vincolo ambientale, consentendo, in definitiva,
l'alienazione. 
    1.2.- In ordine alla  rilevanza  della  sollevata  questione,  il
rimettente espone che, in  base  alla  normativa  regionale,  con  il
rilascio del permesso di costruire  in  sanatoria,  il  bene  avrebbe
acquisito natura disponibile e sarebbe legittimamente alienabile:  il
Commissario dovrebbe, quindi, limitarsi a prendere atto dell'avvenuta
trasformazione del bene demaniale in allodiale  e,  conseguentemente,
dichiarare l'avvenuta estinzione dei diritti di uso  civico  gravanti
sui  terreni  oggetto  di  causa.   L'univocita'   della   previsione
legislativa non consentirebbe, infatti, interpretazioni differenti  e
la sdemanializzazione deriverebbe direttamente dalla legge impugnata,
non essendo necessari ne' ulteriori atti amministrativi ne' ulteriori
accertamenti istruttori nel corso della  causa  gia'  matura  per  la
decisione. 
    1.3.- Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza  della  medesima
questione, il Commissario rimettente osserva che la materia degli usi
civici sarebbe disciplinata in modo tendenzialmente  esaustivo  dalla
legge n. 1766 del 1927 e dal regio decreto 26 febbraio 1928,  n.  332
(Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno
1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici del Regno), al fine
di garantire l'interesse della collettivita' alla conservazione degli
usi civici e alla salvaguardia dell'ambiente e  del  paesaggio.  Alle
Regioni sono state, difatti, trasferite, con d.P.R. 15 gennaio  1972,
n. 11 (Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle  funzioni
amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, di caccia
e di pesca nelle acque interne e dei relativi personali ed uffici)  e
con d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione  della  delega  di  cui
all'art. 1 della legge 22 luglio 1975,  n.  382),  le  sole  funzioni
amministrative  connesse  alle  ipotesi  di  liquidazione  degli  usi
civici, cosicche' la Regione Lazio non avrebbe potuto  emanare  norme
derogatorie  a  quelle  statali   introducendo   nuove   ipotesi   di
liquidazione degli usi civici non previste dalla normativa statale. 
    La legge impugnata contrasterebbe, in definitiva, con  l'art.  11
della legge n. 1766 del 1927 e con l'art. 42  del  r.d.  n.  332  del
1928, i quali richiedono che le limitazioni  o  la  liquidazione  dei
diritti di uso civico siano  precedute  dall'assegnazione  dei  suoli
alla categoria sub lettera  a  (terreni  convenientemente  utilizzati
come bosco o come pascolo permanente) del medesimo art. 11. 
    Costituirebbe, infine, principio fondamentale in materia il fatto
che le eccezionali ipotesi di legittimazione  o  di  alienazione  non
possano mai interrompere la  continuita'  del  patrimonio  collettivo
venendo altrimenti compromessa la fruibilita' di detto patrimonio. 
    1.4.- Sotto altro profilo, il Commissario rimettente osserva  che
«le aree assegnate alle Universita' agrarie e le zone gravate da  usi
civici» sarebbero state sottoposte a vincolo paesaggistico  ai  sensi
della legge 29  giugno  1939,  n.  1497  (Protezione  delle  bellezze
naturali), dapprima con l'art. 1, lettera h), della  legge  8  agosto
1985,  n.  431  (Conversione  in  legge,   con   modificazioni,   del
decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312,  recante  disposizioni  urgenti
per  la  tutela  delle  zone  di  particolare  interesse  ambientale.
Integrazioni dell'art. 82 del decreto del Presidente della Repubblica
24 luglio 1977, n. 616), quindi con l'art. 142, comma  1,  lettera  f
[recte h], del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei
beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge
6 luglio 2002, n. 137). Si tratterebbe di  norma  di  grande  riforma
economico-sociale (sono citate le sentenze n. 210 del 2014, n. 207  e
n. 66 del 2012, n. 226 e n. 164  del  2009)  che  limita  l'esercizio
della competenza legislativa primaria delle Regioni. 
    La funzione di tutela dell'ambiente svolta  dagli  usi  civici  -
prosegue il rimettente - e' stata affermata da questa Corte a partire
dalle sentenze n. 133 del 1993 e n. 46 del 1995 e  dall'ordinanza  n.
316 del 1998. Sarebbe in sostanza lo stesso aspetto  del  territorio,
per i suoi contenuti ambientali e culturali, un valore costituzionale
di per se' (sentenza n. 367 del 2007). 
    Ne deriva che la Regione «non  possa  assumere,  unilateralmente,
decisioni  che  liberano  dal   vincolo   ambientale   porzioni   del
territorio. Oltre alle ipotesi  di  mutamento  di  destinazione,  che
sostanzialmente rimodellano il vincolo  ambientale  verso  una  nuova
finalita'  comunque  conforme  agli  interessi  della  collettivita',
devono assolutamente soggiacere al meccanismo concertativo le ipotesi
di sclassificazione, che sottraggono in via definitiva il  bene  alla
collettivita' ed al patrimonio tutelato» (si cita la sentenza n.  103
del 2017). 
    Nel caso in esame,  la  Regione  Lazio  avrebbe,  in  definitiva,
determinato una sostanziale sclassificazione dei terreni  gravati  da
uso  civico  in  quanto  edificabili  o,  addirittura,   abusivamente
edificati e quindi condonati, benche'  sia  certo  che  la  normativa
regionale «non puo', salvo  i  casi  suscettibili  di  alienazione  e
legittimazione previsti dalla legge  n.  1766  del  1927,  servire  a
sanare indiscriminatamente occupazioni abusive» (si cita la  sentenza
n. 103 del 2017). 
    In conclusione, la norma  regionale  eccederebbe  dall'ambito  di
competenza legislativa regionale,  incidendo  nella  materia  «tutela
dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni  culturali»,  riservata  al
legislatore statale dall'art.  117,  lettera  s),  Cost.,  come  gia'
riconosciuto da questa Corte (da ultimo, nelle sentenze  n.  103  del
2017 e  n.  210  del  2014);  incontrerebbe  il  limite  delle  norme
fondamentali  delle  riforme  economico-sociali,  quali  le   evocate
disposizioni del codice  dei  beni  culturali  e  del  paesaggio  (e'
menzionata la sentenza n.  210  del  2014);  violerebbe,  infine,  la
competenza statale esclusiva in materia anche sotto il profilo  della
pianificazione paesaggistica (art. 143 del d.lgs. n. 42 del 2004). 
    1.5.-  Inoltre,   la   normativa   regionale   consentirebbe   il
trasferimento della proprieta' del suolo e farebbe venir meno vincoli
ambientali a seguito di irreversibili trasformazioni del suolo dovute
ad interventi urbanistici anche non autorizzati. Essa  configurerebbe
dunque ulteriori ipotesi di sanatoria edilizia in  contrasto  con  la
legislazione statale (d.P.R. 6 giugno 2001, n.  380,  recante  «Testo
unico delle  disposizioni  legislative  e  regolamentari  in  materia
edilizia-Testo A»), alla  quale  e'  riservata  detta  materia  (sono
richiamate le sentenze n. 117 del 2015 e n. 196 del 2004). 
    1.6.-  La  disposizione  impugnata  si  porrebbe,   inoltre,   in
contrasto con l'art. 118 Cost. per il mancato rispetto del  principio
di leale collaborazione, stante  la  «connessione  indissolubile  tra
materie di diversa attribuzione», anche alla luce della  sentenza  n.
210 del 2014. Il legislatore regionale avrebbe difatti pretermesso di
considerare, attraverso un idoneo procedimento, gli interessi sottesi
alla competenza legislativa di cui lo Stato sarebbe titolare. 
    1.7.-  L'art.  8  della  legge  reg.  Lazio   n.   1   del   1986
confliggerebbe, infine, con il principio di  ragionevolezza  (art.  3
Cost.)  e  di  coerenza  dell'ordinamento,  in  quanto  consentirebbe
all'autore di un illecito edilizio (nella  maggioranza  dei  casi  di
rilievo penale) di divenire proprietario del bene che ha compromesso,
con danno della collettivita'. Diversamente, l'art.  934  del  codice
civile  prevede  il  principio  dell'accessione,  in  base  al  quale
qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra  o  sotto
il suolo appartiene al proprietario di questo. Parimenti,  l'art.  31
del d.P.R. n. 380 del  2001  stabilisce  che  nel  caso  di  illeciti
edilizi,  qualora  il  proprietario   non   adempia   all'ordine   di
demolizione, il «bene e l'area di sedime, nonche' quella  necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla  realizzazione  di
opere analoghe a quelle abusive» vengano acquisiti al patrimonio  del
Comune. Nel caso in esame,  al  contrario,  il  trasgressore  che  ha
eseguito l'opera su beni gravati da uso civico e sottoposti a vincolo
ambientale verrebbe  "premiato"  mediante  «l'acquisizione  a  prezzi
modici dell'area  di  sedime»,  configurando  cosi'  una  ipotesi  di
accessione invertita in contrasto con le previsioni  della  normativa
statale. 
    In  definitiva,  la  legge  regionale   in   esame   prevederebbe
un'ipotesi in cui un atto illecito (spesso costituente reato) produce
la trasformazione del demanio in allodio. 
    2.- Si sono costituiti  i  consiglieri  dell'Universita'  agraria
M.C. e G.V., parti del giudizio a quo, chiedendo l'accoglimento della
questione. 
    Le   parti   private   ribadiscono,   quale   primo   motivo   di
illegittimita' costituzionale, la violazione degli artt. 3,  9,  117,
secondo  comma,  lettere  l)  e  s),  e  118  Cost.,  rimarcando   la
qualificazione  dei  beni  di  uso  civico  come  beni  di  interesse
paesaggistico ai sensi dell'art. 142, lettera h), del  d.lgs.  n.  42
del 2004. L'alienazione  consentita  dalla  legge  regionale  laziale
sarebbe difatti ammessa per ipotesi  differenti  da  quelle  previste
dalla legge statale, alla quale e'  comunque  riservata  la  potesta'
legislativa in materia. Vengono richiamate, in proposito, le sentenze
n. 103 del 2017, n. 310 del 2006, n. 345 del 1997, n. 46 del  1995  e
l'ordinanza n. 316 del 1998. 
    Sotto altro profilo, l'illegittimita' costituzionale della  legge
della Regione Lazio deriverebbe dal fatto che  il  valore  del  fondo
gravato dagli usi civici da  liquidare  dovrebbe  tener  conto  anche
dell'incremento di valore prodotto  dalla  destinazione  edificatoria
sopravvenuta, come gia' affermato nella sentenza n. 83 del 1996. 
    Infine, secondo  le  parti  private,  la  materia  di  competenza
concorrente «agricoltura e foreste», di cui al  previgente  art.  117
Cost. - del quale costituiva attuazione l'art. 66 del d.P.R.  n.  616
del 1977 - non potrebbe ricomprendere la disciplina della titolarita'
e dell'esercizio di diritti dominicali sulle  terre,  siano  esse  di
pertinenza pubblica, collettiva o privata.  La  natura  dominicale  o
comunque reale del diritto civico e degli  altri  diritti  collettivi
(e' citata Cassazione civile, sezione seconda,  29  luglio  2016,  n.
15938) sarebbe peraltro oggi espressamente riconosciuta  dalla  legge
20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi). 
    Ne deriverebbe l'ascrivibilita' della disposizione impugnata alla
materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato,  e
l'illegittima invasione di detto  ambito  materiale  da  parte  della
Regione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Commissario per la liquidazione degli usi  civici  per  le
Regioni Lazio, Umbria e Toscana ha  sollevato,  in  riferimento  agli
artt. 3, 9, 117,  secondo  comma,  lettere  l)  e  s),  e  118  della
Costituzione, questioni di legittimita'  costituzionale  dell'art.  8
della legge  della  Regione  Lazio  3  gennaio  1986,  n.  1  (Regime
urbanistico dei terreni di uso civico e relative norme  transitorie),
come modificato dall'art.  8  della  legge  della  Regione  Lazio  27
gennaio 2005, n. 6, recante «Modifiche alla legge regionale 3 gennaio
1986, n. 1 (Regime urbanistico dei terreni di uso civico  e  relative
norme transitorie) e successive modifiche ed alla legge  regionale  6
agosto 1999, n. 14 (Organizzazione delle funzioni a livello regionale
e locale per la realizzazione  del  decentramento  amministrativo)  e
successive modifiche». 
    Il giudice a  quo  premette  di  avere  avviato  d'ufficio  -  su
sollecitazione  di  due  consiglieri  dell'Universita'   agraria   di
Valmontone - un processo per l'azione di accertamento della  qualitas
di un terreno con annesso magazzino, sito in Valmontone e promesso in
vendita a una societa' privata dalla medesima associazione agraria. 
    Quest'ultima si era avvalsa della facolta', concessa dall'art.  8
della legge reg. Lazio n. 1  del  1986  (cosi'  come  modificato,  da
ultimo, dall'art. 8 della legge reg. Lazio n. 6 del 2005) di alienare
detti terreni di proprieta' collettiva di uso civico. 
    Nelle more del giudizio, il Comune di Valmontone aveva rilasciato
il permesso di costruire in sanatoria, determinando,  secondo  quanto
previsto dalla norma impugnata, la sclassificazione e la  conseguente
alienabilita' dell'area. 
    L'art. 8 stabilisce, difatti, che «1. I comuni,  le  frazioni  di
comuni, le universita' e le associazioni agrarie comunque  denominate
possono alienare i terreni di proprieta'  collettiva  di  uso  civico
posseduti dagli stessi: a) agli occupatori, se gia' edificati; b) con
le  procedure  di  asta  pubblica,  se   divenuti   edificabili.   2.
L'alienazione di cui al comma 1, lettera a), puo' essere effettuata a
condizione che le costruzioni siano state legittimamente realizzate o
che siano condonate ai sensi della normativa vigente  in  materia  di
sanatoria di abusi edilizi. Eventuali successioni nel possesso  della
costruzione non pregiudicano  la  possibilita'  di  richiedere  o  di
ottenere l'alienazione ai sensi del presente articolo, che e' in ogni
caso  rilasciata   a   favore   del   titolare   della   costruzione.
L'alienazione  deve  interessare  il  suolo  su  cui   insistono   le
costruzioni e  le  relative  superfici  di  pertinenza  fino  ad  una
estensione massima corrispondente alla superficie  del  lotto  minimo
imposto dallo strumento urbanistico vigente per la zona in cui ricade
il  terreno  da  alienare.  La  superficie  agricola   occupata   dal
richiedente ed eccedente il lotto da alienare  deve  comunque  essere
sistemata nei termini e nei modi previsti dalla normativa vigente  in
materia di usi civici. 3. Per i terreni di cui al  comma  1,  lettera
b),  gli  enti  possono,  prima  di  procedere  alla  pubblica  asta,
attribuire la proprieta' di singoli lotti a coloro che detengono  gli
stessi a qualsiasi titolo e che  ne  fanno  domanda  sulla  base  del
prezzo di stima,  a  condizione  che  l'assegnatario  si  obblighi  a
destinare  il  lotto  all'edificazione  della  prima   casa,   ovvero
all'edificazione  di   manufatti   artigianali   necessari   per   lo
svolgimento della propria attivita'. 4. Non possono  essere  comunque
alienati i terreni di proprieta' collettiva di uso  civico  ricadenti
in aree sottoposte a vincoli paesistici  diversi  da  quello  di  uso
civico. 5. Ai fini della determinazione del valore, gli enti  di  cui
al comma 1 si avvalgono dei propri uffici tecnici o possono  nominare
tecnici iscritti all'albo regionale dei periti,  degli  istruttori  e
dei delegati tecnici. 6. Qualora, successivamente all'acquisto di  un
terreno, effettuato  con  contratto  di  compravendita  registrato  e
trascritto, sopravvenga l'accertamento dell'appartenenza del  terreno
medesimo alle categorie di cui all'articolo 39, comma  2,  del  regio
decreto 26 febbraio 1928,  n.  332,  concernente  il  regolamento  di
esecuzione della legge sul riordino degli usi civici, e si tratti  di
costruzione destinata a prima  casa  gia'  eseguita  o  da  eseguire,
l'acquirente ha facolta' di consolidare l'acquisto a titolo  oneroso.
La  richiesta  dell'acquirente  deve  essere  corredata  della  copia
dell'atto  di  compravendita  e   dell'eventuale   provvedimento   di
concessione edilizia. Ricevuta la richiesta, l'ente interessato,  con
deliberazione  motivata  soggetta  ad  approvazione  della   Regione,
stabilisce, a titolo conciliativo, una somma che deve essere  ridotta
fino all'ottanta per cento del valore del terreno. 7.  L'agevolazione
di cui al comma 6  si  applica  altresi'  quando  si  tratti:  a)  di
costruzioni  od  impianti  destinati  ad  attivita'  artigianali   di
superficie complessiva  inferiore  a  1.500  metri  quadrati;  b)  di
costruzioni od  impianti  destinati  ad  attivita'  di  commercio  di
superficie di vendita inferiore a 1.500 metri quadrati, per i  comuni
con  popolazione  residente  inferiore  ai  10.000  abitanti;  c)  di
costruzioni o di impianti destinati ad attivita'  turistico-ricettive
ed agrituristiche di superficie complessiva inferiore a  2.000  metri
quadrati, e di superficie complessiva inferiore a  2  ettari  per  le
strutture ricettive all'aria aperta e per gli impianti sportivi. 8. A
richiesta dell'interessato  il  prezzo  di  alienazione  puo'  essere
rateizzato in cinque  annualita'  con  l'applicazione  dell'interesse
annuo al tasso legale vigente». 
    Il  rimettente,  dopo  aver  precisato  che  non  e'   necessario
«svolgere alcuna attivita' istruttoria essendo pacifici  i  fatti  di
causa e l'originaria presenza degli usi civici tanto  che  la  causa,
sull'accordo delle parti, veniva trattenuta in decisione»  e  che  la
norma avrebbe  determinato  l'automatica  sclassificazione  dei  beni
civici - cio'  comportando  che  l'accertamento  giudiziale  dovrebbe
limitarsi alla presa d'atto  dell'avvenuta  trasformazione  del  bene
demaniale in  allodiale,  con  conseguente  estinzione  ex  lege  dei
«diritti di uso civico gravanti  sui  terreni  oggetto  di  causa»  -
ritiene che la norma impugnata contrasti, tra gli altri,  con  l'art.
117, secondo comma, lettera l), Cost., dettando norme  in  ambito  di
competenza esclusiva dello Stato. 
    In buona sostanza,  la  sdemanializzazione  dei  beni  collettivi
deriverebbe direttamente dalla  legge  regionale  denunciata  mentre,
sotto il profilo civilistico, la materia  degli  usi  civici  sarebbe
disciplinata (in regime di specialita' rispetto al codice civile)  da
norme statali, quali la legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in
legge  del  R.  decreto  22  maggio  1924,  n.  751,  riguardante  il
riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.  decreto  28  agosto
1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R. decreto 22 maggio  1924,
n. 751, e del R. decreto 16  maggio  1926,  n.  895,  che  proroga  i
termini assegnati dall'art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n.
751), e il regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332  (Approvazione  del
regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno  1927,  n.  1766,
sul riordinamento degli usi civici del Regno). Alle Regioni sarebbero
state trasferite, per effetto del  d.P.R.  15  gennaio  1972,  n.  11
(Trasferimento  alle  Regioni  a  statuto  ordinario  delle  funzioni
amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, di caccia
e di pesca nelle acque interne e dei relativi personali ed uffici), e
del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione  della  delega  di  cui
all'art. 1 della legge 22 luglio 1975,  n.  382),  le  sole  funzioni
amministrative, sicche' la  Regione  Lazio  non  avrebbe  mai  potuto
invadere la competenza legislativa dello Stato ex art.  117,  secondo
comma, lettera l), Cost. e - per di piu', come nella  fattispecie  in
esame - compiere tale invasione  in  contrasto  con  la  legislazione
statale gia' esistente. 
    Inoltre,  le  ipotesi  di  alienazione   e   legittimazione   non
potrebbero mai essere  adottate  interrompendo  «la  continuita'  del
patrimonio  collettivo  altrimenti   ne   verrebbe   compromessa   la
fruibilita' nel suo complesso. Nel caso di specie tale  esigenza  non
e' in alcun modo tutelata». 
    La  Regione  avrebbe  poi  operato  detta   sclassificazione   in
contrasto anche con il principio di ragionevolezza di cui all'art.  3
Cost., in quanto consentirebbe  «all'autore  di  un  illecito  (nella
maggioranza dei casi di rilievo penale) di divenire proprietario  del
bene che ha manomesso con pari danno per la collettivita'». 
    Al contrario, il principio  civilistico  dell'accessione  sarebbe
rinvenibile nell'art. 934 del  codice  civile,  ai  sensi  del  quale
qualsiasi costruzione od opera  esistente  sopra  o  sotto  il  suolo
appartiene al proprietario di questo. L'art. 31 del d.P.R.  6  giugno
2001,  n.  380  (Testo  unico  delle   disposizioni   legislative   e
regolamentari in materia edilizia), stabilirebbe, a  sua  volta,  che
nel caso di illeciti edilizi, qualora  il  proprietario  non  adempia
all'ordine di demolizione, si determini  l'acquisizione  gratuita  al
patrimonio del Comune del bene e  dell'area  di  sedime,  nonche'  di
quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle abusive.  Secondo  la  norma
impugnata, il trasgressore che ha eseguito l'opera su beni gravati da
uso civico e sottoposti a vincolo ambientale sarebbe,  al  contrario,
"premiato", consentendogli l'acquisizione a prezzi  modici  dell'area
di sedime, in contrasto con le previsioni  della  normativa  statale,
configurandosi cosi' una ipotesi di "accessione invertita". 
    Verrebbe quindi configurata un'ipotesi in cui  un  atto  illecito
(spesso costituente reato) produrrebbe la trasformazione del  demanio
in allodio. 
    Il giudice rimettente censura poi la norma  in  riferimento  agli
artt. 9 e  117,  secondo  comma,  lettera  s),  Cost.,  in  relazione
all'art. 142 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.  42  (Codice
dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo  10  della
legge 6 luglio 2002, n. 137), che dichiara - alla  lettera  h)  -  di
interesse paesaggistico,  tra  le  altre,  «le  aree  assegnate  alle
universita' agrarie e le zone gravate da usi civici». 
    Viene all'uopo richiamata la giurisprudenza di  questa  Corte  in
tema  di  valorizzazione  ambientale  attraverso  la  tutela   e   la
conservazione dei beni collettivi. 
    Il giudice rimettente prospetta infine il  contrasto  con  l'art.
118  Cost.  per  il  mancato  rispetto   del   principio   di   leale
collaborazione, «stante la connessione indissolubile tra  materie  di
diversa attribuzione anche alla luce della sentenza n. 210 del 2014». 
    Si sono costituiti i consiglieri dell'Universita' agraria M.C.  e
G.V., parti  del  giudizio  a  quo,  chiedendo  l'accoglimento  della
questione  e  insistendo,   innanzitutto,   nella   deduzione   della
violazione degli artt. 3, 9, 117, secondo comma, lettere l) e  s),  e
118 Cost. Stante la qualificazione dei beni di uso civico  come  beni
di interesse paesaggistico ai sensi dell'art. 142,  lettera  h),  del
d.lgs. n. 42 del 2004, l'alienazione consentita dalla legge regionale
sarebbe difatti ammessa per ipotesi  differenti  da  quelle  previste
dalla legge statale, alla quale e'  comunque  riservata  la  potesta'
legislativa in materia (sono citate le sentenze n. 103 del  2017,  n.
310 del 2006, n. 345 del 1997, n. 46 del 1995 e  l'ordinanza  n.  316
del  1998).  Sotto  altro  profilo,  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 8 della legge reg.  Lazio  deriverebbe  dal  fatto  che  il
valore del fondo gravato dagli usi civici dovrebbe tener conto  anche
dell'incremento di valore prodotto  dalla  destinazione  edificatoria
sopravvenuta, come gia' affermato nella sentenza n. 83  del  1996  di
questa Corte. 
    Infine, secondo  le  parti  private,  la  materia  di  competenza
concorrente «agricoltura e foreste», di cui al  previgente  art.  117
Cost. - del quale costituiva attuazione l'art. 66 del d.P.R.  n.  616
del 1977 - non potrebbe ricomprendere la disciplina della titolarita'
e dell'esercizio di diritti dominicali sulle  terre,  siano  esse  di
pertinenza pubblica, collettiva o privata. 
    Ne deriverebbe l'ascrivibilita' della disposizione impugnata alla
materia «ordinamento civile» di competenza esclusiva  dello  Stato  e
l'illegittima invasione di detto  ambito  materiale  da  parte  della
Regione. 
    2.- Questa Corte non ignora che, successivamente all'ordinanza di
rimessione, e' intervenuta la legge 20 novembre 2017, n.  168  (Norme
in materia di  domini  collettivi),  la  quale  -  senza  abrogare  o
modificare le norme che qui rilevano - ha introdotto  alcune  novita'
in materia di usi civici e domini collettivi. 
    In   particolare,   detta   legge   ha   ribadito,   ancor   piu'
enfatizzandoli, i capisaldi della tutela dei beni civici fondati  sui
principi di indisponibilita', imprescrittibilita' e inusucapibilita'.
Stabilisce infatti l'art. 3, comma 3, che: «[i]l regime giuridico dei
beni    [collettivi]    resta    quello    della     inalienabilita',
dell'indivisibilita',   dell'inusucapibilita'   e   della    perpetua
destinazione agro-silvo-pastorale»; inoltre  il  successivo  comma  6
ribadisce che il vincolo paesaggistico  gravante  ex  lege  sui  beni
civici, ai sensi dell'art. 142, comma 1, lettera h), del d.lgs. n. 42
del 2004, «garantisce l'interesse della collettivita'  generale  alla
conservazione degli usi  civici  per  contribuire  alla  salvaguardia
dell'ambiente e del paesaggio». 
    Ne discende che, per quanto riguarda la fattispecie in esame, non
e' stato modificato il procedimento di sclassificazione  e  mutamento
di  destinazione  contemplato  dalle  richiamate  disposizioni  dello
scorso secolo. 
    Pertanto non occorre restituire gli atti al giudice a quo per  un
nuovo esame della questione alla luce della  normativa  sopravvenuta,
che non potrebbe comunque incidere  sulla  preesistenza  dei  diritti
condominiali  rivendicati  dai  membri  dell'Universita'  agraria  di
Valmontone. 
    3.- Il giudizio a quo trova il suo fondamento nell'art. 29  della
legge n. 1766 del 1927,  il  quale  -  per  quanto  qui  interessa  -
stabilisce  che  «[i]  commissari  procederanno,  su  istanza   degli
interessati od anche  di  ufficio,  all'accertamento  [...]  ed  alla
rivendica [...]  delle  terre.  I  commissari  decideranno  tutte  le
controversie circa la  esistenza,  la  natura  e  la  estensione  dei
diritti suddetti, comprese  quelle  nelle  quali  sia  contestata  la
qualita' demaniale del suolo o l'appartenenza  a  titolo  particolare
dei beni delle associazioni, nonche' tutte le  questioni  a  cui  dia
luogo lo svolgimento delle operazioni loro affidate». 
    Tale norma e' stata sin dall'origine intesa come  attributiva  di
un potere di impulso d'ufficio per  l'esercizio  della  giurisdizione
che, prima  del  trasferimento  delle  funzioni  amministrative,  era
incidentale, perche' sorgeva in  occasione  dello  svolgimento  delle
funzioni amministrative e a esse era direttamente collegato. 
    La disposizione, concepita quando il Commissario assommava in se'
sia poteri amministrativi che giurisdizionali, e'  stata  piu'  volte
oggetto di questioni di legittimita'  costituzionale  a  seguito  del
trasferimento  delle  funzioni   amministrative   commissariali.   In
particolare, si pose il problema,  in  relazione  ai  principi  della
domanda e della terzieta' del giudice, della  permanenza  o  meno  di
tale potere d'impulso d'ufficio conferito al Commissario dalla citata
norma, proprio in quanto devolveva nelle mani di uno  stesso  giudice
sia l'impulso processuale che le funzioni giudicanti. 
    Un breve  excursus  su  tali  profili  induce  a  richiamare,  in
particolare, le sentenze n. 345 del 1997, n. 46 del 1995 e n. 133 del
1993. Questa Corte ha evidenziato che la giurisdizione  ufficiosa  in
via principale riceve nuova autonoma  giustificazione  dall'interesse
della collettivita' nazionale alla conservazione  dell'ambiente,  per
la cui tutela le zone  gravate  da  usi  civici  sono  sottoposte  al
vincolo paesaggistico (sentenza n. 133 del 1993). Tale  argomento  e'
stato, in seguito, ripreso e posto alla base  della  declaratoria  di
illegittimita' costituzionale del menzionato art. 29, secondo  comma,
della legge n. 1766 del 1927 «nella parte  in  cui  non  consente  la
permanenza del potere del Commissario agli usi civici  di  esercitare
d'ufficio la propria giurisdizione, pur dopo  il  trasferimento  alle
Regioni  delle  funzioni  amministrative  previste  dal  primo  comma
dell'articolo medesimo» (sentenza  n.  46  del  1995).  La  Corte  ha
infatti scelto di salvaguardare il potere di  iniziativa  processuale
dei Commissari «in  attesa  del  riordino  generale  della  materia»,
preannunciato dall'art.  5  della  legge  4  dicembre  1993,  n.  491
(Conferimento alle regioni delle funzioni amministrative  in  materia
di  agricoltura  e  pesca  e  riorganizzazione   dell'Amministrazione
centrale), sulla  base  della  consapevolezza  che  «le  funzioni  di
impulso processuale da parte  del  giudice  si  possono  giustificare
eccezionalmente, purche' transitoriamente,  in  vista  di  una  nuova
disciplina improntata  al  principio  della  terzieta'  del  giudice»
(sentenza n. 345 del 1997). Nella citata sentenza n. 345 del 1997  ha
quindi ribadito tali argomentazioni, «nell'attesa che il  legislatore
riordini l'intera materia, pure con riguardo ai profili ordinamentali
teste' menzionati». 
    Il menzionato art. 5 della  legge  n.  491  del  1993  e'  stato,
tuttavia, abrogato dall'art. 1 del decreto legislativo 4 giugno 1997,
n. 143 (Conferimento alle regioni delle  funzioni  amministrative  in
materia    di    agricoltura    e    pesca     e     riorganizzazione
dell'Amministrazione centrale), e, d'altro canto, piu'  recentemente,
con ordinanza n. 21 del  2014,  questa  Corte,  nuovamente  investita
della legittimita' costituzionale dell'art. 29 della  legge  n.  1766
del 1927, ha ritenuto che il novellato art. 111 Cost. non costituisse
un nuovo parametro costituzionale idoneo al superamento del  criterio
di "legittimita' provvisoria" della norma in  esame,  adottato  dalla
sentenza n. 46 del 1995. 
    Ferma restando la richiamata giurisprudenza di  questa  Corte  in
tema di poteri d'ufficio del Commissario, nel caso in esame  l'azione
di quest'ultimo  sembra  riconducibile  all'ipotesi  di  impulso  «su
istanza degli interessati» di cui all'art. 29 della legge n. 1766 del
1927. Tale disposizione, prevedendo che «[i] commissari procederanno,
su istanza degli interessati od  anche  d'ufficio  [...]»,  contempla
sostanzialmente due  fattispecie:  la  seconda  riconducibile  a  una
giurisdizione   di   tipo   obiettivo,   la   prima   fondata   sulla
rivendicazione della tutela condominiale da parte dei singoli utenti. 
    Nel  giudizio  a  quo  gli  istanti  rivestono  la  qualifica  di
amministratori dell'Universita' agraria di Valmontone  e,  in  quanto
tali, sono anche "utenti-condomini" della  proprieta'  collettiva  di
cui reclamano, anche nell'atto di costituzione nel presente giudizio,
la conservazione del regime giuridico e i  conseguenti  provvedimenti
petitori  e  possessori   a   beneficio   della   collettivita'   cui
appartengono. 
    Si tratta di una forma  di  tutela  riservata  agli  utenti,  uti
singuli et cives, che  agiscono  con  un'azione  individuale,  e  non
popolare, poiche' essi sono  titolari  di  un  proprio  diritto,  non
esclusivo ma condiviso con gli altri utenti. 
    La descritta  situazione  di  diritto  sostanziale  comporta  che
l'eventuale  esito  positivo  dell'azione  vada  a  beneficio   della
generalita' dei condomini. 
    Cio' e' tanto piu' importante, ai fini della tutela, nei casi  in
cui - come quello in esame  -  l'ente  gestore,  cioe'  l'Universita'
agraria, sostiene interessi antagonisti a quelli degli utenti, avendo
deliberato la cessione del bene. 
    4.- La questione sollevata in riferimento all'art.  117,  secondo
comma, lettera l), Cost. e' fondata. 
    Questa Corte ha piu' volte affermato che l'ordinamento civile  si
pone quale limite alla  legislazione  regionale,  in  quanto  fondato
sull'esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di
garantire nel territorio  nazionale  l'uniformita'  della  disciplina
dettata per i  rapporti  interprivati.  La  materia  dell'ordinamento
civile,  quindi,  identifica  un'area   riservata   alla   competenza
esclusiva  della  legislazione  statale  e   comprende   i   rapporti
tradizionalmente oggetto  di  disciplina  civilistica  (ex  plurimis,
sentenze n. 123 del 2010, n. 295 del 2009 e n. 352 del 2001). 
    Se e' innegabile che l'individuazione  della  natura  pubblica  o
privata  dei   beni   appartiene   all'«ordinamento   civile»,   deve
concludersi che la disposizione censurata, nel disporre la  descritta
alienabilita', introduce  una  limitazione  ai  diritti  condominiali
degli  utenti  non  prevista  dalla  normativa  statale  in  materia,
assegnando alle situazioni  soggettive  di  coloro  che  hanno  avuto
rapporti  patrimoniali   con   l'universita'   agraria   un   regime,
sostanziale e processuale,  peculiare  rispetto  a  quello  specifico
previsto  dalle   norme   civilistiche   e   processuali   altrimenti
applicabile (sentenza n. 25 del 2007). La norma  regionale  censurata
opera, dunque, nell'ambito della materia dell'«ordinamento civile» di
cui all'art. 117, secondo  comma,  lettera  l),  Cost.  e  ne  va  di
conseguenza dichiarata l'illegittimita' costituzionale  (sentenza  n.
123 del 2010). 
    E d'altronde, nell'intero arco temporale di vigenza del Titolo V,
Parte II, della Costituzione - sia nella  versione  antecedente  alla
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3  (Modifiche  al  titolo  V
della parte seconda della Costituzione), sia in quella  successiva  -
e, quindi, neppure a seguito dei d.P.R. n. 11 del 1972 e n.  616  del
1977 precedentemente  richiamati,  il  regime  civilistico  dei  beni
civici non e' mai passato nella sfera di  competenza  delle  Regioni.
Infatti, la materia «agricoltura e foreste» di cui al previgente art.
117 Cost., che giustificava  il  trasferimento  delle  funzioni  alle
Regioni e l'inserimento degli usi civici nei  relativi  statuti,  mai
avrebbe  potuto  comprendere  la  disciplina  della   titolarita'   e
dell'esercizio di diritti dominicali sulle terre civiche. 
    I  diritti  esercitati  sui  beni  di  uso  civico  hanno  natura
dominicale,  come  costantemente  riconosciuto  dal   giudice   della
nomofilachia, secondo il quale, nei giudizi relativi all'accertamento
e all'esistenza di  beni  del  demanio  civico,  qualunque  cittadino
appartenente a quella  determinata  collettivita'  e'  legittimato  a
svolgere intervento, «in quanto la sentenza emananda fa  stato  anche
nei suoi confronti quale partecipe della comunita' titolare degli usi
o delle terre demaniali di cui si controverte» (da ultimo,  Corte  di
cassazione, sezione seconda  civile,  sentenza  29  luglio  2016,  n.
15938). 
    E' esatto pertanto  l'assunto  del  giudice  rimettente  e  degli
utenti intervenuti nel  presente  giudizio,  secondo  cui  il  regime
dominicale degli usi civici attiene alla materia «ordinamento civile»
di competenza esclusiva dello Stato. 
    L'art. 66 del d.P.R. n. 616 del  1977,  che  ha  trasferito  alle
Regioni soltanto le funzioni amministrative in materia di usi civici,
non ha mai consentito alla Regione - e non consente oggi, nel  mutato
contesto del  Titolo  V  della  Parte  II  della  Costituzione  -  di
invadere,  con  norma  legislativa,  la   disciplina   dei   diritti,
estinguendoli, modificandoli o alienandoli. 
    Un bene gravato da uso civico non puo' essere,  infatti,  oggetto
di alienazione al di fuori delle  ipotesi  tassative  previste  dalla
legge n. 1766 del 1927 e dal r.d. n. 332 del 1928 per il  particolare
regime della sua  titolarita'  e  della  sua  circolazione,  «che  lo
assimila ad un bene appartenente al demanio, nemmeno potendo per esso
configurarsi   una   cosiddetta    sdemanializzazione    di    fatto.
L'incommerciabilita' derivante da tale regime comporta che  [...]  la
preminenza di quel  pubblico  interesse,  che  ha  impresso  al  bene
immobile il  vincolo  dell'uso  civico  stesso,  ne  vieti  qualunque
circolazione» (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 28
settembre 2011, n. 19792). 
    Corollario di quanto detto  e'  che  il  contratto  derivante  da
questa  procedura  contra  legem  «con  il   quale   il   comune   [o
l'Associazione agraria] alieni un terreno incluso nel Demanio di  uso
civico,  e'  affetto  da  nullita',  per   impossibilita'   giuridica
dell'oggetto, [quando non siano state rispettate] le previsioni della
legge 16 giugno 1927, n. 1766 (e del relativo  regolamento  approvato
con R.D. 26 febbraio 1928, n. 332)»  (Corte  di  cassazione,  sezione
seconda civile, sentenza 22 novembre 1990, n. 11265). 
    4.1.-  Non  puo'  essere  condivisa  invece  l'affermazione   del
rimettente circa la necessita' della previa assegnazione a  categoria
dei beni civici di cui agli artt. 11 e 12 della  legge  n.  1766  del
1927. 
    E' stato gia' in proposito precisato che, «[m]entre la  legge  n.
1766 del 1927 differenziava la destinazione delle terre d'uso  civico
prevedendo che le terre di categoria a fossero  adibite  a  boschi  e
pascoli (artt. 12, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927) e che
quelle ascritte dall'art. 11 della medesima legge  alla  categoria  b
("terreni convenientemente  utilizzabili  per  la  coltura  agraria")
fossero oggetto di ripartizione e cessione in enfiteusi (artt.  13  e
seguenti della legge n. 1766 del 1927) a membri della  comunita'  per
l'esercizio dell'attivita' agricola, i profondi mutamenti economici e
sociali  intervenuti  nel   secondo   dopoguerra   hanno   modificato
l'orientamento  del  legislatore  nel  senso  di  una   conservazione
unitaria dei patrimoni nel loro complesso. In sostanza,  sono  venuti
in evidenza diversi profili di  interesse  generale,  in  particolare
quelli paesaggistici  ed  ambientali  che  hanno  coinvolto  l'intero
patrimonio  d'uso  civico.  Questa   evoluzione   normativa   si   e'
manifestata prima con l'art. 1 del d.l. n. 312 del 1985, il quale  ha
sottoposto a vincolo paesaggistico, tra l'altro, "le  aree  assegnate
alle universita' agrarie e le zone gravate da usi civici"  (art.  82,
quinto comma, lettera h, del d.lgs. n. 616  del  1977)  e,  poi,  con
l'art. 142, comma 1, lettera h), del d.lgs. n. 42  del  2004  che  ha
inserito detti beni nel codice dei beni culturali  e  del  paesaggio»
(sentenza n. 103 del 2017). 
    Da cio' si evince che nel  vigente  quadro  normativo  la  previa
assegnazione a categoria dei beni civici non e' piu'  necessaria,  in
quanto il vincolo paesaggistico-ambientale e' gia' perfetto e  svolge
pienamente i suoi effetti a prescindere da tale operazione, la  quale
- a sua volta - non e' piu' funzionale agli scopi colturali, come  un
tempo  configurati,  e  neppure   coerente   col   medesimo   vincolo
paesistico-ambientale. 
    Infatti,  l'assegnazione  a   categoria   era   funzionale   alla
quotizzazione dei terreni coltivabili, il cui fisiologico  esito  era
l'affrancazione  (previo  accertamento  delle  migliorie  colturali),
cioe' la trasformazione del demanio in  allodio,  oggi  incompatibile
con la conservazione ambientale. 
    E' stato in proposito affermato che «[l]a linea  di  congiunzione
tra le norme risalenti e quelle piu' recenti, che hanno  incluso  gli
usi civici nella materia paesaggistica ed ambientale, va rintracciata
proprio nella pianificazione: ai piani economici di  sviluppo  per  i
patrimoni silvo-pastorali di cui all'art. 12 della legge n. 1766  del
1927  vengono  oggi  ad  aggiungersi  ed  a   sovrapporsi   i   piani
paesaggistici di cui all'art. 143  del  d.lgs.  n  42  del  2004.  La
pianificazione prevista da questi ultimi - a differenza del passato -
riguarda l'intero patrimonio dei  beni  civici  e  non  piu'  solo  i
terreni identificati dall'art. 11 della legge n. 1766 del 1927 con la
categoria a ("terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come
pascolo permanente")» (sentenza n. 103 del 2017). 
    5.- La relazione tra il peculiare  regime  civilistico  dei  beni
civici e l'effetto sanante della norma regionale denunciata determina
altresi' il contrasto di quest'ultima con l'art. 3 Cost. 
    E' evidente nel caso in esame l'irragionevolezza  e  l'incoerenza
di un meccanismo normativo che fa discendere da  un  illecito,  quale
l'intervenuta edificazione su  un  suolo  demaniale,  il  diritto  ad
acquistare detto suolo e per di piu' a un prezzo di  favore,  se  non
addirittura simbolico. 
    Deve,  al  riguardo,  essere  condiviso  l'assunto  del   giudice
rimettente in ordine all'illegittimita'  della  iniusta  locupletatio
che il legislatore regionale dispone a favore dell'occupatore. 
    Questa Corte  ebbe  ad  affermare  a  proposito  dell'occupazione
acquisitiva - che pure fu dichiarata  costituzionalmente  illegittima
(sentenza n. 349 del 2007) -  che  tale  patente  capovolgimento  del
principio enunciato agli artt. 934 e seguenti cod. civ. aveva trovato
giustificazione, prima della richiamata  declaratoria,  nell'esigenza
di ritenere prevalenti le  ragioni  dell'amministrazione  pubblica  a
conservare lo stato dei luoghi ove si erano determinate irreversibili
trasformazioni per la realizzazione di opere pubbliche o di  pubblica
utilita' dell'area illegittimamente occupata. 
    La logica  di  tale  orientamento  «era  focalizzata  soprattutto
sull'aspetto civilistico, relativo al mutamento  di  titolarita'  del
bene per ragioni di  certezza  delle  situazioni  giuridiche,  mentre
rimaneva pacifico il principio della responsabilita' aquiliana e  per
cio' stesso la negazione di  un'alternativa  al  ristoro  del  danno,
corrispondente al valore reale del bene e con le somme accessorie  di
rito» (sentenza n. 349 del 2007). 
    Ancor piu' la disposizione regionale risulta, sotto tali profili,
illegittima, poiche':  a)  non  vi  e'  alcun  interesse  pubblico  a
giustificare tale meccanismo ablativo, dal  momento  che  al  diritto
condominiale, cosi' ingiustamente inciso, l'interesse  pubblico  alla
conservazione  ambientale  si  correla  in  senso  sinergico  e   non
antagonista; b) a differenza della fattispecie inerente alla sentenza
n. 349 del  2007,  l'indennizzo  dell'ablazione  non  corrisponde  al
valore del bene "con le somme accessorie di rito", bensi' a un prezzo
di  particolare  vantaggio  per  l'occupatore,  se  non   addirittura
simbolico; c) non sussiste  efficacia  costitutiva  della  situazione
giuridica,  poiche'   il   successivo   contratto,   per   i   motivi
precedentemente specificati, non sarebbe idoneo  a  intestare  l'area
ceduta in capo a colui che la occupa. 
    Per converso, non si puo' fare a meno di concludere che il giusto
equilibrio tra  interesse  pubblico  e  interesse  privato  non  puo'
ritenersi soddisfatto da  una  disciplina  che  permette  al  privato
occupatore sine titulo di acquisire  un  bene  in  difformita'  dallo
schema legale e di conservare il manufatto realizzato  corrispondendo
per la sola area di sedime un prezzo ampiamente inferiore  al  valore
del bene. 
    Peraltro, l'art. 8 della legge regionale in esame  contrasta  con
l'art. 3 Cost. anche per quanto concerne: a)  le  procedure  di  asta
pubblica «se [i terreni sono] divenuti edificabili»; b) la «legittima
realizzazione» o il previo condono di cui al comma 2  del  menzionato
art. 8; c) le «successioni nel possesso» del bene d'uso civico; d) la
prelazione per i «detentori di aree civiche» di cui al comma 3. 
    Si tratta di poteri intrinsecamente contraddittori, perche' tutti
in  contrasto  con  il   presupposto   indefettibile   della   previa
"sclassificazione". Tale presupposto - come da costante  orientamento
di questa Corte e della Corte di cassazione - puo'  concretarsi  solo
nelle fattispecie legali tipiche, nel cui  ambito  procedimentale  e'
oggi ricompreso anche il concerto  tra  la  Regione  e  il  Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del  mare  (ex  multis,
sentenza n. 210 del 2014). 
    Cio' comporta, con riguardo alle evocate fattispecie,  che  senza
la previa sclassificazione nelle  forme  di  legge:  a)  non  possono
essere alienati beni civici attraverso aste pubbliche; b) non possono
essere configurati «legittima realizzazione» o condoni; c)  non  sono
rilevanti  «successioni  nel  possesso»;  d)  non  sono  ipotizzabili
prelazioni per i «detentori di aree civiche». 
    6.- Anche la questione sollevata in riferimento agli  artt.  9  e
117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione all'art. 142  del
d.lgs. n. 42 del 2004, e' fondata. 
    Questa Corte ha avuto modo piu'  volte  di  sottolineare  come  i
profondi mutamenti intervenuti nel secondo dopoguerra abbiano  inciso
sul profilo economico dell'esercizio degli usi  civici,  mettendo  in
ombra tale aspetto, ma a un tempo evidenziandone la rilevanza  quanto
ad altri profili e in particolare a quello ambientale. 
    Tale rilevanza strategica  «ha  trovato  il  suo  riconoscimento,
prima, con il decreto-legge 27  giugno  1985,  n.  312  (Disposizioni
urgenti  per  la  tutela  delle   zone   di   particolare   interesse
ambientale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, della  legge
8 agosto 1985, n. 431, che novellando l'art. 82 del d.P.R. 24  luglio
1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art.1 della legge 22
luglio 1975, n. 382) ha sottoposto a vincolo paesaggistico  "le  aree
assegnate alle universita' agrarie e le zone gravate da usi  civici",
e poi con l'art. 142 del d.lgs. n. 42 del 2004» (sentenza n. 210  del
2014). 
    Si e'  andato  in  tal  modo  delineando  un  forte  collegamento
funzionale con  la  tutela  dell'ambiente  e  con  la  pianificazione
paesistica e territoriale, cosicche' allo stato coesistono due ambiti
di competenza, quella esclusiva dello Stato in materia  ambientale  e
paesaggistica e  quella  regionale  in  tema  di  pianificazione  del
territorio. 
    Questa Corte ha affermato che  «"la  conservazione  ambientale  e
paesaggistica" spetta, in base all'art. 117, secondo  comma,  lettera
s), Cost., alla cura esclusiva  dello  Stato  [e]  cio'  in  aderenza
all'art. 9 Cost., che sancisce quale  principio  fondamentale  quello
della tutela del paesaggio, inteso come  morfologia  del  territorio,
cioe' l'ambiente nel suo aspetto visivo. In sostanza,  e'  lo  stesso
aspetto del territorio, per i contenuti ambientali  e  culturali  che
contiene, che e' di per se' un valore costituzionale (sentenza n. 367
del 2007). [...] Quanto agli usi civici in particolare, la competenza
statale nella materia trova attualmente la sua espressione nel citato
art. 142 del codice dei  beni  culturali  e  del  paesaggio,  le  cui
disposizioni fondamentali questa Corte ha qualificato come  norme  di
grande riforma economico-sociale (sentenze n. 207 e n. 66  del  2012,
n. 226 e n. 164 del 2009 e n. 51 del 2006). [...] Vi e', dunque,  una
connessione  inestricabile   dei   profili   economici,   sociali   e
ambientali, che "configurano uno dei casi in cui i principi combinati
dello sviluppo della persona, della  tutela  del  paesaggio  e  della
funzione sociale della proprieta' trovano specifica attuazione, dando
origine ad una concezione di  bene  pubblico  [...]  quale  strumento
finalizzato alla realizzazione di valori  costituzionali"  (Corte  di
cassazione, sezioni unite  civili,  sentenza  n.  3811  del  2011,  a
proposito della fattispecie analoga delle "valli da  pesca").  E'  la
logica che ha ispirato questa  Corte  quando  ha  affermato  che  "la
sovrapposizione fra tutela del paesaggio e  tutela  dell'ambiente  si
riflette  in  uno  specifico  interesse  unitario   della   comunita'
nazionale alla conservazione degli usi  civici,  in  quanto  e  nella
misura in cui concorrono a determinare la forma del territorio su cui
si esercitano, intesa quale prodotto di 'una integrazione tra uomo  e
ambiente naturale'" (sentenza n. 46 del 1995)» (sentenza n.  210  del
2014). 
    6.1.- Vi sono inoltre aspetti  di  indefettibile  sovrapposizione
funzionale e strutturale tra la tutela paesistico-ambientale e quella
dominicale dei beni di uso civico. 
    Il fatto che le peculiari tipologie  d'utilizzo  dei  beni  d'uso
civico e il relativo regime giuridico siano  stati  riconosciuti  dal
legislatore in materia ambientale come meritevoli di  tutela  per  la
realizzazione di interessi generali, ulteriori e diversi  rispetto  a
quelli che avevano favorito la conservazione incontaminata di  questi
patrimoni collettivi, determina un meccanismo di garanzia integrato e
reciproco per cui l'utilizzazione non intensiva del patrimonio civico
e  il  regime   di   imprescrittibilita'   e   inalienabilita'   sono
contemporaneamente causa ed effetto della peculiare  fattispecie  che
il legislatore ambientale intende preservare,  precludendo  soluzioni
che sottraggano tale patrimonio alla sua naturale vocazione. 
    Ne consegue che  «[i]l  riconoscimento  normativo  della  valenza
ambientale dei beni civici ha determinato, da un lato, l'introduzione
di vincoli diversi e piu' penetranti e, dall'altro, la  sopravvivenza
del  principio  tradizionale,  secondo  cui  eventuali  mutamenti  di
destinazione - salvo  i  casi  eccezionali  di  legittimazione  delle
occupazioni e di alienazione dei beni silvo-pastorali - devono essere
compatibili con  l'interesse  generale  della  comunita'  che  ne  e'
titolare» (sentenza n. 103 del 2017). 
    I descritti vincoli valgono anche per i condomini  e  per  l'ente
esponenziale della collettivita' cui questi ultimi  appartengono.  Si
realizza  cosi'  una  disciplina  complessa  per  cui  il  condominio
costituisce  elemento  necessario  per  la  conservazione  dei   beni
ambientali ma i poteri dei condomini e dell'ente che li rappresenta -
come l'Universita' agraria nel caso in esame - non possono trasmodare
oltre il peculiare regime civilistico di tali beni ed  entrare  cosi'
in contrasto con la tutela ambientale. 
    In definitiva, con riguardo alla fattispecie  in  esame,  ne'  il
Comune (rilasciando il  permesso  in  sanatoria),  ne'  l'Universita'
agraria (alienando l'immobile) possono disporre  in  difformita'  dei
principi del diritto condominiale anche perche', come detto, esso  e'
consustanziale alla tutela ambientale stessa. 
    La  richiamata  evoluzione  del  sistema  di  garanzie  poste   a
protezione  di  questi  beni  collettivi  consente   di   focalizzare
correttamente  l'attenzione  sulla  disciplina  delle  trasformazioni
d'uso  dei  beni  civici,  con  particolare  riguardo  agli  istituti
traslativi  attraverso  i   quali   tali   trasformazioni   divengono
possibili. 
    Da un lato,  l'alienazione  e  la  legittimazione  «servono  alla
conversione del demanio in allodio, comportante la sottoposizione del
bene  trasformato  alla  disciplina  civilistica   della   proprieta'
privata; dall'altro, il mutamento di  destinazione  ha  lo  scopo  di
mantenere,  pur  nel  cambiamento  d'uso,  un  impiego   utile   alla
collettivita' che ne rimane intestataria. Gia' prima  dell'emanazione
del Codice dei beni culturali e  del  paesaggio  questa  Corte  aveva
affermato che nell'ordinamento costituzionale vigente prevale  -  nel
caso dei beni civici - l'interesse  "di  conservazione  dell'ambiente
naturale in vista di una [loro] utilizzazione, come  beni  ecologici,
tutelato dall'articolo 9, secondo comma, Cost." (sentenza n. 391  del
1989)» (sentenza n. 103 del 2017). 
    Se il mutamento  di  destinazione  e'  compatibile  -  sotto  gli
enunciati profili - col regime di indisponibilita' dei  beni  civici,
altrettanto non puo' dirsi degli istituti  dell'alienazione  e  della
legittimazione, i quali - rispettivamente per i beni di categoria a e
di categoria b (art. 11 della legge n. 1766 del 1927) - prevedono  la
trasformazione del demanio in allodio con  conseguente  trasferimento
del bene in proprieta' all'acquirente o al legittimatario, attraverso
la previa sclassificazione  dello  stesso.  Detti  procedimenti  sono
stati interpretati con rigorosi criteri restrittivi dal giudice della
nomofilachia, che ne ha sovente equiparato i caratteri e gli  effetti
alla sdemanializzazione vera  e  propria  (in  tal  senso,  Corte  di
cassazione, sezione seconda civile, sentenza  12  dicembre  1953,  n.
3690). 
    Peraltro, come ricorda  il  giudice  rimettente,  il  legislatore
prevede che  tali  eccezionali  e  tassative  ipotesi  sono  comunque
precluse quando comportano  gravi  pregiudizi  alla  continuita'  del
demanio. 
    Al contrario, il mutamento di destinazione non contrasta  con  il
regime di indisponibilita' del bene  civico:  infatti  i  decreti  di
autorizzazione al mutamento prevedono,  salvo  casi  eccezionali,  la
clausola risolutiva ricavata dall'art. 41 del r.d. n. 332  del  1928,
secondo cui,  ove  la  nuova  destinazione  venga  a  cessare,  sara'
automaticamente  ripristinata  la  precedente  oppure  conferita  una
nuova, anch'essa compatibile con la vocazione dei beni, attraverso la
valutazione delle autorita' competenti. Queste ultime  -  per  quanto
precedentemente argomentato -  devono  essere  oggi  individuate  nel
Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e  del  mare  e
nella Regione (in tal senso, sentenza n. 210 del 2014). 
    7.- Rimane assorbita la questione di legittimita'  costituzionale
sollevata in riferimento al principio di leale collaborazione. 
    8.- Dunque, in ragione  della  suddetta  violazione  dei  plurimi
parametri costituzionali e del  rapporto  di  stretta  concatenazione
oggettiva e funzionale dei diversi commi che lo compongono, l'art.  8
della  legge  reg.  Lazio  n.  6  del  2005  deve  essere  dichiarato
costituzionalmente illegittimo nella sua interezza.