LA CORTE DI CASSAZIONE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza   sul   ricorso   proposto
 dall'Istituto  mobiliare italiano - I.M.I., ente di diritto pubblico,
 con sede in Roma, viale dell'Arte n. 23, in persona del Presidente  e
 legale  rappresentante  pro-tempore,  rappresentato  e difeso, giusta
 indicazione nell'epigrafe del ricorso, dagli avvocati Natalino  Irti,
 Pietro  Guerra,  Antonio  Zito e Carmine Punzi, nonche' elettivamente
 domiciliato presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via S. Caterina
 da  Siena n. 46, in virtu' di procura speciale "per atti notaio Mario
 Lupi di Roma, in data 6 dicembre 1990, rep.  n.  24368";  ricorrente,
 contro  la  S.r.l.  Find,  in  persona del suo amministratore unico e
 legale rappresentante pro-tempore, con sede in Roma, rappresentata  e
 difesa  dagli  avvocati Mario Are, Michele Giorgianni e Mario Ungaro,
 elettivamente domiciliata presso il primo di essi in Roma,  via  XXIV
 Maggio   n.   46,   giusta   delega   a  margine  del  controricorso,
 controricorrente, e eredi dell'ing.  Nino  Rovelli,  deceduto  il  30
 dicembre  1990,  collettivamente  ed  indistintamente  destinatari di
 notifica di ricorso ed inoltre singolarmente individuati come  segue:
 Primarosa  Battistella,  residente in Lussemburgo, boulevard Royal n.
 13, nella qualita' di erede del defunto cav.  del  lavoro  ing.  Nino
 Rovelli,  rappresentata  e  difesa  dagli avvocati Mario Are, Michele
 Giorgianni e Mario Ungaro, elettivamente domiciliata presso il  primo
 in  Roma,  via  XXIV  Maggio n. 46, giusta procura speciale in data 7
 febbraio 1991 per notar Lainati di Milano, repertorio n.  127970,  in
 atti,  controricorrenti,  e ing. Felice Rovelli, residente a New York
 (NY)  U.S.A.,  quale  figlio   del   defunto   ing.   Nino   Rovelli,
 rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Are, Michele Giorgianni e
 Mario  Ungaro  presso  il primo dei quali in Roma, via XXIV Maggio n.
 46,  e'  elettivamente  domiciliato,  giusta  delega  a  margine  del
 controricorso,  controricorrente,  e  1) Primarosa Battistella, quale
 madre ed  esercente  la  patria  potesta'  sul  minore  figlio  Oscar
 Rovelli,  nonche' Oscar Rovelli in proprio; 2) Angela Ursula Rovelli;
 3) Anna Rita Rovelli, intimati, avverso la sentenza  della  Corte  di
 appello di Roma n. 4809/90 del 26 novembre 1990;
    Udita la relazione svolta dal cons. Gian Carlo Bibolini;
    Sentiti  gli  avvocati  Irti,  Guerra e Punzi i quali per l'I.M.I.
 hanno chiesto  l'accoglimento  dei  ricorso;  sentiti,  inoltre,  gli
 avvocati Giorgianni ed Are i quali hanno chiesto pregiudizialmente la
 dichiarazione  di improcedibilita' del ricorso, e comunque il rigetto
 del ricorso stesso;
    Udito il pubblico ministero dott. Mario Di Renzo che  ha  concluso
 chiedendo   l'accoglimento   del   ricorso  per  quanto  di  ragione,
 rimettendosi alla Corte in ordine all'eccezione di improcedibilita';
                       SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
    Con atto di citazione notificato il di' 11 marzo 1982 l'ing.  Nino
 Rovelli  conveniva  davanti al tribunale di Roma l'Istituto mobiliare
 italiano (I.M.I.) e, precisato:
      che il 17 luglio 1979 era stata stipulata una convenzione tra le
 societa' per azioni Find e Plenit  nonche'  l'ing.  Nino  Rovelli  (a
 titolo  personale  a seguito di convenzione ripetitiva e parzialmente
 integrativa in data 19 luglio 1979), da una parte, e dall'altra parte
 il prof. Piero Schlesinger,  nella  veste  dichiarata  di  presidente
 designato  di  un costituendo consorzio bancario ai sensi della legge
 n. 787/1978, nonche' l'Istituto mobiliare italiano in persona del suo
 presidente  ing.  Giorgio  Cappon,  entrambi  agenti  per   conto   e
 nell'interesse  del  costituendo consorzio, con le modalita' previste
 dalla citata legge n. 787/1978, e per il conseguimento dello scopo di
 risanamento delle societa' del gruppo  SIR-Rumianca,  scopo  coerente
 col fine indicato dalla legge stessa;
      che  l'attore  e  le  societa' Find e Plenit avevano partecipato
 all'accordo al fine dichiarato di agevolare l'attuazione di un  piano
 di  risanamento  delle  societa'  del gruppo SIR-Rumianca, piano gia'
 predisposto dall'I.M.I. ed approvato dal C.I.P.I.;
      che esso attore  e  le  societa'  Find  e  Plenit  avevano  dato
 immediata  e  completa  attuazione  agli  impegni  assunti  mentre il
 consorzio, una volta costituito, non aveva ratificato la  convenzione
 e  si era rifiutato di sollevare l'ing. Nino Rovelli dalle iniziative
 giudiziarie di terzi (a fronte di fidejussioni che egli aveva dato  a
 favore   delle   banche   creditrici   delle   societa'   del  gruppo
 S.I.R.-Rumianca), ed  inoltre  non  aveva  dato  corso  all'ulteriore
 impegno,  assunto  per  il consorzio in allora non ancora costituito,
 dall'I.M.I. e dal prof. Schlesinger, di accertare  con  l'ausilio  di
 organizzazioni  di  analisi contabili la consistenza patrimoniale del
 gruppo S.I.R.-Rumianca;
    Tanto premesso, l'attore formulava le seguenti domande:
      I) dichiarare la responsabilita' dell'I.M.I. ai sensi  dell'art.
 2331  del Codice civile per le obbligazioni assunte nelle convenzioni
 17 e 19 luglio 1979, come sopra indicate;
      II) dichiarare l'I.M.I. tenuto a sollevarlo  da  ogni  richiesta
 gia'  proposta,  o  proponibile  in  seguito,  da  un qualsiasi terzo
 garantito in conseguenza delle fidejussioni che l'ing. Rovelli  aveva
 rilasciato  per le esposizioni verso banche delle societa' del gruppo
 S.I.R.-Rumianca;
      III)  condannare  l'I.M.I.,  siccome  inadempiente  alle  citate
 convenzioni, al risarcimento dei danni per cio' provocati;
      IV)  riconoscente  il diritto dell'ing. Rovelli all'accertamento
 dell'eventuale valore positivo delle azioni cedute, in  coerenza  con
 l'art.  4 della convenzione, e la condanna conseguente dell'I.M.I. al
 pagamento del valore accertato in  base  all'art.  5  della  medesima
 convenzione,  attesa l'impossibilita' di utilizzo delle azioni stesse
 per la destinazione prevista nella convenzione o, in  via  subordine,
 la   condanna   al   pagamento  della  medesima  somma  a  titolo  di
 risarcimento, con interessi e rivalutazione monetaria.
    All'atto della precisazione delle conclusioni veniva  chiesto  che
 la  liquidazione  del quantum richiesto avvenisse in corso di causa e
 non in separato giudizio (come inizialmente domandato).
    Instaurato il contraddittorio e  contestata  la  lite,  l'Istituto
 mobiliare  italiano  chiedeva il rigetto di tutte le domande proposte
 nei  suoi  confronti,  previa  eccezione  della  propria  carenza  di
 legittimazione  passiva  sostenendo  che  l'ing. Cappon aveva agito a
 titolo personale e non quale presidente  dell'I.M.I.  (tesi  respinta
 nella  sentenza  di primo e di secondo grado e non piu' riproposta in
 prosieguo).
    All'udienza del 24 gennaio 1983 interveniva  in  causa  la  S.r.l.
 (gia'   S.p.a.)   Find,  assumendo  posizione  adesiva  alle  domande
 dell'ing. Nino Rovelli e chiedendo l'estensione  nei  suoi  confronti
 degli effetti della pronuncia.
    Il tribunale di Roma emetteva in data 31 ottobre 1986 sentenza non
 definitiva  limitatamente  allo  an  debeatur,  nella quale, ritenuto
 ammissibile l'intervento della S.r.l.  Find  (qualificato  intervento
 adesivo   autonomo),   e   rigettata   l'eccezione   di   carenza  di
 legittimazione da parte dell'I.M.I., condannava  l'I.M.I.  stesso  al
 risarcimento  dei  danni subiti dall'ing. Rovelli per l'inadempimento
 all'impegno  della  lettera  19  luglio   1979   (liberazione   dalle
 esecuzioni   per   garanzie   concesse   dal   Rovelli),  nonche'  al
 risarcimento dei danni subiti e dall'ing. Rovelli  e  dalla  societa'
 Find  per  l'inadempimento  della  clausola  n.  4  della convenzione
 (impegno  di  accertare  la  consistenza  patrimoniale   del   gruppo
 SIR-Rumianca,  secondo  modalita'  espressamente  previste), danni da
 liquidarsi  nel  prosieguo  del  giudizio,  disposto   con   separate
 ordinanze.
    Sull'appello  proposto  dall'I.M.I.  con citazione notificata il 7
 aprile 1987, e nel contraddittorio dell'ing.  Nino  Rovelli  e  della
 Find,  la  corte d'appello di Roma pronunciava con sentenza 26 aprile
 1988 con cui dava integrale conferma alla decisione di primo grado.
    Avverso detta sentenza propose  ricorso  per  Cassazione  l'I.M.I.
 deducendo  sei  mezzi  di cassazione; nella resistenza dell'ing. Nino
 Rovelli e della  Find,  la  Corte  di  cassazione,  pronunciando  con
 sentenza  n.  3228/1989 del 7 luglio 1989, dava accoglimento al primo
 motivo  di  ricorso  e  dichiarava  assorbiti  gli  altri,   cassando
 l'impugnata  decisione  e  rinviando  ad  altra  sezione  della corte
 d'appello di Roma.
    Contemperaneamente allo svolgersi della  vicenda  processuale  ora
 delineata,  dopo  la  sentenza  non  definitiva  di  primo  grado  il
 procedimento era continuato sul quantum, avendo come  presupposto  la
 linea  logica  gia'  tracciata  dalla  sentenza  non  definitiva  del
 tribunale di Roma,  cosi'  che,  con  sentenza  13  maggio  1989,  il
 tribunale   di  Roma  condannava  l'I.M.I.  al  pagamento  in  favore
 dell'ing. Nino Rovelli della somma di L. 750  miliardi  a  titolo  di
 risarcimento  dei  danni  per inadempimento delle clausole economiche
 della convenzione (somma comprensiva della rivalutazione  dal  luglio
 1980),  oltre  agli  interessi  al  tasso  legale  sull'intera  somma
 rivalutata, con decorrenza  dal  luglio  1979;  condannava,  inoltre,
 l'I.M.I. a pagare all'ing. Nino Rovelli la somma ulteriore di L. 21,1
 miliardi,  con  gli  interessi  legali  dal  9  gennaio  1985,  quale
 risarcimento del danno nella cessione dei  titoli  obbligazionari  al
 portatore  effettuato  dall'ing.  Rovelli  al  comitato di intervento
 nella S.I.R. a seguito dell'accordo transattivo stipulato nel 1985.
   Avverso detta sentenza proponeva appello l'ing. Rovelli e la  Find;
 proponeva  anche  appello  incidentale l'I.M.I. il quale sosteneva la
 nullita' della sentenza del tribunale a seguito e per  effetto  della
 cassazione  di  quella sullo an debeatur da parte di questa Corte; in
 subordine chiedeva la riforma della sentenza impugnata ed il  rigetto
 di  tutte  le  domande  proposte dall'ing. Nino Rovelli; in ogni caso
 sosteneva l'inammissibilita' dell'appello proposto dall'ing.  Rovelli
 e dalla Find.
    Le  due  cause  (il giudizio rescissorio e la procedura di appello
 contro la sentenza  del  tribunale  di  Roma  sul  quantum  debeatur,
 assegnate  alla  stessa sezione della Corte d'appello di Roma ed allo
 stesso  istruttore,  procedevano  separatamente,  ma  parallelamente,
 tanto  che all'udienza del 30 maggio 1990 venivano precisate separate
 conclusioni coeve.
    Con la sentenza n. 4809/1990  (oggetto  dell'odierna  ricorso)  in
 data  26  novembre  1990,  la  corte  d'appello di Roma riuniva i due
 procedimenti e pronunciando su di essi unica sentenza, sullo an e sul
 quantum  debeatur,  rigettava  l'appello  contro  la   sentenza   non
 definitiva  del  31  ottobre  1986;  dava  accoglimento per quanto di
 ragione all'appello principale dell'ing. Rovelli e della S.r.l.  Find
 avverso  la sentenza 13 maggio 1989; dava accoglimento, altresi', per
 quanto di ragione all'appello incidentale dell'I.M.I.
    Inoltre, in parziale riforma della sentenza impugnata,  condannava
 l'I.M.I.  al  pagamento,  a  favore  dell'ing. Rovelli e della S.r.l.
 Find, in via tra di loro solidale, della somma  di  L.  500  miliardi
 (gia'  rivalutata), con gli interessi al tasso legale dal luglio 1980
 fino all'effettivo soddisfo, nonche' al  pagamento  in  favore  dello
 stesso ing. Rovelli dell'ulteriore somma di L. 28.485.000.000 con gli
 interessi  al  tasso  legale  dal  9  gennaio 1985 fino all'effettivo
 soddisfo;  condannava  infine,  l'I.M.I.  al  pagamento  delle  spese
 processuali, confermando nel resto l'impugnata sentenza.
    Avverso  detta  sentenza proponeva ricorso per cassazione l'I.M.I.
 deducendo otto motivi, integrati  da  memoria;  si  costituivano  con
 controricorso,  integrato  da  memoria, la S.r.l. (gia' S.p.a.) Find,
 nonche' la signora Primarosa Battistella, quale erede dell'ing.  Nino
 Rovelli;  si  costituiva,  inoltre, con autonomo controricorso l'ing.
 Felice Rovelli, figlio dell'ing. Nino Rovelli.
    In ordine all'eccezione di improcedibilita' del ricorso,  proposta
 in  udienza  dalla  difesa  dei  controricorrenti,  parte  ricorrente
 depositava note di udienza, note in relazione  alle  conclusioni  del
 pubblico  ministero,  il cui senso era quella di rimettere alla corte
 l'esame degli atti, da lui non potuto compiere,  con  l'applicazione,
 all'esito, della normativa del caso.
                        MOTIVI DELLA DECISIONE
    La pregiudizialita' delle questioni di ammissibilita' del ricorso,
 rispetto  a  a  quelle di procedibilita', richiede l'esame preventivo
 dell'eccezione (sollevata dal controricorrente  ing.  Felice  Rovelli
 nonche',  nella  memoria,  dalla  controricorrente  signora Primarosa
 Battistella) secondo cui la nullita' della notificazione  in  data  3
 gennaio  1991  all'ing.  Nino  Rovelli  alcuni giorni dopo il decesso
 (avvenuto il 30  dicembre  1990),  nel  domicilio  eletto  presso  il
 difensore  per  il  giudizio  di  appello, e la nullita' dello stesso
 ricorso per errata individuzione del soggetto passivo, renderebbe  il
 ricorso stesso del tutto inammissibile.
    L'eccezione  (da delibarsi ai fini della rilevanza della questione
 di costituzionalita', di cui in appresso)  e'  infondata,  alla  luce
 dell'indirizzo  giurisprudenziale, al quale si ritiene di dovere dare
 continuita', secondo cui e' valido il ricorso per  cassazione,  e  la
 sua  notifica  presso  il  procuratore  della  parte  costituito  nel
 giudizio di merito, non spiegando rilievo la morte della  parte  dopo
 la pubblicazione della sentenza impugnata, ove non si dimostri che il
 ricorrente  fosse a conoscenze di tale evento (v. Cassazione sentenza
 6 dicembre 1984, n. 6404; sentenza 25 novembre 1985, n. 5857, s.u. 27
 aprile 1983, n. 2881).
    Nella specie, il fatto che il ricorso fosse  stato  redatto  prima
 del decesso dell'ing. Nino Rovelli (esso e' datato 21 dicembre 1990);
 che  della  morte  fosse  stata data notizia giornalistica solo il 31
 dicembre 1990; che a detta informazione giornalistica  fosse  seguita
 una  festivita'  tradizionale  e  nazionale  (il  capodanno) e che la
 notificazione fosse stata eseguita il secondo giorno successivo,  non
 fornisce   la   prova   della  conoscenza  effettiva  e  sicura,  ne'
 dell'ignoranza  colpevole,  da  parte  del  ricorrente,  del  decesso
 dell'ing.   Rovelli   prima   del   3   gennaio  1991;  elementi  che
 abbisognavano, oltre tutto, di adeguato controllo.
    Alla  ritualita'  della  notificazione  del  3  gennaio 1991 segue
 l'infondatezza dell'eccezione di  inammissibilita'  sotto  i  profili
 indicati.
    Pregiudiziale,  ancora,  all'esame delle altre questioni rito e di
 merito sollevate dalle parti, e'  la  valutazione  dell'eccezione  di
 improcedibilita'  del  ricorso proposta dall'avv. Michele Giorgianni,
 al termini del suo intervento dibattimentale sul  ricorso,  eccezione
 ripresa dall'avv. Mario Are.
    Sostiene  al fine parte controricorrente essersi verificata, nella
 specie, l'ipotesi prevista dall'art. 369 2, n.  3,  del  c.p.c.,  che
 sanzione  di  improcedibilita'  il  ricorso  per  cassazione  al  cui
 deposito non acceda, nel  termine  di  legge,  quello  dalla  procura
 speciale, se questa e' conferita con atto separato.
    Parte ricorrente ha depositato sul punto note sottoscritte dai tre
 avvocati presenti all'udienza, in cui si afferma, tra l'altro, che la
 procura  indicata  nell'epigrafe  del  ricorso  e' stata regolarmente
 rilasciata per atto notar Mario Lupi di Roma in data 6 dicembre  1990
 (data  anteriore  alla  prima  notifica  del  ricorso)  ed  e'  stata
 regolarmente depositata insieme al ricorso, alla copia della sentenza
 impugnata ed ai fascicoli dei precedenti gradi della causa.
    In data 30  gennaio  1992,  essendo  il  collegio  in  riserva  di
 decisione,  gli avvocati Mario Punzi ed Antonio Zito hanno depositato
 nella cancelleria  della  corte  una  seconda  nota  qualificata  "di
 udienza" con allegata documentazione.
    Questa  seconda nota, depositata il giorno successivo all'udienza,
 e' al di fuori di qualsiasi situazione rituale;  esse  deve,  quindi,
 essere  dichiarata  irricevibile  e  non  puo'  essere  esaminata del
 collegio;  con  separato  provvedimento  ne  e'  stata  disposta   la
 restituzione agli interessati.
    Tanto  premesso  la  corte,  che  sulle questione di rito e' anche
 giudice del fatto processuale, rileva ed accerta:
      I) nell'epigrafe del ricorso per cassazione l'istituto mobiliare
 italiano, in persona del presidente, indicava i propri rappresentanti
 e difensori (avvocati Natalino Irti,  Pietro  Guerra,  Antonio  Zito,
 Carmine  Punzi)  in virtu' di procura speciale "per atti notaio Mario
 Lupi di Roma, in data 6 dicembre 1990 rep. n. 24368";
      II) in calce al ricorso vi e' espressa  menzione  dei  documenti
 che  il  ricorrente "provvedera' nei tertmini al deposito" (originale
 notificato  del  ricorso  stesso,  copia  autentica  della   sentenza
 impugnata, istanza di trasmissione del fascicolo d'ufficio, fascicolo
 degli atti e dei documenti delle fasi di merito); nessuna menzione e'
 fatta alla produzione della procura speciale;
      III) esaminati agli atti, si constata la materiale assenza della
 procura speciale sopra indicata;
      IV) la nota di deposito del 22 gennaio 1991, relativa al ricorso
 notificato  il  3  gennaio 1991 (notifica che, essendo regolare, come
 sopra rilevato, comporta il decorso del termine dell'art. 369  1  del
 c.p.c.  e  rende  superflue, a questo effetto, le ulteriori notifiche
 integrative), porta  l'annotazione  del  deposito  dei  fascicoli  di
 precedenti gradi, di copia autentica del provvedimento impugnato e di
 istanza  ex  art. 369 del c.p.c. in duplo; non vi e' in essa menzione
 del deposito della procura ne' esiste atto che,  ai  sensi  dell'art.
 372,  u.  cpv,  del  c.p.c.,  ne  dimostri  il  deposito  nel  giorno
 successivo (il ventesimo dalla predetta notifica);
      V)  agli atti esistono i documenti dei quali nella predetta nota
 e' indicato il deposito e, in particolare, il ricorso con le relative
 notifiche, la sentenza oggetto di ricorso in copia autentica  nonche'
 i  fascicoli  di  parte  delle precedenti fasi e gradi ed i fascicoli
 d'ufficio;
      VI) in calce  alla  copertina  del  fascicolo  d'ufficio  esiste
 un'annotazione, preceduta da un asterisco che ne richiama altro posto
 a  fianco  dei  nomi degli avvocati del ricorrente, dicente "manca la
 procura ad hoc". Detta annotazione, e' identica  ad  altra  esistenza
 nel  ruolo  generale  degli  affari  civili,  al n. 755/91, nel quale
 appare ancora la dicitura, con riferimento alla situazione  difensiva
 del ricorrente: "manca la procura ad hoc";
      VII) ritiene la Corte non avere pregio il rilievo espresso nella
 nota di udienza, secondo cui nel modulo delle note di deposito non e'
 predisposta  a stampa la previsione della separata procura, quasi che
 del deposito della procura non si debba dare  prova,  volta  che  nei
 moduli  stessi vi sono righe in bianco da integrare con l'indicazione
 dei  documenti  depositati  e  non   previsti   espressamente   nella
 modulistica  a  stampa. Cio' tanto e' vero che nella nota di deposito
 del controricorso della signora Primarosa Battistella vi e'  espressa
 integrazione  manoscritta relativa al deposito della procura speciale
 della controricorrente. D'altra parte, nella stessa nota di  deposito
 del precedente ricorso per cassazione dello I.M.I. (che diede lugo al
 giudizio  deciso  con la sentenza n. 3228/89 di questa Corte), vi era
 espressa menzione manoscritta del deposito della  procedura  speciale
 notarile rilasciata per quella fase del giudizio.
    Dai rilievi sopora espletati si deduce la mancanza della prova del
 tempestivo  deposito  della  procura  notarile  indicata nel ricorso,
 prova che compete al ricorrente (v. Cassazione  23  luglio  1966,  n.
 2031).   La  nota,  che  deve  essere  sottoscritta  dall'avvocato  e
 controfirmata dal funzionario addetto, fa prova a favore della  parte
 che l'ha redatta e sottoscritta, per i documenti in essa indicati, ed
 inoltre  contro  la  parte  per  i  documenti che la stessa non abbia
 menzionato.
    D'altronde le  annotazioni  relative  al  mancato  deposito  della
 procura,  apparenti  sia sulla copertina del fascicolo d'ufficio, sia
 nel registro generale (e che non si ha ragione di non  attribuire  al
 funzionario  addetto),  denotano  che  la  mancanza e' stata rilevata
 nella cancelleria del registro generale di questa corte.
    Pertanto,  l'asserito  deposito  della   procura   non   potrebbe,
 eventualmente,  essere  che  una produzione tardiva o irrituale (allo
 stato, dunque, irrilevante), ma suscettibile di essere regolarizzata,
 anche ad inziativa della parte ai sensi dell'art. 372 del c.p.c.,  se
 la  questione  di  costituzionalita'  che si va a prospettare venisse
 dichiarata fondata.
    In base a tali rilievi non  puo'  non  ritenersi  integrata,  allo
 stato  degli atti, la situazione descritta dall'art. 369 2, n. 3, del
 c.p.c. che, indipendentemente dal momento della discussione in cui e'
 stata segnalata dai controricorrenti, avrebbe dovuto essere  rilevata
 d'ufficio  in  sede di decisione (Cassazione 13 maggio 1969, n. 1661;
 n. 4876/1987; n. 393/1987).
    Il  dato  testuale  normativo,  chiaro   nell'individuazione   del
 presupposto  (mancato  deposito, nei termini, della procura speciale,
 se  conferita  con  atto  separato)  e  drasticamente  preciso  nella
 determinazione   dell'effetto  (l'improcedibilita',  che  preclude  a
 questa   Corte   l'esame   di   ogni  altra  questione  ad  essa  non
 pregiudiziale),  non  potrebbe  non  sfociare  in  una  pronuncia  di
 improcedibilita' del ricorso.
    Si   deve   esaminare,   ora,   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale  con  cui  i  ricorrenti,  nelle  note   di   udienza,
 sollecitano  la  sospensione  del processo e la rimessione degli atti
 alla Corte costituzionale, sostenendo la violazione  del  diritto  di
 difesa  insita  nella  norma  dell'art.  369,  n.  3,  del c.p.c., se
 interpretata nel senso di pregiudizio il diritto sostanziale  di  una
 parte,  per  il  solo  fatto dell'irriperibilita' nel fascicolo di un
 documento, in un momento qualsiasi del  processo.  La  prospettazione
 che  sottintende  il  riferimento  allo  smarrimento  della procedura
 assertivamente depositata, manifesta la sua irrilevanza, allo  stato,
 perche'  non  coerente  con la situazione rilevata dagli atti e sopra
 descritta, e cioe' per la mancata prova del  deposito  della  procura
 speciale.
   La  Corte, peraltro, con rilievo di ufficio, ritiene meritevole, di
 esame la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 369 2, n.
 3, del c.p.c. sotto il diverso profilo  del  carattere  meramente,  o
 prevalentemente, sanzionario di una norma che precluda l'espletamento
 del   giudizio  di  legittimita'  in  presenza  di  un  inadempimento
 essenzialmente formale, e privi la parte ed il giudice  di  qualsiasi
 possibilita'  di  regolarizzazione,  al  di  fuori  di  una  funzione
 processuale apprezzabile.
   Giova al fine ricordare che la giurisprudenza di  questa  corte  ha
 gia'  apprezzato,  in precedenti pronunce riferite alle varie ipotesi
 dell'art. 369 del c.p.c., tutte le  sanzionate  di  improcedibilita',
 una     distonia     essenziale     tra    la    drastica    sanzione
 dell'improcedibilita' e le carenze di carattere formale che talora ne
 costituiscono il presupposto, quando lo stesso presupposto non  trovi
 nella letteralita' della norma una funzione processuale apprezzabile,
 ovvero  quando  detta funzione processuale, pur esistente, non sia in
 rapporto di adeguatezza con le drastiche e preclusive conseguenze  di
 una, anche parziale o momentanea, elusione o violazione.
    In  tali  casi questa corte ha interpretato la norma privilegiando
 la  funzionalita'  del  mezzo  processuale,  rispetto  ad  una   mera
 ritualita' ed all'aspetto sanzionatorio.
    Cosi'  e'  per  la  situazione dell'art. 369 2, n.  2, del c.p.c.,
 allorche' si ritenne che il mancato deposito tempestivo  della  copia
 autentica  della  sentenza oggetto di ricorso (essendo prodotta copia
 non autentica  incompleta)  potesse  avere  elementi  integrativi,  o
 sostitutivi,   funzionalmente  equivalenti,  nella  produzione  della
 stessa copia da parte del controricorrente, ovvero nell'esistenza  di
 detta  copia  nel fascicolo d'ufficio (Cassazione 18 gennaio 1982, n.
 343; 4luglio 1986, n. 4388).
    Cosi' e', in relazione all'ipotesi dell'art.  369  2,  n.  4,  del
 c.p.c.,  allorche'  venne superata la situazione presclusiva nel caso
 in cui l'allegazione dei fascicoli, o  di  atti  dei  fascicoli,  dei
 precedenti   gradi  di  giudizio  (di  fatto  non  depositati)  fosse
 funzionalmente ininfluente in relazione alle  situazioni  dedotte  in
 controversia  in sede di legittimita' (Cassazione 17 gennaio 1987, n.
 112).
    Identico   indirizzo   e'   stato  seguito  da  questa  Corte  (v.
 Cassazione, sentenza 15 dicembre 1980, n.  6495;  sentenza  5  luglio
 1982,  n.  3990)  in relazione alla fattispecie processuale dell'art.
 369 3 del c.p.c., allorche' ritenne che la  tardivita'  del  deposito
 dell'istanza  di  trasmissione  del  fascicolo  d'ufficio, cosi' come
 l'omissine di detto deposito, non determinasse  l'improcedibilita'del
 ricorso  qualora  il  fascicolo  fosse  comunque pervenuto alla Corte
 prima dell'emananda pronuncia, ovvero quando gli atti  del  fascicolo
 d'ufficio  non  fossero  necessari,  limitando l'improcedibilita' del
 ricorso delle ipotesi in cui dagli atti  inseriti  nei  fascicoli  di
 parte  (in  mancanza di quello d'ufficio del precedente grado) non si
 potessero ricavare gli elementi indispendabili per la  decisione  del
 ricorso  (cass.  sentenza n. 5 aprile 1982, n. 2099; 5 dicembre 1986,
 n.  7241).     Ampliando  il   campo   dell'indagine,   inoltre,   la
 giurisprudenza di questa corte ha costantemente interpretato la norma
 processuale  nel  senso  del  superamento  delle  previsioni  rituali
 meramente, o prevalentemente, sanzionatorie, dando rilievo  non  solo
 all'aspetto  funzionale,  ma interpretando la norma stessa secondo il
 principio del diritto  delle  parti  ad  un  "giudizio  equo",  quale
 espressione  che  trova  il  precetto  normativo  nell'art.  6  della
 Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Roma 4 novembre 1950, resa
 esecutiva in Italia il 26 ottobre 1955 con la legge 4 agosto 1955  n.
 848).
    Contrasta,  infatti, con il diritto del titolare di una situazione
 giuridica sostanziale ad un giudizio equo  di  merito,  e  secondo  i
 principi  dell'ordinamento,  una  norma  rituale  che,  superando  la
 strumentalita'   della   disciplina    processuale,    precluda    il
 perseguimento del diritto fondamentale al giudizio per finalita' che,
 pur  essendo coordinabili con l'esigenza di fluidita' e di speditezza
 del  processo,  ledano  sostanzialmente  una   situazione   fiuridica
 essenziale.  Indubbiamente  l'art.  6 della citata Convenzione tutela
 anche l'esigenza che la giurisdizione venga esercitata in un arco  di
 tempo  ragionevole.   Qualora, peraltro, una norma rituale preclusiva
 non  trovi   ragione   ne'   nella   tutela   delle   situazioni   di
 contraddittorio,  ne' incida in misura apprezzabile sulla ragionevole
 durata del processo, in  essa  assume  rilievo  prevalente  l'aspetto
 sanzionatorio per il mancato rispetto della ritualita', incomparabile
 in linea logica con la tutela del diritto al giudizio.
    A  detti  criteri si e' attenuta la giursprudenza di questa Corte,
 oltre che nei casi gia' esaminati, anche quando, nell'interpretazione
 della disposizione dell'art. 348 2 del c.p.c. (con funzione  analoga,
 per  il  giudizio  di appello, a quella dell'art. 369 del c.p.c.), ha
 ammesso   sostitutivi   al   mancato   inserimento   nel    fascicolo
 dell'appellante,al  momento  della  costituzione,  di copia autentica
 della sentenza di primo grado (Cassazione, sentenza 23  luglio  1987,
 n.  6429; 25 luglio 1981, n. 4816; 18 giugno 1979, n.  3416; 2 maggio
 1980, n. 2893), ovvero ha fatto  ricorso  all'applicazione  dell'art.
 182  del  c.p.c.,  anche  in  grado  di  appello, nel caso in cui nel
 fascicolo depositato non fosse compreso l'atto di citazione di  primo
 grado,  contenente  la  delega  per  entrambi  i  gradi  del giudizio
 (Cassazione 1› giugno 1982, n. 3342).
    Nella stessa linea logica si  pone  l'indirizzo  di  questa  corte
 secondo  cui,  nei  gradi  di merito, l'omesso deposito della procura
 generale alle liti (i cui estremi  siano  stati  enunciati  nell'atto
 introduttivo  del  grado  di giudizio), non e' idoneo a consentire la
 dichiarazione  di  invalidita'  della costituzione della parte se non
 dopo che il giudice  istruttore,  in  virtu'  del  dovere  impostogli
 dall'art.  182  1  del  c.p.c.,  ovvero  il  collegio  ove  non abbia
 provveduto il primo, ovvero ancora il giudice di  appello,  anche  in
 sede  collegiale,  non  abbiano  invitato  la parte al deposito della
 procura, la cui produzione vale  a  sanare  ex  tunc  l'irregolarita'
 della  costituzione  (Cassazione sentenza 8 febbraio 1977, n. 553; 27
 aprile 1979, n. 2436; 23 gennaio 1982, n. 466; 21 dicembre  1983,  n.
 7535).
    Peraltro,  pur  avvertendosi  anche  nell'ambito  della previsione
 dell'art. 369 2, n. 3, del c.p.c. situazioni formali, in  cui  appare
 preminente  l'aspetto  sanzionatorio,  i criteri interpretativi della
 norma non consentono di superare la rigida letteralita' della stessa.
 Non  puo',  infatti,  farsi  ricorso  al  criterio  delle  situazioni
 sostitutive,  e  cio'  in  virtu'  dell'unilateralita' (rispetto alle
 posizioni delle parti nel processo)  ed  unicita'  della  procura  ai
 difensori;  non  al  criterio  dell'utilita'  degli  atti ai fini del
 decidere, volta che l'esistenza della procura,  l'anteriorita'  della
 stessa alla notificazone del ricorso e la produzione in causa al fine
 di dimostrare i poteri dei soggetti muniti dello "ius postulandi", e'
 funzione  necessaria in causa, soprattutto in un procedimento civile,
 come  e'  il  nostro,  improntato  essenzialmente  all'attivita'   di
 mandatari   professionali.      Ne'  sarebbe  consentita  l'analogica
 applicazione dell'art.  182 2 del c.p.c., quanto meno perche' non  e'
 permessa l'attivita' di collaborazione del giudice in presenza di una
 decadenza,  che  nella  specie  e'  connessa  alla  perentorieta' del
 termine  di  deposito  della  procura  speciale  concessa  con   atto
 separato.    Dall'analisi  ora  eseguita,  in definitiva, puo' trarsi
 deduzione che l'orientamento  giurispridenziale  formatosi  su  norme
 analoghe,  nella  funzione  di costituzione di una parte in giudizio,
 all'art. 369 del c.p.c., e' elastico e tollerante, si' da  consentire
 di  ricavare  in principio consolidato, a mo' di diritto vivente, che
 le declaratorie  di  improcedibilita'  non  possono  avere  carattere
 meramente  sanzionatorio.  Costituisce,  invece,  diritto  vivente la
 rigida applicazione dell'improcedibilita' per mancato deposito  della
 procura speciale, nel ricorso per cassazione, essendo considerato non
 derogabile  il relativo adempimento nel termine di venti giorni dalla
 notificazione del ricorso (v. Cass.,  sentenza  17  aprile  1982,  n.
 2362;  sentenza 28 novembre 1953, n. 3609; 21 dicembre 1962, n. 3412;
 23 luglio 1966, n. 2031;  6  luglio  1983,  n.  4547),  finanche  nei
 giudizi  elettorali in cui la parte puo' stare in giudizio di persona
 qualora abbia agito con difensore (Cassazione,  sentenza  10  ottobre
 1983, n. 5878).
    Peraltro,   una  discrepanza  rilevante  e,  sotto  certi  aspetti
 arbitraria, tra le situazioni che  con  la  formalita'  del  deposito
 della   procura,  entro  un  termine  perentorio,  la  legge  intende
 tutelare, ed il diritto la cui analisi in sede di legittimita'  viene
 di   fatto   preclusa,  puo'  individuarsi  anche  nella  fattispecie
 dell'art. 369 2, n. 3, del c.p.c., discrasia che, se  non  superabile
 secondo  i  criteri interpretativi della legge processuale (come gia'
 notato),  assume  diversa  tilevanza  qualora  incida  sui   principi
 costituzionali attinenti all'esercizio della giurisdizione.
    Un  esempio  dell'indicata  discrasia  della  norma  in  esame  e'
 evidenziata nel caso di specie, in cui ad  una  controversia  che  ha
 comportato  un dibattito tra le parti di alto rilievo su questioni di
 diritto  sostanziale  di  notevole  difficolta'   e   con   incidenza
 finanziaria  e  patrimoniale  notevolissime  (in considerazione degli
 importi  in  gioco),  e'  negata  quella   forma   di   tutela   che,
 nell'estensione  della  garanzia  costituzionale  della giurisdizione
 (art. 24 della Costituzione), trova nella  legge  fondamentale  dello
 Stato   una   tutela   ulteriore   e  specifica  (art.  111  2  della
 Costituzione), e cio' unicamente per una situazione  di  irritualita'
 che,  in  diverso  grado  di giudizio puo' trovare pacifica soluzione
 nelle  facolta'   di   regolarizzazione   concesse   alle   parti   e
 nell'esercizio dei poteri di collaborazione del giudice (art. 182 del
 c.p.c.),  atti  a  consentire  la  sanatoria, tra l'altro, proprio di
 situazioni   di   irritualita'   concernenti   l'intempestivita',   o
 l'omissione,  nella  produzione  della procura (Cassazione 8 febbraio
 1977, n. 553; 27 aprile 1979, n. 2436; 23 gennaio 1982,  n.  466;  10
 maggio  1986,  n.  3120).    Nel  caso  di  specie, la gravita' delle
 situazioni trattate e l'entita' degli interessi  economici  in  gioco
 indubbiamente  esalta la incomparabilita' tra l'entita' della lesione
 rituale e  la  sanzione  procedurale  che  preclude  l'esercizio  del
 giudizio  di  legittimita'; enfatizza l'arbitrarieta' della negazione
 del giudizio di legittimita', che e' oggetto  di  garanzia  specifica
 costituzionale,  di  fronte ad un effetto sanzionatorio che non trova
 riscontro equivalente, sul piano dei  valori  cui  l'esercizio  della
 giurisdizione  deve  uniformarsi,  nella  tutela  delle parti e della
 rapidita' processuale.  L'irrazionalita', pero', non e' nel  caso  di
 specie,  ma  nella  legge,  qualunque  sia  la natura e l'entita' del
 diritto  sostanziale   controverso,   legge   che   non   consentendo
 un'adeguamento  funzionale  in via di interpretazione, e precludendo,
 di fronte alla perentorieta' del termine, le  soluzioni  tipiche  pur
 presenti  nel  nostro  ordinamento  processuale  con  l'art.  182 del
 c.p.c., nega l'esercizio della giurisdizione, e la tutela processuale
 di un  diritto  sostanziale,  proprio  nella  forma  piu'  elevata  e
 definitiva   di  giurisdizione,  e  cio'  al  fine  di  tutelare  una
 situazione di rituralita', priva di eguale rilievo e di eguale valore
 sul piano dei principi costituzionali.
    I principi ricavabili, nel nostro ordinamento processuale  civile,
 da   norme   esplicite   mediante   un   procedimento  di  astrazione
 generalizzatrice, ed inoltre radicati sulla legge fondamentale,  sono
 richiamabili come segue;
       A)   il   processo,   come   esternato  dall'art.  24  1  della
 Costituzione, deve concedere le  stesse  utilita'  che  si  sarebbero
 potute  conseguire  attraverso  l'applicazione della norma di diritto
 sostanziale, per cui eccezionali debbono ritenersi i casi  nei  quali
 la  coincidenza  di  risultati,  tra  diritto  sostanziale  e  tutela
 giurisdizionale, non sia realizzabile;
       B) come variazione  logica  del  punto  precedente,  si  evince
 l'ulteriore  principio  secondo  cui la cognizione mira a concludersi
 con una pronuncia di merito, per cui eccezionali  debbono  essere  le
 ipotesi  in  cui  la  violazone delle norme disciplinari del processo
 imponga che questo si concluda  con  sentenza  che  non  conosca  del
 diritto sostanziale controverso;
       C)  la  ricorribilita' (art. 111 2 della Costituzione) comunque
 in cassazione per violazione di legge  delle  sentenze,  individuando
 nella lettura di legittimita' un rafforzamento della garanzia sancita
 dall'art.  24  1  della  Costituzione,  sia  che  essa  sia  ritenuta
 integrare  una  garanzia  soggettiva,  sia  che,  superando  ma   non
 escludendo  le  situazioni  soggettive,  individui essenzialmente una
 garanzia oggettiva di uniforme interpretazione ed applicazione  della
 legge;
       D)  la  tutela  della  difesa e del contraddittorio (art.  24 2
 della Costituzione), che e'  strettametne  inerente  all'effettivita'
 della  tutela  giurisdizionale nella sua correlazione di affermazione
 della situazione di diritto sostanziale.
    Dal  coordinamento  dei  vari  principi  ricavabili  dal   dettato
 costituzionale  in  tema  di  giurisdizione,  si  puo' dedurre che il
 giudizio di legittimita' deve ad essi corrispondere, per cui  debbono
 essere  eccezionali  le  situazioni  rituali  che  pongano  nel nulla
 l'esercizio della giurisdizione nella lettura della causa,  anche  in
 fase  di  legittimita', con la previsione di preclusioni perentorie e
 di improcedibilita' conseguenti.  Appaiono ormai  superati,  infatti,
 gli  indirizzi  propensi ad indentificare la garanzia di cui al primo
 comma dell'art. 24 della Costituzione, e la situazione soggettiva ivi
 tutelata, con l'esercizio dell'azione in  senso  tecnico-processuale;
 e',  infatti,  decisamente  prevalente  l'idea che la possibilita' di
 azione non  si  esaurisca  nella  semplice  possibilita'  di  accesso
 originario  alle  corti,  ma  comprenda anche l'attivita' processuale
 successiva alla domanda inziale, in quanto indispensabile  a  rendere
 effettiva  e  concreta  la  tutela  giurisdizionale  delle situazioni
 giuridiche soggettive di vantaggio.   La giurisprudenza  della  Corte
 costituzionale,  pur  essendo  concorde  nel  ritenere  che la tutela
 giurisdizionale dei diritti sia suscettiva di  limitazioni,  ha  piu'
 volte   riconosciuto   l'illegittimita'   costituzionale   di  limiti
 irragionevoli o, comunque, atti a svuotare la garanzia sancita, volta
 che il legislatore e' libero di atteggiare  i  mezzi  di  tutela  dei
 diritti    in    relazione    alla    tutela   di   altri   interessi
 costituzionalmente garantiti, con il limite, pero', di non vanificare
 in sede di giurisdizione situazioni riconosciute in sede  sostanziale
 e   di   non  oppore  ostacoli  all'esercizio  dell'azione  che,  per
 incongruita' o non pertinenza, si rivelino irragionevoli.
    Cosi', pur essendo in  linea  generale  lecita  la  previsione  di
 limiti  di  tempo  al  diritto  di  azione,  poiche'  l'art. 24 della
 Costituzione non richiede che la tutela giurisdizionale debba  essere
 pertetua  o, d'altro verso, immediata, occorre pur tuttavia che detti
 limiti non si traducano in preclusione o impedimento di una effettiva
 tutela della situazione di vantaggio (Corte costituzionale,  sentenze
 nn.  118/1963,  2/1964,  26 e 87 del 1969, 10/1970, 24 e 85 del 1973,
 46/1974 e 372/1988).
    In base all'idea che "l'art. 24 della  Costituzione  si  riferisce
 alla tutela processuale del diritto, e percio' se ne puo' assumere la
 violazione  solo  quando il legislatore limitasse ingiustificatamente
 la difesa processuale di un  diritto  da  esso  stesso  attribuito  o
 riconosciuto"  (Corte costituzionale n. 57/1962), detta violazione e'
 stata,  pur  tuttavia,   riconosciuta   quando   la   previsione   di
 inammissibilita'  sia priva di razionalita', se collega la produzione
 di un effetto  grave  ed  irreparabile  alla  mera  omissione  di  un
 inadempimento   formale  (v.  Corte  costituzionale  n.  98/1975  con
 riferimento  all'inammissibilita' ci costituzione di parte civile nel
 processo penale per omessa elezione di domicilio nel comune  ove  sia
 in  corso  il  giudizio, alla quale l'art. 94 2 del c.p.c. previgente
 ricollegava l'effetto dell'esclusione del giudizio della  parte  lesa
 costituita parte civile).
    Nello  stesso  ordine  logico  si  pone, poi, l'indirizzo espresso
 (Corte costituzionale n. 82/1966), con riferimento alla  norma  degli
 artt. 27 e 28 del r.d. 25 giugno 1940, n. 954, essendosi ritenuto che
 la non ricezione dell'atto presentato dalla parte o dal difensore as-
 sume  carattere  sanzionatorio,  non  proporzionato  alla  portata ed
 all'entita' del precetto,  se  non  giustificabile  alla  stregua  di
 quelle  guarentigie  giuridiche  che  lo  Stato  di  diritto offre ai
 singoli per la tutela dei loro diritti ed interessi legittimi.
    Identicamente (Corte costituzionale n.  19/1973,  con  riferimento
 all'art.  509  del c.p.p. previgente, sanzionante di inammissibilita'
 la non contestuale esposizione di motivi di  opposizione  al  decreto
 penale)  e'  stato  ritenuto  che  "la  limitata finalita' dell'onere
 processuale in esame e la sua circoscritta portata, poste a  paragone
 della  gravita' a drasticita' delle conseguenze impeditive comminate,
 denotano la sproporzione tra obbligo e sanzione e l'incongruita'  che
 l'esercizio   dell'esenziale   diritto  della  difesa  giudiziale  in
 contradditorio, debba essere precluso di fronte all'inadempimento  di
 un onere che ha, bensi, una sura ragion d'essere, ma che tuttavia non
 e' rilevante ai fini processualistici".
    Si  ribadisce, quindi, che il diritto ad una giurisdizione equa si
 traduce nell'illegittimita'  di  quegli  impedimenti,  normativamente
 previsti,  che  ledano  un  diritto  fondamentale, costituzionalmente
 garantito, senza perseguire la  tutela  di  un  interesse  di  eguale
 valore,   o   comunque   apprezzabile,   evidenziando  che  la  norma
 processuale   eminentemente   sanzionatoria   finisce   per    essere
 irrazionale   o   arbitraria   quando   dalla  sua  lesione  consegua
 l'impedimento all'esercizio della giurisdizione, anche e specialmente
 con  riferimento  al  giudizio  di  legittimita'  che  trova  la  sua
 guarentigia nell'art. 111 2 della Costituzione.
    Nell'ambito  dei principi indicati si tratta di valutare quale sia
 la funzione del deposito della procura speciale, rilasciata con  atto
 separato  dal  ricorso,  volta  che  la sua enunciazione nel ricorso,
 costituente condizione di ammissibilita' dello stesso (art.   366  1,
 n.   5  del  c.p.c.),  sia  stata  soddisfatta,  che  le  controparti
 costituite non hanno contestato la sussistenza della procura speciale
 ne' hanno formulato alcuna eccezione sulla sottoscrizione del ricorso
 a norma dell'art. 365 del c.p.c.
    Il deposito del ricorso e degli atti indicati  dall'art.  369  nel
 termine ivi previsto, svolge una funzione sostanzialmente equivalente
 alla  costituzione dell'attore, nel giudizio di primo grado (art. 165
 del c.p.c.) o dell'appellante nel giudizio di secondo grado (art. 347
 del c.p.c.).
    Cio' malgrado, la manchevolezza, o il ritardo, nel deposito  degli
 atti  in  primo  grado possono essere sanati con l'esercizio da parte
 del giudizio del potere di collaborazione previsto dall'art. 182  del
 c.p.c.  (potere  esteso al collegio ed inoltre al giudice di appello,
 v. Cassazione, sentenza 27 aprile 1979, n. 2436; 8 febbraio 1971,  n.
 553),   ed  analogamente  nel  giudizio  di  appello,  alla  drastica
 preclusione dell'attivita' processuale si contrappone la  sanabilita'
 con  le  modalita'  dell'art.  348  del  c.p.c.  e talora (Cassazione
 sentenza 1› giugno 1982, n. 3342 citata), ancora  con  l'applicazione
 della disciplina dell'art. 182 del c.p.c.
    Significativo  e,  quindi, che nel procedimento civile, il termine
 normativo per l'espletamento delle modalita' di costituzione,  ed  in
 ispecie   per   la   produzione  della  procedura  prima  dell'inizio
 dell'attivita' di giurisdizione (volta  che  ne  siano  indicati  gli
 estremi   nell'atto  introduttivo  del  giudizio  o  del  grado)  pur
 corrispondendo ad una esigenza  di  ordine  logico-sequenziale  degli
 atti negli adempimenti di parte e nello svolgimento del processo, non
 coincide  con  la  tutela  di valori essenziali delle parti, tanto e'
 vero che nei gradi di merito se ne consente la sanabilita', sia  pure
 con  la  concessione  di  un  termine da parte del giudice, questo si
 giustamente  perentorio,  dopo  la  constatazione  di  un'inattivita'
 protratta.
    Non  diverse  ragioni possono reggere il giudizio di legittimita',
 volta che l'enunciazione degli  estremi  della  procura  nel  ricorso
 sottoscritto  dall'avvocato (cui l'ordinamento processuale conferisce
 affidabilita', tanto da consentirgli l'autenticazione della firma del
 mandante, quando la procura sia apposta sull'atto iniziale della fase
 o del grado del giudizio) soddisfa la  condizione  di  ammissibilita'
 (art.   366   1,  n.  5  del  c.p.c.)  dando  affidabilita'  iniziale
 dell'avvenuto rilascio della procura nella data indicata nel  ricorso
 (sopratutto  quando,  come  nel  caso  di  specie,  la  contestazione
 concerne specificamente l'omessa produzione, non  l'esistenza,  della
 procura  speciale  secondo i dati enunciati nel ricorso, ne', quindi,
 sottoscrizione del ricorso a norma dell'art. 365 del c.p.c.).
    Non sussiste, inoltre nessuna ragione fondamentale per negare alle
 parti le opportune iniziative di regolarizzazione, ed al  giudice  di
 legittimita'  l'esercizio  di  quei poteri di collaborazione, volti a
 sanare inadempienze momentanee, non lesive  in  maniera  apprezzabile
 dei  diritti  delle  controparti  processuali,  poteri  che  la legge
 riconosce al giudice del merito; poteri  che,  d'altronde,  non  sono
 incompatibili con la funzione di questa Corte (e che nella specie non
 sarebbero  certamente preclusi dall'asserzione dell'avvenuto regolare
 deposito, volta che essa risulti indimostrata). Basti ricordare  che,
 in  ipotesi ben piu' essenziale (art. 331 del c.p.c.) nelle quali una
 scelta legislativa di preclusione avrebbe  potuto  anche  non  essere
 violatrice   della   tutela   dell'art.   24  della  Costituzione  in
 considerazione dell'equivalenza della posizione in gioco (la  lesione
 del  diritto  di  difesa  dei litisconsorti), la norma processuale ha
 invece retenuto di  fare  una  scelta  funzionale,  dando  potere  al
 giudice  di  legittimita'  di concessione di un termine (questa volta
 perentorio) per l'integrazione del contraddittorio.    Si  consideri,
 ancora,  che  anche  la  disciplina dell'art. 291 del c.p.c. e' stata
 ritenuta applicabile nel giudizio di cassazione (Cassazione  sentenza
 7  aprile  1972,  n.  1060;  n. 434/1975; 26 novembre 1987, n. 8759),
 imponendo in tale caso al giudice di disporre la  rinnovazione  della
 notifica  della  citazione  viziata.    Si  consideri, infine, che si
 consente la ragolarizzazione  della  notifica  postale  del  ricorso,
 concedendosi termine per l'esibizione della ricevuta di ritorno.  Se,
 quindi, anche nel giudizio di legittimita', l'omissione di una parte,
 pur  incidente  su  diritti essenziali, consente la concessione di un
 termine di regolarizzazione;  se,  inoltre,  la  tutela  inerente  al
 termine  di  deposito  della  procura,  non  ha funzione dissimile da
 quella relativa alla costituzione dell'attore nel giudizio di merito,
 nel quale pur tuttavia (oltre ai rimedi consentiti direttamente  alle
 parti)  con  la  previsione  dell'art.  182 del c.p.c. si consente al
 giudice di esplicare quei poteri di  collaborazione  volti  a  sanare
 l'irritualita'  originaria;  se  cio'  e'  vero,  non  si evidenziano
 ragioni essenziali a fondamento  della  diversa  normativa  dell'art.
 369  2,  n.  3  del c.p.c., la quale, per ragioni di mera regolarita'
 rituale con  funzione  sanzionatoria,  finisce  per  pregiudicare  il
 diritto  al  giudizio di legittimita' delle parti, costituzionalmente
 garantito, al solo fine di perseguire una funzione  non  comparabile,
 sul  piano  dei  valori  costituzionali, all'impedimeto all'esercizio
 della giurisdizione.    La  distonia  tra  causa  ed  effetto  denota
 l'irragionevolezza  della  norma,  vuoi  sotto il profilo dell'art. 3
 della legge  fondamentale  (creando  una  diversita'  di  trattamento
 essenziale,  e non giustificabile, tra le parte che adisca il giudice
 del merito e quella che agisca nella sede ultima di legittimita', che
 della prima costituisce l'essenziale estensione e complemento,  nella
 previsione  di  espressa  garanzia costituzionale ex art. 111 2 della
 Costituzione), ed inoltre sotto  il  profilo  degli  artt.  24  della
 Costituzione,   ponendo   una   preclusione   temporale   irrazionale
 all'esercizio del giudizio di leggittimita', senza la possibilita' di
 sanatoria,  ne'  ad  opera  della  parte   autonomamente,   ne'   con
 l'intervento   collaborativo   del  giudice.     Ne'  gioverebbe,  in
 contrario, rilevare che nella fase di legittimita'  manca  la  figura
 del  giudice  istruttore;  basti considerare, infatti, che, come gia'
 ricordato, l'esercizio dei poteri dell'art. 182 del c.p.c.  e'  stato
 riconosciuto  anche  al collegio (in primo grado ed in appello) e che
 nel giudizio di legittimita' solo il  collegio  agisce  anche  per  i
 provvedimenti  di  carattere  ordinatorio.    Ne',  infine,  giova  a
 delinerare una differenza assenziale sul punto, il fatto che  per  la
 promozione  del  giudizio  di  legittimita'  si  richiede una procura
 speciale, quale manifestazione di una volonta' espressa  della  parte
 di  accedere  a  quel tipo di giudizio, volta che nella specie non si
 discute del fatto che quel tipo di  procura  debba  esservi  e  debba
 essere  depositata, ma solo della razionalita' del termine perentorio
 di deposito, in relazione alla definitivita' delle conseguenze che la
 sua violazione comporta.
    E'  chiaro,  quindi,  che  non  si  verte  in  una  situazione  di
 inadeguatezza della durata del termine per il deposito della procura,
 ma  di irrazionalita', nella comparazione dei contrapposti interessi,
 della perentorieta' del termine in quanto tale.
    Non deve d'altronde ritenersi che,  generalizzando,  il  principio
 finisca  per  coninvolgere  tutti  i  termini perentori del codice di
 rito, i quali assumono comunque una funzione di ordine  processurale.
 Al  contrario, la correlazione tra la funzione della perentorieta' di
 un termine e le conseguenze della sua violazione,  impone  un'analisi
 specifica e puntuale, evidenziandosi l'illogicita' quando la funzione
 della  singola  previsione  normativa sia meramente, o eminentemente,
 sanzionatoria. Tale appare la perentoria del termine nella previsione
 dell'art. 369 2, n. 3 del c.p.c.,  il  cui  superamento  sanziona,  a
 carico  del  titolare  del  diritto,  il  mancato  compimento, non di
 un'attivita' giuridica, ma essenzialmente di  un'attivita'  materiale
 (il deposito) da parte del mandatario professionale.
    Im   definitiva,   la   Corte   ritiene  legittimo  il  dubbio  di
 costituzionalita' della norma denunciata in quanto essa, imponendo un
 termine perentorio a pena di improcedibilita'  del  ricorso,  per  un
 adempimento  che,  a differenza di altri indicati nella norma stessa,
 non ammette equipollenti di sorta, impedisce alle parti  di  compiere
 attivita'  di regolarizzazione ed alla Cassazione di applicare l'art.
 182 del c.p.c., con la  conseguenza,  non  sorretta  di  apprezzabili
 ragioni,  di  privilegiare  una  finalita'  puramente  sanzionatoria,
 rispetto alla tutela sostanziale dei diritti controversi, e di creare
 ingiustificata  disparita'  di  trattamento  rispetto  a   situazioni
 analoghe ed ai gradi anteriori di giudizio.
    La  rilevanza  in  concreto  della  questione,  infine,  non viene
 preclusa dal fatto che  gli  avvocati  del  ricorrente,  presenti  in
 udienza,  nelle note abbiano affermato l'avvenuto deposito tempestivo
 della  procura  (contrariamente  alla  rilevazione  documentale  allo
 stato),  in  quanto,  come  gia'  detto,  l'esercizio  dei  poteri di
 collaborazione  del  giudice  nella  regolarizzazione  di  situazioni
 processuali,  non  e'  precluso  da un'affermazione di parte che, nel
 caso concreto,  era  fondata  sul  dato  meramente  menemonico  senza
 possibilita'  di controllo di atti d'ufficio, e la cui esattezza allo
 stato non trova riscontro.
   In tali sensi la questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 369 2, n. 3 del c.p.c. deve ritenersi non  manifestamente  infondata.
 Essa,  inoltre,  come  si  e'  visto,  e' rilevante perche' dalla sua
 soluzione dipendono, alternativamente, l'applicazione della  sanzione
 di  improcedibilita'  per  la mancata prova di rituale deposito della
 procura, o l'esame del merito  del  ricorso  previa  regolarizzazione
 della situazione ad opera della parte, spontaneamente ex art. 372 del
 c.p.c., o previa concessione di un termine ex art. 182 del c.p.c.
    Alla  sospensione  del  giudizio,  consegue,  a norma dell'art. 23
 della legge 11 marzo 1953, n.  87,  l'invio  degli  atti  alla  Corte
 costituzionale,  la notificazione della presente ordinanza alle parti
 in  causa,  al  procuratore  generale  presso  la  Corte  suprema  di
 cassazione,  al  Presidente  del  Consiglio  dei Ministri, nonche' la
 comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.