LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto dall'Istituto mobiliare italiano - I.M.I., ente di diritto pubblico, con sede in Roma, viale dell'Arte n. 23, in persona del Presidente e legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso, giusta indicazione nell'epigrafe del ricorso, dagli avvocati Natalino Irti, Pietro Guerra, Antonio Zito e Carmine Punzi, nonche' elettivamente domiciliato presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via S. Caterina da Siena n. 46, in virtu' di procura speciale "per atti notaio Mario Lupi di Roma, in data 6 dicembre 1990, rep. n. 24368"; ricorrente, contro la S.r.l. Find, in persona del suo amministratore unico e legale rappresentante pro-tempore, con sede in Roma, rappresentata e difesa dagli avvocati Mario Are, Michele Giorgianni e Mario Ungaro, elettivamente domiciliata presso il primo di essi in Roma, via XXIV Maggio n. 46, giusta delega a margine del controricorso, controricorrente, e eredi dell'ing. Nino Rovelli, deceduto il 30 dicembre 1990, collettivamente ed indistintamente destinatari di notifica di ricorso ed inoltre singolarmente individuati come segue: Primarosa Battistella, residente in Lussemburgo, boulevard Royal n. 13, nella qualita' di erede del defunto cav. del lavoro ing. Nino Rovelli, rappresentata e difesa dagli avvocati Mario Are, Michele Giorgianni e Mario Ungaro, elettivamente domiciliata presso il primo in Roma, via XXIV Maggio n. 46, giusta procura speciale in data 7 febbraio 1991 per notar Lainati di Milano, repertorio n. 127970, in atti, controricorrenti, e ing. Felice Rovelli, residente a New York (NY) U.S.A., quale figlio del defunto ing. Nino Rovelli, rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Are, Michele Giorgianni e Mario Ungaro presso il primo dei quali in Roma, via XXIV Maggio n. 46, e' elettivamente domiciliato, giusta delega a margine del controricorso, controricorrente, e 1) Primarosa Battistella, quale madre ed esercente la patria potesta' sul minore figlio Oscar Rovelli, nonche' Oscar Rovelli in proprio; 2) Angela Ursula Rovelli; 3) Anna Rita Rovelli, intimati, avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 4809/90 del 26 novembre 1990; Udita la relazione svolta dal cons. Gian Carlo Bibolini; Sentiti gli avvocati Irti, Guerra e Punzi i quali per l'I.M.I. hanno chiesto l'accoglimento dei ricorso; sentiti, inoltre, gli avvocati Giorgianni ed Are i quali hanno chiesto pregiudizialmente la dichiarazione di improcedibilita' del ricorso, e comunque il rigetto del ricorso stesso; Udito il pubblico ministero dott. Mario Di Renzo che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso per quanto di ragione, rimettendosi alla Corte in ordine all'eccezione di improcedibilita'; SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione notificato il di' 11 marzo 1982 l'ing. Nino Rovelli conveniva davanti al tribunale di Roma l'Istituto mobiliare italiano (I.M.I.) e, precisato: che il 17 luglio 1979 era stata stipulata una convenzione tra le societa' per azioni Find e Plenit nonche' l'ing. Nino Rovelli (a titolo personale a seguito di convenzione ripetitiva e parzialmente integrativa in data 19 luglio 1979), da una parte, e dall'altra parte il prof. Piero Schlesinger, nella veste dichiarata di presidente designato di un costituendo consorzio bancario ai sensi della legge n. 787/1978, nonche' l'Istituto mobiliare italiano in persona del suo presidente ing. Giorgio Cappon, entrambi agenti per conto e nell'interesse del costituendo consorzio, con le modalita' previste dalla citata legge n. 787/1978, e per il conseguimento dello scopo di risanamento delle societa' del gruppo SIR-Rumianca, scopo coerente col fine indicato dalla legge stessa; che l'attore e le societa' Find e Plenit avevano partecipato all'accordo al fine dichiarato di agevolare l'attuazione di un piano di risanamento delle societa' del gruppo SIR-Rumianca, piano gia' predisposto dall'I.M.I. ed approvato dal C.I.P.I.; che esso attore e le societa' Find e Plenit avevano dato immediata e completa attuazione agli impegni assunti mentre il consorzio, una volta costituito, non aveva ratificato la convenzione e si era rifiutato di sollevare l'ing. Nino Rovelli dalle iniziative giudiziarie di terzi (a fronte di fidejussioni che egli aveva dato a favore delle banche creditrici delle societa' del gruppo S.I.R.-Rumianca), ed inoltre non aveva dato corso all'ulteriore impegno, assunto per il consorzio in allora non ancora costituito, dall'I.M.I. e dal prof. Schlesinger, di accertare con l'ausilio di organizzazioni di analisi contabili la consistenza patrimoniale del gruppo S.I.R.-Rumianca; Tanto premesso, l'attore formulava le seguenti domande: I) dichiarare la responsabilita' dell'I.M.I. ai sensi dell'art. 2331 del Codice civile per le obbligazioni assunte nelle convenzioni 17 e 19 luglio 1979, come sopra indicate; II) dichiarare l'I.M.I. tenuto a sollevarlo da ogni richiesta gia' proposta, o proponibile in seguito, da un qualsiasi terzo garantito in conseguenza delle fidejussioni che l'ing. Rovelli aveva rilasciato per le esposizioni verso banche delle societa' del gruppo S.I.R.-Rumianca; III) condannare l'I.M.I., siccome inadempiente alle citate convenzioni, al risarcimento dei danni per cio' provocati; IV) riconoscente il diritto dell'ing. Rovelli all'accertamento dell'eventuale valore positivo delle azioni cedute, in coerenza con l'art. 4 della convenzione, e la condanna conseguente dell'I.M.I. al pagamento del valore accertato in base all'art. 5 della medesima convenzione, attesa l'impossibilita' di utilizzo delle azioni stesse per la destinazione prevista nella convenzione o, in via subordine, la condanna al pagamento della medesima somma a titolo di risarcimento, con interessi e rivalutazione monetaria. All'atto della precisazione delle conclusioni veniva chiesto che la liquidazione del quantum richiesto avvenisse in corso di causa e non in separato giudizio (come inizialmente domandato). Instaurato il contraddittorio e contestata la lite, l'Istituto mobiliare italiano chiedeva il rigetto di tutte le domande proposte nei suoi confronti, previa eccezione della propria carenza di legittimazione passiva sostenendo che l'ing. Cappon aveva agito a titolo personale e non quale presidente dell'I.M.I. (tesi respinta nella sentenza di primo e di secondo grado e non piu' riproposta in prosieguo). All'udienza del 24 gennaio 1983 interveniva in causa la S.r.l. (gia' S.p.a.) Find, assumendo posizione adesiva alle domande dell'ing. Nino Rovelli e chiedendo l'estensione nei suoi confronti degli effetti della pronuncia. Il tribunale di Roma emetteva in data 31 ottobre 1986 sentenza non definitiva limitatamente allo an debeatur, nella quale, ritenuto ammissibile l'intervento della S.r.l. Find (qualificato intervento adesivo autonomo), e rigettata l'eccezione di carenza di legittimazione da parte dell'I.M.I., condannava l'I.M.I. stesso al risarcimento dei danni subiti dall'ing. Rovelli per l'inadempimento all'impegno della lettera 19 luglio 1979 (liberazione dalle esecuzioni per garanzie concesse dal Rovelli), nonche' al risarcimento dei danni subiti e dall'ing. Rovelli e dalla societa' Find per l'inadempimento della clausola n. 4 della convenzione (impegno di accertare la consistenza patrimoniale del gruppo SIR-Rumianca, secondo modalita' espressamente previste), danni da liquidarsi nel prosieguo del giudizio, disposto con separate ordinanze. Sull'appello proposto dall'I.M.I. con citazione notificata il 7 aprile 1987, e nel contraddittorio dell'ing. Nino Rovelli e della Find, la corte d'appello di Roma pronunciava con sentenza 26 aprile 1988 con cui dava integrale conferma alla decisione di primo grado. Avverso detta sentenza propose ricorso per Cassazione l'I.M.I. deducendo sei mezzi di cassazione; nella resistenza dell'ing. Nino Rovelli e della Find, la Corte di cassazione, pronunciando con sentenza n. 3228/1989 del 7 luglio 1989, dava accoglimento al primo motivo di ricorso e dichiarava assorbiti gli altri, cassando l'impugnata decisione e rinviando ad altra sezione della corte d'appello di Roma. Contemperaneamente allo svolgersi della vicenda processuale ora delineata, dopo la sentenza non definitiva di primo grado il procedimento era continuato sul quantum, avendo come presupposto la linea logica gia' tracciata dalla sentenza non definitiva del tribunale di Roma, cosi' che, con sentenza 13 maggio 1989, il tribunale di Roma condannava l'I.M.I. al pagamento in favore dell'ing. Nino Rovelli della somma di L. 750 miliardi a titolo di risarcimento dei danni per inadempimento delle clausole economiche della convenzione (somma comprensiva della rivalutazione dal luglio 1980), oltre agli interessi al tasso legale sull'intera somma rivalutata, con decorrenza dal luglio 1979; condannava, inoltre, l'I.M.I. a pagare all'ing. Nino Rovelli la somma ulteriore di L. 21,1 miliardi, con gli interessi legali dal 9 gennaio 1985, quale risarcimento del danno nella cessione dei titoli obbligazionari al portatore effettuato dall'ing. Rovelli al comitato di intervento nella S.I.R. a seguito dell'accordo transattivo stipulato nel 1985. Avverso detta sentenza proponeva appello l'ing. Rovelli e la Find; proponeva anche appello incidentale l'I.M.I. il quale sosteneva la nullita' della sentenza del tribunale a seguito e per effetto della cassazione di quella sullo an debeatur da parte di questa Corte; in subordine chiedeva la riforma della sentenza impugnata ed il rigetto di tutte le domande proposte dall'ing. Nino Rovelli; in ogni caso sosteneva l'inammissibilita' dell'appello proposto dall'ing. Rovelli e dalla Find. Le due cause (il giudizio rescissorio e la procedura di appello contro la sentenza del tribunale di Roma sul quantum debeatur, assegnate alla stessa sezione della Corte d'appello di Roma ed allo stesso istruttore, procedevano separatamente, ma parallelamente, tanto che all'udienza del 30 maggio 1990 venivano precisate separate conclusioni coeve. Con la sentenza n. 4809/1990 (oggetto dell'odierna ricorso) in data 26 novembre 1990, la corte d'appello di Roma riuniva i due procedimenti e pronunciando su di essi unica sentenza, sullo an e sul quantum debeatur, rigettava l'appello contro la sentenza non definitiva del 31 ottobre 1986; dava accoglimento per quanto di ragione all'appello principale dell'ing. Rovelli e della S.r.l. Find avverso la sentenza 13 maggio 1989; dava accoglimento, altresi', per quanto di ragione all'appello incidentale dell'I.M.I. Inoltre, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava l'I.M.I. al pagamento, a favore dell'ing. Rovelli e della S.r.l. Find, in via tra di loro solidale, della somma di L. 500 miliardi (gia' rivalutata), con gli interessi al tasso legale dal luglio 1980 fino all'effettivo soddisfo, nonche' al pagamento in favore dello stesso ing. Rovelli dell'ulteriore somma di L. 28.485.000.000 con gli interessi al tasso legale dal 9 gennaio 1985 fino all'effettivo soddisfo; condannava infine, l'I.M.I. al pagamento delle spese processuali, confermando nel resto l'impugnata sentenza. Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l'I.M.I. deducendo otto motivi, integrati da memoria; si costituivano con controricorso, integrato da memoria, la S.r.l. (gia' S.p.a.) Find, nonche' la signora Primarosa Battistella, quale erede dell'ing. Nino Rovelli; si costituiva, inoltre, con autonomo controricorso l'ing. Felice Rovelli, figlio dell'ing. Nino Rovelli. In ordine all'eccezione di improcedibilita' del ricorso, proposta in udienza dalla difesa dei controricorrenti, parte ricorrente depositava note di udienza, note in relazione alle conclusioni del pubblico ministero, il cui senso era quella di rimettere alla corte l'esame degli atti, da lui non potuto compiere, con l'applicazione, all'esito, della normativa del caso. MOTIVI DELLA DECISIONE La pregiudizialita' delle questioni di ammissibilita' del ricorso, rispetto a a quelle di procedibilita', richiede l'esame preventivo dell'eccezione (sollevata dal controricorrente ing. Felice Rovelli nonche', nella memoria, dalla controricorrente signora Primarosa Battistella) secondo cui la nullita' della notificazione in data 3 gennaio 1991 all'ing. Nino Rovelli alcuni giorni dopo il decesso (avvenuto il 30 dicembre 1990), nel domicilio eletto presso il difensore per il giudizio di appello, e la nullita' dello stesso ricorso per errata individuzione del soggetto passivo, renderebbe il ricorso stesso del tutto inammissibile. L'eccezione (da delibarsi ai fini della rilevanza della questione di costituzionalita', di cui in appresso) e' infondata, alla luce dell'indirizzo giurisprudenziale, al quale si ritiene di dovere dare continuita', secondo cui e' valido il ricorso per cassazione, e la sua notifica presso il procuratore della parte costituito nel giudizio di merito, non spiegando rilievo la morte della parte dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, ove non si dimostri che il ricorrente fosse a conoscenze di tale evento (v. Cassazione sentenza 6 dicembre 1984, n. 6404; sentenza 25 novembre 1985, n. 5857, s.u. 27 aprile 1983, n. 2881). Nella specie, il fatto che il ricorso fosse stato redatto prima del decesso dell'ing. Nino Rovelli (esso e' datato 21 dicembre 1990); che della morte fosse stata data notizia giornalistica solo il 31 dicembre 1990; che a detta informazione giornalistica fosse seguita una festivita' tradizionale e nazionale (il capodanno) e che la notificazione fosse stata eseguita il secondo giorno successivo, non fornisce la prova della conoscenza effettiva e sicura, ne' dell'ignoranza colpevole, da parte del ricorrente, del decesso dell'ing. Rovelli prima del 3 gennaio 1991; elementi che abbisognavano, oltre tutto, di adeguato controllo. Alla ritualita' della notificazione del 3 gennaio 1991 segue l'infondatezza dell'eccezione di inammissibilita' sotto i profili indicati. Pregiudiziale, ancora, all'esame delle altre questioni rito e di merito sollevate dalle parti, e' la valutazione dell'eccezione di improcedibilita' del ricorso proposta dall'avv. Michele Giorgianni, al termini del suo intervento dibattimentale sul ricorso, eccezione ripresa dall'avv. Mario Are. Sostiene al fine parte controricorrente essersi verificata, nella specie, l'ipotesi prevista dall'art. 369 2, n. 3, del c.p.c., che sanzione di improcedibilita' il ricorso per cassazione al cui deposito non acceda, nel termine di legge, quello dalla procura speciale, se questa e' conferita con atto separato. Parte ricorrente ha depositato sul punto note sottoscritte dai tre avvocati presenti all'udienza, in cui si afferma, tra l'altro, che la procura indicata nell'epigrafe del ricorso e' stata regolarmente rilasciata per atto notar Mario Lupi di Roma in data 6 dicembre 1990 (data anteriore alla prima notifica del ricorso) ed e' stata regolarmente depositata insieme al ricorso, alla copia della sentenza impugnata ed ai fascicoli dei precedenti gradi della causa. In data 30 gennaio 1992, essendo il collegio in riserva di decisione, gli avvocati Mario Punzi ed Antonio Zito hanno depositato nella cancelleria della corte una seconda nota qualificata "di udienza" con allegata documentazione. Questa seconda nota, depositata il giorno successivo all'udienza, e' al di fuori di qualsiasi situazione rituale; esse deve, quindi, essere dichiarata irricevibile e non puo' essere esaminata del collegio; con separato provvedimento ne e' stata disposta la restituzione agli interessati. Tanto premesso la corte, che sulle questione di rito e' anche giudice del fatto processuale, rileva ed accerta: I) nell'epigrafe del ricorso per cassazione l'istituto mobiliare italiano, in persona del presidente, indicava i propri rappresentanti e difensori (avvocati Natalino Irti, Pietro Guerra, Antonio Zito, Carmine Punzi) in virtu' di procura speciale "per atti notaio Mario Lupi di Roma, in data 6 dicembre 1990 rep. n. 24368"; II) in calce al ricorso vi e' espressa menzione dei documenti che il ricorrente "provvedera' nei tertmini al deposito" (originale notificato del ricorso stesso, copia autentica della sentenza impugnata, istanza di trasmissione del fascicolo d'ufficio, fascicolo degli atti e dei documenti delle fasi di merito); nessuna menzione e' fatta alla produzione della procura speciale; III) esaminati agli atti, si constata la materiale assenza della procura speciale sopra indicata; IV) la nota di deposito del 22 gennaio 1991, relativa al ricorso notificato il 3 gennaio 1991 (notifica che, essendo regolare, come sopra rilevato, comporta il decorso del termine dell'art. 369 1 del c.p.c. e rende superflue, a questo effetto, le ulteriori notifiche integrative), porta l'annotazione del deposito dei fascicoli di precedenti gradi, di copia autentica del provvedimento impugnato e di istanza ex art. 369 del c.p.c. in duplo; non vi e' in essa menzione del deposito della procura ne' esiste atto che, ai sensi dell'art. 372, u. cpv, del c.p.c., ne dimostri il deposito nel giorno successivo (il ventesimo dalla predetta notifica); V) agli atti esistono i documenti dei quali nella predetta nota e' indicato il deposito e, in particolare, il ricorso con le relative notifiche, la sentenza oggetto di ricorso in copia autentica nonche' i fascicoli di parte delle precedenti fasi e gradi ed i fascicoli d'ufficio; VI) in calce alla copertina del fascicolo d'ufficio esiste un'annotazione, preceduta da un asterisco che ne richiama altro posto a fianco dei nomi degli avvocati del ricorrente, dicente "manca la procura ad hoc". Detta annotazione, e' identica ad altra esistenza nel ruolo generale degli affari civili, al n. 755/91, nel quale appare ancora la dicitura, con riferimento alla situazione difensiva del ricorrente: "manca la procura ad hoc"; VII) ritiene la Corte non avere pregio il rilievo espresso nella nota di udienza, secondo cui nel modulo delle note di deposito non e' predisposta a stampa la previsione della separata procura, quasi che del deposito della procura non si debba dare prova, volta che nei moduli stessi vi sono righe in bianco da integrare con l'indicazione dei documenti depositati e non previsti espressamente nella modulistica a stampa. Cio' tanto e' vero che nella nota di deposito del controricorso della signora Primarosa Battistella vi e' espressa integrazione manoscritta relativa al deposito della procura speciale della controricorrente. D'altra parte, nella stessa nota di deposito del precedente ricorso per cassazione dello I.M.I. (che diede lugo al giudizio deciso con la sentenza n. 3228/89 di questa Corte), vi era espressa menzione manoscritta del deposito della procedura speciale notarile rilasciata per quella fase del giudizio. Dai rilievi sopora espletati si deduce la mancanza della prova del tempestivo deposito della procura notarile indicata nel ricorso, prova che compete al ricorrente (v. Cassazione 23 luglio 1966, n. 2031). La nota, che deve essere sottoscritta dall'avvocato e controfirmata dal funzionario addetto, fa prova a favore della parte che l'ha redatta e sottoscritta, per i documenti in essa indicati, ed inoltre contro la parte per i documenti che la stessa non abbia menzionato. D'altronde le annotazioni relative al mancato deposito della procura, apparenti sia sulla copertina del fascicolo d'ufficio, sia nel registro generale (e che non si ha ragione di non attribuire al funzionario addetto), denotano che la mancanza e' stata rilevata nella cancelleria del registro generale di questa corte. Pertanto, l'asserito deposito della procura non potrebbe, eventualmente, essere che una produzione tardiva o irrituale (allo stato, dunque, irrilevante), ma suscettibile di essere regolarizzata, anche ad inziativa della parte ai sensi dell'art. 372 del c.p.c., se la questione di costituzionalita' che si va a prospettare venisse dichiarata fondata. In base a tali rilievi non puo' non ritenersi integrata, allo stato degli atti, la situazione descritta dall'art. 369 2, n. 3, del c.p.c. che, indipendentemente dal momento della discussione in cui e' stata segnalata dai controricorrenti, avrebbe dovuto essere rilevata d'ufficio in sede di decisione (Cassazione 13 maggio 1969, n. 1661; n. 4876/1987; n. 393/1987). Il dato testuale normativo, chiaro nell'individuazione del presupposto (mancato deposito, nei termini, della procura speciale, se conferita con atto separato) e drasticamente preciso nella determinazione dell'effetto (l'improcedibilita', che preclude a questa Corte l'esame di ogni altra questione ad essa non pregiudiziale), non potrebbe non sfociare in una pronuncia di improcedibilita' del ricorso. Si deve esaminare, ora, la questione di legittimita' costituzionale con cui i ricorrenti, nelle note di udienza, sollecitano la sospensione del processo e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale, sostenendo la violazione del diritto di difesa insita nella norma dell'art. 369, n. 3, del c.p.c., se interpretata nel senso di pregiudizio il diritto sostanziale di una parte, per il solo fatto dell'irriperibilita' nel fascicolo di un documento, in un momento qualsiasi del processo. La prospettazione che sottintende il riferimento allo smarrimento della procedura assertivamente depositata, manifesta la sua irrilevanza, allo stato, perche' non coerente con la situazione rilevata dagli atti e sopra descritta, e cioe' per la mancata prova del deposito della procura speciale. La Corte, peraltro, con rilievo di ufficio, ritiene meritevole, di esame la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 369 2, n. 3, del c.p.c. sotto il diverso profilo del carattere meramente, o prevalentemente, sanzionario di una norma che precluda l'espletamento del giudizio di legittimita' in presenza di un inadempimento essenzialmente formale, e privi la parte ed il giudice di qualsiasi possibilita' di regolarizzazione, al di fuori di una funzione processuale apprezzabile. Giova al fine ricordare che la giurisprudenza di questa corte ha gia' apprezzato, in precedenti pronunce riferite alle varie ipotesi dell'art. 369 del c.p.c., tutte le sanzionate di improcedibilita', una distonia essenziale tra la drastica sanzione dell'improcedibilita' e le carenze di carattere formale che talora ne costituiscono il presupposto, quando lo stesso presupposto non trovi nella letteralita' della norma una funzione processuale apprezzabile, ovvero quando detta funzione processuale, pur esistente, non sia in rapporto di adeguatezza con le drastiche e preclusive conseguenze di una, anche parziale o momentanea, elusione o violazione. In tali casi questa corte ha interpretato la norma privilegiando la funzionalita' del mezzo processuale, rispetto ad una mera ritualita' ed all'aspetto sanzionatorio. Cosi' e' per la situazione dell'art. 369 2, n. 2, del c.p.c., allorche' si ritenne che il mancato deposito tempestivo della copia autentica della sentenza oggetto di ricorso (essendo prodotta copia non autentica incompleta) potesse avere elementi integrativi, o sostitutivi, funzionalmente equivalenti, nella produzione della stessa copia da parte del controricorrente, ovvero nell'esistenza di detta copia nel fascicolo d'ufficio (Cassazione 18 gennaio 1982, n. 343; 4luglio 1986, n. 4388). Cosi' e', in relazione all'ipotesi dell'art. 369 2, n. 4, del c.p.c., allorche' venne superata la situazione presclusiva nel caso in cui l'allegazione dei fascicoli, o di atti dei fascicoli, dei precedenti gradi di giudizio (di fatto non depositati) fosse funzionalmente ininfluente in relazione alle situazioni dedotte in controversia in sede di legittimita' (Cassazione 17 gennaio 1987, n. 112). Identico indirizzo e' stato seguito da questa Corte (v. Cassazione, sentenza 15 dicembre 1980, n. 6495; sentenza 5 luglio 1982, n. 3990) in relazione alla fattispecie processuale dell'art. 369 3 del c.p.c., allorche' ritenne che la tardivita' del deposito dell'istanza di trasmissione del fascicolo d'ufficio, cosi' come l'omissine di detto deposito, non determinasse l'improcedibilita'del ricorso qualora il fascicolo fosse comunque pervenuto alla Corte prima dell'emananda pronuncia, ovvero quando gli atti del fascicolo d'ufficio non fossero necessari, limitando l'improcedibilita' del ricorso delle ipotesi in cui dagli atti inseriti nei fascicoli di parte (in mancanza di quello d'ufficio del precedente grado) non si potessero ricavare gli elementi indispendabili per la decisione del ricorso (cass. sentenza n. 5 aprile 1982, n. 2099; 5 dicembre 1986, n. 7241). Ampliando il campo dell'indagine, inoltre, la giurisprudenza di questa corte ha costantemente interpretato la norma processuale nel senso del superamento delle previsioni rituali meramente, o prevalentemente, sanzionatorie, dando rilievo non solo all'aspetto funzionale, ma interpretando la norma stessa secondo il principio del diritto delle parti ad un "giudizio equo", quale espressione che trova il precetto normativo nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Roma 4 novembre 1950, resa esecutiva in Italia il 26 ottobre 1955 con la legge 4 agosto 1955 n. 848). Contrasta, infatti, con il diritto del titolare di una situazione giuridica sostanziale ad un giudizio equo di merito, e secondo i principi dell'ordinamento, una norma rituale che, superando la strumentalita' della disciplina processuale, precluda il perseguimento del diritto fondamentale al giudizio per finalita' che, pur essendo coordinabili con l'esigenza di fluidita' e di speditezza del processo, ledano sostanzialmente una situazione fiuridica essenziale. Indubbiamente l'art. 6 della citata Convenzione tutela anche l'esigenza che la giurisdizione venga esercitata in un arco di tempo ragionevole. Qualora, peraltro, una norma rituale preclusiva non trovi ragione ne' nella tutela delle situazioni di contraddittorio, ne' incida in misura apprezzabile sulla ragionevole durata del processo, in essa assume rilievo prevalente l'aspetto sanzionatorio per il mancato rispetto della ritualita', incomparabile in linea logica con la tutela del diritto al giudizio. A detti criteri si e' attenuta la giursprudenza di questa Corte, oltre che nei casi gia' esaminati, anche quando, nell'interpretazione della disposizione dell'art. 348 2 del c.p.c. (con funzione analoga, per il giudizio di appello, a quella dell'art. 369 del c.p.c.), ha ammesso sostitutivi al mancato inserimento nel fascicolo dell'appellante,al momento della costituzione, di copia autentica della sentenza di primo grado (Cassazione, sentenza 23 luglio 1987, n. 6429; 25 luglio 1981, n. 4816; 18 giugno 1979, n. 3416; 2 maggio 1980, n. 2893), ovvero ha fatto ricorso all'applicazione dell'art. 182 del c.p.c., anche in grado di appello, nel caso in cui nel fascicolo depositato non fosse compreso l'atto di citazione di primo grado, contenente la delega per entrambi i gradi del giudizio (Cassazione 1 giugno 1982, n. 3342). Nella stessa linea logica si pone l'indirizzo di questa corte secondo cui, nei gradi di merito, l'omesso deposito della procura generale alle liti (i cui estremi siano stati enunciati nell'atto introduttivo del grado di giudizio), non e' idoneo a consentire la dichiarazione di invalidita' della costituzione della parte se non dopo che il giudice istruttore, in virtu' del dovere impostogli dall'art. 182 1 del c.p.c., ovvero il collegio ove non abbia provveduto il primo, ovvero ancora il giudice di appello, anche in sede collegiale, non abbiano invitato la parte al deposito della procura, la cui produzione vale a sanare ex tunc l'irregolarita' della costituzione (Cassazione sentenza 8 febbraio 1977, n. 553; 27 aprile 1979, n. 2436; 23 gennaio 1982, n. 466; 21 dicembre 1983, n. 7535). Peraltro, pur avvertendosi anche nell'ambito della previsione dell'art. 369 2, n. 3, del c.p.c. situazioni formali, in cui appare preminente l'aspetto sanzionatorio, i criteri interpretativi della norma non consentono di superare la rigida letteralita' della stessa. Non puo', infatti, farsi ricorso al criterio delle situazioni sostitutive, e cio' in virtu' dell'unilateralita' (rispetto alle posizioni delle parti nel processo) ed unicita' della procura ai difensori; non al criterio dell'utilita' degli atti ai fini del decidere, volta che l'esistenza della procura, l'anteriorita' della stessa alla notificazone del ricorso e la produzione in causa al fine di dimostrare i poteri dei soggetti muniti dello "ius postulandi", e' funzione necessaria in causa, soprattutto in un procedimento civile, come e' il nostro, improntato essenzialmente all'attivita' di mandatari professionali. Ne' sarebbe consentita l'analogica applicazione dell'art. 182 2 del c.p.c., quanto meno perche' non e' permessa l'attivita' di collaborazione del giudice in presenza di una decadenza, che nella specie e' connessa alla perentorieta' del termine di deposito della procura speciale concessa con atto separato. Dall'analisi ora eseguita, in definitiva, puo' trarsi deduzione che l'orientamento giurispridenziale formatosi su norme analoghe, nella funzione di costituzione di una parte in giudizio, all'art. 369 del c.p.c., e' elastico e tollerante, si' da consentire di ricavare in principio consolidato, a mo' di diritto vivente, che le declaratorie di improcedibilita' non possono avere carattere meramente sanzionatorio. Costituisce, invece, diritto vivente la rigida applicazione dell'improcedibilita' per mancato deposito della procura speciale, nel ricorso per cassazione, essendo considerato non derogabile il relativo adempimento nel termine di venti giorni dalla notificazione del ricorso (v. Cass., sentenza 17 aprile 1982, n. 2362; sentenza 28 novembre 1953, n. 3609; 21 dicembre 1962, n. 3412; 23 luglio 1966, n. 2031; 6 luglio 1983, n. 4547), finanche nei giudizi elettorali in cui la parte puo' stare in giudizio di persona qualora abbia agito con difensore (Cassazione, sentenza 10 ottobre 1983, n. 5878). Peraltro, una discrepanza rilevante e, sotto certi aspetti arbitraria, tra le situazioni che con la formalita' del deposito della procura, entro un termine perentorio, la legge intende tutelare, ed il diritto la cui analisi in sede di legittimita' viene di fatto preclusa, puo' individuarsi anche nella fattispecie dell'art. 369 2, n. 3, del c.p.c., discrasia che, se non superabile secondo i criteri interpretativi della legge processuale (come gia' notato), assume diversa tilevanza qualora incida sui principi costituzionali attinenti all'esercizio della giurisdizione. Un esempio dell'indicata discrasia della norma in esame e' evidenziata nel caso di specie, in cui ad una controversia che ha comportato un dibattito tra le parti di alto rilievo su questioni di diritto sostanziale di notevole difficolta' e con incidenza finanziaria e patrimoniale notevolissime (in considerazione degli importi in gioco), e' negata quella forma di tutela che, nell'estensione della garanzia costituzionale della giurisdizione (art. 24 della Costituzione), trova nella legge fondamentale dello Stato una tutela ulteriore e specifica (art. 111 2 della Costituzione), e cio' unicamente per una situazione di irritualita' che, in diverso grado di giudizio puo' trovare pacifica soluzione nelle facolta' di regolarizzazione concesse alle parti e nell'esercizio dei poteri di collaborazione del giudice (art. 182 del c.p.c.), atti a consentire la sanatoria, tra l'altro, proprio di situazioni di irritualita' concernenti l'intempestivita', o l'omissione, nella produzione della procura (Cassazione 8 febbraio 1977, n. 553; 27 aprile 1979, n. 2436; 23 gennaio 1982, n. 466; 10 maggio 1986, n. 3120). Nel caso di specie, la gravita' delle situazioni trattate e l'entita' degli interessi economici in gioco indubbiamente esalta la incomparabilita' tra l'entita' della lesione rituale e la sanzione procedurale che preclude l'esercizio del giudizio di legittimita'; enfatizza l'arbitrarieta' della negazione del giudizio di legittimita', che e' oggetto di garanzia specifica costituzionale, di fronte ad un effetto sanzionatorio che non trova riscontro equivalente, sul piano dei valori cui l'esercizio della giurisdizione deve uniformarsi, nella tutela delle parti e della rapidita' processuale. L'irrazionalita', pero', non e' nel caso di specie, ma nella legge, qualunque sia la natura e l'entita' del diritto sostanziale controverso, legge che non consentendo un'adeguamento funzionale in via di interpretazione, e precludendo, di fronte alla perentorieta' del termine, le soluzioni tipiche pur presenti nel nostro ordinamento processuale con l'art. 182 del c.p.c., nega l'esercizio della giurisdizione, e la tutela processuale di un diritto sostanziale, proprio nella forma piu' elevata e definitiva di giurisdizione, e cio' al fine di tutelare una situazione di rituralita', priva di eguale rilievo e di eguale valore sul piano dei principi costituzionali. I principi ricavabili, nel nostro ordinamento processuale civile, da norme esplicite mediante un procedimento di astrazione generalizzatrice, ed inoltre radicati sulla legge fondamentale, sono richiamabili come segue; A) il processo, come esternato dall'art. 24 1 della Costituzione, deve concedere le stesse utilita' che si sarebbero potute conseguire attraverso l'applicazione della norma di diritto sostanziale, per cui eccezionali debbono ritenersi i casi nei quali la coincidenza di risultati, tra diritto sostanziale e tutela giurisdizionale, non sia realizzabile; B) come variazione logica del punto precedente, si evince l'ulteriore principio secondo cui la cognizione mira a concludersi con una pronuncia di merito, per cui eccezionali debbono essere le ipotesi in cui la violazone delle norme disciplinari del processo imponga che questo si concluda con sentenza che non conosca del diritto sostanziale controverso; C) la ricorribilita' (art. 111 2 della Costituzione) comunque in cassazione per violazione di legge delle sentenze, individuando nella lettura di legittimita' un rafforzamento della garanzia sancita dall'art. 24 1 della Costituzione, sia che essa sia ritenuta integrare una garanzia soggettiva, sia che, superando ma non escludendo le situazioni soggettive, individui essenzialmente una garanzia oggettiva di uniforme interpretazione ed applicazione della legge; D) la tutela della difesa e del contraddittorio (art. 24 2 della Costituzione), che e' strettametne inerente all'effettivita' della tutela giurisdizionale nella sua correlazione di affermazione della situazione di diritto sostanziale. Dal coordinamento dei vari principi ricavabili dal dettato costituzionale in tema di giurisdizione, si puo' dedurre che il giudizio di legittimita' deve ad essi corrispondere, per cui debbono essere eccezionali le situazioni rituali che pongano nel nulla l'esercizio della giurisdizione nella lettura della causa, anche in fase di legittimita', con la previsione di preclusioni perentorie e di improcedibilita' conseguenti. Appaiono ormai superati, infatti, gli indirizzi propensi ad indentificare la garanzia di cui al primo comma dell'art. 24 della Costituzione, e la situazione soggettiva ivi tutelata, con l'esercizio dell'azione in senso tecnico-processuale; e', infatti, decisamente prevalente l'idea che la possibilita' di azione non si esaurisca nella semplice possibilita' di accesso originario alle corti, ma comprenda anche l'attivita' processuale successiva alla domanda inziale, in quanto indispensabile a rendere effettiva e concreta la tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive di vantaggio. La giurisprudenza della Corte costituzionale, pur essendo concorde nel ritenere che la tutela giurisdizionale dei diritti sia suscettiva di limitazioni, ha piu' volte riconosciuto l'illegittimita' costituzionale di limiti irragionevoli o, comunque, atti a svuotare la garanzia sancita, volta che il legislatore e' libero di atteggiare i mezzi di tutela dei diritti in relazione alla tutela di altri interessi costituzionalmente garantiti, con il limite, pero', di non vanificare in sede di giurisdizione situazioni riconosciute in sede sostanziale e di non oppore ostacoli all'esercizio dell'azione che, per incongruita' o non pertinenza, si rivelino irragionevoli. Cosi', pur essendo in linea generale lecita la previsione di limiti di tempo al diritto di azione, poiche' l'art. 24 della Costituzione non richiede che la tutela giurisdizionale debba essere pertetua o, d'altro verso, immediata, occorre pur tuttavia che detti limiti non si traducano in preclusione o impedimento di una effettiva tutela della situazione di vantaggio (Corte costituzionale, sentenze nn. 118/1963, 2/1964, 26 e 87 del 1969, 10/1970, 24 e 85 del 1973, 46/1974 e 372/1988). In base all'idea che "l'art. 24 della Costituzione si riferisce alla tutela processuale del diritto, e percio' se ne puo' assumere la violazione solo quando il legislatore limitasse ingiustificatamente la difesa processuale di un diritto da esso stesso attribuito o riconosciuto" (Corte costituzionale n. 57/1962), detta violazione e' stata, pur tuttavia, riconosciuta quando la previsione di inammissibilita' sia priva di razionalita', se collega la produzione di un effetto grave ed irreparabile alla mera omissione di un inadempimento formale (v. Corte costituzionale n. 98/1975 con riferimento all'inammissibilita' ci costituzione di parte civile nel processo penale per omessa elezione di domicilio nel comune ove sia in corso il giudizio, alla quale l'art. 94 2 del c.p.c. previgente ricollegava l'effetto dell'esclusione del giudizio della parte lesa costituita parte civile). Nello stesso ordine logico si pone, poi, l'indirizzo espresso (Corte costituzionale n. 82/1966), con riferimento alla norma degli artt. 27 e 28 del r.d. 25 giugno 1940, n. 954, essendosi ritenuto che la non ricezione dell'atto presentato dalla parte o dal difensore as- sume carattere sanzionatorio, non proporzionato alla portata ed all'entita' del precetto, se non giustificabile alla stregua di quelle guarentigie giuridiche che lo Stato di diritto offre ai singoli per la tutela dei loro diritti ed interessi legittimi. Identicamente (Corte costituzionale n. 19/1973, con riferimento all'art. 509 del c.p.p. previgente, sanzionante di inammissibilita' la non contestuale esposizione di motivi di opposizione al decreto penale) e' stato ritenuto che "la limitata finalita' dell'onere processuale in esame e la sua circoscritta portata, poste a paragone della gravita' a drasticita' delle conseguenze impeditive comminate, denotano la sproporzione tra obbligo e sanzione e l'incongruita' che l'esercizio dell'esenziale diritto della difesa giudiziale in contradditorio, debba essere precluso di fronte all'inadempimento di un onere che ha, bensi, una sura ragion d'essere, ma che tuttavia non e' rilevante ai fini processualistici". Si ribadisce, quindi, che il diritto ad una giurisdizione equa si traduce nell'illegittimita' di quegli impedimenti, normativamente previsti, che ledano un diritto fondamentale, costituzionalmente garantito, senza perseguire la tutela di un interesse di eguale valore, o comunque apprezzabile, evidenziando che la norma processuale eminentemente sanzionatoria finisce per essere irrazionale o arbitraria quando dalla sua lesione consegua l'impedimento all'esercizio della giurisdizione, anche e specialmente con riferimento al giudizio di legittimita' che trova la sua guarentigia nell'art. 111 2 della Costituzione. Nell'ambito dei principi indicati si tratta di valutare quale sia la funzione del deposito della procura speciale, rilasciata con atto separato dal ricorso, volta che la sua enunciazione nel ricorso, costituente condizione di ammissibilita' dello stesso (art. 366 1, n. 5 del c.p.c.), sia stata soddisfatta, che le controparti costituite non hanno contestato la sussistenza della procura speciale ne' hanno formulato alcuna eccezione sulla sottoscrizione del ricorso a norma dell'art. 365 del c.p.c. Il deposito del ricorso e degli atti indicati dall'art. 369 nel termine ivi previsto, svolge una funzione sostanzialmente equivalente alla costituzione dell'attore, nel giudizio di primo grado (art. 165 del c.p.c.) o dell'appellante nel giudizio di secondo grado (art. 347 del c.p.c.). Cio' malgrado, la manchevolezza, o il ritardo, nel deposito degli atti in primo grado possono essere sanati con l'esercizio da parte del giudizio del potere di collaborazione previsto dall'art. 182 del c.p.c. (potere esteso al collegio ed inoltre al giudice di appello, v. Cassazione, sentenza 27 aprile 1979, n. 2436; 8 febbraio 1971, n. 553), ed analogamente nel giudizio di appello, alla drastica preclusione dell'attivita' processuale si contrappone la sanabilita' con le modalita' dell'art. 348 del c.p.c. e talora (Cassazione sentenza 1 giugno 1982, n. 3342 citata), ancora con l'applicazione della disciplina dell'art. 182 del c.p.c. Significativo e, quindi, che nel procedimento civile, il termine normativo per l'espletamento delle modalita' di costituzione, ed in ispecie per la produzione della procedura prima dell'inizio dell'attivita' di giurisdizione (volta che ne siano indicati gli estremi nell'atto introduttivo del giudizio o del grado) pur corrispondendo ad una esigenza di ordine logico-sequenziale degli atti negli adempimenti di parte e nello svolgimento del processo, non coincide con la tutela di valori essenziali delle parti, tanto e' vero che nei gradi di merito se ne consente la sanabilita', sia pure con la concessione di un termine da parte del giudice, questo si giustamente perentorio, dopo la constatazione di un'inattivita' protratta. Non diverse ragioni possono reggere il giudizio di legittimita', volta che l'enunciazione degli estremi della procura nel ricorso sottoscritto dall'avvocato (cui l'ordinamento processuale conferisce affidabilita', tanto da consentirgli l'autenticazione della firma del mandante, quando la procura sia apposta sull'atto iniziale della fase o del grado del giudizio) soddisfa la condizione di ammissibilita' (art. 366 1, n. 5 del c.p.c.) dando affidabilita' iniziale dell'avvenuto rilascio della procura nella data indicata nel ricorso (sopratutto quando, come nel caso di specie, la contestazione concerne specificamente l'omessa produzione, non l'esistenza, della procura speciale secondo i dati enunciati nel ricorso, ne', quindi, sottoscrizione del ricorso a norma dell'art. 365 del c.p.c.). Non sussiste, inoltre nessuna ragione fondamentale per negare alle parti le opportune iniziative di regolarizzazione, ed al giudice di legittimita' l'esercizio di quei poteri di collaborazione, volti a sanare inadempienze momentanee, non lesive in maniera apprezzabile dei diritti delle controparti processuali, poteri che la legge riconosce al giudice del merito; poteri che, d'altronde, non sono incompatibili con la funzione di questa Corte (e che nella specie non sarebbero certamente preclusi dall'asserzione dell'avvenuto regolare deposito, volta che essa risulti indimostrata). Basti ricordare che, in ipotesi ben piu' essenziale (art. 331 del c.p.c.) nelle quali una scelta legislativa di preclusione avrebbe potuto anche non essere violatrice della tutela dell'art. 24 della Costituzione in considerazione dell'equivalenza della posizione in gioco (la lesione del diritto di difesa dei litisconsorti), la norma processuale ha invece retenuto di fare una scelta funzionale, dando potere al giudice di legittimita' di concessione di un termine (questa volta perentorio) per l'integrazione del contraddittorio. Si consideri, ancora, che anche la disciplina dell'art. 291 del c.p.c. e' stata ritenuta applicabile nel giudizio di cassazione (Cassazione sentenza 7 aprile 1972, n. 1060; n. 434/1975; 26 novembre 1987, n. 8759), imponendo in tale caso al giudice di disporre la rinnovazione della notifica della citazione viziata. Si consideri, infine, che si consente la ragolarizzazione della notifica postale del ricorso, concedendosi termine per l'esibizione della ricevuta di ritorno. Se, quindi, anche nel giudizio di legittimita', l'omissione di una parte, pur incidente su diritti essenziali, consente la concessione di un termine di regolarizzazione; se, inoltre, la tutela inerente al termine di deposito della procura, non ha funzione dissimile da quella relativa alla costituzione dell'attore nel giudizio di merito, nel quale pur tuttavia (oltre ai rimedi consentiti direttamente alle parti) con la previsione dell'art. 182 del c.p.c. si consente al giudice di esplicare quei poteri di collaborazione volti a sanare l'irritualita' originaria; se cio' e' vero, non si evidenziano ragioni essenziali a fondamento della diversa normativa dell'art. 369 2, n. 3 del c.p.c., la quale, per ragioni di mera regolarita' rituale con funzione sanzionatoria, finisce per pregiudicare il diritto al giudizio di legittimita' delle parti, costituzionalmente garantito, al solo fine di perseguire una funzione non comparabile, sul piano dei valori costituzionali, all'impedimeto all'esercizio della giurisdizione. La distonia tra causa ed effetto denota l'irragionevolezza della norma, vuoi sotto il profilo dell'art. 3 della legge fondamentale (creando una diversita' di trattamento essenziale, e non giustificabile, tra le parte che adisca il giudice del merito e quella che agisca nella sede ultima di legittimita', che della prima costituisce l'essenziale estensione e complemento, nella previsione di espressa garanzia costituzionale ex art. 111 2 della Costituzione), ed inoltre sotto il profilo degli artt. 24 della Costituzione, ponendo una preclusione temporale irrazionale all'esercizio del giudizio di leggittimita', senza la possibilita' di sanatoria, ne' ad opera della parte autonomamente, ne' con l'intervento collaborativo del giudice. Ne' gioverebbe, in contrario, rilevare che nella fase di legittimita' manca la figura del giudice istruttore; basti considerare, infatti, che, come gia' ricordato, l'esercizio dei poteri dell'art. 182 del c.p.c. e' stato riconosciuto anche al collegio (in primo grado ed in appello) e che nel giudizio di legittimita' solo il collegio agisce anche per i provvedimenti di carattere ordinatorio. Ne', infine, giova a delinerare una differenza assenziale sul punto, il fatto che per la promozione del giudizio di legittimita' si richiede una procura speciale, quale manifestazione di una volonta' espressa della parte di accedere a quel tipo di giudizio, volta che nella specie non si discute del fatto che quel tipo di procura debba esservi e debba essere depositata, ma solo della razionalita' del termine perentorio di deposito, in relazione alla definitivita' delle conseguenze che la sua violazione comporta. E' chiaro, quindi, che non si verte in una situazione di inadeguatezza della durata del termine per il deposito della procura, ma di irrazionalita', nella comparazione dei contrapposti interessi, della perentorieta' del termine in quanto tale. Non deve d'altronde ritenersi che, generalizzando, il principio finisca per coninvolgere tutti i termini perentori del codice di rito, i quali assumono comunque una funzione di ordine processurale. Al contrario, la correlazione tra la funzione della perentorieta' di un termine e le conseguenze della sua violazione, impone un'analisi specifica e puntuale, evidenziandosi l'illogicita' quando la funzione della singola previsione normativa sia meramente, o eminentemente, sanzionatoria. Tale appare la perentoria del termine nella previsione dell'art. 369 2, n. 3 del c.p.c., il cui superamento sanziona, a carico del titolare del diritto, il mancato compimento, non di un'attivita' giuridica, ma essenzialmente di un'attivita' materiale (il deposito) da parte del mandatario professionale. Im definitiva, la Corte ritiene legittimo il dubbio di costituzionalita' della norma denunciata in quanto essa, imponendo un termine perentorio a pena di improcedibilita' del ricorso, per un adempimento che, a differenza di altri indicati nella norma stessa, non ammette equipollenti di sorta, impedisce alle parti di compiere attivita' di regolarizzazione ed alla Cassazione di applicare l'art. 182 del c.p.c., con la conseguenza, non sorretta di apprezzabili ragioni, di privilegiare una finalita' puramente sanzionatoria, rispetto alla tutela sostanziale dei diritti controversi, e di creare ingiustificata disparita' di trattamento rispetto a situazioni analoghe ed ai gradi anteriori di giudizio. La rilevanza in concreto della questione, infine, non viene preclusa dal fatto che gli avvocati del ricorrente, presenti in udienza, nelle note abbiano affermato l'avvenuto deposito tempestivo della procura (contrariamente alla rilevazione documentale allo stato), in quanto, come gia' detto, l'esercizio dei poteri di collaborazione del giudice nella regolarizzazione di situazioni processuali, non e' precluso da un'affermazione di parte che, nel caso concreto, era fondata sul dato meramente menemonico senza possibilita' di controllo di atti d'ufficio, e la cui esattezza allo stato non trova riscontro. In tali sensi la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 369 2, n. 3 del c.p.c. deve ritenersi non manifestamente infondata. Essa, inoltre, come si e' visto, e' rilevante perche' dalla sua soluzione dipendono, alternativamente, l'applicazione della sanzione di improcedibilita' per la mancata prova di rituale deposito della procura, o l'esame del merito del ricorso previa regolarizzazione della situazione ad opera della parte, spontaneamente ex art. 372 del c.p.c., o previa concessione di un termine ex art. 182 del c.p.c. Alla sospensione del giudizio, consegue, a norma dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'invio degli atti alla Corte costituzionale, la notificazione della presente ordinanza alle parti in causa, al procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione, al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' la comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.