ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 13-ter del d.-l.
 15 gennaio 1991, n. 8  (Nuove  misure  in  materia  di  sequestri  di
 persona  a  scopo  di  estorsione  e  per la protezione di coloro che
 collaborano con la giustizia), convertito, con  modificazioni,  nella
 legge  15 marzo 1991, n. 82, aggiunto dal d.-l. 8 giugno 1992, n. 306
 (Modifiche  urgenti  al  nuovo   codice   di   procedura   penale   e
 provvedimenti  di  contrasto  alla criminalita' mafiosa), convertito,
 con modificazioni,  nella  legge  7  agosto  1992,  n.  356;  giudizi
 promossi  con  ordinanze  emesse  il  26 maggio 1998 dal Tribunale di
 sorveglianza di Torino, il 31 e il 18 marzo, e il 15  settembre  1998
 dal  Tribunale  di  sorveglianza di Roma, rispettivamente iscritte ai
 nn. 644, 668, 714 e 893 del  registro  ordinanze  1998  e  pubblicate
 nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 38, 39, 41 e 52, prima
 serie speciale, dell'anno 1998.
   Visti  gli  atti  di  intervento  del  Presidente del Consiglio dei
 Ministri;
   Udito,  nella  camera  di  consiglio  del 10 marzo 1999, il giudice
 relatore Francesco Guizzi.
                           Ritenuto in fatto
   1.1. - In deroga alle disposizioni riguardanti i limiti di pena  di
 cui  all'art. 47-ter primo comma, della legge 26 luglio 1975, n.  354
 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
 privative e limitative della liberta'), il Tribunale di  sorveglianza
 di  Roma  concedeva  a  un  collaboratore  di  giustizia il beneficio
 dell'espiazione della  pena  di  26  anni  di  reclusione,  in  forma
 alternativa,   per  essere  il  condannato  titolare  dello  speciale
 programma di protezione di cui all'art. 10 del d.-l. 15 gennaio 1991,
 n. 8 (Nuove misure in materia di sequestri  di  persona  a  scopo  di
 estorsione  e  per  la  protezione  di  coloro che collaborano con la
 giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991,
 n. 82.
   Nel corso del procedimento inerente alla  revoca  della  detenzione
 domiciliare  nei  confronti  del  predetto  condannato, trasmesso per
 competenza dal Tribunale di  sorveglianza  di  Roma  in  accoglimento
 dell'eccezione  sollevata dal difensore, il Tribunale di sorveglianza
 di Torino prendeva atto che la Commissione  centrale  per  i  servizi
 speciali  di protezione - senza che vi fosse stata inosservanza degli
 impegni assunti dall'interessato con la sottoscrizione del  programma
 di  protezione  -  non  aveva  prorogato  le  misure  per  la  tutela
 dell'incolumita'.
   All'udienza camerale, la difesa del detenuto invocava il non  luogo
 alla revoca del beneficio, invitando il magistrato di sorveglianza ad
 accogliere  soltanto le richieste modificazioni inerenti alla misura,
 ai sensi dell'art. 5 del decreto ministeriale 24  novembre  1994,  n.
 687  (Regolamento  recante  norme dirette ad individuare i criteri di
 formulazione del programma di protezione di  coloro  che  collaborano
 con la giustizia e le relative modalita' di attuazione).
   Il  pubblico  ministero  concludeva  sostenendo la necessita' della
 revoca della misura, ma eccepiva  l'illegittimita'  dell'art.  13-ter
 aggiunto  al  citato  d.-l. n. 8 del 1991 dal d.-l. 8 giugno 1992, n.
 306  (Modifiche  urgenti  al  nuovo  codice  di  procedura  penale  e
 provvedimenti  di  contrasto  alla criminalita' mafiosa), convertito,
 con modificazioni,  nella  legge  7  agosto  1992,  n.  356,  che  fa
 dipendere  l'espiazione della pena in forma alternativa dal programma
 di protezione.
   Il Tribunale di sorveglianza di  Torino  ha  quindi  sollevato,  in
 riferimento  agli  artt. 3, 27, terzo comma, e 13 della Costituzione,
 questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.   13-ter.   In
 proposito   il   Collegio  rileva  che  le  misure  alternative  alla
 detenzione  o  equivalenti  sono  subordinate  al  parere  preventivo
 dell'autorita'  competente  a  predisporre il programma, si' che - al
 fine di garantire l'incolumita'  personale  di  tali  soggetti  -  le
 misure   possono   essere  concesse  anche  in  deroga  alle  vigenti
 disposizioni. Tuttavia  la  norma  denunciata  nulla  statuirebbe  in
 merito  alle  determinazioni  da  adottare  in  caso  di  revoca  del
 programma di protezione, per cui si porrebbe il  problema  di  quella
 disposta  per  ragioni  non  attinenti  al comportamento del soggetto
 protetto, essendo venuto meno il pericolo, grave e  attuale,  per  la
 sua incolumita'.
   Il  dubbio  interpretativo,  continua  il  remittente, non potrebbe
 essere risolto dalla disposizione contenuta nel regolamento esecutivo
 approvato con il citato decreto ministeriale n. 687 del 1994, ove  si
 prevede  la  non automaticita' della revoca, trattandosi di una fonte
 subordinata alla legge che non inciderebbe sulla sfera di valutazione
 del Tribunale di sorveglianza.
   La disposizione denunciata sarebbe dunque in contrasto sia  con  il
 principio  di  emenda,  contenuto nell'art. 27, terzo comma, il quale
 esclude ogni mutamento della pena in senso peggiorativo e restrittivo
 - allorche' l'evento non dipenda dal condannato - sia con l'art.   13
 della  Costituzione,  perche' il ripristino della detenzione in forma
 ordinaria  per  il  collaboratore   incolpevole   introdurrebbe   una
 limitazione immotivata della liberta' personale, con evidente lesione
 del suo carattere di inviolabilita'.
   Il   giudice  a  quo  sembra  invocare,  infine,  il  principio  di
 eguaglianza  sostanziale  ai  sensi  dell'art  3,  capoverso,   della
 Costituzione, che legittimerebbe "il trattamento dei collaboratori di
 giustizia  in presenza di diversita' di situazioni oggettive rispetto
 agli altri condannati", in considerazione  del  rilevante  contributo
 fornito alla giustizia.
   1.2.  -  E'  intervenuto  il Presidente del Consiglio dei Ministri,
 rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che  ha  concluso
 per l'infondatezza, rilevando che la revoca dei benefici penitenziari
 in  caso  di  cessazione  del  programma,  "per essere venuta meno la
 situazione di  pericolo",  risponderebbe  alla  logica  remota  causa
 removitur  et effectum senza violazione del principio della finalita'
 rieducativa della pena e di quello della liberta' personale.
   2.1. - Nel corso di tre distinti procedimenti per  la  prosecuzione
 della  detenzione  domiciliare  di cui al programma di protezione, il
 Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato, in  riferimento  agli
 artt.  102,  primo e secondo comma, 3, 25, secondo comma, e 27, terzo
 comma,  della   Costituzione,   altra   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  13-ter  comma  3.  Osserva in proposito il
 rimettente che per i provvedimenti di  cui  ai  commi  1  e  2  della
 disposizione  in  esame  "la  competenza appartiene al tribunale e al
 magistrato di sorveglianza del luogo in cui la persona  ammessa  allo
 speciale  programma  di  protezione  ha il domicilio"; e che ai sensi
 dell'art. 12, comma 3, "all'atto della sottoscrizione  del  programma
 l'interessato elegge il proprio domicilio nel luogo in cui ha sede la
 commissione  di  cui all'art.  10". Sennonche' la Corte di cassazione
 ha  interpretato  i  suddetti  articoli,   in   combinato   disposto,
 sostenendo che, a seguito dell'elezione (amministrativa) di domicilio
 nel luogo ove ha sede la Commissione centrale, deve intendersi che le
 persone  sottoposte  al programma di protezione abbiano anche il loro
 domicilio processuale a Roma, presso tale organismo.
    Ad avviso del giudice a quo, tale interpretazione  non  troverebbe
 conforto  nella  lettera  della  legge  e nei lavori parlamentari. La
 disposizione censurata riguarderebbe infatti il domicilio  effettivo,
 senza   contenere   alcun  riferimento  al  meccanismo  elettivo  che
 servirebbe al solo scopo di indicare il recapito per le comunicazioni
 e le notifiche.  Non ne deriverebbe pertanto una deroga  al  criterio
 di  competenza  territoriale,  di  cui  all'art.  677  del  codice di
 procedura penale, poiche' il legislatore si  e'  limitato  a  rendere
 piu'   facile   il   reperimento   dei  collaboratori  di  giustizia,
 assicurando  nel  contempo   la   riservatezza   delle   informazioni
 concentrate    presso   l'autorita'   amministrativa   centrale.   Ne
 conseguirebbe  che  la  certificazione  sul  domicilio,   proveniente
 dall'organismo  preposto  alla  protezione  di  questi  soggetti,  si
 rivelerebbe strumento idoneo a garantire l'efficienza delle attivita'
 processuali.
   L'interpretazione della Cassazione  si  configurerebbe  ormai  come
 diritto  vivente,  palesemente  pero'  in  contrasto  con i parametri
 costituzionali in precedenza richiamati, giacche' introduce di  fatto
 una norma eccezionale e anomala. Essa recherebbe innanzitutto lesione
 all'art.  102,  primo e secondo comma, della Costituzione, perche' la
 disposizione denunciata porrebbe un giudice speciale,  competente  in
 via  esclusiva  su  tutto  il territorio nazionale per i procedimenti
 riguardanti i titolari del  programma  di  protezione.  Il  carattere
 della  straordinarieta'  risulterebbe  -  ad  avviso del rimettente -
 dalla deroga sostanziale alle "vigenti disposizioni" dell'ordinamento
 penitenziario, in  considerazione  del  particolare  status  di  tali
 soggetti  e  dei poteri attribuiti alla Commissione, che attraverso i
 pareri obbligatori resi inciderebbe inevitabilmente sui  procedimenti
 giudiziari.  Si' che nel caso di specie si sarebbe creata una sezione
 specializzata in materia penale, con competenza allargata a tutto  il
 territorio  nazionale;  ne'  d'altra  parte sarebbe giustificabile la
 previsione di una competenza accentrata, anziche' il collegamento con
 il domicilio effettivo dei collaboratori di giustizia.
   Per  quanto  attiene  poi  al  principio  di  emenda,  non  sarebbe
 legittima  la deroga al criterio secondo cui spetta al magistrato che
 ha  la  giurisdizione  e  la  sorveglianza  sull'istituto  carcerario
 seguire  il  processo  rieducativo  del detenuto, avendone conoscenza
 diretta.  E sarebbe altresi' leso il principio del  giudice  naturale
 precostituito   per  legge,  poiche'  la  Commissione  centrale,  che
 attualmente ha sede a Roma, potrebbe essere  trasferita  altrove.  In
 questo  caso,  tenendo  ferma  la linea interpretativa della Corte di
 cassazione, la competenza  in  ordine  a  tali  procedimenti  sarebbe
 sottratta  al  giudice  di  Roma,  dato che la legge non individua il
 luogo ove ha sede la Commissione  e,  quindi,  non  stabilisce  alcun
 collegamento normativo.
   In  via  gradata, il Tribunale di sorveglianza di Roma ha sollevato
 questione di legittimita' costituzionale dell'art.  13-ter  comma  3,
 "in   relazione   alla   competenza  territoriale  del  tribunale  di
 sorveglianza (di Roma) nei confronti  di  soggetti  collaboratori  di
 giustizia,  titolari  di  speciale  programma di protezione, ai sensi
 dell'art. 10, comma 1, della legge n. 82 del 1991, che siano detenuti
 in istituti penitenziari (posti) fuori del distretto della  Corte  di
 appello di Roma".
   2.2.  -  E'  intervenuto  il Presidente del Consiglio dei Ministri,
 rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato,  concludendo  per
 la infondatezza. Le decisioni della Cassazione richiamate dal giudice
 a  quo  come  ius  receptum  ricorda  la  difesa  erariale, sarebbero
 soltanto quattro,  nessuna  delle  quali  pronunciata  dalle  sezioni
 unite,  onde  la possibilita' di una diversa interpretazione secundum
 constitutionem.    Comunque  non  vi  sarebbe  -  alla   luce   delle
 argomentazioni   che  si  riportano  -  alcun  vulnus  dei  parametri
 costituzionali indicati. Innanzitutto, non sarebbe violato l'art. 102
 della  Costituzione,  dal  momento  che   la   concentrazione   della
 competenza  presso un unico giudice per l'intero territorio nazionale
 non  implicherebbe  la creazione ne' di un giudice straordinario, ne'
 di un giudice speciale.
   In  secondo  luogo,  non  vi  sarebbe  lesione  del  principio   di
 ragionevolezza,  poiche'  si giustificherebbe siffatta competenza sia
 con la necessita' di  mantenere  il  riserbo  sul  luogo  in  cui  il
 collaboratore  vive,  sia  con  l'esigenza  di  collegare  i benefici
 penitenziari con l'operato della Commissione centrale.
   In terzo luogo, non sarebbe  vanificato  il  principio  di  emenda,
 posto  che  il  giudice  diverso  da  quello  del luogo di detenzione
 avrebbe gli strumenti  informativi  per  apprezzare  il  percorso  di
 risocializzazione.
   Infine,  sarebbe  da  escludere  il  contrasto con il principio del
 giudice  naturale  precostituito   per   legge,   giacche'   verrebbe
 soddisfatta   la  condizione  secondo  cui  il  giudice  deve  essere
 istituito in base a  criteri  generali  fissati  in  anticipo,  cioe'
 rispetto  a  fattispecie  astratte  e  non  in  vista  di determinate
 controversie.  Onde  sarebbe  ininfluente  il   mutamento   di   sede
 dell'organismo pubblico.
                         Considerato in diritto
   1.  -  Vengono  all'esame  della  Corte  due  distinte questioni di
 legittimita' costituzionale  concernenti  la  medesima  disposizione:
 l'art. 13-ter del d.-l. n. 8 del 1991, convertito, con modificazioni,
 nella  legge  n.  82  del  1991,  aggiunto dal d.-l. n. 306 del 1992,
 convertito, con modificazioni, nella legge n. 356 del 1992.
   In quella sollevata dal Tribunale  di  sorveglianza  di  Torino  si
 ipotizza  il  contrasto  con  gli  artt.  27, terzo comma, e 13 della
 Costituzione, perche' il  condannato  che  subisca  la  revoca  dello
 speciale  programma  di  protezione,  anche  nel  caso di incolpevole
 comportamento, si vedrebbe  privato  della  misura  alternativa  alla
 detenzione  o  dei benefici equiparati, con lesione sia del principio
 di emenda, in ragione del trattamento in peius, sia di  quello  della
 liberta'  personale.  L'ordinanza  sembra  inoltre  sostenere  che il
 principio  di  eguaglianza  sostanziale,  ai   sensi   dell'art.   3,
 capoverso,  della  Costituzione,  legittimerebbe  il  trattamento dei
 collaboratori di giustizia in presenza di  diversita'  di  situazioni
 oggettive  rispetto agli altri condannati. Cio' in considerazione del
 rilevante contributo fornito alla giustizia.
   Quella promossa con tre ordinanze dal Tribunale di sorveglianza  di
 Roma  riguarda  piu' specificamente il comma 3 del citato art. 13-ter
 nell'interpretazione uniforme della Cassazione che intende fissata la
 competenza territoriale presso il  Tribunale  di  sorveglianza  della
 capitale  per effetto dell'elezione di domicilio presso la sede della
 Commissione centrale, prevista come obbligatoria dall'art. 12,  comma
 3, dello stesso decreto-legge. Tale norma contrasterebbe con:
     l'art.  102,  primo  e  secondo  comma,  della  Costituzione, che
 statuisce il divieto di istituire giudici straordinari o speciali;
     con  il  principio  di  ragionevolezza,  non   essendovi   alcuna
 giustificazione  per la deroga ai criteri di competenza e all'assetto
 degli organi giusdicenti previsti dall'ordinamento  giudiziario,  con
 la finalita' rieducativa della pena, di cui all'art. 27, terzo comma,
 poiche'   sottrae   al  magistrato  di  sorveglianza  competente  per
 territorio  il  compito  di  seguire  i   percorsi   emendativi   del
 collaboratore di giustizia;
     con  il  principio  del giudice naturale precostituito per legge,
 contenuto nell'art. 25, secondo comma, della  Costituzione,  giacche'
 la  Commissione  centrale  -  attualmente  con sede a Roma - potrebbe
 essere trasferita altrove.
   2. - Le due questioni, che per la  connessione  dell'oggetto  vanno
 trattate  congiuntamente  e decise con unica pronuncia, sono entrambe
 infondate.
   2.1.  -  Quanto  alla  questione   sollevata   dal   Tribunale   di
 sorveglianza  di  Torino, la disposizione censurata, quale che ne sia
 l'interpretazione,  non  presenta   i   vizi   di   costituzionalita'
 prospettati.   Infatti,   anche  a  voler  condividere  l'ermeneutica
 adottata dal  rimettente,  la  norma  non  lede  il  principio  della
 inviolabilita'  della liberta' personale, che e' palesemente estraneo
 al caso esaminato, trattandosi di esecuzione di  pena  conseguente  a
 sentenza  di  condanna;  ne'  viola  quello  dell'emenda,  in  quanto
 l'eventuale  revoca  del  provvedimento  troverebbe  la  sua   ragion
 d'essere nel venir meno dell'atto presupposto, a cui non risulta piu'
 agganciato. Sulla base dell'opzione interpretativa del rimettente, il
 regime  derogatorio  in  tema  di misure alternative alla detenzione,
 previsto  dall'art.  13-ter  comma  2,  del  d.-l.  n.  8  del  1991,
 introdotto dall'art. 13, comma 2, del d.-l. n. 306 del 1992, sarebbe,
 cioe',  inscindibilmente  connesso  al  permanere  del  programma  di
 protezione.  E tanto darebbe ragione anche del  medesimo  trattamento
 riservato  agli  ex collaboratori di giustizia sia nel caso di revoca
 cosiddetta "incolpevole" dello speciale programma di protezione,  sia
 nel caso di revoca per fatto a loro imputabile.
   2.2. - Del pari infondata e' l'altra questione.
   La previsione della competenza esclusiva attribuita al Tribunale di
 sorveglianza  di  Roma  risponde  alla  necessita'  di  garantire  la
 maggiore  protezione  possibile  ai   collaboratori   di   giustizia,
 impedendo che si possa risalire al luogo ove costoro sono ristretti o
 comunque  sottoposti  a  regime  protettivo.  Si'  che non e' leso il
 principio di emenda, non soltanto perche' la Commissione centrale per
 i servizi di protezione e' in grado di fornire ogni chiarimento  agli
 organi  giurisdizionali  preposti alla sorveglianza, ma anche perche'
 questi ultimi possono  avvalersi  di  tutte  le  articolazioni  degli
 istituti penitenziari per l'osservazione del percorso rieducativo dei
 collaboratori  detenuti  in  strutture  carcerarie non comprese nella
 circoscrizione dell'ufficio romano. Comunque,  ogni  doglianza  circa
 gli  strumenti esistenti riguarderebbe il momento organizzatorio, non
 quello  processuale  che  concerne  la  normativa   in   materia   di
 competenza.   E   va   pure   osservato   che,   sotto   il   profilo
 dell'organizzazione  giurisdizionale  la  previsione  d'una  speciale
 competenza  territoriale non ha mai portato questa Corte ad affermare
 la violazione del principio  del  divieto  d'istituzione  di  giudici
 straordinari   o  speciali  a  proposito  di  organi  giurisdizionali
 "centralizzati" che assorbivano una speciale competenza in  ordine  a
 particolari  affari  (v.  le sentenze nn. 336 del 1995, 231 del 1994,
 369 del 1993, 189 del 1992, 477 del 1991, 117 del 1990, 217 del 1984,
 12 del 1974, 4 del 1969).
   Quanto al fatto che la Commissione centrale ha sede nella  capitale
 solo per una scelta dell'amministrazione dell'Interno, si osserva che
 la  precostituzione viene in tal modo riferita non al giudice, bensi'
 alla Commissione che non e' organo giurisdizionale, per la quale  non
 vige, quindi, il principio del giudice naturale. Del resto, mutamenti
 del  regime  della competenza dovuti a fatti modificativi, in ragione
 dell'applicazione delle sue stesse regole, sono possibili  senza  che
 cio'  comporti  una  lesione  del  principio  di  precostituzione del
 giudice naturale.
   Le questioni vanno, pertanto, dichiarate non fondate.