ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei  giudizi  di  legittimita' costituzionale degli artt. 1 e 2 della
 legge 7 gennaio 1998,  n.  11  (Disciplina  della  partecipazione  al
 procedimento  penale  a  distanza  e  dell'esame  in dibattimento dei
 collaboratori di giustizia, nonche'  modifica  della  competenza  sui
 reclami  in  tema  di  art.  41-bis  dell'ordinamento penitenziario),
 promossi con ordinanze emesse il 14 aprile 1998 dalla Corte di assise
 di Catania, il 2 giugno 1998 dalla Corte di assise di Napoli e il  13
 novembre  1998  dalla  Corte  di  appello  di Napoli, rispettivamente
 iscritte ai nn. 484 e 671 del registro ordinanze 1998 ed al n. 96 del
 registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta  Ufficiale  della
 Repubblica,  nn.   27 e 39, prima serie speciale, dell'anno 1998 e n.
 9, prima serie speciale, dell'anno 1999.
   Visti gli atti di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  14 aprile 1999 il giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                           Ritenuto in fatto
   1. -   La Corte di assise di  Catania  ha  sollevato  questione  di
 legittimita'  costituzionale  degli artt. 1 e 2 della legge 7 gennaio
 1998, n. 11 (Disciplina della partecipazione al procedimento penale a
 distanza e dell'esame in dibattimento dei collaboratori di giustizia,
 nonche' modifica della competenza sui reclami  in  tema  di  articolo
 41-bis  dell'ordinamento  penitenziario)  per contrasto con gli artt.
 10, 13 (verosimilmente: 3), 24 e  27  della  Costituzione.  A  parere
 della   Corte  rimettente,  le  norme  impugnate,  nel  prevedere  la
 partecipazione a distanza degli imputati sottoposti al regime di  cui
 all'art.   41-bis  dell'ordinamento  penitenziario,  contrasterebbero
 anzitutto con l'art.  24 della Costituzione, in quanto il diritto  di
 difesa  non  puo'  ritenersi  garantito in tutti i casi in cui - come
 nella specie - il relativo esercizio  e'  reso  "anche  semplicemente
 piu' difficoltoso".
   Violato sarebbe anche l'art. 10 della Costituzione, giacche' l'art.
 6,  lett.  c)  e  d)  della Convenzione europea dei diritti dell'uomo
 assicurano all'accusato il diritto di interrogare i  testimoni  nelle
 stesse  condizioni  in  cui  vi procede il pubblico ministero, con la
 possibilita',  quindi,  di  intervenire  tempestivamente  tramite  il
 difensore.      La   stessa  Convenzione,  poi,  prevede  il  diritto
 dell'imputato ad un processo pubblico  che  presuppone  -  ad  avviso
 della  Corte  rimettente - la presenza reale "(e non 'virtuale', come
 si usa ormai dire)" dell'imputato in aula. Violato sarebbe,  inoltre,
 l'art.  13  (recte:    3)  della Costituzione, in quanto la normativa
 censurata introdurrebbe una disparita' di trattamento tra imputati  a
 seconda  della  contestazione elevata, compromettendo al tempo stesso
 la  presunzione  di  non  colpevolezza  sancita  dall'art.  27  della
 Costituzione.  In  sostanza  -  rileva  la Corte - sarebbe "la stessa
 accusa  a  determinare  le  diverse  modalita'  di  svolgimento   del
 dibattimento  nei  confronti  di  alcuni imputati attraverso il mezzo
 della contestazione".
   2. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dalla  Avvocatura generale dello
 Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  non  fondata.  A
 parere   della  Avvocatura  non  sussisterebbe,  infatti,  violazione
 dell'art.    27  della  Costituzione  in  quanto la sottoposizione al
 regime di cui  all'art.  41-bis  dell'ordinamento  penitenziario  non
 comporta  per  i soggetti che vi sono sottoposti che gli stessi siano
 considerati "colpevoli" per altri fatti in relazione ai quali vengano
 successivamente processati. Neppure vulnerato sarebbe l'art. 13 della
 Costituzione:  non risulterebbe infatti appropriato, ad avviso  della
 difesa  erariale,  "il  richiamo  alla  disparita'  di trattamento di
 soggetti (imputati); sussiste  infatti  -  si  afferma  nell'atto  di
 intervento  -  precisa  fonte  normativa  in  relazione alla quale un
 soggetto si trova ristretto in regime di 41-bis e comunque lo  stesso
 si  trova "limitato" nella propria liberta' personale in forza di una
 sentenza dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e  modi  previsti
 dalla  legge".  Quanto, poi, alla prospettata violazione dell'art. 10
 della Costituzione, per contrasto con i principi sanciti dall'art.  6
 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, l'Avvocatura ritiene
 che   il  meccanismo  delineato  dalla  normativa  impugnata  per  la
 celebrazione del processo penale a distanza,  consenta  non  solo  la
 difesa dell'imputato, ma anche il diritto di interrogare i testimoni,
 il  che  realizzerebbe  il  diritto  di  difesa tecnica nella udienza
 dibattimentale.
   3. - Anche la Corte di assise di Napoli ha impugnato gli "artt.   1
 e  segg."  della  legge  7 gennaio 1998, n. 11, per contrasto con gli
 artt. 3 e 24 della Costituzione in quanto solo la  presenza  in  aula
 dell'imputato   puo'   consentirgli  di  avere  una  piena  ed  ampia
 conoscenza degli accadimenti che si verificano e di reagire  ad  essi
 con  quella tempestivita' e prontezza che la sua condizione richiede.
 Si sottolinea, d'altra parte, che  la  normativa  impugnata  consegue
 obbligatoriamente  alla emanazione di un provvedimento amministrativo
 costitutivo di un particolare status (quello di sottoposto al  regime
 di   cui  all'art.     41-bis  dell'ordinamento  penitenziario),  che
 penalizza la piena esplicazione del diritto di difesa, soprattutto in
 mancanza di qualsiasi  controllo  giurisdizionale  sull'esistenza  di
 ragioni  superiori  che  giustifichino  la  compressione  di  un tale
 diritto.
   Violato sarebbe anche l'art. 3 della  Costituzione,  in  quanto  la
 normativa   impugnata  imporrebbe  soltanto  ad  alcuni  soggetti  di
 difendersi in modo anomalo a parita' di imputazioni e presunzione  di
 innocenza,  mentre contraddittoriamente vieta, solo con riferimento a
 specifiche imputazioni, la presenza in  aula  del  medesimo  detenuto
 sottoposto   al   regime  di  cui  all'art.  41-bis  dell'ordinamento
 penitenziario, il quale viene diversamente trattato  in  presenza  di
 un'identica presunzione di pericolosita'.
   4.  -  Pure  la  Corte di appello di Napoli solleva, in riferimento
 agli artt. 3 e 24 Cost.,  questione  di  legittimita'  costituzionale
 degli  artt.  "1  e  segg."  della  legge  7  gennaio  1998,  n.  11,
 "riguardante  la  partecipazione  al  dibattimento  in   collegamento
 tele-video di imputati sottoposti al regime detentivo di cui all'art.
 41-bis  dell'ordinamento  penitenziario". Ritiene la Corte rimettente
 che il collegamento in  videoconferenza  comprometta  il  diritto  di
 difesa   in   quanto,  non  essendo  consentita  la  presenza  fisica
 dell'imputato nell'aula del dibattimento, viene precluso il  rapporto
 immediato  tra  difensore  ed assistito, che e' indispensabile per un
 pieno ed efficace esercizio del diritto  di  difesa.  Compromissione,
 quella  di  cui  si  e'  detto,  non  sanata da accorgimenti tecnici,
 giacche' il colloquio riservato tra difensore  ed  assistito  postula
 l'impossibilita'   per   il   primo   di   continuare  a  seguire  il
 dibattimento. Violato sarebbe anche il principio sancito dall'art.  3
 della  Costituzione  attesa  la disparita' di trattamento ravvisabile
 nel fatto che  relativamente  allo  stesso  imputato,  sottoposto  al
 regime  di  cui  all'art.  41-bis  dell'ordinamento penitenziario, il
 collegamento  in  videoconferenza  e'  previsto   solo   per   alcune
 specifiche  imputazioni,  mentre  e' consentita la traduzione in aula
 per altri reati di cui sia imputato.
   5. - Anche in quest'ultimo giudizio e'  intervenuto  il  Presidente
 del  Consiglio  dei  Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
 generale dello Stato,  chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata
 "inammissibile  od  infondata".  A parere della difesa dello Stato la
 normativa oggetto di impugnativa e gli accorgimenti che essa consente
 di adottare permettono di ritenere che le modalita' secondo le  quali
 si  svolge  il  collegamento audiovisivo siano tali da consentire una
 effettiva "partecipazione" al dibattimento cautelando al tempo stesso
 i  contatti  riservati  tra  difensore  e  assistito.  Neppure  viene
 ravvisata,  secondo  la  difesa  erariale,  la  denunciata violazione
 dell'art.  3  della  Costituzione  "in  quanto  appare  assolutamente
 legittimo    che   il   legislatore,   sulla   base   della   propria
 discrezionalita', abbia ritenuto necessaria l'adozione delle  cautele
 del  sistema  della  videoconferenza  solo  in  taluni casi, ossia in
 riferimento alle imputazioni per gravi reati".
                         Considerato in diritto
   1. -  Le ordinanze di rimessione, con varieta'  di  accenti  e  con
 differenziati  livelli di puntualizzazione, sollevano questioni tutte
 riconducibili  alla  medesima  disciplina   normativa,   prospettando
 censure  fra loro in larga misura sovrapponibili: l'evidente analogia
 dei temi coinvolti impone pertanto la riunione dei relativi  giudizi,
 onde consentirne la definizione con un'unica sentenza.
   2.  -  Sono  note  le  ragioni  che  indussero  il  legislatore  ad
 introdurre, con efficacia temporanea, attraverso l'approvazione della
 legge 7 gennaio 1998, n. 11, una particolare e innovativa  disciplina
 che   consentiva,   in  determinate  ipotesi,  la  partecipazione  al
 dibattimento a distanza, mediante un apposito sistema di collegamento
 audiovisivo, nei confronti di imputati di taluni gravi reati  che  si
 trovassero  in  stato  di  detenzione carceraria. Come infatti emerge
 dalla relazione al disegno di legge presentato dal Ministro di grazia
 e giustizia l'11 luglio 1996 alla Camera dei deputati (atto n. 1845),
 si era ormai venuta a manifestare in forme preoccupanti  la  tendenza
 alla  dilatazione dei tempi di definizione della fase dibattimentale,
 specie per i processi relativi a delitti di criminalita' organizzata.
 Cio'  non  soltanto  in  dipendenza  dei   fenomeni   di   gigantismo
 processuale   che   spesso   accompagnano  la  celebrazione  di  quei
 dibattimenti, non di  rado  coinvolgenti  associazioni  criminali  di
 vaste  dimensioni  e  tali da comportare l'audizione di numerosissimi
 testimoni, ma anche perche' gli imputati in stato  di  detenzione  si
 trovavano  spesso  a  dover  contemporaneamente  partecipare  a  piu'
 giudizi,  pendenti  in  sedi  diverse,  con  correlativa  perdita  di
 continuita'  nella  trattazione  del  singolo  processo, posto che la
 maggior parte degli imputati non rinunciava al diritto di presenziare
 alle udienze, di regola numerose, rendendo cosi' necessarie  continue
 traduzioni  da  una sede all'altra.  In tale contesto si prospettava,
 quindi, il concreto pericolo che la  durata  dei  molti  e  complessi
 dibattimenti  in  corso per gravi delitti di criminalita' organizzata
 potesse protrarsi oltre la scadenza dei  termini  massimi  di  durata
 della  custodia cautelare. Accanto a cio', le frequenti traduzioni di
 imputati di gravi delitti di stampo mafioso, rese necessarie al  fine
 di  consentire  a costoro di essere fisicamente presenti non soltanto
 nelle udienze  dibattimentali,  ma  anche  nelle  numerose  occasioni
 processuali  in  cui  e'  prevista  la  celebrazione della udienza in
 camera di consiglio, comportavano, accanto al gravoso  impegno  delle
 forze dell'ordine per garantire adeguatamente la sicurezza e l'ordine
 pubblico,  anche  il rischio che - proprio in dipendenza dei continui
 trasferimenti - risultasse in  concreto  vanificata  l'efficacia  dei
 provvedimenti  di  sospensione  delle ordinarie regole di trattamento
 penitenziario adottati nei confronti dei detenuti piu' pericolosi  ai
 sensi  dell'art. 41-bis secondo comma, della legge 26 luglio 1975, n.
 354. Provvedimenti, questi, che, viceversa,  apparivano  essere  "uno
 strumento  essenziale  per  garantire l'interruzione dei rapporti fra
 gli associati mafiosi in vinculis ed il resto dell'associazione".
   Al fine di fronteggiare tali esigenze, la legge n. 11 del  1998  ha
 inserito  nelle  norme  di  attuazione del codice di procedura penale
 l'art. 146-bis di cui e' stabilito il termine di efficacia alla  data
 del  31  dicembre 2000, ove e' appunto disciplinata la partecipazione
 al dibattimento  a  distanza  quando  si  procede  per  taluni  reati
 espressione   delle  piu'  gravi  manifestazioni  della  criminalita'
 organizzata di stampo mafioso (quelli indicati  nell'art.  51,  comma
 3-bis cod. proc.  pen. e, cioe', delitti, consumati o tentati, di cui
 agli  artt.  416-bis  e  630  cod. pen., delitti commessi avvalendosi
 delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di
 agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  previste  dallo   stesso
 articolo,  nonche'  i  delitti  previsti dall'art. 74 del testo unico
 approvato con d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) nei confronti di persona
 che si trova, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in  carcere.
 In  presenza di questi presupposti, la partecipazione al dibattimento
 avviene a distanza qualora sussistano gravi ragioni di sicurezza o di
 ordine  pubblico,  qualora  il  dibattimento   sia   di   particolare
 complessita'  e  la  partecipazione  a distanza risulti necessaria ad
 evitare ritardi nel suo svolgimento, ovvero qualora - ed  e'  appunto
 questa  l'ipotesi  sottoposta  al  giudizio di costituzionalita' - si
 tratti di detenuto nei cui confronti sia stata  disposta,  per  gravi
 motivi   di   ordine   e   di   sicurezza  pubblica,  la  sospensione
 dell'applicazione delle  regole  di  trattamento  a  norma  dell'art.
 41-bis comma 2, dell'ordinamento penitenziario.
   L'art.  146-bis  delle  norme di attuazione del codice di procedura
 penale descrive poi, nel terzo comma, le misure  tecniche  attraverso
 cui  si  attua  la  partecipazione  a  distanza:  viene  attivato  un
 collegamento audiovisivo tra l'aula  di  udienza  e  il  luogo  della
 custodia, "con modalita' tali da assicurare la contestuale, effettiva
 e reciproca visibilita' delle persone presenti in entrambi i luoghi e
 la  possibilita'  di  udire quanto vi viene detto". Nel quarto comma,
 infine, vengono assicurate la facolta' del  difensore  o  di  un  suo
 sostituto  di  essere presente nel luogo ove si trova l'imputato e la
 possibilita' che il difensore o il suo sostituto  presente  nell'aula
 di  udienza  e  l'imputato si consultino riservatamente, per mezzo di
 idonei strumenti tecnici.
   Il  controllo sull'effettivo funzionamento delle modalita' tecniche
 attraverso cui si attua la partecipazione a  distanza  e'  assicurato
 dalla  presenza nel luogo in cui si trova l'imputato di un ausiliario
 del giudice, chiamato a verificare che non siano posti impedimenti  o
 limitazioni  all'esercizio  dei  diritti  e  delle facolta' spettanti
 all'imputato, nonche' a dare atto dell'osservanza delle  disposizioni
 di cui ai precedenti terzo e quarto commi (comma 6).
   Infine,  il  settimo  comma  prevede  che,  quando nel dibattimento
 occorre procedere a confronto o ricognizione dell'imputato o ad altro
 atto che implica l'osservazione della sua persona, il giudice, ove lo
 ritenga indispensabile, disponga la presenza dell'imputato  nell'aula
 di udienza.
   3.  -  Come gia' emerso nel corso dei lavori parlamentari che hanno
 accompagnato l'iter della legge n. 11 del 1998 e del vasto  dibattito
 che  nell'ambito  della dottrina e' scaturito dalla sua approvazione,
 era evidente che  il  problema  centrale  posto  dall'istituto  della
 partecipazione   al   dibattimento  a  distanza  fosse  quello  della
 compatibilita' con il diritto  di  difesa,  garantito  dall'art.  24,
 secondo  comma,  della  Costituzione.  Sicche',  pur  nella  generale
 condivisione   degli   obiettivi   perseguiti   dalla   novella,   le
 perplessita'  affacciatesi  nelle  diverse  sedi  avevano  finito per
 ruotare  tutte  essenzialmente   attorno   alla   reale   adeguatezza
 dell'istituto,  certo fortemente innovativo, a soddisfare le esigenze
 partecipative che la fase del dibattimento  ontologicamente  postula.
 Nel  nucleo  delle  censure  prospettate  dai  giudici  rimettenti e'
 agevolmente  rinvenibile  l'assunto  secondo  il  quale  la   mancata
 presenza   fisica  dell'imputato  nell'aula  in  cui  si  celebra  il
 dibattimento integrerebbe un fattore in se' idoneo a compromettere  -
 sempre e comunque - il diritto di difesa, vuoi sotto il profilo della
 maggiore  difficolta' di percepire con esattezza gli accadimenti e ad
 essi reagire con tempestivita', vuoi per la mancanza di  un  rapporto
 immediato  tra difensore ed assistito. In sostanza, difesa e presenza
 fisica rappresenterebbero secondo i giudici a quibus i termini di  un
 inscindibile  binomio  che,  solo,  varrebbe ad assegnare concretezza
 all'elemento partecipativo  ed  effettivita'  al  diritto  di  difesa
 concordemente evocato, in una prospettiva, per di piu', non disgiunta
 dai consimili valori fondati sulle inequivoche affermazioni enunciate
 dall'art.    14,  paragrafo  3, lett. d) del Patto internazionale sui
 diritti civili e politici, reso esecutivo con legge 25 ottobre  1977,
 n.  881,  e  dall'art.    6 della Convenzione per la salvaguardia dei
 diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, resa  esecutiva  con
 legge 4 agosto 1955, n.  848.
   La  premessa  secondo  cui  solo  la  presenza fisica nel luogo del
 processo potrebbe assicurare l'effettivita' del  diritto  di  difesa,
 non  e' pero' fondata. Cio' che occorre, sul piano costituzionale, e'
 che sia garantita l'effettiva partecipazione personale e  consapevole
 dell'imputato al dibattimento, e dunque che i mezzi tecnici, nel caso
 della  partecipazione a distanza, siano del tutto idonei a realizzare
 quella partecipazione.
   Da questo punto di vista, le censure del remittente confondono,  in
 sostanza,  la  struttura  della norma e la configurazione del diritto
 con le modalita' pratiche  attraverso  le  quali  la  norma  puo'  in
 concreto  svolgersi  e  il  diritto  essere esercitato, cosicche', in
 tanto  quel  diritto potrebbe dirsi compresso, in quanto la norma cui
 esso si raccorda determinasse - per la sua  stessa  configurazione  e
 non per vicende ad essa estranee - gli effetti distorsivi che vengono
 ora  denunciati.  Ma che nessun effetto distorsivo possa nella specie
 ritenersi direttamente riconducibile  alle  disposizioni  oggetto  di
 impugnativa   si  desume  con  chiarezza  dalla  circostanza  che  la
 normativa  in  esame,  lungi  dal  limitarsi  a  delineare  i   mezzi
 processuali  o  tecnici  attraverso  i quali realizzare gli obiettivi
 perseguiti, ha tracciato un esauriente sistema di "risultati" che  si
 presenta  in  linea  con  il  livello  minimo  di garanzie che devono
 cautelare  il  diritto  dell'imputato  di  "partecipare",  e   quindi
 difendersi,  per  tutto  l'arco  del  dibattimento.  Fondamentale  e'
 infatti  a  questo  proposito  la  previsione  secondo  la  quale  il
 collegamento  audiovisivo  tra  l'aula  di  udienza  ed  il  luogo di
 custodia  deve  essere  realizzato  con  modalita'  tali  da  rendere
 "effettiva",   e  dunque  concreta  e  non  soltanto  "virtuale",  la
 possibilita' di percepire e comunicare,  cosi'  saldando  intimamente
 fra  loro  le potenzialita' ed i perfezionamenti sempre offerti dalla
 tecnica alle esigenze di un "realismo partecipativo" che non puo' non
 ritenersi,  in  se',  del  tutto  in  linea  con  gli  strumenti  che
 l'ordinamento   deve   necessariamente  mettere  a  disposizione  per
 consentire un adeguato esercizio del diritto di difesa nella fase del
 dibattimento. Esigenze, quelle appena accennate,  che  si  completano
 attraverso  la  analoga cautela con la quale il legislatore ha inteso
 assicurare il contatto fra  gli  imputati,  mentre  al  difensore  e'
 sempre  consentito,  eventualmente  anche  tramite  un  sostituto, di
 essere presente nel luogo dove si trova  l'imputato,  cosi'  come  al
 difensore   ed  all'imputato  sono  parimenti  posti  a  disposizione
 strumenti tecnici "idonei", che assicurino la reciproca  possibilita'
 di  consultarsi  riservatamente.   Il tutto ovviamente preservato dal
 potere-dovere  del  giudice  del  dibattimento   di   effettuare   il
 necessario   controllo  circa  l'impiego  di  strumenti  e  modalita'
 tecniche attraverso i quali raggiungere quel livello di  effettivita'
 partecipativa che il legislatore ha inteso doverosamente garantire, e
 di  assicurare  comunque la piena esplicazione della difesa anche con
 la  presenza  dell'imputato  nell'aula  quando  in  concreto   quella
 finalita'  non  sia  altrimenti  raggiungibile  per inadeguatezza del
 mezzo tecnico.
   Un quadro di presidi, dunque, di incisivita' e completezza tali  da
 rendere  la  normativa  in  questione  aderente  al principio sancito
 dall'art. 24, secondo comma, della Carta fondamentale, non  potendosi
 certo  in  tale prospettiva evocare il superamento della tradizione -
 per di piu' nella specie dovuto  alle  innovazioni  introdotte  dalla
 evoluzione  tecnologica  -  quale elemento in se' idoneo a perturbare
 equilibri e dinamiche processuali che, al contrario, rimangono  nella
 sostanza inalterati.
   Alla stregua di tali rilievi, improprio si rivela anche il richiamo
 ai   principi   affermati   nella  Convenzione  europea  dei  diritti
 dell'uomo,  posto  che,  sia  pure  con  modalita'  particolari,   la
 partecipazione  al  dibattimento  dell'imputato  deve rispondere, per
 quel che si e' detto, al canone della "effettivita'",  cosi'  da  far
 risultare  adeguatamente  garantita  la  possibilita', per l'imputato
 stesso ed il suo difensore, di esercitare  concretamente  i  relativi
 diritti.  D'altra  parte,  poiche',  come si e' gia' rilevato, fra le
 dichiarate esigenze che la normativa in esame ha  inteso  soddisfare,
 un  rilievo  essenziale  ha  assunto  quella  di consentire la rapida
 celebrazione dei  dibattimenti  per  gravi  reati  nei  confronti  di
 imputati  detenuti,  non  puo' non derivare da cio' una significativa
 assonanza   proprio   con   l'indicato   strumento   dell'ordinamento
 internazionale,  particolarmente  attento nel rimarcare la necessita'
 che  i  processi,  specie  se  a  carico  di  imputati  in  stato  di
 detenzione, si svolgano in tempi ragionevolmente brevi.
   Priva  di  fondamento  appare  essere, infine, anche la prospettata
 violazione del principio di eguaglianza e di quello sancito dall'art.
 27, secondo comma, della Costituzione, in quanto le peculiarita'  che
 caratterizzano   la  sottoposizione  all'eccezionale  regime  di  cui
 all'art.   41-bis   dell'ordinamento   penitenziario,   secondo    la
 configurazione  ed  i limiti ad esso impressi dalla giurisprudenza di
 questa  Corte,  e  le   altrettanto   specifiche   connotazioni   che
 qualificano  i  procedimenti per i quali la normativa impugnata trova
 applicazione,   da   un   lato   adeguatamente      giustificano   la
 particolarita'   della   disciplina  e,  dall'altro,  impediscono  di
 ritenere vulnerata la presunzione di non colpevolezza.