IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sui ricorsi nn. 13605/1998 e 13606/1998, proposti, il primo, da Mannara Romeo e, il secondo, da Vitelli Giuseppe, rappresentati e difesi dall'avv. Riccardo Gozzi presso lo studio del quale in Roma, via Simone de Saint Bon n. 61, sono elettivamente domiciliati; Contro il Ministero di grazia e giustizia in persona del Ministro pro-tempore, per la carica rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, e' domiciliato ope legis; per l'annullamento dei decreti del direttore generale del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (D.P.A.) del Ministero di grazia e giustizia resi in data 17 settembre 1998, con i quali i ricorrenti sono stati dimessi dal Corpo di polizia penitenziaria poiche' non in possesso dei requisiti previsti dall'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 398/1997, nonche' di ogni altro connesso, presupposto e conseguenziale; Visti i ricorsi con i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'amministrazione intimata; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Relatore, alla pubblica udienza del 7 aprile 1999, il consigliere Lucrezio Monticelli; Udito, in detta udienza, l'avv. Riccardo Gozzi per i ricorrenti; Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue: F a t t o Con decreto in data 17 settembre 1998 il direttore generale del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero di grazia e giustizia, dopo aver menzionato diversi gravi reati che risultavano essere stati commessi dal padre di Romeo Mannara, rilevava che: "i precedenti penali del familiare del Mannara possono ritenersi preclusivi alla di lui assunzione nel Corpo di polizia penitenziaria, in quanto, per la pubblicita' di cui inevitabilmente tali situazioni sono oggetto, lederebbero gravemente il prestigio dell'amministrazione pubblica in genere e di quella penitenziaria in particolare; in relazione alla predetta inevitabile pubblicita', invero, un agente a carico del cui padre risultino i citati pregiudizi penali, non puo' porsi nei confronti della popolazione detenuta con la necessaria imparzialita' e con l'autorevolezza che i suoi compiti richiedono, fra questi, in particolare la valutazione che l'agente di polizia penitenziaria e' tenuto ad operare circa gli elementi utili per la fruizione dei programmi individuali di trattamento; in tale situazione non potrebbero escludersi pesanti riflessi negativi sull'ordine e la sicurezza interna degli istituti penitenziari; il possibile venire meno della necessaria autorevolezza e imparzialita' in capo all'agente di polizia penitenziaria potrebbe determinare in taluni detenuti il convincimento di poter ottenere dallo stesso agente trattamenti di favore o comunque, non consentiti dall'ordinamento penitenziario; l'ambiente familiare del Mannara non puo' non aver influito sulla sua formazione; gli aspiranti agenti di polizia penitenziaria devono essere in possesso dei requisiti previsti dall'art. 124 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, come richiamato dall'art. 26 della legge 1 febbraio 1989, n. 53 e come sostituito dall'art. 6, del d.lgs. 17 novembre 1997 n. 398; sulla base dei pregiudizi illustrati, in relazione al disposto di cui all'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 398/1997, non e' possibile procedere all'assunzione nel Corpo di polizia penitenziaria del sig. Mannara Romeo in relazione ai delicati compiti demandati al personale del Corpo stesso"; Cio' premesso, il provvedimento si concludeva nel senso che il Mannara veniva dimesso dal Corpo di polizia penitenziaria peche' non in possesso dei requisiti previsti dall'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 398/1997. L'interessato ha impugnato in questa sede (ric. n. 13605/1998) detto provvedimento, deducendo le seguenti censure: il direttore generale del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria avrebbe illegittimamente posto a base dell'impugnato provvedimento di dimissioni illeciti penali non commessi dal ricorrente. Sarebbe altresi' irragionevole l'assunto dell'amministrazione secondo cui l'ambito familiare del ricorrente non puo' non aver influito sulla sua formazione, in quanto la famiglia non potrebbe piu' ritenersi, secondo la recente giurisprudenza della Corte costituzionale, quale ambito esclusivo di socializzazione dei giovani. In ogni caso, qualora il provvedimento impugnato si fondi sull'art. 6, comma 2 del d.lgs. 17 novembre 1997 n. 398 (richiamato per la polizia penitenziaria dall'art. 26 della legge 2 febbraio 1989, n. 53), che prevede l'esclusione per coloro i cui parenti siano stati condannati per determinati delitti, detta norma sarebbe incostituzionale per violazione degli artt. 3 e 51 della Costituzione. Non si sarebbe considerato che in ogni caso l'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 398/1997, e' entrato in vigore successivamente alla scadenza del termine di presentazione delle domande di cui all'art. 1 del decreto interministeriale del 3 dicembre1996, sicche' si sarebbe violato il disposto dell'art. 11 delle preleggi, per cui la legge non dispone che per l'avvenire. Il direttore generale del D.A.P., nell'adottare il provvedimento impugnato e prima di determinarsi a disporre la dimissione dal servizio a carico del ricorrente, avrebbe poi omesso di richiedere allo stesso i necessari ed opportuni chiarimenti utili al completamento dell'istruttoria, cosi' violando apertamente il principio - sancito dagli articoli 7, 8 e 10 della legge n. 241/1990 - della obbligatoria partecipazione dell'interessato al procedimento amministrativo. Il provvedimento impugnato sarebbe inoltre illegittimo in quanto non sarebbe stato comunicato al ricorrente entro il termine di decadenza di cui all'art. 124, ultimo comma, del r.d. 12/1941 - come modificato dallo stesso art. 6 del d.lgs. n. 398/1997 invocato dall'amministrazione - e cioe' "almeno trenta giorni prima dello svolgimento della prova scritta". Lamenta il ricorrente anche la violazione dell'art. 2 della legge n. 241/1990, che prevede che la conclusione del procedimento debba avvenire, in assenza di altri termini prescritti dalla legge o da un regolamento, entro il termine di trenta giorni. Non sarebbe stato nemmeno rispettato il disposto dell'art. 4, comma 2, del decreto interministeriale del 3 dicembre 1996, integrativo del bando di concorso, ai sensi del quale: "L'accertamento dei requisiti generali di cui all'art. 5, commi 1 e 2, del d.lgs. 30 ottobre 1992, n. 443, puo' essere svolto in fase o grado della procedura, fino all'immissione in ruolo". Nella fattispecie sarebbe stato in sostanza adottato un provvedimento di autotutela oltre ogni ragionevole limite di tempo, il quale peraltro, avendo inciso su una posizione soggettiva ormai consolidata, avrebbe richiesto la dimostrazione dell'esistenza di un concreto e specifico interesse pubblico da comparare con l'interesse del dipendente destinato ad essere sacrificato. Assume infine l'istante che l'articolo unico della legge 29 ottobre 1984, n. 732 avrebbe eliminato, anche per l'ingresso in magistratura, e quindi per l'ingresso in tutte quelle altre amministrazioni dello Stato che si richiamano all'ordinamento giudiziario, il requisito della buona condotta. Si e' costituita in giudizio l'amministrazione intimata, chiedendo la reiezione del ricorso per infondatezza. In data 17 settembre 1998 il direttore generale dell'amministrazione penitenziaria del Ministero di grazia e giustizia ha adottato un analogo provvedimento di esclusione nei confronti di Giuseppe Vitelli a causa di gravi reati commessi dal fratello. Il Vitelli ha impugnato in questa sede (ricorso n. 13606/1998) il provvedimento, deducendo le medesime censure formulate nel ricorso proposto dal Mannara. Anche con riferimento a quest'ultimo ricorso si e' costituita l'amministrazione intimata, chiedendone la reiezione per infondatezza. D i r i t t o 1. - I due ricorsi indicati in epigrafe sono stati proposti nei confronti della medesima amministrazione per l'impugnazione, con deduzione di identici motivi, di provvedimenti aventi contenuto analogo. E', pertanto, opportuno riunire i due ricorsi, perche' gli stessi possano essere decisi con un'unica sentenza. 2. - Con i provvedimenti impugnati i ricorrenti sono stati dimessi dal Corpo di polizia penitenziaria in quanto non ritenuti in possesso dei prescritti requisiti morali e di condotta in considerazione dei gravi reati commessi dal padre dell'uno e dal fratello dell'altro. 3. - Avverso tale provvedimento gli interessati hanno proposto talune censure di carattere essenzialmente formale ed altre di carattere sostanziale. 3.1. - Sotto il primo profilo e' stato dedotto che: a) il d. lgs. n. 398/1997 sarebbe entrato in vigore successivamente al termine previsto per la presentazione delle domande di partecipazione al concorso; b) non sarebbe stato consentito al ricorrente di partecipare al procedimento e di fornire gli elementi utili per il completamento dell'istruttoria; c) il provvedimento sarebbe stato adottato tardivamente, in quanto non sarebbero stati rispettati ne' il termine di trenta giorni anteriori allo svolgimento della prova scritta previsto dall'ultimo comma del r.d. n. 12/1941, come modificato dall'art. 6 del d. lgs. n. 398/1997, ne' il termine (prima dell'immissione in ruolo) stabilito dall'art. 4, comma 2 del decreto ministeriale del 3 dicembre 1996 per l'accertamento dei requisiti generali previsti dall'art. 5, commi 1 e 2 del d. lgs. n. 443/1992, ne' comunque il termine di trenta giorni fissato dall'art. 2 della legge n. 241/1990 per la conclusione di qualsiasi procedimento per cui non e' stabilito alcun termine dalla legge o dal regolamento; d) non sarebbe stato rispettato il principio secondo cui ogni provvedimento di autotutela dovrebbe motivare sulla sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto all'annullamento; e) il requisito della buona condotta sarebbe stato ormai eliminato, per qualsiasi categoria di pubblici dipendenti, dalla legge 29 gennaio 1984 n. 732. Con separata sentenza parziale pronunciata nell'odierna Camera di consiglio la sezione ha riconosciuto l'infondatezza delle predette censure. Per quanto riguarda le censure di carattere sostanziale dedotte dai ricorrenti, va rilevato che le stesse muovono tutte dal presupposto che, ai fini della valutazione delle qualita' morali e di condotta di un aspirante alla nomina ad agente di polizia penitenziaria, non possano essere presi in considerazione fatti penalmente rilevanti posti in essere da parenti o affini dell'interessato. Senonche', un'affermazione del genere si pone in contrasto con il chiaro disposto dell'art. 6 del d.lgs. 17 novembre 1997 n. 398, (richiamato dalla legge n. 53/1989), che prevede espressamente che l'accesso al ruolo e' precluso per coloro i cui parenti in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro il secondo, abbiano riportato condanne per taluni dei delitti di cui all'art. 407, comma 2, lettera e) del codice di procedura penale. Una pronuncia giurisprudenziale favorevole per il ricorrente puo' aversi dunque solo se la predetta disposizione, cosi' come richiesto dagli istanti medesimi, sia dichiarata costituzionalmente illegittima. La questione di costituzionalita' della disposizione in esame si appalesa dunque rilevante ai fini del presente giudizio. La medesima questione e' altresi' non manifestamente infondata con riferimento agli artt. 3 e 51 della Costituzione. La Corte costituzionale, con sentenza 31 marzo 1994 n. 108, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 26 della legge 1 febbraio 1989, n. 53, nella parte in cui, rinviando per l'accesso ai ruoli del personale della polizia di Stato al possesso delle qualita' morali e di condotta stabilite per l'ammissione ai concorsi della magistratura ordinaria, prevedeva, con riferimento al testo all'epoca vigente dell'art. 124 del r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 che dovessero essere esclusi coloro che, per le informazioni raccolte, non risultavano, secondo l'apprezzamento insindacabile del Ministro competente, appartenenti a famiglia di estimazione morale indiscussa. La Corte costituzionale, ha rilevato che secondo la sua costante giurisprudenza, risalente alle sentenze nn. 15 e 33 del 1960, l'art. 51, primo comma, della Costituzione, nel demandare al legislatore la fissazione dei requisiti in base ai quali tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici, non intende, certo sottrarre tale potere a qualsivoglia sindacato di legittimita' costituzionale sotto il profilo della congruita' e della ragionevolezza delle limitazioni previste. Un sindacato del genere deve essere infatti ammesso non soltanto per motivi di ordine generale - legati al fatto che, ogni volta che il legislatore e' tenuto a bilanciare distinti valori costituzionali, non puo' affatto essere preclusa la via del controllo in ordine alla congruita' e alla ragionevolezza del bilanciamento compiuto - ma anche per lo specifico motivo che lo stesso art. 51, precisando espressamente che il predetto accesso dev'essere garantito a tutti i cittadini "in condizioni di eguaglianza", vincola il legislatore a sottoporre la propria discrezionalita' di scelta ai rigorosi parametri posti dall'art. 3 della Costituzione. La Corte ha dunque stabilito che ogni disposizione in materia deve essere esaminata sotto il profilo della sua congruita' e ragionevolezza in riferimento a principio costituzionale che vieta al legislatore, nell'esercizio del suo potere discrezionale volto a stabilire per determinate categorie di pubblici uffici particolari e specifici requisiti di accesso, di far si' che questi ultimi si traducano, in concreto, in arbitrarie discriminazioni o in ingiustificate barriere in ordine all'ingresso nel posto di lavoro cui si e' liberamente indirizzato il singolo cittadino. Sotto questo aspetto, il controllo di costituzionalita', sempre secondo la Corte deve tener conto del rilievo che le garanzie predisposte dall'art. 51 della Costituzione riguardo all'accesso dei cittadini nei pubblici uffici sono un'applicazione particolare della generale liberta' da irragionevoli limitazioni nell'accesso al lavoro (v. spec. sentt. della Corte costituzionale nn. 207 del 1976 e 61 del 1965), che, per costante giurisprudenza costituzionale, e' riconosciuta come profilo particolare del "diritto al lavoro" (art. 4 della Costituzione), un diritto piu' volte qualificato dalla Corte, anche con riferimento ai pubblici uffici, come "fondamentale diritto di liberta' della persona umana" (v. ad esempio, sent. della Corte costituzionale n. 45 del 1965). Cio' posto, si e' ritenuto che la condizione per l'accesso ai ruoli del personale della polizia, concernente l'appartenenza a famiglia di estimazione morale indiscussa, non puo' ragionevolmente ricondursi nell'ambito dei requisiti attitudinali dei singoli aspiranti, la cui determinazione e' demandata dall'art. 51, primo comma, della Costituzione al legislatore ordinario. Quella condizione, infatti, non riguarda capacita', attitudini o condotte relative al soggetto interessato, ma consiste in valutazioni o in comportamenti imputati all'ambiente familiare, che, in base a un'arbitraria presunzione legislativa, vengono automaticamente riferiti al soggetto stesso. In conseguenza di cio', si e' affermato che la norma denunciata prevede una condizione comportante una limitazione irragionevole all'accesso ai pubblici uffici, in violazione del divieto contenuto nel principio di eguaglianza garantito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione. La Corte ha in proposito precisato che la norma in questione riflette una situazione storica della societa' italiana propria di molti decenni or sono, quando la famiglia era, di norma, l'ambito di socializzazione pressoche' esclusivo dei giovani, mentre ora, a seguito dell'attuazione dell'obbligo scolastico e dello sviluppo delle possibilita' reali di frequentare gli istituti di istruzione fino al livello universitario e a seguito dell'evoluzione dei rapporti sociali generali, che permette ai giovani un'accresciuta possibilita' di interazione in ambienti extrafamiliari, non si puo' negare l'eventualita' che singoli soggetti maturino in se' stessi la credenza in valori diversi o antitetici rispetto a quelli diffusi nelle proprie famiglie di origine e ispirino le proprie condotte a modelli di convivenza sociale differenti o contrari rispetto a quelli seguiti dai genitori o da altri componenti del proprio nucleo familiare. Pertanto, se non e' irragionevole che la moralita' e la condotta di un soggetto che aspiri a entrare nei ruoli della polizia di Stato sia accertata anche con riferimento all'atteggiamento e al comportamento dell'interessato nei suoi ambienti di vita associata, compresa la famiglia, e' invece arbitrario, nel concreto contesto storico appena delineato, presumere che valutazioni o comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall'interessato debbano essere automaticamente trasferiti all'interessato medesimo. Senonche', la nuova formulazione dell'art. 124 del r.d. n. 12/1941 introdotta dall'art. 6 del d.lgs. n. 398/1997 (richiamata dall'art. 26 della legge n. 53/1989), nel prevedere l'esclusione per coloro i cui parenti entro un certo grado abbiano commesso determinati delitti, ripropone quelle conseguenze sfavorevoli per fatti o comportamenti non direttamente riferibili all'interessato che la Corte costituzionale ha censurato con la citata sentenza. Dette disposizioni sembrano porsi, pertanto, in contrasto con gli artt. 3 e 51 della Costituzione per le medesime ragioni gia' evidenziate dalla Corte costituzionale nella precedente sentenza.