Ordinanza
nei  giudizi  per  conflitto  di  attribuzione tra poteri dello Stato
sorti  a  seguito  della sentenza della Corte di cassazione, n. 21748
del  16  ottobre  2007 e del decreto della Corte di appello di Milano
del  25 giugno 2008, promossi con ricorsi della Camera dei deputati e
del Senato della Repubblica depositati in cancelleria il 17 settembre
2008  ed  iscritti  ai  nn. 16 e 17 del registro conflitti tra poteri
dello Stato 2008, fase di ammissibilita'.
   Udito  nella  Camera  di  consiglio dell'8 ottobre 2008 il giudice
relatore Ugo De Siervo.
   Ritenuto  che  con  ricorso  depositato il 17 settembre 2008 (reg.
confl.  poteri  amm.  n. 16  del  2008),  la  Camera  dei deputati ha
sollevato  conflitto  di  attribuzione  nei  confronti della Corte di
cassazione  e  della  Corte  di appello di Milano, assumendo che tali
Autorita'  giudiziarie  abbiano  «esercitato attribuzioni proprie del
potere  legislativo,  comunque  interferendo  con  le prerogative del
potere medesimo»;
     che, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione, sez.
1  civile,  n. 21748  del 2007 e il decreto della Corte di appello di
Milano, sez. I civile, n. 88 del 25 giugno 2008 avrebbero «creato una
disciplina  innovativa  della fattispecie, fondata su presupposti non
ricavabili   dall'ordinamento   vigente   con   alcuno   dei  criteri
ermeneutici utilizzabili dall'autorita' giudiziaria», cosi' meritando
di essere annullate da questa Corte;
     che  entrambi  i  provvedimenti menzionati sono stati adottati a
seguito della domanda del tutore di una giovane donna di interrompere
il  trattamento  (alimentazione con sondino gastrico) che mantiene in
essere  lo  stato vegetativo permanente in cui ella giace da numerosi
anni, a seguito di un incidente stradale;
     che  tale  domanda,  gia'  rigettata dal Tribunale di Lecco e da
altra  sezione  della  Corte  di  appello  di Milano, e' stata infine
accolta  tramite  il decreto impugnato, a seguito della pronuncia del
giudice  di  legittimita'  con  cui  si e' annullato il provvedimento
negativo della Corte di appello;
     che   la   Corte  di  cassazione  ha  stabilito  che  il  legale
rappresentante  che  chiede  l'interruzione  del  trattamento  vitale
«deve, innanzitutto, agire nell'esclusivo interesse dell'incapace; e,
nella  ricerca  del  best  interest,  deve  decidere  non  "al posto"
dell'incapace  ne'  "per"  l'incapace,  ma  "con" l'incapace: quindi,
ricostruendo  la  presunta  volonta'  del  paziente incosciente, gia'
adulto  prima  di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da
lui  espressi  prima  della perdita della coscienza, ovvero inferendo
quella  volonta' dalla sua personalita', dal suo stile di vita, dalle
sue  inclinazioni,  dai  suoi  valori  di  riferimento  e  dalle  sue
convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche»;
     che,   pertanto,  l'interruzione  del  trattamento  puo'  venire
disposta  soltanto: «a) quando la condizione di stato vegetativo sia,
in  base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi
sia   alcun  fondamento  medico,  secondo  gli  standard  scientifici
riconosciuti  a  livello  internazionale,  che  lasci supporre che la
persona  abbia la benche' minima possibilita' di un qualche, sia pure
flebile,  recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del
mondo esterno; e b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva,
in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della
voce  del rappresentato, tratta dalla sua personalita', dal suo stile
di  vita  e  dai  suoi  convincimenti,  corrispondendo al suo modo di
concepire,  prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di
dignita' della persona»;
     che  la  Camera  ricorrente ritiene pacificamente ammissibile il
conflitto,  in  quanto  esso  non avrebbe ad oggetto un mero error in
iudicando   da   parte   dell'Autorita'   giudiziaria:  quest'ultima,
viceversa,  avrebbe  colmato il vuoto normativo assunto a presupposto
delle    proprie   pronunce   «mediante   un'attivita'   che   assume
sostanzialmente i connotati di vera e propria attivita' di produzione
normativa»;
     che   sarebbe   percio'  interesse  della  Camera  «ripristinare
l'ordine costituzionale delle attribuzioni», giacche' per tale via si
sarebbe  realizzato  «il  radicale  sovvertimento del principio della
divisione  dei  poteri»,  in  violazione degli artt. 70, 101, secondo
comma e 102, primo comma, della Costituzione;
     che  il  presupposto  da  cui  muove  la  ricorrente risiede nel
difetto di un'espressa disciplina legislativa atta a regolamentare la
fattispecie, come avrebbe affermato la stessa Corte di cassazione;
     che   mentre   quest'ultima  ha  ugualmente  ritenuto  di  poter
accogliere  la  domanda, la Camera sostiene che cio' sarebbe precluso
al  giudice,  attesa la «appartenenza della materia alla sfera tipica
della  discrezionalita' legislativa»: l'autorita' giudiziaria avrebbe
invece «proceduto all'auto produzione della disposizione normativa»;
     che  tale  circostanza  troverebbe  conferma  in numerosi indici
segnalati dalla ricorrente;
     che,  anzitutto,  la Cassazione, traendo spunti da «una congerie
di  richiami  a soluzioni che al riguardo sarebbero state adottate in
ordinamenti  e  sentenze  straniere»  e  spingendosi  persino oltre i
limiti    ivi    tracciati,    avrebbe    essa    stessa   confermato
«l'impossibilita'  di  reperire  nel  nostro  ordinamento vigente una
apposita  disciplina  legislativa»; inoltre, «le numerose proposte di
legge avanzate in materia, peraltro pendenti al momento dell'adozione
dei  provvedimenti  giudiziari  impugnati»  sarebbero  «probanti» del
vuoto  normativo che fino ad ora ha accompagnato il cd. testamento di
vita: «d'altro canto, e' ben comprensibile», aggiunge la Camera, «che
nell'ambito  dei campi dell'esperienza umana in cui, come nel caso di
cui  si  tratta,  l'evoluzione medico scientifica sollevi controverse
questioni  etico/giuridiche fondamentali, la risposta del legislatore
-  quale che ne possa essere il verso - non sia pressoche' immediata,
ma  necessiti  di adeguati tempi di riflessione, ferma restando nelle
more l'obbligatoria applicazione della normativa esistente»;
     che   in   presenza   di   tali   condizioni,  per  giustificare
l'intervento  del  giudice  non  «sarebbe  conferente appellarsi alla
impossibilita'  del "non liquet", considerato che la sua ratio non e'
certamente  quella  di  consentire  la  trasformazione del giudice in
legislatore,  ma  anzi  e'  volta,  come  si sa, a rendere ancor piu'
ineludibile il vincolo al rispetto del sistema legislativo vigente»;
     che,  infatti,  alla  luce  degli  artt.  70,  101  e  102 della
Costituzione,  «nessuno potrebbe disconoscere che nella Costituzione,
conformemente  alla nostra tradizione giuridica, opera una istanza di
ripartizione  dei  compiti  tra  il  potere  legislativo ed il potere
giudiziario  il  cui  nucleo essenziale non puo' subire alterazioni o
attenuazioni  di  sorta.  Tale  istanza trova appunto la sua puntuale
espressione  nelle  disposizioni  costituzionali sopra richiamate, le
quali  respingono recisamente l'idea, che emerge obiettivamente dalle
sentenze  qui  impugnate,  che  tra  funzione  legislativa e funzione
giurisdizionale  vi  sia  niente di piu' che una frontiera mobile che
ciascun potere potrebbe liberamente varcare all'occorrenza»;
     che,   a  maggior  ragione,  tale  conclusione  dovrebbe  venire
ribadita  con  riferimento alla disciplina dei diritti costituzionali
soggetti  a  riserva  di  legge, giacche' in tal caso «la legge e' il
mezzo privilegiato destinato alla conformazione» di tali diritti;
     che, prosegue la ricorrente, l'Autorita' giudiziaria non avrebbe
potuto  pronunciare  ai  sensi  dell'art. 12 delle disposizioni sulla
legge  in  generale,  poiche', al contrario, gli artt. 357 e 414 cod.
civ.,  in  tema  di  poteri  del  tutore,  gia'  allo stato avrebbero
precluso  l'accoglimento  della  domanda, non potendosi attribuire al
primo,  a parere della Camera, la prerogativa di «disporre della vita
del soggetto tutelato»;
     che,  parimenti, l'art. 5 cod. civ., in tema di atti dispositivi
del  proprio corpo, e gli artt. 575, 576, 577, 579, 580 cod. pen., in
tema  di  omicidio,  avrebbero  imposto  all'Autorita' giudiziaria di
concludere  che  nel nostro ordinamento vige «un principio ispiratore
di  fondo  che e' quello della indisponibilita' del bene della vita»,
tutelato   dall'art.   2  della  Costituzione,  secondo  quanto  gia'
apprezzato,   in  fattispecie  che  la  Camera  reputa  analoga,  dal
Tribunale  di  Roma,  sezione  I civile, con sentenza del 15 dicembre
2006;
     che,    per    contro,   gli   elementi   normativi   richiamati
dall'Autorita'  giudiziaria  a  sostegno delle pronunce appaiono alla
ricorrente   «palesemente   inidonei»:   infatti,   sia   il  decreto
legislativo  24  giugno  2003,  n. 211  (Attuazione  della  direttiva
2001/20/CE  relativa  all'applicazione  della  buona  pratica clinica
nell'esecuzione  delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso
clinico), sia l'art. 13 della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per
la  tutela  sociale  della  maternita' e sull'interruzione volontaria
della  gravidanza), sia il codice deontologico dei medici, sia l'art.
2  della  CEDU,  sia  infine  la  Convenzione  di Oviedo sancirebbero
l'opposto principio di tutela del diritto alla vita e alla salute del
paziente;
     che,  infine,  neppure  gli  artt.  13  e  32 della Costituzione
varrebbero,   secondo   la  Camera  dei  deputati,  a  sorreggere  le
conclusioni cui e' giunta l'Autorita' giudiziaria, posto che «anche a
considerare   l'ipotesi   che   i   principi   costituzionali   siano
suscettibili  di  applicazione  diretta  in  sede  giudiziaria, detta
eventualita'  non  puo'  che risultare circoscritta al caso in cui il
loro  contenuto precettivo sia univoco ed auto sufficiente, come tale
in  grado  di assolvere ex se alla funzione di criterio esauriente di
qualificazione della fattispecie»;
     che,   invece,  le  precitate  disposizioni  costituzionali  non
varrebbero,  di  per  se',  a  somministrare al giudice la regola del
giudizio,  anche  in  ragione delle «differenti letture di cui appare
suscettibile l'art. 32 della Costituzione»;
     che  l'Autorita' giudiziaria, per conseguire il risultato cui e'
giunta,  avrebbe dovuto, secondo la Camera, prospettare piuttosto una
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 357 cod. civ.:
omettendo   tale   condotta,   essa  avrebbe  invece  proceduto  alla
«disapplicazione  delle  norme  di  legge  che  avrebbero precluso la
soluzione  adottata»,  sostituendole con «una disciplina elaborata ex
novo»;
     che  per tali ragioni, la Camera dei deputati chiede alla Corte,
previa  declaratoria  di  ammissibilita' del conflitto, di dichiarare
che   non   spettava  all'Autorita'  giudiziaria  adottare  gli  atti
impugnati, con conseguente annullamento degli stessi;
     che  con  ricorso  depositato  il 17 settembre 2008 (reg. confl.
poteri  amm.  n. 17 del 2008) il Senato della Repubblica ha sollevato
conflitto  di  attribuzione nei confronti della Corte di cassazione e
della  Corte  di appello di Milano, avente ad oggetto i medesimi atti
impugnati  dalla  Camera  dei  deputati,  chiedendo a questa Corte di
dichiarare  che «non spettava al Potere giudiziario, e in particolare
alla  Suprema Corte di Cassazione: a) stabilire il diritto del malato
in  stato  vegetativo  permanente  di  conseguire  l'interruzione  di
trattamenti   sanitari  invasivi  che  si  risolvono  in  un  inutile
accanimento  terapeutico cui consegua con certezza il suo decesso; b)
disporre  la  esercitabilita' di tale diritto personalissimo da parte
del  tutore  alla  stregua  e  nel  presupposto  di presunte opinioni
espresse  in  precedenza  dall'infermo», con conseguente annullamento
della  sentenza  n. 21748  del  2007  della Corte di cassazione e del
decreto del 25 giugno del 2008 della Corte di appello di Milano;
     che  i  presupposti  in  fatto  del ricorso sono i medesimi gia'
enunciati  dalla  Camera dei deputati: i provvedimenti dell'Autorita'
giudiziaria  avrebbero  determinato una «interferenza nell'area della
attribuzione  della  funzione legislativa», fondata su una «cosciente
intenzione  supplettiva diretta ad ovviare ad una supposta situazione
di vuoto normativo»; anzi, le proposte di legge vertenti in argomento
attribuirebbero  a  tale  interferenza  i  caratteri di un intervento
indebito   «in  un  puntuale  procedimento  di  legislazione  che  il
Parlamento ha in corso»;
     che,  in  punto  di  ammissibilita',  il  Senato osserva che «il
proposito  del  ricorso  e'  unicamente  quello  di dimostrare che la
sentenza  ha  fissato  un  principio  di  diritto debordando verso le
attribuzioni  del  Legislativo  e  superando,  quindi,  i  limiti che
l'ordinamento  pone  al Potere Giudiziario, e non quello di un invito
al  riesame del processo logico seguito dalla Cassazione per giungere
alla  sua pronuncia»: non si tratterebbe percio' di rilevare un error
in   iudicando,   ma   l'esorbitanza   dai   «confini   stessi  della
giurisdizione»;  in  tale  ottica,  la  censura  rivolta agli «errori
interpretativi   dell'organo  giudiziario»  costituirebbe  «passaggio
essenziale al fine di mettere in evidenza il momento e il modo in cui
il giudice» avrebbe ecceduto dalla funzione sua propria;
     che,  nel  merito,  il Senato ritiene che la Corte di cassazione
abbia  adottato  «un  atto  sostanzialmente legislativo», con cui «si
introduce  nell'ordinamento italiano l'autorizzazione alla cessazione
della vita del paziente in stato vegetativo permanente», omettendo di
conseguire  tale effetto tramite la sola via aperta al giudice in tal
caso,  ovvero  sollevando  questione di costituzionalita' sugli artt.
357 e 424 cod. civ., nella parte in cui essi precluderebbero la piena
tutela  del  diritto  alla  salute;  la Cassazione, in altri termini,
avrebbe  «inteso  trovare, nelle pieghe dell'ordinamento, un appiglio
normativo  che  consentisse  di formulare il principio di diritto che
abilitasse  a determinare la cessazione della vita del paziente»; per
far  cio',  prosegue  il  Senato, «ha dovuto far ricorso a sporadiche
sentenze  di  giudici  appartenenti  ad ordinamenti diversi da quello
italiano  e alla Convenzione di Oviedo (...) ignorando che in diritto
positivo italiano esistono gia' norme utilizzabili nel caso di specie
e,  in  particolare,  quelle  del codice penale (artt. 579 e 580 cod.
pen.)»;
     che,  per  tale  via,  la  Cassazione  avrebbe  esorbitato dalla
propria  funzione  nomofilattica,  ledendo  le attribuzioni assegnate
dall'art. 70 della Costituzione al Parlamento: la fattispecie avrebbe
dovuto  essere decisa non gia' tramite un non liquet, ma riconoscendo
l'infondatezza  della pretesa alla luce del diritto vigente; infatti,
spetterebbe  al  Parlamento  «adottare  una  soddisfacente disciplina
diretta  a  regolare  le scelte di fine vita»: sostiene il ricorrente
che  «la  riconduzione  della  tematica  in  parola  all'interno  del
circuito  della  rappresentanza  politica  parlamentare  consente  di
assicurare  la  partecipazione  delle  piu' svariate componenti della
societa'   civile,   ivi   comprese   quelle  espressione  del  mondo
scientifico,  culturale,  religioso.  Secondo  una  impostazione  che
appare  difficilmente  contestabile il ricorso alla legge permette di
rispettare   il  principio  dell'art.  67  della  Costituzione  nella
adozione   di   scelte  di  sicuro  interesse  dell'intera  comunita'
nazionale»,  in  particolar  modo  in  presenza di una disciplina dei
diritti fondamentali «riservata alla legge»;
     che  il  Senato  pone poi in rilievo che l'Autorita' giudiziaria
avrebbe  articolato  i  propri  provvedimenti  su due punti, entrambi
contestabili,   ovvero   «il   diritto   del   malato  di  conseguire
l'interruzione di trattamenti sanitari» e «la esercitabilita' di tale
diritto da parte del tutore»;
     che,   quanto   al   primo  punto,  il  ricorrente  osserva  che
l'alimentazione   e  l'idratazione  assistita  sono  solo  da  alcuni
ritenute  trattamento  terapeutico, mentre altri li considerano «cure
essenziali doverosamente impartite dal sanitario», che avrebbe, anche
sulla  base  del documento redatto dal Comitato nazionale di bioetica
del  18  dicembre  2003,  il  «dovere di procedere»; ad ogni modo, in
difetto  di  «una  normativa  intesa a determinare la interruzione di
trattamenti  del  malato terminale», la stessa Corte di Cassazione in
precedente  pronuncia (ordinanza n. 8291 del 2005) ed il Tribunale di
Roma  (con  sentenza  del  15  dicembre  2006) avevano escluso che il
giudice  potesse in tale materia espletare «attivita' sostanzialmente
paranormativa»;
     che, piuttosto, sia l'art. 2 della CEDU (come interpretato dalla
Corte  EDU  con  la  sentenza  Pretty  v. Gran Bretagna del 29 aprile
2002),  sia  l'art.  3  della  Dichiarazione  universale  dei diritti
dell'uomo  sottolineano,  a  parere del ricorrente, la «essenzialita'
del  principio  di  tutela  della vita», cosi' saldandosi all'art. 27
della  Costituzione  e  agli  artt.  579  e 580 cod. pen., in tema di
omicidio  del consenziente e di aiuto al suicidio: «esistono, quindi,
due  modi  contrapposti  di  considerare  la persona e i suoi diritti
inviolabili  che  conducono a leggere la decisione sulla interruzione
della  alimentazione  o  come causa del decesso o come manifestazione
della  libera  determinazione  della  cessazione  di  un  trattamento
terapeutico inaccettabile in quanto sproporzionato e inutile»;
     che  per  risolvere tale alternativa, il Senato stima necessario
l'intervento   del   legislatore,   al   quale  soltanto  spetterebbe
sciogliere  il  nodo,  stabilendo,  tra  l'altro, condizioni e natura
dello  stato  vegetativo  permanente, «ancora oggetto di incertezze e
divergenze  di  opinioni  in  quanto  non  coincidente  con  la morte
cerebrale»:  parimenti,  e'  stata  la legge 29 dicembre 1993, n. 578
(Norme  per  l'accertamento e la certificazione di morte) a stabilire
espressamente   che   la   morte  si  identifica  con  la  cessazione
irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo;
     che   la   necessita'   di  legiferare  troverebbe  conferma  in
«strumenti  internazionali»,  quali  l'art.  5,  paragrafo  3,  della
Convenzione di Oviedo (la cui attuazione avrebbe richiesto il decreto
legislativo  previsto  dall'art.  3 della legge 28 marzo 2001, n. 145
(Ratifica  ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa per
la  protezione  dei  diritti  dell'uomo  e della dignita' dell'essere
umano  riguardo  all'applicazione  della  biologia  e della medicina:
Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo
il  4  aprile 1997, nonche' del Protocollo addizionale del 12 gennaio
1998,  n. 168, sul divieto di clonazione di esseri umani) e l'art. 3,
comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;
     che,  quanto  ai  poteri  del  tutore, il Senato afferma «la non
esistenza  nel  nostro  ordinamento del puntuale potere del tutore di
intervenire  in tema di diritto indisponibile alla interruzione della
vita e il regime costituzionale dei diritti definiti personalissimi»,
in  assenza  di una disciplina di diritto positivo concernente il cd.
testamento biologico;
     che,  in  particolare, sarebbe erroneo il convincimento espresso
dall'Autorita' giudiziaria circa l'estensione dei poteri tutori al di
fuori  della  sfera  degli  interessi patrimoniali, in assenza di una
specifica  norma attributiva di tali poteri: la stessa Cassazione, in
altra  pronuncia  (ordinanza  n. 8291  del  2005)  avrebbe escluso il
«generale potere di rappresentanza con riferimento ai cosiddetti atti
personalissimi»;
     che,  innanzi  a  tale principio, le ipotesi contrarie segnalate
dagli  atti oggetto del conflitto, (art. 4 del d.lgs. 211 del 2003 in
tema di sperimentazioni cliniche; art. 13 della legge n. 194 del 1978
in  tema  di  interruzione  volontaria della gravidanza; art. 6 della
Convenzione di Oviedo) apparirebbero eccezionali ed insuscettibili di
applicazione  analogica:  l'esercizio  del  diritto  di «disporre del
proprio  corpo»  e  di  «decidere  sulle  proprie  cure» non potrebbe
percio' essere affidato al tutore.
   Considerato  che  la  Camera  dei  deputati  ed  il  Senato  della
Repubblica  con  due  distinti  ricorsi  hanno sollevato conflitto di
attribuzione  nei confronti dell'Autorita' giudiziaria, deducendo che
la sentenza n. 21748 del 2007 della Corte di cassazione ed il decreto
25 giugno 2008 della Corte di appello di Milano avrebbero usurpato, e
comunque menomato, le attribuzioni legislative del Parlamento;
     che,  in  particolare,  tali  provvedimenti, venendo a stabilire
termini  e  condizioni  affinche'  possa  cessare  il  trattamento di
alimentazione   ed  idratazione  artificiale  cui  e'  sottoposto  un
paziente  in  stato  vegetativo  permanente,  avrebbero utilizzato la
funzione   giurisdizionale  per  modificare  in  realta'  il  sistema
legislativo vigente, cosi' invadendo l'area riservata al legislatore;
     che  i  ricorsi  meritano  di  essere  riuniti, riferendosi alla
medesima vicenda;
     che  in  questa fase del giudizio, a norma dell'art. 37, terzo e
quarto  comma,  della  legge  11  marzo  1953, n. 87, questa Corte e'
chiamata   a   delibare,   senza   contraddittorio   tra   le  parti,
esclusivamente se il ricorso sia ammissibile, valutando se sussistano
i  requisiti  soggettivo ed oggettivo di un conflitto di attribuzione
tra poteri dello Stato;
     che  non  e' dubbia la legittimazione attiva di ciascun ramo del
Parlamento   a  difendere  le  attribuzioni  costituzionali  che  gli
spettino, quand'anche esercitate congiuntamente;
     che  spetta  parimenti alla Corte di cassazione ed alla Corte di
appello  di  Milano la legittimazione passiva al conflitto, in quanto
organi  competenti  a  dichiarare  in via definitiva, in relazione al
procedimento  di  cui  sono  investiti,  la  volonta'  del potere cui
appartengono (ex plurimis, ordinanza n. 44 del 2005);
     che  la  Corte  di  cassazione,  con  la  sentenza  oggetto  dei
conflitti,  ha  enunciato, nel corso di un procedimento di volontaria
giurisdizione,  il principio di diritto cui deve attenersi il giudice
di rinvio nella fattispecie sottoposta al suo giudizio e che la Corte
di  appello di Milano ha applicato questo principio al caso concreto,
avendo  previamente  ritenuto  manifestamente infondati gli ipotetici
dubbi di legittimita' costituzionale;
     che,    per    costante    giurisprudenza   di   questa   Corte,
l'ammissibilita'   di   un   conflitto   avente   ad   oggetto   atti
giurisdizionali    sussiste    «solo   quando   sia   contestata   la
riconducibilita'  della  decisione o di statuizioni in essa contenute
alla  funzione  giurisdizionale,  o  si  lamenti  il  superamento dei
limiti,  diversi  dal  generale vincolo del giudice alla legge, anche
costituzionale,  che  essa  incontra  nell'ordinamento  a garanzia di
altre  attribuzioni costituzionali» (ordinanza n. 359 del 1999; nello
stesso  senso,  tra le piu' recenti, sentenze n. 290, n. 222, n. 150,
n. 2 del 2007);
     che  la  medesima  giurisprudenza  afferma  che  un conflitto di
attribuzione  nei  confronti  di  un  atto  giurisdizionale  non puo'
ridursi   alla   prospettazione   di   un  percorso  logico-giuridico
alternativo  rispetto  a  quello  censurato, giacche' il conflitto di
attribuzione  «non  puo'  essere  trasformato  in un atipico mezzo di
gravame  avverso le pronunce dei giudici» (ordinanza n. 359 del 1999;
si veda altresi' la sentenza n. 290 del 2007);
     che,  peraltro,  questa  Corte  non  rileva la sussistenza nella
specie di indici atti a dimostrare che i giudici abbiano utilizzato i
provvedimenti  censurati  -  aventi  tutte le caratteristiche di atti
giurisdizionali  loro  proprie  e, pertanto, spieganti efficacia solo
per  il  caso  di  specie - come meri schermi formali per esercitare,
invece,  funzioni  di produzione normativa o per menomare l'esercizio
del  potere  legislativo  da parte del Parlamento, che ne e' sempre e
comunque il titolare;
     che  entrambe  le  parti  ricorrenti,  pur  escludendo  di voler
sindacare  errores  in  iudicando,  in  realta'  avanzano  molteplici
critiche al modo in cui la Cassazione ha selezionato ed utilizzato il
materiale  normativo  rilevante  per  la  decisione  o  a  come lo ha
interpretato;
     che la vicenda processuale che ha originato il presente giudizio
non  appare ancora esaurita, e che, d'altra parte, il Parlamento puo'
in  qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia,
fondata  su  adeguati  punti  di  equilibrio  fra i fondamentali beni
costituzionali coinvolti;
     che,   pertanto,   non   sussiste  il  requisito  oggettivo  per
l'instaurazione dei conflitti sollevati.