Sentenza 
nel giudizio per conflitto di attribuzione  tra  poteri  dello  Stato
sorto a seguito della deliberazione del Senato della  Repubblica  del
18 marzo 2004 (doc. n. IV-ter, n. 2), relativa alla insindacabilita',
ai  sensi  dell'art.  68,  primo  comma,  della  Costituzione,  delle
opinioni espresse dal  senatore  Cesare  Previti  nei  confronti  del
giornalista Davide Maria Sassoli, promosso con  ricorso  della  Corte
d'appello di Roma,  notificato  il  17  giugno  2008,  depositato  in
cancelleria il 4 luglio  2008  ed  iscritto  al  n.  1  del  registro
conflitti tra poteri dello Stato 2008, fase di merito. 
    Visto l'atto di costituzione del Senato della Repubblica; 
    Udito nell'udienza pubblica  del  16  dicembre  2008  il  giudice
relatore Sabino Cassese; 
    Udito  l'avvocato  Giovanni  Pitruzzella  per  il  Senato   della
Repubblica. 
                          Ritenuto in fatto 
    1. - La Corte d'appello di Roma,  con  ricorso  del  26  novembre
2007, ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Senato
della Repubblica in relazione alla delibera adottata nella seduta del
18 marzo 2004, con la quale e' stata dichiarata, ai sensi  del  primo
comma  dell'art.  68  della  Costituzione,  l'insindacabilita'  delle
dichiarazioni del deputato Cesare Previti, rispetto alle quali  pende
un procedimento penale. 
    La Corte espone che il parlamentare  e'  imputato  del  reato  di
diffamazione per avere rilasciato alla  stampa,  in  data  16  giugno
1995, una dichiarazione, pubblicata dall'agenzia ANSA,  lesiva  della
reputazione del giornalista  David  Maria  Sassoli.  In  particolare,
secondo quanto riferisce la Corte d'appello, che al riguardo  riporta
il testo contenuto nella sentenza di primo grado emessa dal Tribunale
di Roma, l'imputato avrebbe dichiarato che Sassoli «era partecipe  di
uno stile giornalistico volutamente mistificatorio e specificatamente
diretto ad annebbiare anche  verita'  pacifiche  e  come  giornalista
capace di mistificare anche fatti notori per scarsa  professionalita'
e per opportunita' di disinformazione strumentalizzata ad impegno  in
campagne politiche». 
    In fatto, la Corte  d'appello  riferisce  che,  a  seguito  della
delibera di insindacabilita' del Senato della Repubblica del 18 marzo
2004, secondo cui «le dichiarazioni rese dal Previti  non  [sono]  da
ricondurre  ad  una  polemica  meramente  personale  bensi'  ad   una
manifestazione del pensiero di natura  essenzialmente  politica»,  il
Tribunale di Roma in prime cure ha dichiarato,  con  sentenza  del  4
novembre 2004, non doversi procedere nei confronti del parlamentare a
norma dell'art. 129, comma 1, del codice di procedura penale. 
    Aggiunge, inoltre, che avverso  tale  sentenza  avevano  proposto
appello, da un  lato,  il  Procuratore  della  Repubblica  presso  il
Tribunale di Roma e, dall'altro, la parte civile, chiedendo  entrambi
che la Corte sollevasse conflitto di attribuzione ai sensi  dell'art.
37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, in particolare rilevando che  le
affermazioni diffamatorie del senatore erano connesse, non  alla  sua
funzione di parlamentare, bensi' alla sua personale  vicenda  nonche'
alle accuse di mendacio mossegli in relazione alla  sua  affermazione
di non conoscere il giudice Dinacci. 
    La Corte d'appello ricorrente osserva, in punto di  diritto,  che
non puo' dedursi dal contenuto delle espressioni in esame alcun nesso
funzionale tra  le  medesime  e  l'attivita'  funzionale  svolta  dal
senatore, atteso che le prime si limitano ad  esprimere  una  critica
personale nei confronti della parte lesa in relazione ad un fatto del
tutto indipendente dalla carica di senatore all'epoca  ricoperta  dal
parlamentare. In particolare, riferisce che  il  parlamentare  «aveva
affermato a suo tempo di non conoscere  personalmente  il  Magistrato
dr. Dinacci in servizio presso il Ministero di  Grazia  e  Giustizia:
tale  circostanza,  secondo  quanto  appurato  dal  giornalista,  era
risultata non vera, talche' quest'ultimo aveva posto in  evidenza  la
inattendibilita' della dichiarazione nel  corso  di  un  telegiornale
andato in onda sulla rete 3 della televisione RAI: di qui la reazione
verbale del prevenuto contestata al capo di imputazione». 
    La Corte d'appello ritiene che  «appare  evidente  dunque,  cosi'
ricostruiti i fatti, come, sia la conoscenza da  parte  dell'imputato
del dr. Dinacci, sia il servizio giornalistico redatto in merito alla
parte  lesa,  sia  infine  la  reazione  che  si   assume   offensiva
dell'imputato medesimo, non siano affatto funzionalmente connessi con
l'ufficio di senatore». 
    Il Collegio ricorrente riporta la  giurisprudenza  costituzionale
in  tema  di  nesso  funzionale   secondo   cui   debbono   ritenersi
sindacabili, in linea di principio, tutte  quelle  dichiarazioni  che
fuoriescono dal campo applicativo  delle  dichiarazioni  «divulgative
all'esterno di attivita' parlamentari» e che non siano immediatamente
collegabili  con  specifiche   forme   di   esercizio   di   funzioni
parlamentari, non  essendo  sufficiente  una  generica  comunanza  di
argomento o di contesto politico (sentenze n. 140 del 2003 e  n.  521
del 2002). 
    A parere della Corte d'appello, non puo' essere condivisa la tesi
difensiva secondo la quale, a seguito dell'entrata  in  vigore  della
legge  20  giugno  2003,  n.140,  le  decisioni   della   Camera   di
appartenenza  circa  la  sussistenza   delle   guarentigie   previste
dall'art. 68 Cost., sarebbero sindacabili solo da un punto  di  vista
formale e cioe' unicamente nell'ipotesi in cui siano affette da  vizi
procedurali o motivazionali tali da  risolversi  in  una  menomazione
delle attribuzioni  dell'autorita'  giudiziaria.  Secondo  la  Corte,
limitare  alla   mera   inosservanza   dei   requisiti   formali   la
sindacabilita'  della  decisione   del   Parlamento   significherebbe
proporre un'interpretazione della legge in esame innovativa  rispetto
al  testo  costituzionale  e,   comunque,   in   contrasto   con   la
giurisprudenza della Corte costituzionale che  ha  affermato  che  la
legge in argomento esplicita,  ma  non  amplia,  il  contenuto  della
tutela della insindacabilita' delle opinioni espresse dai membri  del
Parlamento (sentenza n. 120 del 2004). 
    La Corte d'appello di  Roma,  infine,  osserva  di  non  ritenere
ostative ad «una nuova proposizione del conflitto di attribuzione» le
due precedenti pronunce di improcedibilita' (sentenza n. 35 del 1999)
e  di  inammissibilita'  (sentenza  n.  30  del  2002)  della   Corte
costituzionale,  citate  dalla  difesa  e  relative  ad   altrettanti
conflitti di attribuzione sollevati dal  Tribunale  di  Roma,  atteso
che, in entrambi i casi, la Corte costituzionale non e'  entrata  nel
merito del conflitto «per ragioni puramente  formali»,  che  pertanto
non precludono una nuova proposizione  del  conflitto  da  parte  del
giudice di appello. 
    2. - Con ordinanza n. 187 del 2008 e' stato ritenuto  ammissibile
il conflitto. 
    3. - Si e' costituito in giudizio  il  Senato  della  Repubblica,
sostenendo che il ricorso e' inammissibile e infondato. 
    In   via   preliminare,   la   difesa   del   Senato    eccepisce
«l'inammissibilita' del conflitto per divieto di riproposizione dello
stesso» atteso che il conflitto in esame e' stato gia' oggetto di due
distinte pronunce della Corte costituzionale. Osserva il Senato della
Repubblica che, con una  prima  pronuncia,  la  Corte  costituzionale
rilevava la improcedibilita' del  conflitto  per  irrituale  deposito
degli atti  (sentenza  n.  35  del  1999)  e  che,  con  una  seconda
pronuncia, dichiarava l'inammissibilita' del ricorso  atteso  che  la
delibera oggetto del conflitto non era stata  adottata  dalla  Camera
competente (Camera dei deputati al posto del Senato della Repubblica)
a dichiarare l'insindacabilita' a norma dell'art. 68 Cost.  (sentenza
n. 30 del 2002). Tanto richiamato, la difesa chiede che possa trovare
ingresso anche nel processo costituzionale «l'istituto del ne bis  in
idem» e,  a  tal  fine,  rammenta  la  giurisprudenza  costituzionale
secondo cui la ratio del divieto della riproposizione  del  conflitto
tra poteri sarebbe rintracciabile nell'esigenza costituzionale che il
giudizio, una volta instaurato, sia concluso  in  termini  certi  non
rimessi alle parti confliggenti (sentenza n.  116  del  2003)  e  sul
presupposto della «non riproponibilita' ad libitum  di  ricorsi  gia'
dichiarati improcedibili» (ordinanze n. 143 del 2005  e  n.  153  del
2003). In conclusione, il Senato  insiste  perche'  il  conflitto  in
esame sia dichiarato inammissibile. 
    Nel merito,  la  difesa  del  Senato  richiama  gli  orientamenti
giurisprudenziali della Corte costituzionale in materia  di  verifica
della correttezza delle delibere  di  insindacabilita'  delle  Camere
assunte a norma dell'art. 68, primo comma, Cost., che, a parere della
stessa difesa, avrebbero determinato il giudice di  primo  grado  nel
processo  penale  originato  dalle  dichiarazioni  del   senatore   a
pronunciarsi per il non luogo a procedere a norma dell'art.  129  del
codice di procedura penale; difatti, secondo la difesa del Senato, il
Tribunale di  Roma  avrebbe  ricondotto  le  dichiarazioni  rese  dal
senatore Previti «nell'alveo delle esternazioni di matrice politica i
cui profili di garanzia - a fronte della  particolare  qualificazione
soggettiva dell'agente - sfuggono alla previsione di cui all'art.  21
Cost. per rientrare, invece, nei parametri di cui all'art. 68,  primo
comma, Cost.». 
    Osserva, inoltre, la difesa del Senato  che  la  Corte  d'appello
rimettente non avrebbe  «sufficientemente  motivato  in  merito  alla
pretesa insussistenza del c.d. nesso funzionale,  attestandosi  sulla
eventuale qualificazione delle relative  dichiarazioni  alla  stregua
della fattispecie [di reato di diffamazione a mezzo stampa];  il  che
tuttavia non rientra entro la cognizione della  Corte  costituzionale
bensi', appunto, del solo  giudice  ordinario  (penale)  e  non  puo'
costituire, dunque, il thema decidendum del  presente  giudizio».  In
conclusione, insiste per l'infondatezza del ricorso. 
                       Considerato in diritto 
    1. - La  Corte  d'appello  di  Roma  ha  sollevato  conflitto  di
attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica  in  relazione
alla delibera del 18 marzo 2004, con la quale e' stata dichiarata, ai
sensi   del   primo   comma   dell'art.   68   della    Costituzione,
l'insindacabilita' delle dichiarazioni del senatore  Cesare  Previti,
rispetto alle quali pende un procedimento  penale  per  il  reato  di
diffamazione a mezzo stampa ai  danni  del  giornalista  David  Maria
Sassoli. 
    La  Corte  d'appello  ricorrente  sostiene  che  la  delibera  di
insindacabilita' adottata dal Senato della Repubblica costituisce una
interferenza nelle  attribuzioni  della  autorita'  giudiziaria,  non
sussistendo  il  nesso  funzionale  tra  le  dichiarazioni  rese  dal
senatore e la sua attivita' di parlamentare. 
    2. - Preliminarmente, deve essere confermata l'ordinanza  n.  187
del 2008, con la quale questa Corte ha dichiarato  l'esistenza  della
materia di un conflitto, la cui soluzione spetta alla sua competenza,
per  la  sussistenza   dei   requisiti   soggettivo   ed   oggettivo,
impregiudicata  ogni  ulteriore  decisione,   anche   in   punto   di
ammissibilita'. 
    3. - Il ricorso e' inammissibile. 
    3.1. - Questa Corte ha piu' volte ribadito che il ricorso con  il
quale l'autorita' giudiziaria propone il conflitto di attribuzione ai
sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, deve  rispettare
il principio di completezza ed autosufficienza. Tale principio impone
all'autorita'  giudiziaria  l'onere  di  indicare  nel  ricorso   gli
elementi che consentano alla Corte  costituzionale  di  valutarne  la
fondatezza, raffrontando  le  dichiarazioni  rese  extra  moenia  dal
parlamentare con il contenuto  di  atti  tipici  della  sua  funzione
(sentenze n. 163 del 2008 e n. 271 del 2007). In particolare,  l'atto
introduttivo del giudizio  deve  riportare  le  espressioni  ritenute
offensive (sentenza n. 52 del 2007), il  cui  contenuto  deve  essere
riferito «compiutamente» e in modo «esatto» e  «obiettivo»  (sentenza
n. 383 del 2006). 
    Esaminato alla luce di tali principi, il ricorso con il quale  la
Corte d'appello di Roma ha promosso il presente  conflitto  non  puo'
ritenersi  completo  ed  autosufficiente.  Esso  e',  al   contrario,
lacunoso e impreciso. 
    Per un verso, l'autorita' giudiziaria non ha allegato la delibera
di insindacabilita' del Senato all'atto introduttivo  del  conflitto,
ne', in quest'ultimo, ne ha riferito in modo esauriente i  contenuti.
Per altro verso, il ricorso della Corte  d'appello  non  riporta,  in
modo esatto ed obiettivo, il testo delle dichiarazioni  asseritamente
diffamatorie rese dal parlamentare, ma riproduce  le  parole  con  le
quali il Tribunale  di  Roma,  nella  sentenza  di  primo  grado,  ha
riassunto il contenuto di tali dichiarazioni. 
    A causa di tali lacune e imprecisioni,  l'atto  introduttivo  del
giudizio non esprime con chiarezza l'oggetto  del  contendere  e  non
consente percio'  di  valutare  in  modo  esatto  la  fondatezza  del
conflitto proposto. Difettando pertanto di un requisito essenziale, a
norma degli articoli 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 26  delle
norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, il
ricorso deve essere dichiarato inammissibile