Sentenza 
nel giudizio di legittimita' costituzionale  dell'art.  384,  secondo
comma, del  codice  penale  promosso  dal  Tribunale  di  Biella  nel
procedimento penale a carico di M.M. con  ordinanza  del  7  febbraio
2007 iscritta al n. 523 del  registro  ordinanze  2007  e  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, 1ª  serie  speciale,
dell'anno 2007. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella Camera di consiglio dell'11 febbraio 2009 il  giudice
relatore Alessandro Criscuolo. 
                          Ritenuto in fatto 
    1. - Il Tribunale di Biella, con ordinanza  in  data  7  febbraio
2007, ha  sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale,  in
riferimento all'art. 3 della  Costituzione,  dell'art.  384,  secondo
comma, del codice penale, nella parte in cui non prevede l'esclusione
della punibilita' per false o reticenti  informazioni  assunte  dalla
polizia  giudiziaria,  fornite  da  chi  non  avrebbe  potuto  essere
obbligato a renderle  o  comunque  a  rispondere  in  quanto  persona
indagata di reato probatoriamente collegato (a norma  dell'art.  371,
comma 2, lettera  b,  del  codice  di  procedura  penale)  a  quello,
commesso da altri, cui le dichiarazioni stesse si riferiscono. 
    1.1. - Il rimettente premette di essere chiamato a  decidere  nel
procedimento penale a carico  di  M.  M.,  imputato  del  delitto  di
favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.), «perche',  assunto  a
sommarie informazioni dai militari del R.O.N.O.  dei  Carabinieri  di
Biella  relativamente  al  possesso  e   all'acquisto   di   sostanza
stupefacente di tipo hashish - in particolare, di grammi 8,490 ceduti
al medesimo da M. V. in data 19 aprile 2004 in Ponderano - aiutava il
medesimo ad  eludere  le  investigazioni  dell'autorita'  negando  di
conoscerlo e  di  essersi  recato  presso  la  sua  abitazione  nelle
circostanze di tempo e di luogo sopra indicate». 
    Il detto giudice, in punto di rilevanza della questione,  osserva
che,   in   presenza   della   condotta   contestata    all'imputato,
documentalmente  riscontrata  (sia  dal  contenuto  del  verbale   di
sommarie informazioni reso alla polizia giudiziaria  il  3  settembre
2004,  sia  dagli  ulteriori   elementi   probatori   processualmente
acquisiti),  non  potrebbe  prospettarsi  alcun  dubbio   in   ordine
all'idoneita' di tale condotta ad integrare gli elementi  costitutivi
del reato previsto e punito dall'art. 378 cod. pen., anche alla  luce
della consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione diretta ad
attribuire al  delitto  di  favoreggiamento  personale  una  funzione
«repressiva»  di  chiusura,  cioe'  di  norma  idonea  a   sanzionare
qualsiasi   comportamento   volto    ad    intralciare    l'attivita'
investigativa, compresa la  condotta  di  mendacio  e  reticenza  nei
confronti della polizia giudiziaria. 
    Del   pari   pacifica   e   condivisibile    sarebbe    l'opzione
interpretativa secondo cui l'ambito  applicativo  del  reato  di  cui
all'art. 378 cod. pen.  -  esteso  alla  condotta  di  mendacio  alla
polizia giudiziaria - avrebbe finito per imporre  una  nuova  lettura
della stessa oggettivita' giuridica del reato de quo, assegnando alla
norma ora citata  anche  una  specifica  funzione  di  «tutela  della
verita'  e  completezza  delle  dichiarazioni   rese   alla   polizia
giudiziaria» (ancorche' pur sempre in  funzione  della  tutela  delle
indagini e delle ricerche dell'autore del reato presupposto) e quindi
del  loro  valore  probatorio  in  senso  lato,  con   consequenziale
valorizzazione del carattere di «complementarieta» dell'art. 378 cod.
pen. rispetto all'ordinario (e tipicizzato) sistema di  tutela  della
prova dichiarativa  (formatasi  dinanzi  all'autorita'  giudiziaria),
penalmente sanzionato dagli artt. 371-bis e 372 cod. pen. 
    Tuttavia, ad avviso del rimettente,  proprio  la  dimensione  del
favoreggiamento quale strumento di tutela del valore  in  senso  lato
probatorio delle dichiarazioni  rese  alla  polizia  giudiziaria  non
potrebbe  non  riflettersi  sul  problema  concernente  l'estraneita'
dell'art. 378  cod.  pen.  all'organico  sottosistema  d'istituti  di
diritto  sostanziale  eccezionalmente   «strumentali»   alla   tutela
processuale   della   prova   dichiarativa   (sono   richiamate    la
ritrattazione, disciplinata dall'art. 376 cod. pen., e - per quel che
rileva in questa  sede  -  la  speciale  causa  di  esclusione  della
punibilita' prevista dall'art. 384, secondo comma, cod. pen.). 
    Ricordate  le  oscillazioni  in   passato   manifestatesi   nella
giurisprudenza di questa  Corte  circa  l'omogeneita'  o  la  diversa
obiettivita' del bene giuridico tutelato dagli artt. 378 e  372  cod.
pen, il rimettente osserva che i  piu'  recenti  assetti  sistematici
derivanti dalle integrazioni normative,  sostanziali  e  processuali,
apportate allo statuto della prova dichiarativa dalla legge 1°  marzo
2001, n. 63 (Modifiche al codice penale  e  al  codice  di  procedura
penale  in  materia  di  formazione  e  valutazione  della  prova  in
attuazione  della  legge  costituzionale  di  riforma  dell'art.  111
Cost.), se da un lato avrebbero  fornito  conferma  forse  definitiva
circa l'omogeneita' -  rispetto agli artt.  371-bis,  371-ter  e  372
cod. pen. -  della ratio sottesa alla punibilita' del favoreggiamento
mediante mendacio  alla  polizia  giudiziaria,  dall'altro  avrebbero
riproposto le problematiche gia' emerse sotto il vigore del codice di
rito del 1930 (in parte risolte  dagli  interventi  di  questa  Corte
attuati con le sentenze n. 416 del 1996 e n. 101 del 1999) in  ordine
all'inapplicabilita' al citato art. 378 delle norme di cui agli artt.
376 e 384, secondo comma, cod. pen., previste invece  per  gli  artt.
371-bis e 372 cod. pen. 
    Proprio alla causa di non punibilita' di cui al citato  art.  384
avrebbero fatto riferimento il  pubblico  ministero  e  il  difensore
dell'imputato, sia pure nel quadro di un percorso  argomentativo  non
del tutto pertinente, in quanto incentrato sul richiamo  all'autonomo
regime di inutilizzabilita', ex art. 63 del codice  di  rito  penale,
delle dichiarazioni non  veritiere  e  reticenti  rese  dal  M.  alla
polizia giudiziaria,  oggetto  materiale  della  contestata  condotta
delittuosa. 
    Invero, ad avviso del rimettente, tale impostazione incontrerebbe
un limite fattuale e logico di fondo, perche' verrebbe  a  confondere
due distinti profili d'illiceita': da un lato quello  attinente  alle
modalita' acquisitive delle informazioni richieste al dichiarante  in
ordine ad un reato gia'  commesso  da  diverso  soggetto,  dall'altro
quello relativo all'idoneita' di dette dichiarazioni ad integrare  la
consumazione del reato di favoreggiamento personale, con  conseguente
assunzione da tale momento consumativo della  veste  di  indagato  e,
quindi, del diritto alle garanzie di cui al menzionato art.  63  cod.
pen. (norma, quest'ultima,  nella  specie  rispettata  dalla  polizia
giudiziaria). Diversamente opinando,  nel  senso  cioe'  di  ritenere
senz'altro  inutilizzabili  le  dichiarazioni  rese  dal   «semplice»
cessionario di sostanza stupefacente,  si  finirebbe  per  propugnare
un'interpretazione di fatto «abrogatrice» dell'art. 378 cod. pen. nei
casi  di  mendacio  o  reticenza  alla  polizia  giudiziaria,   cosi'
sconfessando in modo irragionevole il richiamato  orientamento  della
dottrina e della  giurisprudenza,  che  ammettono  in  tali  casi  la
configurabilita' del reato in questione. 
    1.2. - Cosi' risolto qualsiasi dubbio  sulla  concreta  idoneita'
delle mendaci  dichiarazioni  de  quibus  ad  integrare  la  condotta
delittuosa di favoreggiamento personale,  ad  avviso  del  rimettente
emergerebbe con chiarezza l'efficacia assorbente  che,  nel  contesto
dell'ipotesi  accusatoria,  rivestirebbe  il   profilo   «patologico»
riconducibile   alla   fase    genetica    dell'acquisizione    delle
dichiarazioni medesime. Esse, nella specie, sarebbero  state  assunte
dalla polizia giudiziaria mediante l'erronea attribuzione al M. della
qualifica   di   persona   informata   su   fatti   concernenti    la
responsabilita' altrui - e quindi con l'obbligo penalmente sanzionato
di rispondere secondo verita' (art. 198 cod. proc. pen.) -  ignorando
la qualita' d'indagato di reati probatoriamente  collegati  (ex  art.
371, comma 2, lettera b, cod. proc. pen.), gia' assunta dallo  stesso
dichiarante ed ancora attuale al momento  del  rilascio  delle  dette
dichiarazioni. 
    Al riguardo, sarebbe dato processuale  acquisito  che  il  M.,  a
seguito delle operazioni di perquisizione personale e del conseguente
sequestro di grammi 8,490 di sostanza stupefacente, eseguito nei suoi
confronti il 19 aprile 2004 (cioe'  nell'immediatezza  e  nell'ambito
dell'attivita' investigativa intrapresa a carico dell'altra  persona,
individuata quale probabile  «fonte»  di  rifornimento  dello  stesso
stupefacente), era stato iscritto  nel  registro  degli  indagati  il
successivo 22 aprile 2004 in ordine ai connessi reati  di  detenzione
illecita di sostanza stupefacente (art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990,
n. 309, recante «Testo unico delle leggi  in  materia  di  disciplina
degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura   e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza») e  di  guida
in  stato  di  alterazione  psico-fisica  dovuta  ad  assunzione   di
stupefacente (art. 187, comma 8, del decreto  legislativo  30  aprile
1992, n. 285, recante «Nuovo codice della  strada»):  iscrizione  che
dava   origine   al   procedimento   penale   n.   607/04    r.g.n.r.
(successivamente riunito a quello  n.  723/04  r.g.n.r.,  aperto  nei
confronti dell'altra persona ritenuta «fonte» di  rifornimento  dello
stupefacente), definito,  per  quanto  riguarda  il  delitto  di  cui
all'art.  73  del  d.  P.  R.  n.  309  del  1990,  con  decreto   di
archiviazione adottato dal giudice per le indagini  preliminari  l'11
luglio 2005 e, quanto al reato di cui all'art. 187 del  codice  della
strada, con sentenza di applicazione della pena in  data  26  ottobre
2005. 
    Cio' posto, il contenuto «dichiarativo» della  condotta  ascritta
al M.  e  la  sua  qualita'  di  indagato  di  reati  probatoriamente
collegati  a  quello   ipotizzato   a   carico   dell'altra   persona
(individuata quale soggetto «favorito» ex art. 378  cod.  pen.  dalle
mendaci dichiarazioni rese dal medesimo M. alla  polizia  giudiziaria
il 3 settembre 2004) inducono  a  ravvisare  nell'art.  384,  secondo
comma, del detto codice la disposizione applicabile alla fattispecie,
dovendosi escludere, sulla  base  delle  risultanze  dell'istruttoria
dibattimentale, la sussistenza di elementi da cui poter  desumere  la
configurabilita' in capo all'imputato di una  condizione  psicologica
riferibile alla «necessita' di salvare se' medesimo  da  un  grave  e
inevitabile pregiudizio nell'onore o nella liberta» (art. 384,  primo
comma, cod. pen.). 
    Sotto tale preliminare profilo sarebbe stato con efficacia  posto
in evidenza in dottrina come l'art. 384,  secondo  comma,  cod.  pen.
viva «in stretta simbiosi» con la disciplina  processuale  del  nuovo
statuto della prova dichiarativa, caratterizzato - dopo le  modifiche
introdotte dalla legge n. 63 del  2001 -  da  un  sistema  di  tutela
(artt. 197, 197-bis, 64, terzo comma, lettera c, del codice  di  rito
penale) della genuinita' del contributo probatorio proveniente  anche
da figure di dichiaranti cosiddetti  «testimoni  assistiti»,  la  cui
posizione processuale presenti attuali o pregressi  collegamenti  con
il reato commesso da altri,  in  relazione  al  quale  si  giustifica
l'acquisizione delle dichiarazioni in parola. 
    Da un lato, l'operativita' dell'esimente  di  cui  all'art.  384,
secondo comma, cod. pen. dipenderebbe dal modo in cui il  legislatore
ha scelto di calibrare i presupposti per l'assunzione dello status di
testimone e i privilegi e gli obblighi ad esso  relativi.  Dall'altro
lato,  l'effettivita'  dell'obbligo  di  verita'  imposto  al   teste
dipenderebbe  dalla  disciplina  sanzionatoria  sostanziale  che   ne
costituisce il presidio e, pertanto, anche dall'ambito operativo  che
si riconosce all'esimente. 
    Al riguardo andrebbe posto in evidenza come la diversa  struttura
normativa, ed il conseguente diverso ambito  applicativo,  del  comma
primo rispetto al comma secondo dell'art.  384  rifletta  proprio  la
scelta di fondo del legislatore di prevedere, con la disposizione  di
cui al citato comma secondo, uno strumento sanzionatorio (in  termini
di  esclusione  della   punibilita'   di   specifici   reati   contro
l'amministrazione della giustizia) dell'illegittima  acquisizione  di
dichiarazioni  provenienti  da  soggetti  «costretti»  a  deporre   o
comunque non informati del proprio diritto a non rispondere. 
    Sarebbe noto che l'art. 384, secondo  comma,  cod.  pen. -  nella
parte in cui elenca le ipotesi che,  in  applicazione  del  principio
generale del nemo tenetur se  detegere  e  delle  regole  tipiche  di
incapacita' a testimoniare o comunque di esclusione  dell'obbligo  di
deporre, escludono la punibilita' della persona informata  sui  fatti
(artt. 371-bis e 371-ter cod. pen.), del teste (art. 372 cod.  pen.),
del perito, del consulente tecnico o dell'interprete (art.  373  cod.
pen.)  che  abbiano  reso  false  dichiarazioni,  se  per  legge  non
avrebbero  dovuto  essere  chiamati  ad  assumere   tali   qualifiche
soggettive, ovvero avrebbero dovuto essere avvertiti  della  facolta'
di astenersi dal rendere dichiarazioni - e' stato interessato da  una
specifica «integrazione» ad opera dell'art. 21 della legge n. 63  del
2001, resasi necessaria  in  relazione  alla  speculare  introduzione
delle  nuove  figure  di  indagati/imputati  che,  in   presenza   di
specifiche situazioni, assumono l'obbligo di rendere testimonianza  o
informazioni. In particolare la «nuova»  causa  di  estensione  della
causa di non punibilita' e' riferita al  soggetto  che  «non  avrebbe
potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere» e cioe' al
fatto di avere  chiamato  ad  assumere  l'ufficio  di  testimone  una
persona che, invece, avrebbe dovuto essere sentita  come  indagato  o
imputato, ricorrendo le incompatibilita' stabilite dall'art. 197 cod.
proc. pen., ovvero in assenza delle  situazioni  descritte  dall'art.
197-bis del detto codice, ovvero per  avere  comunque  obbligato  una
persona a deporre su fatti concernenti anche la  sua  responsabilita'
in ordine al reato per cui si procede o  si  e'  proceduto  nei  suoi
confronti e che  pertanto  non  avrebbe  potuto  essere  obbligata  a
rispondere. 
    In tale novellato  contesto  normativo  la  stessa  volonta'  del
legislatore di «anticipare» all'assunzione di  informazioni  in  fase
d'indagini  preliminari  le  regole  in  tema  d'incompatibilita'   a
testimoniare - come sarebbe dato evincere dalla serie di rinvii  agli
artt. 197, 197-bis, 198, 199 cod. proc. pen.  operati  dall'art.  362
dello stesso codice (quanto alle informazioni  assunte  dal  pubblico
ministero), nonche', attraverso il citato art.  362,  dall'art.  351,
primo comma, seconda proposizione (quanto alle  informazioni  assunte
dalla polizia giudiziaria) - risulterebbe del tutto chiara, nel senso
di escludere la possibilita' di «scelte strategiche» di  acquisizione
di  contributi  dichiarativi   in   modo   improprio   da   qualunque
dichiarante: rilievo,  quest'ultimo,  che  non  contraddice  ma  anzi
conferma  gli  itinerari  della  giurisprudenza   (della   Corte   di
cassazione e  della  Corte  costituzionale)  diretti  a  trovare  una
sostanziale identita' tra le ragioni di tutela del valore  probatorio
delle  dichiarazioni  rese  alla  polizia   giudiziaria,   realizzate
attraverso l'art. 378 cod. pen., e quelle  sottese  all'art.  371-bis
del medesimo codice riferite  alle  dichiarazioni  rese  al  pubblico
ministero: entrambe le  norme,  infatti,  tutelerebbero  un'attivita'
d'indagine simile e per  di  piu'  soggetta  per  piu'  profili  alla
medesima  disciplina,  con  particolare  riferimento  alle  forme  di
documentazione,  all'utilizzabilita'  anche  nella  successiva   fase
processuale e agli obblighi dei dichiaranti. 
    Alla   sostanziale   convergenza   di   disciplina   processuale,
caratterizzante nell'attuale sistema del codice  di  rito  il  valore
probatorio  delle  informazioni  assunte  dalla  polizia  giudiziaria
rispetto  a  quelle  rese  davanti   al   pubblico   ministero,   non
corrisponderebbe - nella tassativa struttura normativa dell'art. 384,
secondo comma, cod. pen. (rimasta immutata in  parte  qua  a  seguito
della novella  del  2001) -  una  omogeneita'  di  trattamento  delle
corrispondenti condotte di mendacio e/o reticenza, qualora le  stesse
siano riconducibili alle ipotesi di reato previste,  rispettivamente,
dall'art. 371-bis e dall'art. 378 cod. pen., non essendo  applicabile
per il mancato richiamo di  quest'ultima  norma  (ancorche'  limitato
alla condotta di false o reticenti informazioni assunte dalla polizia
giudiziaria) la speciale causa di non punibilita', nelle  ipotesi  di
assunzione d'informazioni  ad  opera  della  polizia  giudiziaria  in
assenza dei presupposti per configurare in  capo  al  dichiarante  un
«obbligo» di deporre erga alios: disomogeneita' di trattamento la cui
intrinseca  irragionevolezza   (art.   3   Cost.)   non   apparirebbe
manifestamente  infondata  alla   stregua   del   medesimo   percorso
argomentativo  gia'  posto  a  sostegno  dell'autonomo   profilo   di
illegittimita' costituzionale  dell'art.  384,  secondo  comma,  cod.
pen., nella parte in cui non prevedeva l'esclusione della punibilita'
per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria,
fornite da chi avrebbe dovuto  essere  avvertito  della  facolta'  di
astenersi  dal  renderle  a  norma  dell'art.  199  cod.  proc.  pen.
(sentenza n. 416 del 1996). Essa sarebbe sanabile soltanto attraverso
un ulteriore intervento di carattere «additivo» da  parte  di  questa
Corte, dopo il  riscontro  appunto  dell'irragionevolezza  di  scelte
legislative  in  una  materia  (estensione   delle   cause   di   non
punibilita', comportante un giudizio di bilanciamento tra l'interesse
tutelato da norme incriminatici accomunate dalla ratio ispiratrice  e
disciplina processuale: nella specie, artt. 371-bis e 378 cod.  pen.)
e le esigenze  che  invece  sorreggono  le  correlative  disposizioni
derogatorie (art. 384, secondo comma, cod. pen.). 
    Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e  difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto in data 4 agosto  2007
ha spiegato intervento nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale
per sentir  dichiarare  la  manifesta  infondatezza  della  questione
sollevata. 
    La  parte  privata  non  ha  svolto  in  questa  sede   attivita'
difensiva. 
                       Considerato in diritto 
    1. -  Il  Tribunale   di   Biella   dubita   della   legittimita'
costituzionale dell'art. 384, secondo comma, del  codice  penale,  in
riferimento all'art. 3 della Costituzione,  nella  parte  in  cui  la
detta norma non prevede l'esclusione della punibilita'  per  false  o
reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria e fornite da
chi non avrebbe potuto essere  obbligato  a  renderle  o  comunque  a
rispondere, in quanto  persona  indagata  per  reato  probatoriamente
collegato, ai sensi dell'art. 371, comma 2, lettera b), del codice di
procedura penale, con quello commesso da altri cui  le  dichiarazioni
stesse si riferiscono. 
    1.1. - Il rimettente premette di essere chiamato a  decidere  nel
procedimento penale a carico  di  M.  M.,  imputato  del  delitto  di
favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.), «perche',  assunto  a
sommarie informazioni dai militari del R.O.N.O.  dei  Carabinieri  di
Biella  relativamente  al  possesso  e   all'acquisto   di   sostanza
stupefacente di tipo hashish - in particolare di grammi 8,490  ceduti
al medesimo da M. V. in data 19 aprile 2004 in Ponderano - aiutava il
medesimo ad  eludere  le  investigazioni  dell'autorita'  negando  di
conoscerlo e  di  essersi  recato  presso  la  sua  abitazione  nelle
circostanze di tempo e di luogo sopra indicate». 
    Osserva poi, in punto di  rilevanza  della  questione,  che  tale
condotta, nel caso  in  esame  documentalmente  riscontrata,  sarebbe
senza dubbio idonea ad integrare  gli  estremi  del  delitto  di  cui
all'art. 378 cod. pen., richiamando il consolidato orientamento della
giurisprudenza (diritto vivente) che attribuisce  a  tale  norma  una
funzione «repressiva» di  chiusura,  in  quanto  volta  a  sanzionare
qualsiasi   comportamento   diretto   ad   intralciare    l'attivita'
investigativa, compresa quindi la condotta di  mendacio  e  reticenza
alla  polizia  giudiziaria.  Del  pari  pacifica  sarebbe   l'opzione
interpretativa che dal delineato  ambito  applicativo  dell'art.  378
(esteso  cioe'  al  mendacio   alla   polizia   giudiziaria)   desume
l'assegnazione alla norma anche  di  una  funzione  di  tutela  della
verita' e completezza delle dichiarazioni rese alla medesima  polizia
giudiziaria, con attribuzione ad esse di valore probatorio  in  senso
lato (non trattandosi di  dichiarazioni  assunte  in  contraddittorio
delle parti) e con conseguente rilievo  del  carattere  complementare
del detto art. 378 cod. pen. rispetto all'ordinario sistema di tutela
della prova dichiarativa formatasi davanti all'autorita' giudiziaria,
sanzionato dagli artt. 371-bis e 372 cod. pen. 
    In questo  quadro,  ed  avuto  riguardo  anche  alle  innovazioni
apportate allo statuto della prova  dichiarativa  dalle  disposizioni
introdotte con la legge 1° marzo 2001, n.  63  (Modifiche  al  codice
penale e al codice di procedura penale in  materia  di  formazione  e
valutazione della prova in attuazione della legge  costituzionale  di
riforma dell'art. 111 della Costituzione), andrebbero  riesaminati  i
problemi, gia' emersi sotto il vigore del precedente codice di  rito,
relativi (tra l'altro)  alla  non  applicabilita'  all'art.  378  del
codice penale della norma di cui  all'art.  384,  secondo  comma,  di
detto codice, prevista invece per  gli  artt.  371-bis  e  372  dello
stesso. Di qui la rilevanza della questione, nei termini  prospettati
dal rimettente. 
    2. - Cio' posto il  giudice  a  quo  -  dopo  aver  rimarcato  la
sostanziale convergenza di  disciplina  processuale  caratterizzante,
nell'attuale sistema del codice di rito, il valore  probatorio  delle
informazioni  assunte  dalla  polizia   giudiziaria   rispetto   alle
dichiarazioni rese davanti al pubblico ministero - osserva che a tale
convergenza non  corrisponde,  nella  tassativa  struttura  normativa
dell'art.  384,  secondo  comma,  cod.  pen.,  una   omogeneita'   di
trattamento delle corrispondenti condotte di  mendacio  o  reticenza,
rispettivamente previste dall'art. 371-bis e dall'art. 378  di  detto
codice, essendo infatti non applicabile, stante il  mancato  richiamo
di quest'ultima norma (ancorche' limitato alla condotta  di  false  o
reticenti  informazioni  assunte  dalla  polizia   giudiziaria),   la
speciale  causa  di  non  punibilita'  nelle  ipotesi  di  assunzione
d'informazioni ad opera della stessa polizia giudiziaria  in  assenza
dei presupposti per configurare a carico del dichiarante  un  obbligo
di deporre. A  suo  avviso  tale  trattamento  non  omogeneo  sarebbe
irragionevole, ponendosi quindi in contrasto con l'art. 3 Cost. 
    3. - La questione e' fondata nei sensi in prosieguo indicati. 
    3.1. - L'art. 384, secondo comma, cod. pen., stabilisce che  «Nei
casi  previsti  dagli  articoli  371-bis,  371-ter,  372  e  373,  la
punibilita' e' esclusa se il fatto e' commesso da chi per  legge  non
avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle
indagini o assunto come  testimonio,  perito,  consulente  tecnico  o
interprete ovvero non avrebbe potuto essere  obbligato  a  deporre  o
comunque  a  rispondere  o  avrebbe  dovuto  essere  avvertito  della
facolta'  di  astenersi  dal  rendere  informazioni,   testimonianza,
perizia, consulenza o interpretazione». La norma contempla ipotesi in
cui (per quanto qui rileva) le informazioni o la  testimonianza  sono
state assunte in modo non legittimo, perche'  l'autorita'  procedente
non avrebbe potuto richiederle a cio' ostando un  divieto  di  legge,
oppure perche' il soggetto non  avrebbe  potuto  essere  obbligato  a
rispondere oppure a deporre o avrebbe dovuto essere  avvertito  della
facolta' di astenersi. Come l'ordinanza di rimessione  pone  in  luce
con motivazione non implausibile, e' questa la  norma  che  viene  in
rilievo nel caso in esame, perche' la persona chiamata  a  rispondere
del delitto di favoreggiamento personale nei termini sopra  indicati,
quando fu richiesta di fornire informazioni alla polizia giudiziaria,
era stata  gia'  iscritta  nel  registro  degli  indagati  per  reati
probatoriamente collegati (ex art. 371,  comma  2,  lettera  b,  cod.
proc. pen.) a quello ascritto al soggetto individuato quale possibile
«fonte» di rifornimento della sostanza stupefacente. 
    4. - Il citato art. 384, secondo comma, cod. pen.  indica  dunque
tra  le  ipotesi  criminose  alle  quali,  ricorrendo  le  situazioni
previste, la causa di non punibilita' si applica,  anche  l'art.  372
cod. pen. (falsa testimonianza) e l'art.  371-bis  cod.  pen.  (false
informazioni  al  pubblico  ministero).  Quest'ultimo   -    aggiunto
dall'art. 11, comma 1,  del  decreto-legge  8  giugno  1992,  n.  306
(Modifiche  urgenti  al  nuovo   codice   di   procedura   penale   e
provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa) convertito, con
modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356  -   stabilisce  che
«Chiunque,  nel  corso  di  un  procedimento  penale,  richiesto  dal
pubblico ministero di fornire informazioni ai  fini  delle  indagini,
rende dichiarazioni false ovvero tace, in tutto o in parte, cio'  che
sa intorno ai  fatti  sui  quali  viene  sentito  e'  punito  con  la
reclusione fino a quattro anni» (comma 1). 
    La norma sostanziale ora richiamata si collega all'art. 362  cod.
proc. pen. che, sotto la rubrica «assunzione d'informazioni», dispone
che «Il pubblico ministero  assume  informazioni  dalle  persone  che
possono riferire circostanze  utili  ai  fini  delle  indagini.  Alle
persone gia' sentite dal difensore o dal suo  sostituto  non  possono
essere chieste informazioni sulle domande formulate e sulle  risposte
date. Si applicano le disposizioni degli articoli 197, 197-bis,  198,
199,  200,  201,  202  e  203  cod.  proc.  pen.»  Il  rinvio   cosi'
contemplato, quindi, e' alla normativa che governa l'assunzione della
testimonianza con i relativi obblighi  e  facolta',  come  risultanti
dopo le modifiche introdotte dalla legge 1° marzo 2001, n. 63. 
    Tra gli altri sono richiamati gli artt. 197 e  197-bis,  relativi
alla  possibile  assunzione  della  figura  di  testimone  cosiddetto
assistito, introdotta con la nuova disciplina stabilita  dalla  legge
n. 63 del 2001, relativamente alla posizione di soggetti imputati  (o
indagati per l'estensione operata dall'art. 61 cod. proc. pen.) in un
procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 o di un reato collegato a
norma dell'art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen. 
    A sua volta, l'art. 351 cod. proc. pen. dispone, nel comma 1, che
la polizia giudiziaria assume sommarie informazioni dalle persone che
possono  riferire  circostanze  utili  ai  fini  delle   indagini   e
stabilisce che si applicano  le  disposizioni  del  secondo  e  terzo
periodo del comma 1  dell'art.  362.  Per  effetto  di  tale  rinvio,
pertanto, le disposizioni normative sulla testimonianza,  applicabili
alle informazioni assunte dal  pubblico  ministero,  vanno  osservate
anche per le informazioni assunte dalla polizia giudiziaria. 
    Resta da aggiungere che, per il  disposto  dell'art.  351,  comma
1-bis, cod. proc.  pen.,  all'assunzione  d'informazioni  da  persona
imputata (o indagata) in un procedimento connesso, ovvero da  persona
imputata (o indagata) in ordine ad un reato collegato  a  quello  per
cui sono in corso le indagini, nel caso previsto dall'art. 371, comma
2, lettera b),  puo'  procedere,  di  propria  iniziativa,  anche  un
ufficiale di polizia giudiziaria. La persona predetta, se  priva  del
difensore, e' avvisata che e' assistita da un difensore  di  ufficio,
ma che puo' nominarne  uno  di  fiducia.  Il  difensore  deve  essere
tempestivamente avvisato ed ha diritto di assistere all'atto. 
    5.  -  Orbene,  mentre  il  mendacio  e  la   reticenza   davanti
all'autorita' giudiziaria configurano le ipotesi di reato  richiamate
nel punto che precede, invece le informazioni false o reticenti  rese
alla polizia giudiziaria (incluse nella stesura originaria  dell'art.
371-bis, secondo la formulazione contenuta nell'art. 11, comma 1, del
decreto-legge 11 giugno 1992, n. 306, ma  escluse  al  momento  della
conversione del decreto nella  legge  7  agosto  1992,  n.  356)  non
rientrano in una specifica fattispecie di reato. Esse, tuttavia,  non
sono  penalmente  irrilevanti,  in  quanto  possono  concorrere,   in
presenza degli altri elementi previsti dalla legge, ad  integrare  il
reato di favoreggiamento personale, ai sensi dell'art. 378 cod.  pen.
(cosi' la sentenza di questa Corte n. 416  del  1996,  che  dichiaro'
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 384,  secondo  comma,  cod.
pen., nella parte in cui non prevedeva l'esclusione della punibilita'
per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria,
fornite da chi avrebbe dovuto  essere  avvertito  della  facolta'  di
astenersi dal renderle, a  norma  dell'art.  199  cod.  proc.  pen.).
Peraltro,  avuto  riguardo  all'espressa  limitazione  stabilita  nel
secondo comma dell'art. 384 cod. pen. alle fattispecie  di  reato  in
esso  contemplate  (ne'  potendosi  estendere  al  secondo  comma  il
riferimento che all'art. 378 e' fatto, in altro e  diverso  contesto,
dal primo comma dello stesso art.  384),  la  non  punibilita'  delle
dichiarazioni mendaci formulate nelle circostanze previste nel  detto
art. 384, secondo comma, non si estende al caso  in  cui  esse  siano
rese alla polizia giudiziaria. 
    6.  -  Tale  diversita'  di  disciplina,  pero',  e'  palesemente
irragionevole. 
    Invero, come questa Corte ha gia' messo in luce (sentenza n.  416
del 1996), le  due  attivita'  d'indagine,  rispettivamente  previste
dagli artt. 351 e 362 cod. proc.  pen.,  presentano  una  sostanziale
omogeneita', in quanto appartengono alla  fase  procedimentale  delle
indagini preliminari. Pertanto tra il delitto di false  dichiarazioni
rese al pubblico ministero e quello di favoreggiamento  dichiarativo,
commesso con la condotta di false o reticenti informazioni rese  alla
polizia giudiziaria, si evidenzia  una  sostanziale  omogeneita'  del
bene protetto dalle fattispecie che consiste nella  funzionalita'  di
ciascuna fase rispetto  agli  scopi  propri  nei  quali  le  esigenze
investigative (specialmente agli inizi  del  procedimento)  e  quelle
della ricerca della  verita'  (specialmente  nella  fase  finale  del
processo) si sommano, sicche' gli artt. 378, 371-bis e 372 cod.  pen.
finiscono per presidiare ciascuno una fase distinta del  procedimento
e del processo, restando simmetricamente esclusa -  per  predominante
giurisprudenza - l'eventualita' che la  stessa  condotta  integri  la
violazione di piu' d'una di tali norme secondo lo schema del concorso
formale  di  reati  (art.  81  cod.  pen.).  Inoltre   va   segnalata
l'identita' delle condotte materiali (mendacio o reticenza) che nelle
diverse ipotesi possono risultare rilevanti. 
    Ma la riscontrata diversita' di disciplina si palesa  ancor  piu'
irrazionale   considerando   l'evoluzione   normativa   del   sistema
processuale che, prima con le modifiche introdotte col decreto  legge
n. 306 del 1992 (convertito con modificazioni dalla legge n. 356  del
1992) e poi con quelle stabilite dalla legge  n.  63  del  2001,  non
soltanto ha statuito la sussistenza, in  capo  al  soggetto  chiamato
dalla polizia  giudiziaria  a  rendere  dichiarazioni,  degli  stessi
obblighi previsti per chi e' chiamato a deporre innanzi  al  pubblico
ministero (e per il testimone), cioe' dell'obbligo di rispondere e di
dire  il  vero,  salvo  il  limite  della  possibilita'  di  un   suo
coinvolgimento, ma ha portato ad una sostanziale equiparazione, anche
sotto il profilo della valenza processuale, delle dichiarazioni  rese
alla  polizia  giudiziaria  a  quelle  rese  al  pubblico  ministero.
Infatti, i verbali di  entrambe  possono  essere  utilizzati  per  le
contestazioni, valutati per la credibilita' del teste, in determinate
ipotesi acquisiti al fascicolo del dibattimento ed utilizzati per  la
decisione (art. 500 cod. proc. pen.). Il  giudice  puo'  disporre,  a
richiesta di parte, che  sia  data  lettura  di  entrambi  i  verbali
quando, per  fatti  o  circostanze  imprevedibili,  ne  sia  divenuta
impossibile la ripetizione (art. 512 cod. proc. pen.), oppure  quando
si tratta di dichiarazioni  di  persona  residente  all'estero  nelle
circostanze di cui all'art.  512-bis  cod.  proc.  pen.,  nonche'  di
dichiarazioni rese in altri procedimenti, se le stesse sono  divenute
irripetibili o se le parti ne consentono la lettura (art. 238,  commi
3  e  4,  cod.  proc.  pen.)  e,  infine,  in  caso  di  acquisizione
consensuale ai sensi degli artt. 431, comma 2,  493,  comma  3,  500,
comma 7, cod. proc. pen. 
    Tale  convergenza  di  disciplina  processuale  rende  del  tutto
irragionevole  il  diverso  regime  giuridico  riscontrabile  tra  le
corrispondenti condotte di mendacio o reticenza, qualora  esse  siano
riconducibili  alle  ipotesi  di  reato  previste,   rispettivamente,
dall'art. 371-bis e  dall'art.  378  cod.  pen.  (limitatamente  alla
condotta di false o  reticenti  informazioni  assunte  dalla  polizia
giudiziaria), non  essendo  applicabile  alla  seconda  ipotesi  (per
mancata previsione normativa) la citata causa di non punibilita'  nel
caso di assunzione d'informazioni ad opera della polizia giudiziaria,
ancorche' non sia configurabile in capo al dichiarante un obbligo  di
renderle o comunque di rispondere  in  quanto  persona  indagata  per
reato probatoriamente collegato, a  norma  dell'art.  371,  comma  2,
lettera b), cod. proc. pen., a quello  (commesso  da  altri)  cui  le
dichiarazioni stesse si riferiscono. 
    Da quanto esposto consegue l'illegittimita'  costituzionale,  per
violazione dell'art. 3 Cost. sotto il profilo  della  ragionevolezza,
dell'art. 384, secondo comma, cod.  pen.,  nella  parte  in  cui  non
prevede  l'esclusione  della  punibilita'  per  false   o   reticenti
informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite  da  chi  non
avrebbe potuto essere obbligato a renderle o  comunque  a  rispondere
per la ragione ora indicata.