Sentenza 
 
nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  537,  terzo
comma,  del  codice  civile,  promosso  dal  Tribunale  ordinario  di
Cosenza, nel procedimento vertente tra A.B. e D.T.A.  ed  altri,  con
ordinanza del  12  giugno  2008,  iscritta  al  n.  68  del  registro
ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 10, 1ª serie speciale, dell'anno 2009. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella camera di consiglio del 23 settembre 2009 il  giudice
relatore Paolo Grossi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Nel corso di una controversia civile - promossa dall'attrice
contro gli eredi del de cuius (deceduto ab intestato),  per  ottenere
il riconoscimento della paternita' del medesimo e l'accertamento  del
proprio diritto alla eredita' con  la  conseguente  divisione  -,  il
Tribunale ordinario di Cosenza, con ordinanza  emessa  il  12  giugno
2008, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e  30,  terzo  comma,
della  Costituzione,   questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 537, terzo comma, del codice civile,  il  quale  stabilisce
che «I figli  legittimi  possono  soddisfare  in  denaro  o  in  beni
immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che non vi
si oppongano. Nel caso di opposizione decide il giudice, valutate  le
circostanze personali e patrimoniali». 
    Il rimettente premette in fatto che -  passata  in  giudicato  la
sentenza parziale con la quale e' stata accertata la paternita'  -  i
convenuti figli  legittimi,  in  ordine  alla  domanda  di  divisione
dell'eredita', hanno richiesto di liquidare  in  denaro  la  porzione
spettante  alla  condividente  coerede  figlia  naturale,  la   quale
tuttavia si e' opposta a tale istanza,  domandando  di  sollevare  la
questione di costituzionalita' della norma. In punto di rilevanza, il
Tribunale afferma che - in ragione  dell'opposizione  dell'attrice  -
«dovrebbe decidere valutando le condizioni patrimoniali e personali»,
mentre, in assenza di tale norma, «di fronte al dissenso  del  figlio
naturale  il  giudice  non  potrebbe  in  alcun  caso  consentire  la
commutazione in denaro della quota, trattandosi di eredita'  composta
da diversi beni immobili». 
    Quanto alla non manifesta  infondatezza,  il  rimettente  osserva
come la norma impugnata sia stata introdotta dalla  legge  19  maggio
1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), che ha abrogato - per
adeguarsi al dettato dell'art. 30, terzo comma, della Costituzione  -
la vecchia disposizione dell'art. 574 cod. civ., in base alla quale i
figli legittimi avevano  il  diritto  potestativo  di  sciogliere  la
comunione ereditaria  con  i  figli  naturali,  commutando  la  quota
ereditaria in una somma di denaro, senza possibilita' di  opposizione
da parte del  figlio  naturale  e  di  valutazione  giudiziale  delle
circostanze del caso concreto. 
    Tuttavia, secondo il giudice  a  quo,  la  posizione  del  figlio
naturale e' cambiata nel corso degli anni, proprio  in  seguito  alla
introduzione della legge sul diritto di famiglia,  e  successivamente
delle leggi sulla separazione e sul  divorzio,  sicche'  e'  divenuta
anacronistica la ratio sottesa alla norma in esame, consistente nella
necessita' di rendere compatibile la tutela dei figli naturali con  i
diritti dei membri della famiglia legittima,  seppure  attraverso  il
correttivo della possibilita' di opposizione  con  deferimento  della
decisione al giudice. Attualmente, infatti,  «la  figura  del  figlio
naturale,  oltre  a  non  destare  alcun  tipo   di   sensazione   di
''estraneita'' dalla famiglia, e' alquanto diffusa»,  in  quanto  «il
numero delle separazioni e' molto alto e,  nella  maggior  parte  dei
casi, uno o entrambi i coniugi iniziano  una  nuova  convivenza,  con
procreazione di figli naturali (a volte riconosciuti  con  successivo
matrimonio)», che si presentano alla comunita' come  eredi,  per  cui
non puo' piu' sostenersi  che  il  figlio  legittimo  costituisca  il
«testimone» dell'identita' familiare. 
    Consentire che la menzionata valutazione (in  cui  in  base  alla
norma devono confluire anche gli elementi  patrimoniali  della  sfera
dei figli interessati) sia  fatta  dal  giudice  e',  ad  avviso  del
rimettente, ingiustificatamente  discriminatorio  nei  confronti  del
figlio  naturale,  e  non  ne  garantisce  i  diritti.  Inoltre,   il
trattamento differente riservato in sede di divisione  ereditaria  ai
figli naturali, non giustificandosi con una necessita' di tutela  dei
diritti dei figli legittimi (che in ogni caso, per il giudice a  quo,
non  subirebbero  lesioni  in  caso  di  abrogazione  della   norma),
contrasta con il divieto di  differenziazioni  basate  su  condizioni
personali e sociali. 
    D'altra parte, conclude il rimettente, l'eliminazione della norma
dal   nostro   sistema    giuridico    non    comporterebbe    alcuna
incompatibilita' con la tutela della famiglia legittima,  posto  che,
in caso di accordo, i figli legittimi potrebbero sempre  acconsentire
alla liquidazione in denaro o  in  beni  immobili  della  loro  quota
(cosi' come oggi avviene nella comunione tra piu'  figli  legittimi),
e, in caso di disaccordo, non vi sarebbe comunque lesione della quota
di alcuno dei discendenti. 
    2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, concludendo per la non fondatezza della sollevata questione. 
    La difesa erariale rileva che la norma denunciata  trova  la  sua
ratio nel diverso rapporto esistente in via  di  fatto  tra  i  figli
legittimi e naturali e tra questi ed i beni familiari;  e,  pertanto,
appare ragionevole  riconoscere  ai  figli  legittimi  il  potere  di
commutare  la  quota  ereditaria  dei  figli  naturali   in   valore,
consentendo cosi' di conservare i beni ereditari in capo a coloro che
normalmente hanno un particolare rapporto affettivo con  detti  beni.
D'altra parte (prosegue l'Avvocatura), la norma denunciata  riconosce
la parita' giuridica  dei  figli  legittimi  e  naturali,  in  quanto
garantisce anche a  questi  ultimi  una  quota  ereditaria  di  ugual
valore,  prevedendo  una  possibile  diversificazione   della   quota
ereditaria spettante ai figli naturali  solamente  sotto  il  profilo
della qualita' e non  della  quantita'.  D'altronde,  il  diritto  di
commutazione non e' assoluto, in  quanto  i  figli  naturali  possono
opporsi e rimettere la questione  al  giudice,  che  dovra'  decidere
tenendo conto della situazione personale e patrimoniale degli stessi. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Il Tribunale ordinario di Cosenza censura l'art. 537,  terzo
comma, del codice civile, in base al quale «I figli legittimi possono
soddisfare in  denaro  o  in  beni  immobili  ereditari  la  porzione
spettante ai figli naturali che non vi  si  oppongano.  Nel  caso  di
opposizione decide il giudice, valutate le  circostanze  personali  e
patrimoniali». 
    Secondo il rimettente la norma  si  pone  in  contrasto:  a)  con
l'art. 30, terzo comma, della Costituzione, in quanto  il  consentire
che la menzionata valutazione (in  cui  in  base  alla  norma  devono
confluire anche gli  elementi  patrimoniali  della  sfera  dei  figli
interessati)   sia   fatta   dal   giudice   e'   ingiustificatamente
discriminatorio  nei  confronti  del  figlio  naturale,  e   non   ne
garantisce i diritti; b) con l'art. 3 Cost., poiche'  il  trattamento
differente  riservato  in  sede  di  divisione  ereditaria  ai  figli
naturali, non  giustificandosi  con  una  necessita'  di  tutela  dei
diritti dei figli legittimi (che in ogni caso, per il giudice a  quo,
non  subirebbero  lesioni  in  caso  di  abrogazione  della   norma),
contrasta con il divieto di  differenziazioni  basate  su  condizioni
personali e sociali. 
    2. - La questione non e' fondata. 
    2.1. - L'art. 30, terzo comma, Cost.  prevede  espressamente  che
«La legge assicura ai figli nati fuori  dal  matrimonio  ogni  tutela
giuridica e sociale, compatibile  con  i  diritti  dei  membri  della
famiglia legittima». 
    Questa Corte ha specificamente enucleato il  duplice  significato
normativo  attribuito  dalla  propria  giurisprudenza   al   precetto
costituzionale in esame, che, dal lato dei rapporti  tra  genitori  e
figli, si esprime in una regola  di  equiparazione  dello  status  di
figlio naturale (riconosciuto o dichiarato)  allo  status  di  figlio
legittimo nei limiti di compatibilita' con i diritti dei membri della
famiglia legittima fondata sul matrimonio; mentre, nei rapporti della
prole naturale con i parenti del genitore (ossia con la  famiglia  di
origine del genitore e con altri suoi  figli,  legittimi  o  naturali
riconosciuti), si pone come norma ispiratrice  di  una  direttiva  di
sempre piu' adeguata tutela della  condizione  di  diritto  familiare
della prole naturale (sentenze n. 377 del 1994 e n. 184 del 1990). Di
conseguenza, la Corte ha anche  chiarito  «come  dall'art.  30  della
Costituzione non discenda in maniera  costituzionalmente  necessitata
la parificazione di tutti i parenti naturali ai  parenti  legittimi»,
in quanto «un ampio concetto di "parentela  naturale"  non  e'  stato
recepito dal legislatore costituente,  il  quale  si  e'  limitato  a
prevedere la filiazione naturale ed a  stabilirne  l'equiparazione  a
quella  legittima,  peraltro  con  la  clausola  di   compatibilita'»
(sentenza n. 532 del 2000). 
    2.2. - Nello specifico ambito dei rapporti tra il figlio naturale
ed i membri della famiglia legittima (e, in particolare,  per  quanto
qui interessa, i figli legittimi), e' proprio il menzionato  criterio
di compatibilita' che rappresenta lo snodo del sistema costituzionale
finalizzato  alla  composizione  dei  diritti  coinvolti,  che   deve
compiersi in un contesto (non gia' di discriminazione della posizione
dell'uno  rispetto  a  quella  degli  altri,  quanto  piuttosto)   di
riconoscimento della diversita' delle posizioni in esame.  Diversita'
nella parita' di trattamento, quindi, che  si  coglie  immediatamente
dalla semplice considerazione che l'art. 30,  primo  e  terzo  comma,
Cost., «come avviene nella stragrande maggioranza  degli  ordinamenti
oggi vigenti», conosce «solo due  categorie  di  figli:  quelli  nati
entro e quelli nati fuori del matrimonio, senza ulteriore distinzione
tra questi ultimi» (sentenza n. 494 del 2002). 
    Pertanto, l'approccio alla problematica relativa alla correttezza
della scelta delle concrete modalita' di realizzazione del menzionato
contemperamento con (o la sottordinazione ad) altri principi di  pari
o maggior peso va interamente condotto  sul  versante  della  analisi
della ragionevolezza del trattamento differenziato, commisurata «alla
dinamica evolutiva dei rapporti sociali» (sentenza n. 377 del 1994). 
    2.3. - L'art. 537 cod. civ. (come sostituito dall'art. 173  della
legge 19 maggio 1975, n. 151), oltre a prevedere e  regolamentare  il
diritto di commutazione in esame (terzo comma),  dispone  che,  nella
ipotesi di concorso all'eredita' di figli legittimi e naturali,  agli
uni e agli altri siano attribuiti in egual misura i medesimi  diritti
successori (primo e secondo comma). Il legislatore della riforma  del
diritto di famiglia, quindi  -  modificando  radicalmente  quanto  in
precedenza previsto dall'art. 541 cod. civ. (abrogato  dall'art.  177
della stessa legge n.  151  del  1975)  -  ha  equiparato  i  diritti
successori  dei   figli   legittimi   e   naturali,   contestualmente
rimodulando il menzionato diritto di commutazione  (che  riguarda  la
fase di divisione dell'asse ereditario), trasformato da insindacabile
diritto meramente potestativo attribuito ai figli legittimi a diritto
ad  esercizio  puntualmente  controllato,  in  quanto  soggetto  alla
duplice condizione della mancata opposizione del  figlio  naturale  e
della decisione del giudice, «valutate  le  circostanze  personali  e
patrimoniali». 
    Occorre rilevare che la Corte - anche se chiamata a  vagliare  la
costituzionalita' dell'abrogato art. 541 cod. civ. -  ha  gia'  avuto
modo di affermare come la norma oggi impugnata (che in quel  giudizio
era assunta quale tertium  comparationis  a  sostegno  della  dedotta
illegittimita'  della  precedente  disciplina)  si   collochi   nella
prospettiva del progressivo adeguamento della normativa allo  spirito
evolutivo promanante dal precetto  costituzionale  di  cui  al  terzo
comma dell'art. 30, che permea la riforma del diritto di  famiglia  e
che caratterizza (ed indirizza) l'ampia discrezionalita' lasciata  al
legislatore in materia; discrezionalita' che, tuttavia, oltre a dover
rispettare il canone di una ragionevolezza commisurata alla  dinamica
evolutiva  dei  rapporti  sociali,  e'  soggetta  anche  al   limite,
stabilito   dalla   medesima   disposizione   costituzionale,   della
compatibilita' con i diritti  dei  membri  della  famiglia  legittima
(sentenza n. 168 del 1984). 
    Orbene, tali considerazioni offrono dei riferimenti significativi
ed ancora attuali, anche alla luce della  giurisprudenza  successiva.
In primo luogo, relativamente alla attribuzione della  spettanza  «al
legislatore ordinario - stante la formulazione generica del testo del
terzo comma del citato art. 30, frutto  del  "travaglio  che  porto',
nell'Assemblea  costituente,  alla  sua   formulazione   definitiva''
(sentenza n. 54 del 1960) -  di  rendersi  attento  interprete  della
evoluzione del costume e della coscienza sociale, e, in  conseguenza,
di apprestare, in  ordine  alla  esigenza,  espressamente  posta  dal
precetto costituzionale,  della  "compatibilita''  della  tutela  dei
figli nati fuori del  matrimonio  con  i  diritti  dei  membri  della
famiglia legittima, soluzioni anche diverse  nel  tempo,  in  armonia
appunto con la cennata evoluzione». In secondo luogo, con riguardo al
riconoscimento del fatto che «il  legislatore  [del  1975],  muovendo
dalla consapevolezza che "nessuna  parte  dell'ordinamento  giuridico
risente come il diritto  familiare  delle  contemporanee  ed  opposte
sollecitazioni  della  tradizione  da  un  lato  e  del  costume   in
evoluzione dall'altro", ha inteso impegnare "saggezza ed  equilibrio"
al fine di "modulare le delicate correlazioni  e  l'intensita'  degli
strumenti di tutela  dei  diversi  interessi  in  gioco  ...  per  la
migliore sistemazione normativa dell'istituto e  soprattutto  per  la
sua aderenza alla realta' sociale"» (sentenza n. 168 del 1984). 
    2.4. - Se, dunque, la  completa  equiparazione  nel  quantum  dei
diritti successori dei figli  legittimi  e  naturali,  stabilita  dai
primi due commi dell'art. 537 cod. civ.  attua  (in  modo  certamente
obbligato) il principio della necessaria uguaglianza delle  posizioni
dei figli nel rapporto con  il  genitore  dante  causa  (deceduto  ab
intestato), la scelta del legislatore di conservare in capo ai  figli
legittimi la possibilita' di richiedere la commutazione, condizionata
dalla previsione della facolta' di opposizione da  parte  del  figlio
naturale e dalla valutazione delle  specifiche  circostanze  posta  a
base della decisione  del  giudice,  non  contraddice  la  menzionata
aspirazione alla tendenziale parificazione della posizione dei  figli
naturali, giacche' non irragionevolmente si pone  ancor  oggi  (quale
opzione costituzionalmente non obbligata ne' vietata) come termine di
bilanciamento (compatibilita') dei diritti  del  figlio  naturale  in
rapporto con i figli membri della famiglia legittima. 
    L'espresso  riferimento  della  Costituzione   al   criterio   di
«compatibilita'» assume la funzione di autentica  clausola  generale,
aperta al divenire della societa' e del costume. 
    E' appunto in questa prospettiva che si e' mosso  il  legislatore
del nuovo diritto di famiglia, attribuendo al giudice - cui viene  in
definitiva demandato il riscontro della sussistenza o meno di  quella
che   sostanzialmente   puo'   definirsi    come    «giusta    causa»
dell'opposizione del figlio naturale alla richiesta  di  commutazione
avanzata dai figli legittimi - il ruolo di garante della  parita'  di
trattamento nella  diversita',  attraverso  il  continuo  adeguamento
della concreta applicazione della norma ai  principi  costituzionali.
La naturale concretezza della soluzione giurisdizionale (che, ove  le
circostanze lo esigano, puo' ovviamente essere a  favore  del  figlio
naturale) permette, infatti, di calibrare la singola  decisione  alle
specifiche circostanze personali (attinenti ai pregressi rapporti tra
i figli) e patrimoniali (riguardanti la situazione dei beni  lasciati
in eredita', in considerazione, sia della loro migliore conservazione
e gestione, sia del rapporto che lega  l'erede  al  bene),  cosi'  da
scongiurare eventuali esercizi arbitrari, e quindi non meritevoli  in
concreto di tutela, del diritto di commutazione o della  facolta'  di
opposizione. 
    D'altronde,  la  (volutamente)   elastica   formula   linguistica
adoperata  dal  legislatore  risulta  teleologicamente  coerente   al
sistema, poiche' lascia  tutto  il  dovuto  spazio  all'apprezzamento
discrezionale del giudice (le cui decisioni, peraltro, sono soggette,
come le altre, ai normali rimedi processuali). 
    Lungi,  dunque,  dal  dirsi   anacronistica   (come   deduce   il
rimettente) la ratio sottesa alla norma in esame, questa - anche  per
la sua formulazione «aperta» (analoga a quella prevista dall'art. 252
cod.  civ.  in  tema  di  affidamento  del  figlio  naturale  e   suo
inserimento nella famiglia legittima) -  appare  viceversa  idonea  a
consentire il recepimento nel suo ambito  dispositivo  (di  volta  in
volta, e secondo il sentire dei  tempi)  delle  singole  fattispecie,
commisurate proprio a quella dinamica evolutiva dei rapporti sociali,
che attualizza il precetto costituzionale. Cio', tanto piu' in quanto
- per colmare la gia' evidenziata ampia  latitudine  del  riferimento
normativo alle «circostanze personali e patrimoniali» -  il  giudice,
nella propria opzione ermeneutica, e' tenuto a dare  una  valutazione
costituzionalmente orientata, la quale appunto non puo' ignorare  (ma
deve  necessariamente  prendere  in   considerazione)   la   naturale
evoluzione nel tempo della coscienza sociale e dei costumi. 
    2.5. - La norma impugnata, pertanto,  e'  immune  dai  denunciati
vizi di incostituzionalita'.