Sentenza 
 
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 76, comma 4-bis,
del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115  (Testo  unico  delle  disposizioni
legislative e  regolamentari  in  materia  di  spese  di  giustizia),
promossi dal Tribunale di Catania con ordinanza del 17 luglio 2009  e
dal Tribunale di Lecce (sezione distaccata di  Campi  Salentina)  con
ordinanza del 26 marzo 2009, rispettivamente iscritte ai  nn.  299  e
301 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 51, 1ª serie speciale, dell'anno 2009. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella camera di consiglio del  24  marzo  2010  il  giudice
relatore Gaetano Silvestri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Il Tribunale di Catania  in  composizione  monocratica,  con
ordinanza del 17 luglio 2009 (r.o. n. 299 del 2009), ha sollevato, in
riferimento  agli  artt.  3  e  24,  secondo  e  terzo  comma,  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art.  76,
comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n.  115  (Testo  unico  delle
disposizioni legislative e  regolamentari  in  materia  di  spese  di
giustizia), nella parte in cui -  avuto  riguardo  ai  soggetti  gia'
condannati con sentenza definitiva per i  reati  di  cui  agli  artt.
416-bis del codice penale, 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973,  n.
43 (Approvazione del testo unico delle  disposizioni  legislative  in
materia doganale), 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai  sensi
dell'articolo 80, e 74, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre  1990,  n.  309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti
e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura  e  riabilitazione   dei
relativi stati di tossicodipendenza), nonche' per  i  reati  commessi
avvalendosi delle condizioni previste dal predetto  articolo  416-bis
ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle  associazioni  previste
dallo stesso articolo - esclude la  possibilita'  di  dimostrare,  ai
fini   dell'ammissione   al   patrocinio   a   spese   dello   Stato,
l'indisponibilita'  di  un  reddito  superiore  ai  limiti   indicati
nell'art. 76, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002. 
    Il giudice rimettente e' chiamato a valutare il reclamo  proposto
dall'interessato, gia' in precedenza ammesso a fruire del  patrocinio
a spese dello Stato, nei confronti del provvedimento con il quale  il
Tribunale di Catania, preso atto dell'esistenza a suo carico  di  una
precedente condanna irrevocabile  per  il  delitto  di  cui  all'art.
416-bis cod. pen., ha disposto  la  revoca  del  beneficio.  Cio'  in
applicazione del comma 4-bis dell'art. 76 del testo unico in  materia
di spese di giustizia, introdotto dall'art. 12-ter, comma 1,  lettera
a), del decreto-legge 23  maggio  2008,  n.  92  (Misure  urgenti  in
materia di sicurezza pubblica), nel testo  integrato  dalla  relativa
legge di conversione (art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n.
125). 
    Il giudice a quo osserva, in punto di rilevanza, come  la  revoca
dell'ammissione   sia   stata   correttamente   disposta,   con    il
provvedimento  oggetto  di  reclamo,  alla  luce   della   previsione
contenuta nell'art. 112, comma 1, lettera d), dello stesso d.P.R.  n.
115 del 2002, secondo  cui,  entro  i  cinque  anni  successivi  alla
definizione del processo, il giudice provvede a revocare il beneficio
del patrocinio a spese dello Stato nel  caso  constati  la  mancanza,
«originaria o sopravvenuta», delle relative condizioni di reddito. In
particolare, anche la presunzione negativa introdotta con il d.l.  n.
92 del  2008  dovrebbe  essere  apprezzata  nella  valutazione  sulla
perdurante ammissibilita' del beneficio. 
    Non potrebbe essere accolta, a tale  ultimo  proposito,  la  tesi
prospettata  dalla  difesa  del  reclamante,  fondata   sull'asserita
«natura  sostanziale»  della  norma  censurata  e  dunque  sulla  sua
irretroattivita' secondo il disposto dell'art. 2 cod. pen.  La  legge
sul patrocinio a spese dell'Erario, osserva il rimettente, impone una
valutazione «dinamica» dei requisiti reddituali, e  la  normativa  di
nuova  introduzione  influisce  sull'accertamento  dei   redditi   in
questione. 
    Poste tali premesse, il giudice a quo ritiene che  l'introduzione
di una presunzione iuris et de iure circa il superamento del  reddito
compatibile con il beneficio contrasti con il dettato costituzionale. 
    Dopo aver richiamato, in particolare, il disposto del terzo comma
dell'art.  24  Cost.,  il  rimettente  sottolinea   come   la   Corte
costituzionale abbia stabilito che la  difesa  dei  non  abbienti  e'
oggetto di un interesse generale, oltre che soggettivo, tanto che non
rilevano le ragioni  concrete  dell'indisponibilita'  di  un  reddito
adeguato (sono citate le sentenze n. 144 del 1992, n. 139 del 1998  e
n. 33 del 1999). La Corte di cassazione, dal canto suo, avrebbe posto
in luce la particolare cogenza, nei  giudizi  penali,  dell'interesse
pubblico  ad  una  piena  esplicazione  del  diritto  di  difesa  (e'
richiamata la sentenza delle  Sezioni  unite  penali  n.  25  del  24
novembre 1999). 
    Chiarito  il  rango  costituzionale  del  diritto  all'assistenza
tecnica dei non abbienti, il giudice a quo rileva come la presunzione
introdotta dal legislatore discrimini ingiustificatamente tra  coloro
che siano  stati  condannati  per  i  delitti  indicati  nella  norma
censurata e persone che siano state condannate per reati diversi.  La
differenza di trattamento non potrebbe essere  giustificata  «con  il
solo  riferimento  al  maggior  allarme   sociale   derivante   dalla
commissione dei delitti»  compresi  nell'elenco  dello  stesso  comma
4-bis dell'art. 76. D'altra parte, se il  legislatore  avesse  inteso
semplicemente escludere  i  soggetti  in  questione  dall'accesso  al
beneficio, l'avrebbe esplicitamente disposto, secondo il modello gia'
applicato con riguardo ad alcuni reati tributari (art. 91 del  d.P.R.
n. 115 del 2002). 
    I principi di  uguaglianza  e  ragionevolezza  sarebbero  violati
anche sotto altri  profili.  Sarebbe  ingiustificato,  anzitutto,  il
diverso trattamento istituito tra gli  appartenenti  ad  associazioni
criminali: infatti, riguardo ai componenti delle associazioni di tipo
mafioso e delle associazioni finalizzate al contrabbando di  tabacchi
lavorati  esteri,  la  norma  censurata  introduce  una   presunzione
generalizzata di «abbienza», senza distinguere a seconda  del  ruolo,
ed in particolare tra dirigenti e semplici partecipi; nel caso  delle
associazioni  finalizzate  al  narcotraffico,   invece,   la   citata
presunzione  colpisce  unicamente  organizzatori  e   dirigenti   del
sodalizio, posto il riferimento in via esclusiva al comma 1 dell'art.
74 del d.P.R. n. 309 del 1990. Non sarebbe  ragionevole,  secondo  il
rimettente, una differente valutazione del ruolo apicale  in  ragione
delle diverse finalita' perseguite dai gruppi criminali. 
    Del  pari  irragionevole  sarebbe   l'analogia   di   trattamento
istituita tra i partecipi di un'associazione mafiosa  ed  i  soggetti
che abbiano «solo» commesso un  reato  avvalendosi  delle  condizioni
previste  dall'art.  416-bis  cod.  pen.  od  al  fine  di  agevolare
l'attivita' di una associazione di  tipo  mafioso.  L'estensione  del
meccanismo  presuntivo  a  soggetti  non   appartenenti   al   gruppo
criminale, per quanto ad esso contigui,  varrebbe  a  contraddire  la
stessa ratio dell'intervento legislativo. 
    La normativa censurata colliderebbe anche con  l'art.  24,  terzo
comma, Cost., con l'art. 6, comma 3, lettera  c),  della  Convenzione
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  e  con  l'art.  14,
comma 3, lettera d), del Patto  internazionale  relativo  ai  diritti
civili e politici, firmato a  New  York  il  16  dicembre  1966,  che
garantiscono ai non abbienti «la possibilita' di accedere,  comunque,
alla difesa». 
    La presunzione censurata avrebbe l'effetto concreto di  escludere
sempre, senza possibilita' di  eccezione,  l'accesso  di  determinati
soggetti al patrocinio, non gia' in forza della  loro  condizione  di
reddito,  ma  «in  ragione  delle  risultanze  del  certificato   del
casellario  giudiziale»:  sarebbe  inutile   finanche   la   positiva
documentazione  della  concreta  indisponibilita'   di   un   reddito
eccedente i limiti posti dalla legge per l'accesso al beneficio.  Una
condanna per un reato compreso nell'elenco dei precedenti preclusivi,
specie se risalente, non sarebbe effettivamente  significativa  circa
l'attuale condizione di «abbienza»  dell'interessato,  il  quale,  ad
esempio, potrebbe essersi  allontanato  dall'ambiente  criminale.  Di
conseguenza la norma censurata, almeno nella parte in cui non ammette
il condannato a  produrre  elementi  di  prova  utili  a  vincere  la
relativa presunzione,  determinerebbe  una  lesione  del  diritto  di
difesa, sia con riguardo al terzo comma dell'art. 24 Cost.,  sia  con
riferimento al secondo comma della stessa norma, posto che  l'accesso
al patrocinio rappresenta lo strumento  per  il  pieno  ed  effettivo
esercizio del diritto in questione. 
    Il  rimettente  esclude,  da  ultimo,  che  i  dubbi   circa   la
legittimita' della norma oggetto di censura possano  essere  superati
attraverso una interpretazione  «costituzionalmente  orientata»,  che
neghi il carattere assoluto della presunzione ed ammetta, dunque,  la
possibilita' di una  prova  contraria.  Sarebbero  ostativi,  in  tal
senso, sia il tenore letterale  della  disposizione,  sia  la  chiara
intenzione  del  legislatore  (desunta,  nella  specie,  dai   lavori
preparatori delle assemblee parlamentari, ove si legge che  la  norma
censurata  «prevede  l'esclusione  del  gratuito  patrocinio  per   i
condannati» riguardo a determinati reati). 
    2.  -  Il  Tribunale  di  Lecce,  sezione  distaccata  di   Campi
Salentina, con ordinanza del 26 marzo 2009 (r.o. n. 301 del 2009), ha
sollevato, in riferimento agli artt.  3  e  24  Cost.,  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 76, comma 4-bis, del d.P.R.  n.
115 del 2002, nella parte in cui esclude - con riguardo  ai  soggetti
gia' condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt.
416-bis cod.  pen.,  291-quater  del  d.P.R.  n.  43  del  1973,  73,
limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi  dell'art.  80,  e  74,
comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nonche'  per  i  reati  commessi
avvalendosi delle condizioni previste dal predetto  articolo  416-bis
ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle  associazioni  previste
dallo stesso articolo  -  che  il  giudice  possa  verificare  se  il
richiedente l'ammissione al patrocinio  a  spese  dello  Stato  abbia
ricavato redditi dal reato pregresso, e se tali  redditi  permangano,
in misura superiore a quella fissata  per  l'accesso  al  patrocinio,
nell'anno antecedente alla presentazione dell'istanza. 
    Il giudice a quo deve provvedere sulla richiesta dell'imputato di
essere ammesso al patrocinio  a  spese  dello  Stato,  e  rileva  che
l'interessato e' stato condannato con pronuncia irrevocabile  per  il
delitto  di  associazione  di  tipo  mafioso.  Tale  precedente,  pur
ricorrendo  tutti  gli  ulteriori  presupposti  per   l'accoglimento,
imporrebbe il rigetto della domanda. 
    La  norma  censurata,  secondo  il  rimettente,   introduce   una
presunzione  avente  ad  oggetto  l'esistenza,   l'ammontare   e   la
durevolezza  del  reddito  (pur  illecito)  prodotto  da  determinati
delitti. Detta presunzione sarebbe assoluta,  producendo  gli  stessi
effetti di una diretta esclusione dal beneficio dei condannati per  i
reati  in  questione,  cosi'  da  elevare  a  prova  insuperabile  di
«abbienza»  una  «norma  di  esperienza  relativa»  che,  come  tale,
dovrebbe invece essere sottoposta alla verifica del caso concreto. 
    La regola di  prova  introdotta  dal  legislatore  violerebbe  il
principio di uguaglianza sotto molteplici profili, proprio in  quanto
fondata su una presunzione irragionevole. I delitti associativi  sono
puniti anche quando non sia stato commesso alcun reato di  attuazione
del programma. Non ogni reato produce necessariamente un profitto  e,
comunque, non sempre i  profitti  conseguiti  in  ambito  associativo
vengono distribuiti fra tutti i componenti del gruppo criminale.  Non
potrebbe essere stabilito in via presuntiva, inoltre, che il  reddito
(illecito) conseguito al reato superi per quantita' la soglia fissata
per l'accesso al patrocinio. In ogni caso, dovrebbe essere dimostrata
la  disponibilita'  del  reddito  in  questione   nell'anno   fiscale
antecedente alla domanda, e  la  presunzione  diverrebbe  tanto  piu'
irragionevole  quanto  piu'  lontani  nel  tempo  risultino  i  fatti
accertati con la sentenza di condanna (nel caso di  specie,  i  fatti
stessi risalgono a circa nove anni prima della domanda  proposta  nel
giudizio a quo). 
    La  disposizione  censurata,  in  definitiva,  comporterebbe  una
illegittima discriminazione tra i condannati per determinati reati  e
gli ulteriori instanti per l'ammissione al patrocinio a  spese  dello
Stato, e produrrebbe, per i primi,  una  ingiustificata  compressione
del diritto di difesa. 
    3. - Il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel
giudizio introdotto con l'ordinanza r.o. n. 301  del  2009,  mediante
atto depositato in data 5 gennaio 2010, chiedendo  che  la  questione
sia dichiarata infondata. 
    L'applicazione della norma censurata presuppone, infatti, che  la
colpevolezza dell'interessato per i reati in essa indicati sia  stata
accertata con sentenza irrevocabile. D'altro  canto,  la  presunzione
circa la disponibilita' di redditi  incompatibili  con  l'accesso  al
beneficio - presunzione effettivamente insuperabile - sarebbe fondata
su una «consolidata massima di esperienza», che documenta l'enormita'
dei  profitti  prodotti  dal  crimine  organizzato.  Il   ricorso   a
meccanismi presuntivi sarebbe imposto proprio dal carattere illecito,
e dunque clandestino, dei redditi in discussione. 
    Secondo la difesa erariale, la discrezionalita' legislativa trova
il limite della ragionevolezza e non quello  della  «certezza»  delle
conseguenze che vengono tratte da una determinata  premessa.  Sarebbe
ingiustificato l'accollo da parte dello Stato degli oneri  pertinenti
alla difesa di soggetti la cui condizione di  non  «abbienza»  appaia
tale solo in forza dell'occultamento  del  patrimonio  posseduto.  La
necessita' di evitare questo effetto,  che  risulterebbe  «odioso  al
comune sentire dei cittadini», giustificherebbe «il rischio  che,  in
qualche sporadico caso, il reato commesso non abbia reso, in  termini
economici, i profitti consueti». 
    Sarebbe  anche  ragionevole,  sempre  a  parere   dell'Avvocatura
generale, la presunzione che  i  profitti  ricavati  dalle  attivita'
criminali indicate si risolvano «per molti anni» in redditi superiori
ai limiti fissati per l'accesso  al  patrocinio,  il  che  renderebbe
irrilevante la questione del tempo intercorso tra la  condanna  e  la
successiva istanza di ammissione. 
    La normativa censurata, in realta', sarebbe inserita in  un  piu'
generale contesto di accentuata severita' nel trattamento di reati ad
elevato allarme sociale, anche sul piano delle regole  processuali  e
dell'ordinamento penitenziario, in una logica di «doppio binario»  la
cui  ammissibilita'  sarebbe  stata  asseverata  tanto  dalla   Corte
costituzionale che dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - I Tribunali di Catania e di  Lecce  (sezione  distaccata  di
Campi Salentina), entrambi  in  composizione  monocratica,  sollevano
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 76,  comma  4-bis,
del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115  (Testo  unico  delle  disposizioni
legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia),  nella
parte in cui  -  avuto  riguardo  ai  soggetti  gia'  condannati  con
sentenza definitiva per i reati di cui agli artt. 416-bis del  codice
penale, 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973,  n.  43  (Approvazione
del testo unico delle disposizioni legislative in materia  doganale),
73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'art. 80, e 74,
comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico  delle  leggi
in materia di disciplina degli stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,
prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di
tossicodipendenza), nonche' per i reati  commessi  avvalendosi  delle
condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al  fine  di
agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  previste  dallo   stesso
articolo  -  esclude  la   possibilita'   di   accertare,   ai   fini
dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l'indisponibilita'
di un reddito superiore ai limiti indicati  nell'art.  76,  comma  1,
dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002. 
    1.1. - Secondo il Tribunale  di  Catania  la  norma  censurata  -
stabilendo con presunzione assoluta che il reddito del condannato «si
ritiene» superiore ai limiti fissati per l'accesso  al  patrocinio  -
contrasterebbe con l'art. 3  della  Costituzione,  anzitutto  per  la
difformita' di trattamento istituita, senza  giustificazione,  tra  i
soggetti condannati per reati indicati nella stessa  norma  e  quelli
condannati per reati diversi, ma di gravita'  comparabile.  Sarebbero
inoltre discriminati tra loro gli appartenenti con ruoli non  apicali
ad associazioni criminose,  sul  solo  presupposto  delle  differenti
finalita'  perseguite  dalle  rispettive   organizzazioni   e   della
conseguente, diversa qualificazione giuridica. Nello stesso tempo, la
norma  censurata  assimilerebbe,  senza  alcuna  giustificazione,   i
soggetti appartenenti ad associazioni di tipo mafioso e  quelli  che,
pur avendo agito per favorire dette associazioni  oppure  avvalendosi
delle connesse capacita' di intimidazione, non siano stati  partecipi
delle relative organizzazioni criminali. 
    Il Tribunale  di  Catania  prospetta  anche  una  violazione  del
secondo comma dell'art. 24  Cost.,  nonche'  del  terzo  comma  della
medesima norma, evocato unitamente all'art. 6, comma 3,  lettera  c),
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ed all'art.
14, comma 3, lettera d), del Patto internazionale relativo ai diritti
civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966.  La  norma
censurata,  in  particolare,  eluderebbe  il  diritto  all'assistenza
gratuita ed  al  pieno  esercizio  della  difesa  con  riferimento  a
soggetti che, pur avendo in  precedenza  commesso  un  reato  incluso
nell'elenco contenuto  nella  norma  stessa,  non  dispongano  di  un
reddito adeguato. 
    In ragione dei vizi denunciati, secondo il  Tribunale,  il  comma
4-bis dell'art. 76  del  d.P.R.  n.  115  del  2002  dovrebbe  essere
dichiarato  illegittimo  nella  parte  in   cui   non   consente   al
richiedente, il quale sia stato in precedenza condannato con riguardo
ad un reato «ostativo»,  di  provare  la  mancata  percezione  di  un
reddito superiore ai limiti fissati nel primo comma dello stesso art.
76. 
    1.2. -  Il  Tribunale  di  Lecce  (sezione  distaccata  di  Campi
Salentina) prospetta una violazione dell'art. 3 Cost. per  l'asserita
irragionevolezza della presunzione  sottesa  alla  norma  oggetto  di
censura,  che   accredita   all'interessato,   per   l'anno   fiscale
antecedente alla sua istanza di patrocinio a spese  dello  Stato,  un
reddito superiore ai limiti di accesso.  Cio'  sebbene  l'intervenuta
condanna possa riguardare un reato non necessariamente produttivo  di
profitti nella misura indicata, o comunque non produttivo di  redditi
tali da legittimare la stessa presunzione  a  prescindere  dal  tempo
intercorso  tra  il  fatto  criminoso  e  l'epoca  di   presentazione
dell'istanza. 
    Secondo  il  rimettente,   il   denunciato   contrasto   con   la
Costituzione dovrebbe essere rimosso dichiarando illegittima la norma
censurata nella parte in cui non consente al giudice di verificare se
il reato cui  si  riferisce  la  condanna  «ostativa»  abbia  davvero
prodotto, con specifico riguardo all'anno antecedente alla  richiesta
del patrocinio, un reddito  superiore  ai  limiti  per  l'accesso  al
beneficio. 
    2. - Le ordinanze di rimessione riguardano  la  stessa  norma,  e
pongono questioni analoghe, di talche', al fine  di  una  trattazione
unitaria, e' opportuna la riunione dei relativi procedimenti. 
    3.  -  Le  questioni  sono  fondate,  nei  termini   di   seguito
specificati. 
    3.1. - Preliminarmente occorre rilevare che  la  norma  censurata
contiene una presunzione di possesso di un reddito superiore a quello
minimo previsto dalla legge, che, se ritenuta assoluta,  non  ammette
la prova del  contrario  e  rende  pertanto  inutili  ed  irrilevanti
eventuali indagini del  giudice,  volte  ad  accertare  le  effettive
condizioni economiche dell'imputato. Che  si  tratti  di  presunzione
iuris et de  iure  emerge  con  chiarezza  dal  dato  testuale  della
disposizione in oggetto: per i soggetti in essa indicati «il  reddito
si ritiene superiore ai limiti previsti». Non sono  stabiliti,  nella
norma in questione, condizioni e metodi  per  svolgere  accertamenti,
facoltativi od  obbligatori,  sul  reddito  del  richiedente,  ma  si
indica, con l'uso perentorio del presente indicativo, la  conclusione
cui il giudice deve pervenire, in base al semplice  accertamento  che
l'imputato sia stato condannato con sentenza definitiva per  uno  dei
reati elencati nella norma  stessa.  Si  tratta,  non  senza  qualche
eccezione, di reati  collegati  alle  associazioni  a  delinquere  di
stampo mafioso, alle associazioni finalizzate al narcotraffico ed  al
contrabbando di tabacchi lavorati esteri. 
    L'intento del legislatore e' quello di evitare  che  soggetti  in
possesso di ingenti ricchezze, acquisite con le attivita'  delittuose
appena  indicate,  possano  paradossalmente  fruire   del   beneficio
dell'accesso al  patrocinio  a  spese  dello  Stato,  riservato,  per
dettato costituzionale (art. 24, terzo  comma),  ai  «non  abbienti».
Tale eventualita' e' resa piu' concreta dall'estrema  difficolta'  di
accertare in modo oggettivo il reddito  proveniente  dalle  attivita'
delittuose della criminalita' organizzata,  a  causa  delle  maggiori
possibilita',  per  i  partecipi  delle  relative  associazioni,   di
avvalersi di coperture soggettive  e  di  strumenti  di  occultamento
delle somme di denaro e dei beni accumulati. 
    La stessa difesa dello Stato, che pur  chiede  il  rigetto  della
questione, ammette il carattere  insuperabile  della  preclusione  di
ogni accertamento nel caso concreto, derivante dalla natura  assoluta
della presunzione. 
    L'interesse dei soggetti  non  abbienti  che  potrebbero  restare
privi della garanzia di un pieno esercizio  del  diritto  di  difesa,
sacrificato secondo l'Avvocatura dello  Stato  in  casi  «sporadici»,
costituirebbe una sorta di bene cedevole nel bilanciamento necessario
al  fine  di  evitare  un  effetto  «odioso  al  comune  sentire  dei
cittadini»,  consistente  nel  pubblico  impegno  per  la  difesa  di
persone, responsabili di gravi reati, che solo apparentemente versano
in una situazione di poverta'. 
    3.2. - Accertato  che  la  disposizione  censurata  contiene  una
presunzione assoluta - presupposto sul quale i  rimettenti  escludono
la possibilita' di una interpretazione costituzionalmente orientata -
occorre mettere a confronto la norma in se' e per se' considerata, la
sua  ratio,  come  prima  identificata,  e  le  norme  costituzionali
invocate come parametri, vale a dire gli artt.  3  e  24,  secondo  e
terzo comma, Cost. 
    4. - Questa Corte  ha  precisato  che  le  presunzioni  assolute,
specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano
il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali,  cioe'
se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella
formula dell'id quod plerumque accidit (sentenze n. 139 del 1982,  n.
333 del 1991, n. 225 del 2008). In particolare,  e'  stato  posto  in
rilievo che l'irragionevolezza della  presunzione  assoluta  si  puo'
cogliere tutte le volte in  cui  sia  agevole  formulare  ipotesi  di
accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a  base  della
presunzione stessa (sentenza n. 41 del 1999). 
    4.1. - Nel caso di  specie,  occorre  porsi  la  domanda  se  sia
«agevole» formulare ipotesi in cui il  reddito,  superiore  a  quello
minimo previsto dalla legge per accedere al gratuito  patrocino,  non
sia nella effettiva disponibilita' del soggetto richiedente,  con  la
conseguenza  che  lo  stesso  si  trovi   nella   impossibilita'   di
assicurarsi un'adeguata difesa fiduciaria. 
    Occorre premettere, al fine indicato,  che  l'elenco  di  cui  al
comma 4-bis dell'art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002  comprende  anche
reati non necessariamente riferibili, nella prospettiva  del  singolo
autore, ad un contesto di criminalita' organizzata. E'  il  caso,  ad
esempio, di  alcune  ipotesi  aggravate  di  illecita  detenzione  di
sostanze stupefacenti, che sono appunto comprese tra  le  fattispecie
ostative ma non sono per  se  stesse  significative  di  una  stabile
dedizione ad attivita' criminali particolarmente lucrose. 
    Ad ogni modo, pur se riguardata nella sua  dimensione  prevalente
di norma relativa al crimine organizzato, la  disposizione  censurata
non si sottrae ad un giudizio di irragionevolezza, per  il  carattere
assoluto della presunzione introdotta. 
    Una prima conclusione in tal senso emerge  dal  dato,  di  comune
esperienza e avvalorato dalla giurisprudenza ordinaria,  secondo  cui
esiste una sensibile differenza tra la posizione ed  il  reddito  dei
capi delle associazioni criminali e  la  cosiddetta  manovalanza  del
crimine, spesso compensata con  somme  di  scarsa  entita',  che  non
consentono disponibilita' economiche di consistenza tale da procurare
ai percettori risorse adeguate  a  provvedere  alla  loro  difesa  in
eventuali futuri processi. 
    A questo proposito vengono in rilevo due considerazioni,  che  si
combinano nella valutazione sulla legittimita'  costituzionale  della
norma censurata. 
    La prima e' relativa  alla  illimitata  durata  nel  tempo  della
preclusione all'accertamento dell'effettiva situazione economica  dei
soggetti che richiedono l'ammissione  al  patrocinio  a  spese  dello
Stato.  La  indistinta  assimilazione  di  capi   e   gregari   delle
associazioni criminali ha l'effetto di applicare una misura eguale  a
situazioni che possono essere - e sono,  nell'esperienza  concreta  -
fortemente  differenziate.  La  conseguenza  e'  che,  pur  potendosi
agevolmente  ipotizzare  casi  di  «non  abbienza»  per  i   semplici
partecipi delle organizzazioni criminali, questi ultimi subiscono  lo
stesso trattamento dei loro  capi,  che  dalle  attivita'  delittuose
hanno tratto ingenti  profitti,  tali  da  assicurare  disponibilita'
finanziarie per un piu' lungo periodo. La presunzione  assoluta,  nei
casi  indicati,  produce  l'effetto  sostanziale  di  una   impropria
sanzione, per il fatto di appartenere o di essere appartenuto ad  una
organizzazione    criminale,    consistente     nella     limitazione
indiscriminata nell'esercizio di un diritto fondamentale come  quello
di difesa. 
    Il legislatore mostra di essere consapevole della difficolta'  di
una  completa   assimilazione   nel   trattamento   dei   membri   di
un'organizzazione criminale, ed esclude che la  presunzione  colpisca
anche i meri partecipi delle associazioni  dedite  al  narcotraffico.
Tutta da  dimostrare  rimane  tuttavia  una  migliore,  generalizzata
situazione patrimoniale dei meri partecipi ad  associazioni  di  tipo
mafioso o dedite al contrabbando di tabacchi. 
    La seconda  considerazione  che  si  impone  e'  quella  relativa
all'irrilevanza,  ai  fini  della  norma  censurata,   dei   percorsi
individuali successivi alla condanna definitiva per  uno  dei  reati,
che puo' essere molto  risalente  nel  tempo  -  come  nel  caso  del
rimettente Tribunale di Lecce - senza che abbia rilievo un eventuale,
accertato allontanamento del soggetto instante dal contesto criminale
di maturazione del fatto. 
    Giova  sottolineare  che  la  presunzione  assoluta   opera   per
l'assistenza difensiva  necessaria  in  processi  aventi  ad  oggetto
qualunque tipo di reato, anche del  tutto  eterogeneo  rispetto  alle
attivita' della criminalita' organizzata, con la conseguenza che  non
acquista alcun rilievo una eventuale estraneazione dalle associazioni
criminali  indicate  nella  norma.  In  casi  del  genere  la  regola
presuntiva  non  trova  conferma   neppure   nel   possibile   valore
sintomatico della nuova imputazione, che d'altronde consisterebbe  in
un'accusa non ancora comprovata. 
    La presunzione in esame, estesa a tutti reati e senza  limite  di
tempo, impedisce che si possa tener conto di un eventuale percorso di
emancipazione  dai  vincoli  dell'organizzazione  criminale,  perfino
nell'ipotesi in cui il soggetto  sia  imputato  di  un  reato,  anche
colposo, che nulla abbia a che fare con la criminalita'  organizzata.
E' agevole ipotizzare la situazione di disagio personale, economico e
sociale, di chi, partecipe di una  associazione  di  stampo  mafioso,
tenti il reinserimento nella societa', incontri difficolta' a trovare
lavoro e sconti, in vari  campi  della  vita  di  relazione,  la  sua
pregressa appartenenza e si trovi coinvolto in  procedimenti  penali,
nei quali non possa esercitare una  difesa  adeguata  -  proprio  per
dimostrare la sua estraneita' al crimine  -  a  causa  di  una  reale
condizione di indigenza, il cui accertamento e' precluso  al  giudice
dalla norma censurata. 
    A tutto cio' si deve aggiungere che tale norma esplica  i  propri
effetti non soltanto quando il condannato sia chiamato  a  difendersi
in  un  nuovo  procedimento  penale,  ma  anche  nel  caso  del   suo
coinvolgimento in un processo  civile,  amministrativo,  contabile  o
tributario, e dunque in situazioni prive del minimo  significato,  di
natura  anche  soltanto  indiziaria,   circa   l'attualita'   di   un
comportamento criminale. 
    4.2.  -  Finanche  l'ottenuta  riabilitazione   non   inciderebbe
sull'esclusione perpetua dall'accesso al  patrocinio  a  spese  dello
Stato. L'art. 178 cod. pen. stabilisce infatti che la  riabilitazione
estingue le pene  accessorie  ed  ogni  altro  effetto  penale  della
condanna. Tuttavia la giurisprudenza di legittimita' ha chiarito  che
componente essenziale dell'effetto penale e' la natura  sanzionatoria
dello stesso (Cass., Sezioni unite penali, sentenza 20  aprile  1994,
n. 7); tale componente non sussiste nell'esclusione  dal  patrocinio,
che trova la sua ratio, come gia' detto,  nella  presunzione  che  il
soggetto condannato per reati collegati alla criminalita' organizzata
abbia lucrato dalla  sua  attivita'  delittuosa  in  misura  tale  da
renderlo  privo  del  requisito  del  reddito  inferiore  al   minimo
stabilito  dalla  legge.  Sarebbe  del  resto   palesemente   abnorme
configurare come sanzione una compressione del diritto di difesa, per
l'evidente assurdita' di diminuire, per effetto di  una  condanna  in
sede penale, la  possibilita'  di  difendersi  da  successive  azioni
penali. 
    In sintesi, la norma  censurata  imprime  sui  soggetti  in  essa
indicati  uno  stigma  permanente  e  incancellabile,   che   incide,
comprimendolo,  sul  diritto  fondamentale  di  difesa,  cosi'   come
configurato dall'art. 24, secondo e terzo comma, Cost. 
    5. - Alle considerazioni di  cui  sopra  si  deve  aggiungere  il
rilievo  che  il  terzo  comma  dell'art.  24  Cost.   contiene   una
prescrizione generale e incondizionata, che integra e completa quella
del secondo comma, con l'effetto che l'accesso al patrocinio a  spese
dello Stato puo' essere diversamente regolato per i non abbienti solo
in presenza di altri principi costituzionali  da  salvaguardare,  per
garantire  la  tutela  di  beni  individuali  o  collettivi  di  pari
meritevolezza. Questi ultimi, in ogni caso, non possono incidere  sul
pieno esercizio del diritto di difesa (l'ammissione al  patrocinio  a
spese dello Stato  comporta  com'e'  noto,  oltre  alla  facolta'  di
scegliere un difensore di fiducia,  la  possibilita'  del  ricorso  a
consulenti ed investigatori privati, ed un piu' favorevole regime per
quanto attiene alle spese processuali). 
    Non  occorre  spendere  molte   parole   per   ricordare   quanto
l'attivita' delittuosa della criminalita' organizzata provochi  gravi
lesioni dei diritti fondamentali dei cittadini e incida negativamente
sulle condizioni di vita democratica e civile  di  intere  comunita',
determinando, di contro, cospicui arricchimenti per gli associati. Su
questi  presupposti  sociali,  il  legislatore  ben  puo'  introdurre
discipline   particolari,   anche   nella   fruizione   di    diritti
fondamentali, che tuttavia non possono mai risolversi  nella  pratica
vanificazione degli stessi. 
    Nel caso di specie, non puo' ritenersi irragionevole  che,  sulla
base  della   comune   esperienza,   il   legislatore   presuma   che
l'appartenente ad una organizzazione criminale, come quelle  indicate
nella norma censurata, abbia tratto dalla  sua  attivita'  delittuosa
profitti sufficienti ad escluderlo in permanenza  dal  beneficio  del
patrocinio a spese dello Stato. Cio' che  contrasta  con  i  principi
costituzionali e' il carattere  assoluto  di  tale  presunzione,  che
determina una esclusione irrimediabile, in violazione degli artt. 3 e
24, secondo e terzo comma, Cost. Si deve quindi ritenere che la norma
censurata sia costituzionalmente illegittima nella parte in  cui  non
ammette la prova contraria. 
    6. - L'introduzione, costituzionalmente  obbligata,  della  prova
contraria, non elimina dall'ordinamento la presunzione  prevista  dal
legislatore,  che  continua  dunque  ad  implicare   una   inversione
dell'onere di documentare la ricorrenza  dei  presupposti  reddituali
per l'accesso al patrocinio. Spettera' al richiedente dimostrare, con
allegazioni adeguate, il suo stato di «non abbienza», e spettera'  al
giudice verificare l'attendibilita' di tali allegazioni,  avvalendosi
di ogni necessario strumento di indagine. 
    Certamente non potra' essere ritenuta  sufficiente  una  semplice
auto-certificazione  dell'interessato,  peraltro  richiesta  a  tutti
coloro che formulano istanza di accesso al  beneficio,  poiche'  essa
non potra' essere considerata «prova contraria», idonea a superare la
presunzione stabilita dalla legge. Sara' necessario,  viceversa,  che
vengano indicati e documentati concreti elementi di fatto, dai  quali
possa desumersi in  modo  chiaro  e  univoco  l'effettiva  situazione
economico-patrimoniale dell'imputato. 
    Rispetto a tali elementi di prova, il giudice avra' l'obbligo  di
condurre una valutazione rigorosa  e  allo  scopo  potra'  certamente
avvalersi degli strumenti di  verifica  che  la  legge  mette  a  sua
disposizione, anche di quelli, particolarmente  penetranti,  indicati
all'art. 96, comma 3, del d.P.R. n. 115  del  2002.  La  ratio  della
relativa previsione  -  che  concerne  le  richieste  di  accesso  al
patrocino a spese dello Stato da parte degli  imputati  per  uno  dei
reati previsti dall'art. 51, comma 3-bis,  del  codice  di  procedura
penale - e' certamente valida anche per le  fattispecie  oggetto  del
presente giudizio.