Sentenza 
 
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art.  275,  comma  3,
del codice di procedura  penale,  come  modificato  dall'art.  2  del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23  aprile  2009,  n.  38,  promossi  dal  Giudice  per  le  indagini
preliminari del Tribunale di  Belluno  con  ordinanze  del  28  e  30
settembre 2009, dal Tribunale di Torino, sezione per il riesame,  con
ordinanza  del  28  maggio  2009  e  dal  Giudice  per  le   indagini
preliminari del Tribunale di Venezia con  ordinanza  del  4  novembre
2009,  rispettivamente  iscritte  ai  nn.  310  e  311  del  registro
ordinanze 2009 e ai nn.  14  e  66  del  registro  ordinanze  2010  e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 1, 6  e  11,
1ª serie speciale, dell'anno 2010. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  C.A.  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza pubblica del 25 maggio 2010 e nella camera  di
consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo; 
    Uditi l'avvocato Sandro De Vecchi per C. A.  e  l'avvocato  dello
Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con due ordinanze di contenuto analogo, depositate il  28  e
il 30 settembre 2009 (r.o. n. 310 e n. 311 del 2009), il Giudice  per
le indagini preliminari del Tribunale di  Belluno  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della
Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 275,
comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall'art.  2
del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia
di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,  nonche'
in tema di atti persecutori), convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge 23 aprile 2009, n. 38, nella  parte  in  cui,  in  presenza  di
esigenze cautelari, impone di applicare la misura della  custodia  in
carcere alla persona raggiunta da gravi  indizi  di  colpevolezza  in
ordine ai delitti di cui agli artt. 609-quater (ordinanza n. 310  del
2009) e 609-bis del codice penale (ordinanza n. 311 del 2009). 
    Nei procedimenti principali, il  giudice  a  quo  e'  chiamato  a
pronunciarsi  sulle  istanze  formulate  dai  difensori  di   persone
indagate, rispettivamente,  per  il  delitto  di  atti  sessuali  con
minorenne aggravati continuati (artt. 81, 609-ter e  609-quater  cod.
pen.) e per il delitto  di  violenza  sessuale  aggravata  continuata
(artt. 81, 61, numeri 1, 5, e 11, e 609-bis cod. pen.): istanze volte
ad ottenere la revoca o la sostituzione con altra di minore  gravita'
(la sola sostituzione, nel caso dell'ordinanza r.o. n. 311 del  2009)
della misura della custodia cautelare in carcere, cui  l'indagato  si
trova sottoposto. Ad  avviso  del  rimettente,  mentre  l'istanza  di
revoca non sarebbe accoglibile, stante la persistenza delle  esigenze
cautelari, queste  ultime  potrebbero  essere  fronteggiate  con  una
misura meno gravosa di quella in atto e, in particolare  -  nel  caso
dell'ordinanza r.o. n. 311 del 2009 - con  la  misura  degli  arresti
domiciliari. 
    All'accoglimento  delle  istanze   di   sostituzione   osterebbe,
nondimeno, il vigente testo dell'art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.,
che, a seguito della modifica operata dall'art. 2  del  decreto-legge
n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38  del
2009, non consente di applicare una  misura  diversa  dalla  custodia
cautelare  in  carcere  alla   persona   nei   cui   confronti   sono
riconoscibili gravi indizi di  colpevolezza  per  un'ampia  serie  di
reati, tra cui quelli previsti dagli artt. 609-bis e 609-quater  cod.
pen., salvo che siano acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non
sussistono esigenze cautelari. 
    In accoglimento delle  eccezioni  dei  difensori,  il  rimettente
ritiene, peraltro,  di  dover  sollevare  questione  di  legittimita'
costituzionale della citata disposizione. 
    Al riguardo, il giudice a  quo  rileva  come  molti  dei  delitti
richiamati nel comma 3 dell'art. 275 cod. proc. pen., pur nella  loro
indubbia gravita', siano comunque  meno  gravi  di  altri  reati  non
richiamati, sulla base del raffronto  delle  relative  pene  edittali
(cosi', ad esempio, i delitti di cui agli artt. 416  e  416-bis  cod.
pen.,  inclusi  nell'elenco,  sono  puniti  meno  severamente   della
cessione di sostanze stupefacenti o della rapina aggravata, viceversa
esclusi). Risulterebbe, dunque, evidente come la  scelta  legislativa
di imporre, in presenza di esigenze cautelari,  la  misura  «estrema»
della  custodia  in  carcere   non   dipenda   da   una   valutazione
«quantitativa» della gravita' dei delitti, ma da una  valutazione  di
tipo essenzialmente «qualitativo». 
    Anteriormente alla novella del 2009, la norma  impugnata  sanciva
la presunzione  di  adeguatezza  della  sola  custodia  cautelare  in
carcere esclusivamente in rapporto al delitto di associazione di tipo
mafioso e ai delitti posti in  essere  con  metodi  o  per  finalita'
mafiose. Per tale verso, la  disposizione  rispondeva  -  secondo  il
giudice a quo - alla ratio di sollevare il giudice penale  dall'onere
di  motivare  la  scelta  della  misura  carceraria  in   particolari
situazioni  di  pressione  ambientale,  determinate  dalla   presenza
dell'associazione di stampo mafioso, e soprattutto per questa ragione
aveva superato il vaglio della Corte costituzionale, sotto il profilo
del rispetto dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza,  stante
il coefficiente di pericolosita' per  le  condizioni  di  base  della
convivenza e della sicurezza collettiva connaturato agli illeciti  di
quel genere (ordinanza n. 450 del 1995). 
    La medesima ratio sarebbe ravvisabile anche in rapporto ad  altre
fattispecie criminose attualmente richiamate dall'art. 275, comma  3,
cod. proc. pen., quali, segnatamente, i delitti di  tipo  associativo
di cui all'art. 416, sesto comma, cod. pen. e all'art. 74 del  d.P.R.
9 ottobre 1990, n.  309  (Testo  unico  delle  leggi  in  materia  di
disciplina degli stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza);  non,
invece, in relazione ai reati sessuali cui il legislatore del 2009 ha
esteso la presunzione, trattandosi di delitti  che,  pur  nella  loro
«gravita'   e   odiosita'»,    presentano    «una    meno    spiccata
caratterizzazione  pubblicistica»,  essendo  offensivi  di  un   bene
giuridico prettamente individuale (la liberta' sessuale). 
    Sotto tale profilo, la norma  novellata  si  porrebbe  dunque  in
contrasto con l'art. 3 Cost., avendo introdotto, con  riferimento  ai
reati in questione, un trattamento, da un  lato,  ingiustificatamente
identico a quello previsto per i delitti gia' in precedenza  elencati
dallo stesso art. 275, comma  3,  cod.  proc.  pen.,  e,  dall'altro,
ingiustificatamente piu' severo di quello stabilito per altri reati. 
    Risulterebbero violati, di conseguenza, anche gli artt. 13, primo
comma, e 27, secondo comma, Cost., giacche', ove venga  a  cadere  la
«giustificazione cautelare della detenzione», l'indagato  o  imputato
si troverebbe a subire  una  immotivata  compressione  della  propria
liberta' personale e un trattamento  riservato  al  colpevole,  prima
della sentenza di condanna. 
    2. - Con ordinanza depositata il 28 maggio 2009 (r.o. n.  14  del
2010), il Tribunale di Torino, sezione per il riesame, ha  sollevato,
in riferimento agli artt. 3,  13,  27  e  117,  primo  comma,  Cost.,
questione di legittimita' costituzionale del medesimo art. 275, comma
3, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente di applicare  gli
arresti domiciliari o, comunque,  misure  cautelari  diverse  e  meno
afflittive della custodia in carcere in relazione ai delitti previsti
dagli artt. 600-bis [primo comma] e 609-bis cod. pen. 
    Il  Tribunale  rimettente  e'  investito   dell'appello   avverso
l'ordinanza del 13 febbraio 2009, con la  quale  il  Giudice  per  le
indagini preliminari del medesimo Tribunale ha respinto l'istanza  di
sostituzione con gli arresti domiciliari della misura della  custodia
cautelare in carcere, applicata ad una persona indagata, tra l'altro,
per i delitti di induzione alla prostituzione minorile (art. 600-bis,
primo comma, cod.  pen.)  e  di  violenza  sessuale  aggravata  dalle
condizioni di minorata difesa della  vittima  (artt.  609-bis  e  61,
numero 5, cod. pen.). 
    In  via  preliminare,  il  giudice  a  quo  esclude   che   possa
accogliersi la richiesta di revoca della misura  cautelare  formulata
dal difensore in udienza, giacche' - a prescindere dalla  limitazione
dell'istanza iniziale  alla  sola  sostituzione  della  misura  -  le
esigenze cautelari, legate al pericolo di reiterazione delle condotte
criminose,  non  sarebbero  comunque   venute   integralmente   meno.
Nondimeno, l'assenza di elementi circa l'esistenza di altre relazioni
con  ragazze  minorenni,  l'effetto  deterrente  connesso  al   tempo
trascorso in carcere e le particolari contingenze in  cui  i  delitti
sarebbero maturati giustificherebbero una valutazione di idoneita' di
misure meno gravose a fronteggiare il pericolo di ricaduta nel reato:
onde sussisterebbero le condizioni per  sostituire,  in  accoglimento
dell'appello, la misura in atto con quella degli arresti domiciliari. 
    Tale operazione  risulterebbe,  tuttavia,  preclusa  dalla  norma
impugnata, la quale, nel testo vigente, stabilisce - a fianco di  una
presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari  («salvo
che siano acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari»), non rilevante nella specie  -  una  presunzione
assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in
carcere, applicabile in rapporto ad un'ampia serie di reati, tra  cui
quelli che interessano. 
    Ad  avviso  del  giudice  a  quo,  tale   disposizione   non   si
sottrarrebbe a dubbi di legittimita' costituzionale. 
    Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che,
alla luce di una consolidata  interpretazione  giurisprudenziale,  la
disposizione impugnata, in quanto norma processuale,  deve  ritenersi
applicabile - in base al principio tempus regit actum  -  anche  alle
misure cautelari da adottare per fatti delittuosi commessi, come  nel
caso di specie,  anteriormente  all'entrata  in  vigore  della  legge
novellatrice. 
    Con riguardo, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice  a
quo rileva come la disciplina delle misure  cautelari  personali  sia
ispirata ai  principi  di  proporzione,  adeguatezza  e  graduazione,
espressamente enunciati  dall'art.  2,  numero  59,  della  legge  di
delegazione 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega  legislativa  al  Governo
della Repubblica per  l'emanazione  del  nuovo  codice  di  procedura
penale), la quale prevede, altresi', l'adeguamento del  nuovo  codice
di rito ai principi della Costituzione e alla normativa convenzionale
internazionale. Nell'ambito di tale normativa verrebbe in particolare
rilievo l'art. 5, paragrafi 1, lettera c), e 4, della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la
legge 4  agosto  1955,  n.  848:  disposizione  la  cui  inosservanza
porrebbe la norma interna in contrasto con l'art. 117,  primo  comma,
Cost., che impone al legislatore ordinario di  rispettare  i  vincoli
derivanti dagli «obblighi internazionali». 
    In  applicazione  dei  ricordati  principi  di  proporzionalita',
adeguatezza e  graduazione,  nel  sistema  del  codice  di  procedura
penale,  una  volta  accertata  l'esistenza  di   gravi   indizi   di
colpevolezza e la sussistenza di esigenze cautelari,  il  giudice  e'
chiamato  ad  operare  -  motivandola  -  la  scelta  della   misura.
Nell'ipotesi, poi, in cui venga applicata la misura  «massima»  della
custodia in carcere, egli e' tenuto ad esporre, a pena  di  nullita',
le «concrete e specifiche ragioni per le quali  le  esigenze  di  cui
all'art. 274 non possono essere soddisfatte con altre  misure»  (art.
292, comma 2, lettera c-bis, cod. proc. pen.). 
    La norma impugnata derogherebbe chiaramente a tali principi,  che
pure trovano riconoscimento negli artt. 13 e 27 Cost., discendendo  -
secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n.
299  del  2005  -  «direttamente  dalla  natura   servente   che   la
Costituzione  assegna  alla  carcerazione  preventiva  rispetto  alle
finalita' del processo, da un lato, ed alle esigenze di tutela  della
collettivita', dall'altro, tali da  giustificare,  nel  bilanciamento
tra interessi, il temporaneo sacrificio della liberta'  personale  di
chi non e' stato ancora giudicato colpevole in via definitiva». Nella
giurisprudenza  costituzionale  risulterebbe,  in  effetti,  costante
l'affermazione per cui, in ossequio al favor  libertatis  che  ispira
l'art. 13  Cost.,  deve  essere  comunque  scelta  la  soluzione  che
comporta il minore sacrificio della liberta' personale: principio del
quale proporzionalita' e adeguatezza rappresentano un corollario. 
    E' ben vero che, secondo  un  orientamento  altrettanto  costante
della  giurisprudenza  costituzionale,  «mentre  la  sussistenza   in
concreto di una o piu' delle  esigenze  cautelari  prefigurate  dalla
legge (l'an della cautela) comporta, per definizione, l'accertamento,
di volta in volta, della loro effettiva ricorrenza, non  puo'  invece
ritenersi soluzione costituzionalmente obbligata quella  di  affidare
sempre e comunque al giudice l'apprezzamento del tipo  di  misura  in
concreto ritenuta come necessaria  (il  quomodo  della  tutela),  ben
potendo  tale  scelta  essere  effettuata  in  termini  generali  dal
legislatore».  La  scelta  legislativa  dovrebbe  essere,   tuttavia,
operata pur sempre nel «rispetto del limite  della  ragionevolezza  e
del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti». 
    Nell'ipotesi in esame, per converso, risulterebbe leso proprio il
canone  della  ragionevolezza,  sotto  il   duplice   profilo   della
disparita' di trattamento rispetto agli altri casi di sussistenza  di
gravi indizi  di  colpevolezza  e  di  esigenze  cautelari,  e  della
disparita'  di  trattamento  «interna»  tra   le   varie   forme   di
manifestazione concreta delle fattispecie criminose considerate. 
    Le ipotesi nelle quali la Corte costituzionale  ha  ritenuto  non
irragionevole l'imposizione da parte  del  legislatore  della  misura
cautelare piu' rigorosa presenterebbero, infatti, particolarita' atte
a rendere chiara e ben delimitata la  ragione  della  prevalenza  sui
principi di graduazione e di adeguatezza. Tali,  in  specie,  i  casi
della pregressa evasione, che impedisce l'applicazione  della  misura
degli arresti domiciliari (artt.  276,  comma  1-ter,  e  284,  comma
5-bis, cod. proc. pen., vagliati, rispettivamente, dalle ordinanze n.
40 del 2002 e n. 130 del 2003), o dell'essere il soggetto  gravemente
indiziato di un reato aggravato dalle finalita'  di  associazioni  di
tipo mafioso (ordinanza n. 450 del 1995). 
    Altrettanto non potrebbe dirsi, invece,  per  le  fattispecie  in
esame.   Risulterebbero   difatti   evidenti   le   differenze    che
intercorrono, ad esempio, tra i reati sessuali in discorso  e  quello
di cui all'art. 416-bis cod. pen. L'appartenenza ad una  associazione
mafiosa e' un delitto di pericolo a carattere permanente, che implica
un vincolo «totalizzante» di adesione ad un sodalizio  caratterizzato
da una particolare forza intimidatrice  e  da  un  elevato  grado  di
«diffusivita'» nel contesto ambientale, tali da porre a rischio,  per
comune sentire, primari beni individuali e  collettivi.  Sarebbe,  di
conseguenza, pienamente giustificabile la presunzione legislativa  di
adeguatezza  della  sola  misura  cautelare  carceraria,   la   quale
risulterebbe indispensabile per neutralizzare  la  pericolosita'  del
soggetto, determinandone il forzoso distacco dal sodalizio. 
    I delitti sessuali  che  vengono  in  rilievo  costituiscono,  di
contro, reati di evento, a carattere non necessariamente  permanente,
che abbracciano un'ampia gamma di  condotte,  tra  loro  estremamente
diversificate,  in  quanto  frutto  di  vari  contesti  ambientali  e
relazioni interpersonali, talora  meramente  contingenti.  In  questa
prospettiva, se rientra nella  discrezionalita'  del  legislatore  la
scelta  di  inasprire  la  repressione  di   fatti   avvertiti   come
particolarmente  riprovevoli,  quali  quelli  che   aggrediscono   la
liberta'   sessuale,    risulterebbe,    di    contro,    censurabile
l'indissolubile collegamento a  tali  fatti  di  una  presunzione  di
pericolosita' dell'autore. 
    Non consentendo di tener conto delle possibili varianti, la norma
impugnata  determinerebbe,  dunque,  la  totale   equiparazione   nel
trattamento cautelare di situazioni diverse  sul  piano  oggettivo  e
soggettivo. Essa genererebbe, in pari tempo, rischi di confusione fra
trattamento cautelare, improntato al principio del sacrificio  minimo
della liberta' personale, e trattamento punitivo, avente connotazioni
piu'  propriamente  retributive,  con  possibile  attribuzione   alla
cautela di una funzione di anticipazione della pena, in contrasto con
l'art. 27 Cost. 
    Ne'  varrebbe  far  leva,  in  senso  contrario,  sulla  prevista
esclusione della  presunzione  di  adeguatezza  della  sola  custodia
cautelare in carcere nelle ipotesi attenuate contemplate dalle stesse
norme incriminatrici  dei  reati  sessuali,  trattandosi  di  ipotesi
«comunque estremamente circoscritte, secondo l'interpretazione  ormai
consolidata di esse». 
    3. -  Il  novellato  art.  275,  comma  3,  cod.  proc.  pen.  e'
sottoposto a scrutinio di legittimita' costituzionale, in riferimento
agli  artt.  3  e  13  Cost.,  anche  dal  Giudice  per  le  indagini
preliminari del Tribunale di Venezia con ordinanza  depositata  il  4
novembre 2009 (r.o. n. 66 del 2010), nella parte in cui non  consente
la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere  con
gli arresti domiciliari in relazione al  delitto  previsto  dall'art.
609-quater, primo comma, numero 1), cod. pen. 
    Il giudice a quo premette di  essere  investito  dell'istanza  di
revoca o di sostituzione della misura  della  custodia  cautelare  in
carcere, applicata ad una persona indagata per il delitto  continuato
di cui all'articolo ora citato, avendo indotto ad  atti  sessuali  un
minore di atti  quattordici;  fatto  commesso  nei  giorni  10  e  11
dicembre 2008. 
    Ad avviso del rimettente, non sussisterebbero le  condizioni  per
la revoca della misura,  permanendo  le  esigenze  cautelari  di  cui
all'art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., che,  tuttavia  -
tenuto conto dell'«evoluzione migliorativa» del quadro sulla cui base
era stata  disposta  la  custodia  in  carcere  -  potrebbero  essere
adeguatamente soddisfatte con la misura meno afflittiva degli arresti
domiciliari. 
    Anche in questo caso, l'accoglimento dell'istanza di sostituzione
risulterebbe, peraltro, impedito dal nuovo testo dell'art. 275, comma
3, cod. proc. pen., che, per  la  sua  natura  processuale,  dovrebbe
ritenersi applicabile, in forza del  principio  tempus  regit  actum,
anche in relazione ai fatti commessi anteriormente alla  sua  entrata
in vigore. 
    La nuova disciplina si porrebbe, tuttavia, in contrasto  con  gli
artt. 3 e 13 Cost. Essa metterebbe, difatti, in «crisi» i principi di
adeguatezza e graduazione che, in via generale, regolano  l'esercizio
del potere cautelare, rovesciando la logica  del  «minore  sacrificio
necessario» sottostante alla formulazione originaria  dell'art.  275,
comma  3,  cod.  proc.  pen.,  in  forza  della  quale  e'  conferito
ordinariamente  al  giudice  della  cautela   il   potere-dovere   di
distinguere i diversi fatti riconducibili  alla  medesima  figura  di
reato e la differente intensita' delle esigenze di  tutela,  ai  fini
della scelta della misura meglio rispondente al caso concreto. 
    E' ben vero che la Corte costituzionale ha reputato  ragionevoli,
e dunque costituzionalmente compatibili, interventi normativi che, in
deroga ai suddetti principi, hanno introdotto  presunzioni  del  tipo
considerato nel sistema  delle  misure  cautelari,  riconoscendo  che
«spetta al legislatore individuare il  punto  di  equilibrio  tra  le
diverse esigenze della minore restrizione  possibile  della  liberta'
personale e della  effettiva  garanzia  degli  interessi  di  rilievo
costituzionale tutelati  attraverso  la  previsione  degli  strumenti
cautelari nel processo penale» (ordinanza n. 450 del 1995).  Cio'  e'
avvenuto, tuttavia, con riferimento  ad  iniziative  ben  delimitate,
volte a fronteggiare «emergenze» a  carattere  straordinario:  quali,
segnatamente, quelle di contrasto della criminalita' di tipo mafioso,
la quale, per la  complessita'  della  sua  struttura  e  i  durevoli
vincoli  «di  appartenenza,  radicamento  e   progettuali»   che   la
connotano, esprime un elevato coefficiente  di  pericolosita'  per  i
valori   fondamentali   della   convivenza   civile   e   dell'ordine
democratico. 
    Mai,   peraltro,   la   giurisprudenza   costituzionale   avrebbe
autorizzato il legislatore a trasformare la regola dell'«adeguatezza»
e della «graduazione» in eccezione, precludendo,  in  base  ad  ampie
generalizzazioni, la possibilita' di un trattamento individualizzante
rispetto al  grado  delle  esigenze  cautelari  e  sancendo,  in  via
astratta, l'irrilevanza di qualsiasi forma di evoluzione migliorativa
delle medesime. 
    L'estensione della presunzione  legale  assoluta  di  adeguatezza
della sola custodia cautelare in carcere al «troppo ampio e mutevole»
catalogo di delitti oggi richiamati  dalla  norma  censurata  sarebbe
avvenuta,  in  effetti,  secondo  logiche   diverse   e   del   tutto
incompatibili rispetto a quelle passate positivamente al  vaglio  del
Giudice delle leggi. 
    Con  particolare  riguardo  alla  tutela  penale  della  liberta'
sessuale, si sarebbe infatti al  cospetto  di  fenomeni  di  devianza
individuale che si manifestano attraverso condotte della piu' diversa
gravita', spesso conseguenti a patologie, le quali possono, in un non
trascurabile  numero  di  casi,  risultare  contenibili,  sul   piano
cautelare, con misure diverse dalla custodia  in  carcere:  donde  un
insopprimibile  bisogno  di   differenziare,   sulla   base   di   un
apprezzamento in concreto, i vari fatti  riconducibili  al  paradigma
legale astratto. 
    E'  del  resto  costante,  nella  giurisprudenza  costituzionale,
l'affermazione per cui, in ossequio al favor  libertatis  che  ispira
l'art. 13 Cost., la  discrezionalita'  legislativa  nella  disciplina
della materia considerata deve orientarsi verso scelte che implichino
il «minore sacrificio necessario». Con  la  conseguenza  che  ove  la
compressione dei principi di «adeguatezza» e «graduazione» non  trovi
coerente  ragione  giustificatrice  nel  corretto  bilanciamento  dei
valori costituzionali coinvolti, essa costituirebbe lesione dell'art.
3 Cost., sotto il profilo dell'irragionevolezza,  attraverso  un  uso
distorto della discrezionalita' legislativa. 
    E' quanto si sarebbe appunto verificato con la  norma  censurata,
la  quale,  tramite  la  ricordata  presunzione   assoluta,   avrebbe
ingiustamente  parificato  situazioni  uguali,   bensi',   quanto   a
requisiti legali  di  fattispecie,  ma  diverse  quanto  a  specifici
connotati di fatto: realizzando, cosi', un inaccettabile «eccesso  di
mezzi» rispetto al fine della prevenzione di nuovi delitti. 
    4. - E' intervenuto, in tutti i giudizi di costituzionalita',  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello  Stato,  chiedendo  che  le  questioni
siano dichiarate manifestamente infondate. 
    La difesa dello  Stato  osserva  come  la  Corte  costituzionale,
proprio nell'ordinanza n. 450 del 1995, invocata dagli stessi giudici
rimettenti, abbia precisato che mentre non puo'  prescindersi  da  un
accertamento, in concreto, dell'effettiva sussistenza delle  esigenze
cautelari prefigurate dalla legge, al contrario, la scelta  del  tipo
di misura cautelare non impone di riservare al giudice analogo potere
di apprezzamento, «ben potendo essere effettuata in termini  generali
dal legislatore, nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del
corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti». 
    Nella specie, la scelta legislativa di imporre,  in  presenza  di
esigenze cautelari,  la  custodia  in  carcere  non  potrebbe  essere
ritenuta irragionevole solo perche' i reati sessuali  presenterebbero
una meno spiccata caratterizzazione pubblicistica rispetto ai delitti
associativi di stampo mafioso,  trattandosi  di  reati  che  comunque
offendono il bene fondamentale, di  rilevanza  costituzionale,  della
liberta' personale. 
    Le fattispecie criminose  in  questione  costituiscono,  inoltre,
reati di  evento,  dei  quali  non  potrebbe  essere  apoditticamente
sostenuta la minore gravita' rispetto  ai  delitti  associativi,  che
sono pur sempre dei reati di pericolo. 
    La norma denunciata  non  violerebbe  neppure  l'art.  13,  primo
comma, Cost., essendo stato rispettato il principio della riserva  di
legge  in  materia  di  provvedimenti  restrittivi   della   liberta'
personale; ne' l'art. 27, secondo comma, Cost., stante  l'estraneita'
della  presunzione   di   non   colpevolezza   all'assetto   e   alla
conformazione delle misure restrittive della liberta'  personale  che
operano sul piano cautelare, del tutto  distinto  rispetto  a  quello
concernente la  condanna  e  l'irrogazione  della  pena,  cosi'  come
puntualizzato dalla citata ordinanza n. 450 del 1995. 
    Insussistente sarebbe, infine, la violazione dell'art. 117, primo
comma, Cost. denunciata dal Tribunale di  Torino,  tenuto  conto  del
fatto che, pure in presenza di disposizioni della Convenzione per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo volte a  salvaguardare  i  diritti
dei detenuti, la Corte di Strasburgo non si e' mai espressa nel senso
dell'incompatibilita' con tali disposizioni di  una  norma  nazionale
quale quella denunciata. 
    5. - Nel giudizio relativo all'ordinanza r.o. n. 310 del 2009  si
e'  costituito  C.  A.,  persona   sottoposta   alle   indagini   nel
procedimento a quo, chiedendo che la norma impugnata  sia  dichiarata
costituzionalmente illegittima, nella parte in cui include i reati «a
sfondo sessuale» tra quelli per i quali e' obbligatoriamente prevista
la custodia in carcere in presenza di gravi indizi di colpevolezza  e
di esigenze cautelari. 
    Il  difensore  della   parte   privata   rileva   come,   tramite
l'estensione  ai  reati  sessuali  della   disciplina   anteriormente
prevista per i soli  delitti  di  associazione  mafiosa  o  a  questa
collegati, il legislatore del 2009 abbia inteso  rispondere,  con  un
«segnale  forte»,  ad  un  «diffuso  quanto  generico   "bisogno   di
giustizia"», suscitato da vicende  concrete  che  hanno  avuto  ampia
risonanza nei mass media. 
    Il legislatore non avrebbe, tuttavia, tenuto  conto  del  diverso
spirito della norma originaria, dando vita ad una disciplina di  piu'
che dubbia compatibilita' costituzionale, secondo quanto rilevato dal
Consiglio superiore della magistratura gia' in  sede  di  espressione
del parere sul decreto-legge n. 11 del 2009.  In  rapporto  ai  reati
sessuali non sarebbe, infatti, ravvisabile la ragione  giustificativa
che ha indotto la Corte  costituzionale  a  disattendere  le  censure
mosse, sul piano del  rispetto  dei  principi  di  eguaglianza  e  di
ragionevolezza, alla presunzione di adeguatezza della  sola  custodia
cautelare in carcere sancita in rapporto i  delitti  di  criminalita'
organizzata di tipo mafioso. 
    Sarebbe, in effetti, evidente la disparita'  di  trattamento  fra
colui che si trova indagato per un reato a sfondo sessuale, il quale,
in presenza di esigenze cautelari, viene obbligatoriamente sottoposto
a custodia  carceraria,  senza  possibilita'  di  attenuazione  della
stessa, e chi, indagato per reati diversi - magari  ben  piu'  gravi,
non soltanto dal punto di vista della pena edittale, ma anche per  la
sicurezza collettiva (quale, ad  esempio,  la  cessione  di  sostanze
stupefacenti a minori) - puo' invece fruire di misure meno gravose. 
    Conformemente a quanto ritenuto  dal  giudice  a  quo,  la  norma
censurata violerebbe, dunque, tanto l'art. 3 Cost., per equiparazione
nel   trattamento   cautelare   di   situazioni   oggettivamente    e
soggettivamente diverse, sia in astratto che in concreto; quanto  gli
artt.  13,  primo  comma,  e  27,  secondo  comma,  Cost.,   giacche'
l'automatismo applicativo della custodia in carcere per  i  reati  in
questione  renderebbe  inoperanti  i   criteri   di   adeguatezza   e
proporzionalita', da cui deriva la necessita' che sia sempre affidata
al giudice la  determinazione  della  misura  piu'  consona  al  caso
concreto, trasformando indebitamente lo strumento  cautelare  in  una
anticipazione della pena. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Il Giudice per le  indagini  preliminari  del  Tribunale  di
Belluno, il Tribunale di Torino, sezione per il riesame, e il Giudice
per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia  dubitano  della
legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma  3,  del  codice  di
procedura penale, come modificato dall'art. 2  del  decreto-legge  23
febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica
e di contrasto alla  violenza  sessuale,  nonche'  in  tema  di  atti
persecutori), convertito, con modificazioni, dalla  legge  23  aprile
2009, n. 38, nella parte in cui  non  consente  di  applicare  misure
cautelari diverse e meno afflittive della custodia  in  carcere  alla
persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine a  taluni
reati, oggetto dei procedimenti a quibus: vale a dire per  i  delitti
di violenza sessuale (art. 609-bis del codice penale: ordinanze  r.o.
n. 311 del 2009 e n. 14 del 2010), atti sessuali con minorenne  (art.
609-quater del medesimo codice: ordinanze n. 310 del 2009 e n. 66 del
2010, la seconda delle quali riferisce, peraltro, piu' specificamente
la censura alla fattispecie degli atti sessuali con  minore  di  anni
quattordici,  prevista  dal  numero  1  del  primo  comma  di   detto
articolo), induzione  o  sfruttamento  della  prostituzione  minorile
(art. 600-bis, primo comma, cod.  pen.:  ordinanza  r.o.  n.  14  del
2010). 
    Ad avviso dei giudici rimettenti, la norma  censurata  violerebbe
l'art. 3 della Costituzione sotto plurimi profili. 
    In  primo  luogo  -  secondo  il  Giudice  veneziano  -  per   la
irrazionale deroga da essa  apportata  ai  principi  di  adeguatezza,
proporzionalita'  e  graduazione,  che  regolano,  in  via  generale,
l'esercizio  del  potere  cautelare:  deroga  che  non   risulterebbe
sorretta,  quanto  ai  delitti  a   sfondo   sessuale,   da   ragioni
giustificatrici analoghe a quelle che hanno indotto  questa  Corte  a
ritenere costituzionalmente legittimo lo speciale regime cautelare in
discussione rispetto alla criminalita' di tipo mafioso, cui esso  era
in precedenza circoscritto. 
    In  secondo  luogo  -  a  parere  del  Giudice  per  le  indagini
preliminari  del  Tribunale  di  Belluno  -  per  la   ingiustificata
equiparazione dei reati considerati, i quali, pur nella loro gravita'
e «odiosita'», offendono un bene individuale, ai  delitti  di  stampo
mafioso, che mettono invece in pericolo le condizioni di  base  della
convivenza e della sicurezza collettiva. 
    In terzo luogo - tanto secondo il Giudice bellunese  che  secondo
il Tribunale di Torino - per la sottoposizione di detti reati  ad  un
trattamento  cautelare  ingiustificatamente  piu'  severo  di  quello
stabilito  per  altre  fattispecie  criminose,  cui   la   disciplina
censurata non e' estesa, ancorche' punite con pene piu' gravi. 
    Da ultimo - a parere dei  Giudici  per  le  indagini  preliminari
bellunese e veneziano - per l'irragionevole equiparazione, sul  piano
cautelare, delle varie condotte integrative dei delitti cui attengono
le censure dei rimettenti (violenza  sessuale  e  atti  sessuali  con
minorenne), le quali potrebbero risultare, in concreto,  marcatamente
differenziate tra loro sul piano oggettivo e soggettivo. 
    I  giudici  a  quibus  denunciano  altresi',  concordemente,   la
violazione dell'art. 13 Cost.,  rilevando  come  la  norma  impugnata
venga ad imporre un sacrificio della liberta' personale dell'indagato
o dell'imputato superiore a  quello  minimo  che,  nelle  circostanze
concrete,  puo'  risultare  necessario  e  sufficiente  al  fine   di
soddisfare le esigenze cautelari. 
    Risulterebbe leso, ancora - secondo il  Giudice  bellunese  e  il
Tribunale di Torino - l'art. 27, secondo comma, Cost., in  quanto  la
previsione normativa sottoposta a scrutinio finirebbe per  attribuire
al trattamento cautelare una funzione di  anticipazione  della  pena,
contrastante con la presunzione di non colpevolezza. 
    Il solo Tribunale di  Torino  prospetta,  infine,  la  violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., per asserito contrasto della norma
censurata  con  l'art.  5,  paragrafi  1,  lettera  c),  e  4,  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali. 
    2. - Le ordinanze di  rimessione  sollevano  questioni  analoghe,
relative alla medesima norma, sicche' i  giudizi  vanno  riuniti  per
essere definiti con unica decisione. 
    3. - In via preliminare, va osservato che si presenta  del  tutto
plausibile la  soluzione  interpretativa  sulla  cui  base  anche  il
Tribunale di Torino e il Giudice  per  le  indagini  preliminari  del
Tribunale di Venezia  affermano  la  rilevanza  delle  questioni  nei
procedimenti a quibus, benche' questi abbiano ad oggetto  imputazioni
di fatti commessi prima della vigenza della norma censurata. 
    La giurisprudenza di legittimita' risulta, infatti, concorde  nel
ritenere che il nuovo testo dell'art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.,
introdotto  dalla  novella  del  2009,  sia   destinato   a   trovare
applicazione -  in  forza  del  principio  tempus  regit  actum,  che
disciplina  la  successione  delle  norme  processuali  -  anche  nei
procedimenti  in   corso,   relativi   appunto   a   fatti   commessi
anteriormente alla data di entrata in vigore della novella  suddetta:
cio', quantomeno allorche' si discuta, come nei casi  di  specie,  di
istanze di sostituzione della  misura  della  custodia  cautelare  in
carcere, precedentemente applicata, con  altra  misura  meno  gravosa
(oscillazioni  giurisprudenziali  si  riscontrano  solo  in  rapporto
all'ipotesi inversa). 
    4. - Nel merito, la questione  e'  fondata  in  riferimento  agli
artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nei  limiti  di
seguito specificati. 
    5. - La disposizione  oggetto  di  scrutinio  trova  collocazione
nell'ambito  della  disciplina  codicistica  delle  misure  cautelari
personali, in particolare di quelle coercitive  (artt.  272-286-bis),
tutte consistenti nella privazione - in varie qualita',  modalita'  e
tempi  -  della  liberta'  personale  dell'indagato  o  dell'imputato
durante il procedimento e  prima  comunque  del  giudizio  definitivo
sulla sua responsabilita'. 
    In  ragione  di  questi  caratteri,  i  limiti  di   legittimita'
costituzionale  di  dette  misure,  a   fronte   del   principio   di
inviolabilita'  della  liberta'  personale  (art.  13,  primo  comma,
Cost.), sono espressi - oltre che dalla riserva di legge,  che  esige
la tipizzazione dei casi e dei modi, nonche' dei tempi di limitazione
di tale liberta', e dalla riserva di giurisdizione, che esige  sempre
un atto motivato del giudice (art. 13, secondo e quinto comma, Cost.)
- anche e soprattutto, per quanto qui rileva,  dalla  presunzione  di
non colpevolezza (art. 27, secondo  comma,  Cost.),  in  forza  della
quale l'imputato non e'  considerato  colpevole  sino  alla  condanna
definitiva. 
    L'antinomia tra tale  presunzione  e  l'espressa  previsione,  da
parte della stessa  Carta  costituzionale,  di  una  detenzione  ante
iudicium (art. 13, quinto comma)  e',  in  effetti,  solo  apparente:
giacche' e' proprio la prima a segnare, in  negativo,  i  confini  di
ammissibilita' della seconda. Affinche' le restrizioni della liberta'
personale dell'indagato o imputato nel corso del  procedimento  siano
compatibili con la presunzione di non colpevolezza e' necessario  che
esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle  della
pena,  irrogabile   solo   dopo   l'accertamento   definitivo   della
responsabilita': e cio', ancorche' si tratti di misure -  nella  loro
specie piu' gravi - ad essa corrispondenti sul  piano  del  contenuto
afflittivo. Il principio enunciato dall'art. 27, secondo comma, Cost.
rappresenta, in altre parole, uno sbarramento  insuperabile  ad  ogni
ipotesi di assimilazione della coercizione  processuale  penale  alla
coercizione propria del  diritto  penale  sostanziale,  malgrado  gli
elementi che le accomunano. 
    Da cio' consegue - come questa Corte ebbe a  rilevare  sin  dalla
sentenza n. 64 del 1970 - che l'applicazione delle  misure  cautelari
non puo' essere  legittimata  in  alcun  caso  esclusivamente  da  un
giudizio anticipato di colpevolezza, ne' corrispondere - direttamente
o indirettamente - a finalita' proprie della  sanzione  penale,  ne',
ancora e correlativamente, restare indifferente ad un  preciso  scopo
(cosiddetto "vuoto dei fini"). Il legislatore  ordinario  e'  infatti
tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi  di  privazione  della
liberta', ad individuare - soprattutto all'interno del procedimento e
talora anche all'esterno (sentenza n. 1 del 1980) - esigenze  diverse
da  quelle  di  anticipazione  della  pena  e  che   debbano   essere
soddisfatte - entro tempi  predeterminati  (art.  13,  quinto  comma,
Cost.)  -  durante  il  corso  del  procedimento  stesso,   tali   da
giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il
temporaneo sacrificio della liberta' personale di chi  non  e'  stato
ancora giudicato colpevole in via definitiva. 
    Ulteriore indefettibile corollario dei principi costituzionali di
riferimento e' che la disciplina della materia debba essere  ispirata
al criterio del «minore sacrificio necessario» (sentenza n.  299  del
2005): la  compressione  della  liberta'  personale  dell'indagato  o
dell'imputato  va   contenuta,   cioe',   entro   i   limiti   minimi
indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari  riconoscibili  nel
caso concreto. 
    Sul versante della «qualita'» delle misure, ne  consegue  che  il
ricorso alle forme di restrizione piu' intense - e particolarmente  a
quella  «massima»  della  custodia  carceraria   -   deve   ritenersi
consentito solo quando le esigenze  processuali  o  extraprocessuali,
cui  il  trattamento  cautelare  e'  servente,  non  possano   essere
soddisfatte tramite misure di minore incisivita'. Questo principio e'
stato affermato in  termini  netti  anche  dalla  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, secondo la quale, in riferimento  alla  previsione
dell'art.  5,  paragrafo  3,  della  Convenzione,   la   carcerazione
preventiva «deve apparire come la soluzione estrema che si giustifica
solamente allorche' tutte le altre opzioni  disponibili  si  rivelino
insufficienti» (sentenze 2 luglio 2009, Vafiadis contro Grecia,  e  8
novembre 2007, Lelievre contro Belgio). 
    Il criterio del «minore sacrificio necessario»  impegna,  dunque,
in linea di massima, il legislatore, da una parte, a  strutturare  il
sistema cautelare secondo il  modello  della  «pluralita'  graduata»,
predisponendo  una  gamma  alternativa  di   misure,   connotate   da
differenti gradi di incidenza sulla liberta' personale; dall'altra, a
prefigurare   meccanismi   «individualizzati»   di   selezione    del
trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze configurabili nelle
singole fattispecie concrete. 
    6.  -  Il  complesso   di   indicazioni   costituzionali   dianzi
evidenziate trova puntuale eco nella disciplina dettata dal codice di
procedura penale, in attuazione della direttiva n. 59 della legge  di
delegazione 16 febbraio 1987, n. 81. 
    Nella cornice di tale disciplina, la  gravita'  in  astratto  dei
reati  oggetto  del  procedimento  rileva,  difatti  -  in  linea  di
principio - solo come limite generale di  applicazione  delle  misure
cautelari (art. 280, commi 1 e 2, cod. proc. pen.) o come quantum del
limite  temporale  massimo  di  durata  (ai  fini  della   cosiddetta
scarcerazione  automatica:  art.  303  cod.  proc.  pen.),  non  come
criterio di scelta sul «se» e sulla «specie» della misura. 
    Un giudizio di gravita' puo' essere legittimato,  in  determinate
prospettive, solo sul fatto concreto  oggetto  del  procedimento  (ad
esempio, artt. 274, comma 1, lettera c, e 275, comma  2,  cod.  proc.
pen.) e in via generale e' richiesto, come condizione di applicazione
delle misure, sugli  indizi  a  carico:  e'  la  cosiddetta  gravita'
indiziaria prevista dall'art. 273, comma 1, dello stesso codice. 
    Si  tratta,  peraltro,   di   condizione   necessaria,   ma   non
sufficiente, dovendo la gravita' indiziaria sempre  accompagnarsi  ad
esigenze cautelari, specificamente individuate  dalla  legge,  legate
alla tutela dell'acquisizione o  della  genuinita'  della  prova,  al
pericolo di fuga dell'imputato ovvero al rischio  di  commissione  di
gravi reati o di reati della stessa  specie  di  quello  per  cui  si
procede (art. 274 cod. proc. pen.). 
    In  accordo  con  il  modello  sopra  indicato,  viene   altresi'
tipizzato  un  «ventaglio»  di  misure,  di  gravita'  crescente   in
relazione all'incidenza sulla liberta' personale: divieto di espatrio
(art. 281), obbligo di presentazione alla polizia  giudiziaria  (art.
282), allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis),  divieto  e
obbligo di dimora (variamente modulabile quanto ai tempi e ai  limiti
territoriali: art. 283), arresti domiciliari  (variamente  modulabili
anche in luoghi diversi dall'abitazione propria del soggetto, vale  a
dire in altri luoghi privati o  in  luoghi  pubblici  di  cura  o  di
assistenza: art. 284), custodia cautelare in carcere (art. 285). 
    Di particolare rilievo, ai presenti fini, sono poi i  criteri  di
scelta delle misure nel  novero  di  quelle  tipizzate.  Il  primo  e
fondamentale e' quello di adeguatezza (art. 275, comma 1), secondo il
quale,  «nel  disporre  le  misure,  il  giudice  tiene  conto  della
specifica idoneita' di ciascuna in relazione alla natura e  al  grado
delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto».  A  questo
precetto fa riscontro uno specifico obbligo di motivazione sul punto,
sancito a pena di nullita' (art. 292, comma 2, lettera c, cod.  proc.
pen.). 
    E' di tutta evidenza come proprio nel  criterio  di  adeguatezza,
correlato alla «gamma» graduata delle misure,  trovi  espressione  il
principio - implicato dal quadro costituzionale di riferimento -  del
«minore  sacrificio   necessario»:   entro   il   «ventaglio»   delle
alternative  prefigurate  dalla  legge,  il  giudice   deve   infatti
prescegliere la  misura  meno  afflittiva  tra  quelle  astrattamente
idonee a tutelare le esigenze cautelari nel caso concreto, in modo da
ridurre al  minimo  indispensabile  la  lesivita'  determinata  dalla
coercizione endoprocedimentale. 
    A completamento e specificazione del criterio in parola e',  poi,
previsto  che  la  piu'  gravosa  delle  misure  cautelari  personali
coercitive, vale a  dire  la  custodia  cautelare  carceraria,  «puo'
essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata»
(art. 275, comma 3, primo periodo,  cod.  proc.  pen.).  Su  cio'  il
giudice che la applica e' tenuto a dare,  a  pena  di  nullita',  una
motivazione appropriata, mediante  «l'esposizione  delle  concrete  e
specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui  all'articolo  274
non possono essere soddisfatte con altre misure» (art. 292, comma  2,
lettera c-bis, cod. proc. pen.). Si tratta  della  natura  cosiddetta
residuale-eccezionale, o di extrema ratio, di questa misura. 
    E' inoltre enunciato il criterio di proporzionalita', secondo  il
quale «ogni misura deve essere proporzionata all'entita' del fatto  e
alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata» (art.
275, comma 2, cod. proc. pen.). 
    7. - Tratto saliente  complessivo  del  regime  ora  ricordato  -
conforme al quadro costituzionale di riferimento - e' quello  di  non
prevedere automatismi ne' presunzioni. Esso  esige,  invece,  che  le
condizioni e i presupposti per l'applicazione di una misura cautelare
restrittiva della liberta' personale siano apprezzati e motivati  dal
giudice sulla  base  della  situazione  concreta,  alla  stregua  dei
ricordati  principi  di   adeguatezza,   proporzionalita'   e   minor
sacrificio, cosi' da realizzare una piena «individualizzazione» della
coercizione cautelare. 
    Da tali coordinate si discosta in modo vistoso -  assumendo,  con
cio',  carattere  derogatorio  ed   eccezionale   -   la   disciplina
attualmente espressa dal secondo e dal  terzo  periodo  del  comma  3
dell'art. 275 cod. proc. pen., non presente nel testo originario  del
codice,  ma  in  esso  inserita  via  via,  con  lo  strumento  della
decretazione d'urgenza, in un primo tempo tramite l'aggiunta del solo
secondo periodo al citato art. 275, comma  3,  sulla  spinta  di  una
situazione apprezzata come «emergenziale», legata  segnatamente  alla
rilevata recrudescenza del fenomeno della criminalita' mafiosa  e  di
altri gravi o gravissimi reati (art. 5, comma 1, del decreto-legge 13
maggio 1991, n. 152, recante «Provvedimenti urgenti in tema di  lotta
alla criminalita' organizzata  e  di  trasparenza  e  buon  andamento
dell'attivita' amministrativa», convertito, con modificazioni,  dalla
legge 12 luglio 1991, n. 203, e art. 1, comma 1, del decreto-legge  9
settembre 1991, n. 292, recante «Disposizioni in materia di  custodia
cautelare,  di  avocazione  dei  procedimenti  penali  per  reati  di
criminalita' organizzata e di trasferimenti di ufficio di  magistrati
per la copertura di uffici giudiziari non richiesti», convertito, con
modificazioni, dalla legge 8 novembre 1991, n. 356);  successivamente
(attraverso l'art. 5 della legge  8  agosto  1995,  n.  332,  recante
«Modifiche al codice di procedura penale in tema  di  semplificazione
dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa») con un
contenimento di questa speciale  disciplina,  mediante  una  drastica
riduzione dei reati a essa assoggettati  a  quelli  di  cui  all'art.
416-bis  cod.  pen.  ovvero  commessi  avvalendosi  delle  condizioni
previste da detto  articolo  o  per  agevolare  le  associazioni  ivi
indicate; infine, nuovamente e notevolmente ampliando il  novero  dei
reati stessi, con le addizioni recate al vigente  secondo  periodo  e
con quelle ulteriori incluse nel nuovo  terzo  periodo  del  comma  3
dell'art.  275  (mediante  gli  interventi   parimenti   emergenziali
dell'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009,  n.  11,  convertito,
con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38). 
    In base alla disciplina in questione, nei procedimenti per taluni
delitti, analiticamente elencati, ove  ricorra  la  condizione  della
gravita' indiziaria, il  giudice  dispone  senz'altro  l'applicazione
della misura cautelare della custodia carceraria,  «salvo  che  siano
acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono  esigenze
cautelari». 
    Per comune opinione, la previsione ora  ricordata  racchiude  una
duplice presunzione. La prima, a  carattere  relativo,  attiene  alle
esigenze cautelari, che  il  giudice  deve  considerare  sussistenti,
quante volte non consti la prova della loro mancanza (prova  di  tipo
negativo, dunque, che deve necessariamente  proiettarsi  su  ciascuna
delle fattispecie identificate dall'art. 274  cod.  proc.  pen.).  La
seconda, a carattere assoluto, concerne la scelta della  misura:  ove
la presunzione relativa non risulti vinta, subentra un  apprezzamento
legale, vincolante e incontrovertibile,  di  adeguatezza  della  sola
custodia carceraria  a  fronteggiare  le  esigenze  presupposte,  con
conseguente esclusione di ogni soluzione «intermedia» tra questa e lo
stato di piena liberta' dell'imputato. 
    Il modello ora evidenziato si traduce, sul piano pratico, in  una
marcata attenuazione dell'obbligo di  motivazione  dei  provvedimenti
applicativi della custodia cautelare in carcere. Secondo un indirizzo
consolidato  della  giurisprudenza  di  legittimita',   difatti,   in
presenza  di  gravi  indizi  di  colpevolezza  per  uno   dei   reati
considerati,  il  giudice   assolve   il   suddetto   obbligo   dando
semplicemente atto dell'inesistenza di elementi idonei a  vincere  la
presunzione di sussistenza delle  esigenze  cautelari,  senza  dovere
specificamente motivare sul  punto;  mentre  solo  nel  caso  in  cui
l'indagato o  la  sua  difesa  abbiano  allegato  elementi  di  segno
contrario, egli sara' tenuto a giustificare la  ritenuta  inidoneita'
degli stessi a superare la presunzione. Non vi sara' luogo,  in  ogni
caso, ad esporre quanto ordinariamente richiesto dalla seconda  parte
delle lettere c) e c-bis) dell'art. 292, comma 2,  cod.  proc.  pen.,
rimanendo   irrilevante,   a   fronte   dell'apprezzamento    legale,
l'eventuale convinzione del giudice che le esigenze cautelari possano
essere concretamente soddisfatte tramite una  misura  cautelare  meno
incisiva di quella «massima». 
    Tali marcati profili di scostamento rispetto al regime  ordinario
avevano indotto il legislatore -  nell'ambito  di  un  piu'  generale
disegno di recupero delle garanzie in materia di misure cautelari - a
delimitare in  senso  restrittivo  il  campo  di  applicazione  della
disciplina  derogatoria,  costituente  un  vero  e   proprio   regime
cautelare speciale di natura eccezionale. Riferito, ai  suoi  esordi,
ad una nutrita e disparata  serie  di  figure  criminose,  il  regime
speciale era stato infatti circoscritto - a partire  dal  1995,  come
dianzi ricordato - ai soli procedimenti per delitti di mafia in senso
stretto (art. 5, comma 1, della citata legge n. 332 del 1995). 
    In tali limiti, la previsione aveva superato il vaglio  tanto  di
questa Corte che della Corte europea dei diritti dell'uomo.  Entrambe
le Corti avevano, infatti, in vario modo valorizzato la  specificita'
dei predetti delitti, la cui connotazione strutturale astratta  (come
reati  associativi  e,  dunque,  permanenti  entro  un  contesto   di
criminalita' organizzata, o  come  reati  a  tale  contesto  comunque
collegati) valeva a rendere «ragionevoli» - nei relativi procedimenti
- le presunzioni in questione, e segnatamente quella  di  adeguatezza
della sola  custodia  carceraria,  trattandosi,  in  sostanza,  della
misura piu' idonea a neutralizzare il periculum  libertatis  connesso
al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato ed associazione. 
    In particolare, con l'ordinanza n. 450  del  1995,  questa  Corte
aveva escluso che la presunzione in parola violasse gli artt. 3,  13,
primo comma, e 27, secondo comma, Cost., rilevando che se la verifica
della sussistenza delle esigenze cautelari («l'an della cautela») non
puo' prescindere da un  accertamento  in  concreto,  l'individuazione
della   misura   da   applicare   («il   quomodo»)    non    comporta
indefettibilmente l'affidamento  al  giudice  di  analogo  potere  di
apprezzamento, potendo la scelta essere effettuata anche  in  termini
generali dal legislatore, purche'  «nel  rispetto  del  limite  della
ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali
coinvolti» (in senso analogo, sul punto, ordinanze n. 130 del 2003  e
n.  40  del  2002).  Nella   specie,   deponeva   nel   senso   della
ragionevolezza della soluzione adottata «la delimitazione della norma
all'area dei delitti di criminalita' organizzata  di  tipo  mafioso»,
tenuto conto del «coefficiente di pericolosita' per le condizioni  di
base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli  illeciti
di quel genere e' connaturato». 
    A sua volta, la Corte di Strasburgo - pronunciando su un  ricorso
volto a denunciare l'irragionevole durata della custodia cautelare in
carcere applicata ad un indagato  per  il  delitto  di  cui  all'art.
416-bis cod. pen. e la conseguente violazione dell'art. 5,  paragrafo
3,  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo - non aveva mancato di rilevare come una presunzione  quale
quella prevista dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.  potesse,  in
effetti, «impedire al giudice di adattare la  misura  cautelare  alle
esigenze del  caso  concreto»  e,  dunque,  «apparire  eccessivamente
rigida». Nondimeno, secondo la Corte europea, la disciplina in  esame
rimaneva  giustificabile  alla  luce  «della  natura  specifica   del
fenomeno della criminalita' organizzata e soprattutto  di  quella  di
stampo mafioso», e segnatamente in considerazione del  fatto  che  la
carcerazione  provvisoria  delle  persone  accusate  del  delitto  in
questione «tende  a  tagliare  i  legami  esistenti  tra  le  persone
interessate e il  loro  ambito  criminale  di  origine,  al  fine  di
minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con  le
strutture delle organizzazioni criminali  e  possano  commettere  nel
frattempo delitti» (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). 
    8. - E' su questo quadro che si  innesta  l'ulteriore  intervento
novellistico   che   da'   origine   agli    odierni    quesiti    di
costituzionalita', operato con  il  decreto-legge  n.  11  del  2009,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009. 
    Compiendo un «salto di qualita'» a ritroso, rispetto alla novella
del 1995, l'art.  2,  comma  1,  lettere  a)  e  a-bis),  del  citato
provvedimento d'urgenza  riespande  l'ambito  di  applicazione  della
disciplina eccezionale ai procedimenti  aventi  ad  oggetto  numerosi
altri reati, individuati in  parte  mediante  diretto  richiamo  agli
articoli di legge che descrivono le relative  fattispecie  e  per  il
resto tramite rinvio «mediato» alle norme processuali di cui all'art.
51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen.; reati  tra  i  quali  si
annoverano quelli considerati dalle ordinanze di rimessione, e  cioe'
l'induzione  o  sfruttamento  della  prostituzione   minorile   (art.
600-bis, primo comma, cod. pen.); la violenza sessuale (art.  609-bis
cod. pen.), salvo che ricorra l'attenuante  di  cui  al  terzo  comma
(«casi di minore gravita'»); gli atti sessuali  con  minorenne  (art.
609-quater cod. pen.), salvo  che  ricorra  l'attenuante  di  cui  al
quarto comma («casi di minore gravita'»). 
    E'   agevole   constatare   come   le   estensioni   operate    -
successivamente implementate da modifiche legislative che  non  hanno
interessato direttamente la norma impugnata  (ad  esempio,  art.  12,
comma 4-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n.  286,  recante  il  «Testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina  dell'immigrazione
e norme sulla condizione dello straniero», aggiunto  dalla  legge  15
luglio 2009, n. 94, recante «Disposizioni  in  materia  di  sicurezza
pubblica») - riguardino fattispecie penali in larga misura eterogenee
fra loro (fatta eccezione per i delitti "a sfondo sessuale"), e cioe'
poste a tutela  di  differenti  beni  giuridici,  assai  diversamente
strutturate  e  con  trattamenti  sanzionatori   anche   notevolmente
differenti (si pensi all'omicidio volontario, al sequestro di persona
a scopo di estorsione, all'associazione finalizzata  al  contrabbando
di tabacchi lavorati esteri, ai delitti  commessi  con  finalita'  di
terrorismo o di eversione)  e  accomunate  unicamente  dall'essere  i
relativi procedimenti assoggettati al regime  cautelare  speciale  in
questione. 
    9.  -  Tutte  le  ordinanze  di  rimessione  censurano  la  norma
impugnata limitatamente al fatto che non consente  di  applicare  una
misura cautelare meno afflittiva nei procedimenti a quibus, aventi ad
oggetto i delitti sessuali dianzi citati. E', dunque, sottoposta allo
scrutinio di costituzionalita' esclusivamente la presunzione assoluta
di adeguatezza della sola custodia cautelare carceraria, mentre resta
fuori del devoluto  la  presunzione  relativa  di  sussistenza  delle
esigenze cautelari: dandosi per scontata questa sussistenza, cio' che
rileva,  secondo   i   rimettenti,   e   determina   l'illegittimita'
costituzionale e' la lesione del  principio  del  «minore  sacrificio
necessario». 
    10. - La lesione denunciata e' effettivamente riscontrabile. 
    Secondo  la  giurisprudenza  di  questa  Corte,  «le  presunzioni
assolute,  specie  quando  limitano  un  diritto  fondamentale  della
persona, violano il principio di eguaglianza, se  sono  arbitrarie  e
irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono   a   dati   di   esperienza
generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod   plerumque
accidit».  In  particolare,  l'irragionevolezza   della   presunzione
assoluta si coglie tutte le volte  in  cui  sia  «agevole»  formulare
ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione  posta  a
base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010). 
    Per questo verso, alle figure criminose che interessano non  puo'
estendersi la ratio gia' ritenuta, sia  da  questa  Corte  che  dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo, idonea a giustificare la  deroga
alla disciplina ordinaria quanto ai procedimenti relativi  a  delitti
di mafia in senso stretto: vale a dire  che  dalla  struttura  stessa
della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche -  connesse
alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di  tipo  mafioso
implica un'adesione permanente ad un  sodalizio  criminoso  di  norma
fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta  rete
di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice
- deriva, nella generalita' dei casi concreti ad  essa  riferibili  e
secondo una regola  di  esperienza  sufficientemente  condivisa,  una
esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe  adeguata  solo  la
custodia in carcere (non essendo le  misure  «minori»  sufficienti  a
troncare i rapporti tra  l'indiziato  e  l'ambito  delinquenziale  di
appartenenza, neutralizzandone la pericolosita'). 
    Con  riguardo  ai  delitti  sessuali  in  considerazione  non  e'
consentito pervenire ad analoga conclusione. La regola di esperienza,
in questo  caso,  e'  ben  diversa:  ed  e'  che  i  fatti  concreti,
riferibili alle fattispecie in questione  (pur  a  prescindere  dalle
ipotesi  attenuate  e  considerando  quelle   ordinarie)   non   solo
presentano  disvalori  nettamente   differenziabili,   ma   anche   e
soprattutto  possono  proporre  esigenze  cautelari  suscettibili  di
essere soddisfatte con diverse misure. 
    Per quanto odiosi e riprovevoli, i fatti che integrano i  delitti
in questione ben possono essere e in effetti  spesso  sono  meramente
individuali, e tali, per  le  loro  connotazioni,  da  non  postulare
esigenze cautelari affrontabili solo e  rigidamente  con  la  massima
misura. 
    Altrettanto  puo'  dirsi  per  quei  fatti  che  si   manifestano
all'interno di specifici contesti (ad  esempio,  quello  familiare  o
scolastico o di particolari comunita'),  in  relazione  ai  quali  le
esigenze cautelari possono trovare risposta in misure  diverse  dalla
custodia carceraria e che gia' il legislatore ha previsto, proprio in
via specifica, costituite dall'esclusione  coatta  in  vario  modo  e
misura dal  contesto  medesimo:  gli  arresti  domiciliari  in  luogo
diverso dalla abitazione del soggetto (art.  284  cod.  proc.  pen.),
eventualmente  accompagnati  anche  da   particolari   strumenti   di
controllo  (quale  il  cosiddetto  braccialetto   elettronico:   art.
275-bis), l'obbligo o il divieto di dimora o anche solo di accesso in
determinati luoghi (art. 283), l'allontanamento dalla casa  familiare
(art. 282-bis, ove al comma 6 sono  specificamente  evocati  anche  i
casi in cui si proceda per taluno dei delitti a sfondo  sessuale  qui
in esame). 
    A riprova conclusiva della molteplicita'  e  varieta'  dei  fatti
punibili per i titoli in esame si  puo'  notare  che  il  delitto  di
violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.) gia' in astratto comprende
- pur tenendo conto della sottrazione al  regime  cautelare  speciale
delle ipotesi attenuate - condotte  nettamente  differenti  quanto  a
modalita' lesive del bene protetto, quali quelle corrispondenti  alle
previgenti fattispecie criminose della violenza carnale e degli  atti
di  libidine  violenti.  Cio'  rende  anche  piu'  debole  la   «base
statistica» della presunzione assoluta considerata. 
    11. - La ragionevolezza della soluzione normativa scrutinata  non
potrebbe essere rinvenuta neppure, per altro  verso,  nella  gravita'
astratta del reato, considerata sia in  rapporto  alla  misura  della
pena, sia - come mostra  invece  di  ritenere  l'Avvocatura  generale
dello Stato - in rapporto alla natura (e, in particolare, all'elevato
rango) dell'interesse tutelato. Questi parametri giocano un ruolo  di
rilievo, ma neppure esaustivo, in sede di giudizio  di  colpevolezza,
particolarmente per la determinazione della sanzione,  ma  risultano,
di per se', inidonei a fungere da elementi preclusivi ai  fini  della
verifica della sussistenza di esigenze cautelari e - per  quanto  qui
rileva - del  loro  grado,  che  condiziona  l'identificazione  delle
misure idonee a soddisfarle. 
    D'altra  parte,  l'interesse  tutelato   penalmente   e',   nella
generalita' dei casi, un interesse  primario,  dotato  di  diretto  o
indiretto aggancio costituzionale, invocando  il  quale  si  potrebbe
allargare indefinitamente il  novero  dei  reati  sottratti  in  modo
assoluto al principio di adeguatezza, fino a travolgere la valenza di
quest'ultimo     facendo     leva     sull'incensurabilita'     della
discrezionalita' legislativa. 
    Ove dovesse aversi riguardo,  poi,  alla  misura  edittale  della
pena, la scelta del legislatore non potrebbe che apparire palesemente
scompensata e arbitraria. Procedimenti relativi a gravissimi  delitti
- puniti con pene piu' severe di quelli che qui  vengono  in  rilievo
(taluni addirittura con l'ergastolo) - restano, infatti, sottratti al
regime cautelare speciale: basti pensare alla strage (art.  422  cod.
pen.), alla devastazione o saccheggio  (art.  419  cod.  pen.),  alla
rapina e all'estorsione aggravate (artt. 628,  terzo  comma,  e  629,
secondo comma, cod. pen.), alla  produzione,  traffico  e  detenzione
illeciti di stupefacenti, anche con riguardo all'ipotesi aggravata di
cessione a minorenni (artt. 73 e 80, comma 1, lettera a, del d.P.R. 9
ottobre 1990, n. 309). 
    12. - Tanto  meno,  infine,  la  presunzione  in  esame  potrebbe
rinvenire la sua fonte di legittimazione nell'esigenza di contrastare
situazioni causa  di  allarme  sociale,  determinate  dalla  asserita
crescita numerica di taluni delitti. 
    Proprio questa, per contro, e' la convinzione  che  traspare  dai
lavori parlamentari relativi alla novella del 2009 e che  ha  portato
ad attribuire carattere  «emergenziale»  all'esigenza  di  precludere
l'applicazione di misure cautelari «attenuate»  nei  confronti  degli
indiziati di delitti di tipo sessuale. 
    La norma oggetto di scrutinio  si  colloca,  infatti,  nel  corpo
delle disposizioni - racchiuse nel capo I del decreto-legge n. 11 del
2009 - volte  ad  un  generale  inasprimento  del  regime  cautelare,
repressivo e penitenziario dei  delitti  in  questione:  inasprimento
che,  nell'idea  dei  compilatori,  rappresenterebbe  la   necessaria
risposta alla preoccupazione  diffusasi  nell'opinione  pubblica,  di
fronte alla - percepita - ingravescenza di tale deplorevole forma  di
criminalita' (esplicita, al riguardo,  la  relazione  al  disegno  di
legge di conversione A.C. 2232). 
    La eliminazione o riduzione dell'allarme  sociale  cagionato  dal
reato del quale l'imputato e' accusato, o dal  diffondersi  di  reati
dello stesso tipo,  o  dalla  situazione  generale  nel  campo  della
criminalita' piu' odiosa o piu' pericolosa, non puo' essere  peraltro
annoverata tra le finalita' della  custodia  preventiva  e  non  puo'
essere  considerata  una  sua  funzione.  La  funzione  di  rimuovere
l'allarme sociale cagionato dal reato (e meglio che  allarme  sociale
si direbbe qui pericolo sociale e  danno  sociale)  e'  una  funzione
istituzionale della pena perche' presuppone, ovviamente, la  certezza
circa il responsabile del delitto che ha  provocato  l'allarme  e  la
reazione della societa'. 
    Non e' dubitabile, in effetti, che il legislatore possa  e  debba
rendersi  interprete  dell'acuirsi  del  sentimento  di  riprovazione
sociale verso determinate  forme  di  criminalita',  avvertite  dalla
generalita' dei cittadini come particolarmente odiose  e  pericolose,
quali indiscutibilmente sono quelle considerate. Ma a tale fine  deve
servirsi degli strumenti appropriati, costituiti  dalla  comminatoria
di pene adeguate, da infliggere all'esito di processi  rapidi  a  chi
sia stato riconosciuto responsabile di quei reati; non  gia'  da  una
indebita  anticipazione  di  queste   prima   di   un   giudizio   di
colpevolezza. 
    Nella specie, per converso, la totale vanificazione del principio
di adeguatezza, in difetto di  una  ratio  correlata  alla  struttura
delle  fattispecie  criminose  di   riferimento,   cumulandosi   alla
presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, orienta
chiaramente lo «statuto custodiale» - in conformita' alle evidenziate
risultanze dei lavori parlamentari - verso finalita' «metacautelari»,
che nel disegno costituzionale devono essere riservate esclusivamente
alla sanzione penale inflitta all'esito di un giudizio definitivo  di
responsabilita'. 
    13. - Alla luce  delle  considerazioni  che  precedono,  si  deve
dunque concludere che la norma impugnata viola,  in  parte  qua,  sia
l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata parificazione  dei  procedimenti
relativi ai delitti in questione a quelli concernenti  i  delitti  di
mafia nonche' per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime
cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili  ai  paradigmi
punitivi considerati;  sia  l'art.  13,  primo  comma,  Cost.,  quale
referente fondamentale del regime ordinario  delle  misure  cautelari
privative della liberta' personale; sia, infine, l'art.  27,  secondo
comma, Cost., in  quanto  attribuisce  alla  coercizione  processuale
tratti funzionali tipici della pena. 
    Al fine di attingere, quanto meno ad un livello minimo  e  tenuto
conto dei limiti delle questioni devolute allo  scrutinio  di  questa
Corte, la compatibilita' costituzionale della norma censurata non  e'
peraltro necessario rimuovere integralmente  la  presunzione  di  cui
discute. 
    Cio' che rende costituzionalmente  inaccettabile  la  presunzione
stessa e' per certo il suo carattere assoluto, che si risolve in  una
indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del «minore
sacrificio necessario», anche  quando  sussistano  -  come  nei  casi
oggetto dei procedimenti  a  quibus,  secondo  quanto  riferiscono  i
giudici rimettenti - specifici elementi da cui desumere, in positivo,
la sufficienza di misure diverse e meno rigorose  della  custodia  in
carcere. 
    La previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza  di
quest'ultima - atta a realizzare una semplificazione del procedimento
probatorio  suggerita  da  taluni  aspetti  ricorrenti  del  fenomeno
criminoso considerato, ma comunque superabile da  elementi  probatori
di  segno  contrario  -  non  eccede,  per  contro,   i   limiti   di
compatibilita' con i parametri evocati, rimanendo per tale verso  non
censurabile   l'apprezzamento   legislativo,   in    rapporto    alle
caratteristiche   dei   reati   in   questione,    della    ordinaria
configurabilita' di esigenze cautelari nel grado  piu'  intenso  (per
una conclusione  analoga,  con  riguardo  alla  fattispecie  da  essa
esaminata, sentenza n. 139 del 2010). In tale modo, si evita comunque
l'irrazionale equiparazione dei procedimenti relativi a tali reati  a
quelli concernenti la criminalita' di tipo mafioso e si lascia spazio
alla differenziazione delle varie fattispecie concrete  riconducibili
ai paradigmi punitivi astratti. 
    I reati in questione restano assoggettati ad un regime  cautelare
speciale,  tuttavia  attenuato  dalla  natura  relativa  -  e  quindi
superabile  -  della  presunzione  di  adeguatezza   della   custodia
carceraria e, percio', non incompatibile con il quadro costituzionale
di riferimento. 
    L'art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen.  va
dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella  parte  in
cui  -  nel  prevedere  che,  quando  sussistono  gravi   indizi   di
colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo
comma, 609-bis e  609-quater  del  codice  penale,  e'  applicata  la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
    14. - La censura formulata dal Tribunale di Torino  in  relazione
all'art. 117, primo comma, Cost. resta assorbita.