ha pronunciato la seguente 


				 
                              Sentenza 

 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 275,  comma
3, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2, comma
1, del decreto-legge 23 febbraio  2009,  n.  11  (Misure  urgenti  in
materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza  sessuale,
nonche' in tema di atti persecutori), convertito, con  modificazioni,
dalla legge 23 aprile 2009,  n.  38,  promosso  dal  Giudice  per  le
indagini preliminari presso il Tribunale di Ancona  nel  procedimento
penale nei confronti di M.E. ed altri con  ordinanza  del  22  agosto
2011, iscritta al n. 246 del registro  ordinanze  2011  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  50,  prima   serie
speciale, dell'anno 2011. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  21  marzo  2012  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 


				 
                          Ritenuto in fatto 

 
    1. - Con ordinanza depositata il 22 agosto 2011 (r.o. n. 246  del
2011), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale  di
Ancona ha sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale,  in
riferimento agli articoli 3, 13, primo comma, e  27,  secondo  comma,
della  Costituzione,  dell'articolo  275,  comma  3,  del  codice  di
procedura  penale,  come  modificato  dall'art.  2,  comma   1,   del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38 «nella parte in cui impone l'applicazione o non
consente la sostituzione della misura  cautelare  della  custodia  in
carcere con altra differente misura meno afflittiva» per  il  delitto
di cui all'art. 416  del  codice  penale  realizzato  allo  scopo  di
commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 dello stesso codice. 
    Il giudice rimettente riferisce di essere stato  investito  della
richiesta del pubblico ministero di sostituzione, con la misura della
custodia cautelare in carcere, della misura cautelare  degli  arresti
domiciliari applicata con ordinanza del 21 giugno 2011 nei  confronti
di quattro  persone.  In  precedenza,  il  pubblico  ministero  aveva
richiesto l'applicazione di misure cautelari nei confronti di persone
sottoposte ad indagini preliminari per il delitto di cui all'art. 416
cod. pen. finalizzato alla realizzazione di piu' reati previsti dagli
artt. 473 e 474 cod. pen.; la richiesta era stata accolta dal giudice
per le indagini preliminari  che,  con  l'ordinanza  indicata,  aveva
applicato varie  misure  cautelari  custodiali  nei  confronti  degli
indagati e, tra esse, quella degli arresti domiciliari nei  confronti
delle quattro persone  in  questione,  rispetto  alle  quali  le  pur
accertate esigenze  cautelari  erano  state  ritenute  di  intensita'
minore rispetto a quelle  relative  agli  altri  indagati.  La  nuova
richiesta del pubblico ministero  muoveva  dall'assunto  che,  stante
l'imputazione  provvisoria  formulata,  la  norma   non   consentisse
l'applicazione di misure diverse dalla custodia cautelare in carcere,
situazione, questa, che era stata evidenziata anche dal tribunale del
riesame investito del ricorso di uno degli  indagati  cui  era  stata
applicata la misura piu' grave. Precisa al riguardo il rimettente che
la scelta operata all'atto  dell'emissione  dell'ordinanza  cautelare
era basata su una lettura costituzionalmente orientata, ispirata alle
pronunce con  le  quali  la  Corte  costituzionale  aveva  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma  3,  cod.  proc.
pen. in relazione ad alcune fattispecie penali. Peraltro,  sottolinea
il rimettente, «la motivazione sottesa alla nuova richiesta del  P.M.
di rivalutazione della  scelta  operata  e'  basata  palesemente  sul
presupposto che non sia possibile detta interpretazione,  valutazione
questa sostanzialmente condivisibile, stante  la  specificita'  e  la
eterogeneita' delle singole fattispecie ricomprese, che non  consente
di allargare l'interpretazione ad altre, dovendo[si] far ricorso alla
proposizione della questione di legittimita' costituzionale». 
    Riferisce ancora il rimettente che nell'ambito  del  procedimento
oggetto  del  giudizio  principale  erano  stati  contestati  singoli
"reati-fine" e il reato associativo di cui all'art. 416 cod. pen., in
relazione a un sodalizio finalizzato alla  realizzazione  di  plurime
condotte di contraffazione di prodotti protetti da  un  noto  marchio
registrato;   le   risultanze   investigative   avevano    consentito
l'acquisizione di un quadro indiziario grave e univoco  in  relazione
ai  "reati-fine"  e  all'operativita'  del   sodalizio,   dotato   di
stabilita' e ancora attivo al momento  dell'emissione  dell'ordinanza
coercitiva. Alcuni indagati dovevano essere considerati promotori  ed
organizzatori del sodalizio, in quanto  ne  determinavano  le  scelte
operative  e  finanziarie,  decidevano  luogo   e   tipologia   della
produzione,  modalita'  e  prezzi  di  vendita  dei  prodotti.  Altri
indagati, invece, avevano avuto un ruolo marginale, in  quanto  privi
di capacita' decisionale e facilmente intercambiabili o  sostituibili
a seconda delle necessita' della produzione. Il sodalizio si  serviva
di persone che realizzavano solo  una  parte  del  prodotto,  poi  da
assemblare, e il loro apporto era talvolta  temporaneo,  legato  alle
necessita' della produzione illecita  o  a  circostanze  particolari,
quali il sequestro di materiali; queste persone  operavano  sotto  le
direttive degli indagati con un ruolo preminente e  con  materiali  o
macchinari dagli stessi forniti. Ad avviso del  rimettente,  rispetto
alle persone che avevano svolto ruoli marginali le esigenze cautelari
apparivano «di minor  spessore  e  tali,  sulla  base  del  principio
costituzionale del "minor sacrificio necessario" applicabile in  tema
di  compressione  della   liberta'   personale,   da   poter   essere
adeguatamente tutelate, in presenza degli altri presupposti di legge,
dalla misura degli arresti domiciliari». 
    La riproposizione da parte del pubblico ministero dell'originaria
richiesta  rende  dunque,  secondo  il  rimettente,  rilevante,   non
superabile  sulla  base  di   un'interpretazione   costituzionalmente
orientata e non manifestamente infondata, in riferimento  agli  artt.
3, 13, primo comma, e 27,  secondo  comma,  Cost.,  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.,
come modificato dall'art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11
(Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto  alla
violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori),  convertito,
con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte  in
cui, in forza del richiamo operato all'art.  51,  comma  3-bis,  cod.
proc. pen., come modificato dall'art. 15, comma  4,  della  legge  23
luglio   2009,   n.   99   (Disposizioni   per    lo    sviluppo    e
l'internazionalizzazione  delle  imprese,  nonche'  in   materia   di
energia), prevede una presunzione assoluta di adeguatezza della  sola
misura cautelare della custodia in carcere quando si procede  per  il
delitto di cui all'art. 416 cod.  pen.,  «realizzato  allo  scopo  di
commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474» cod. pen. 
    Richiamati i principi - affermati anche dalla Convenzione europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848  -  in  base  ai  quali  la
sentenza  n.  265  del   2010   di   questa   Corte   ha   dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma  3,  cod.  proc.
pen., in riferimento ai delitti di  cui  agli  artt.  600-bis,  primo
comma, 609-bis e 609-quater  cod.  pen.,  nella  parte  in  cui,  nel
disporre l'applicazione della custodia cautelare  in  carcere,  salvo
che siano acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari, non fa salva l'ipotesi  in  cui  siano  acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti
che le  esigenze  cautelari  possono  essere  soddisfatte  con  altre
misure, il rimettente osserva che il necessario  corollario  di  tali
principi e' l'uguale principio per il quale «in materia cautelare  in
astratto il regime non  deve  prevedere  presunzioni  od  automatismi
atteso che essi  contrasterebbero  con  la  natura  individualizzante
della disciplina delle misure stesse che il giudice deve ancorare  al
"caso  concreto"  proprio  per  rendere  concreti  i  principi  della
proporzionalita',  adeguatezza  e  minor  sacrificio».   Il   sistema
legislativo, sottolinea il rimettente, e' ancorato a  tali  principi,
fatte  salve  alcune  eccezioni  che  hanno  superato  il  vaglio  di
legittimita' costituzionale, quali la disciplina derogatoria relativa
all'art. 416-bis cod. pen., di cui l'ordinanza n. 450 del 1995  della
Corte ha ritenuto la legittimita' costituzionale. 
    Richiamata altresi' la sentenza n. 164 del  2011,  il  rimettente
osserva che in relazione alle  fattispecie  oggetto  di  quest'ultima
pronuncia e della precedente sentenza n. 265 del 2010,  questa  Corte
ha concluso che  non  poteva  escludersi  la  possibilita'  che  «nei
congrui casi anche una misura meno afflittiva  di  quella  carceraria
potesse  essere  del  tutto  adeguata   divenendo   irrazionale   una
disciplina   che   per   presunzione   assoluta    la    escludesse».
Interrogandosi sulla possibilita' di estendere tale conclusione  alla
fattispecie in esame, il rimettente rileva come,  pur  non  potendosi
parlare di reato relativo a condotte meramente  individuali,  non  si
attagliano ad essa i canoni interpretativi concernenti le fattispecie
di  mafia.  La  norma  censurata   richiama   la   fattispecie   base
dell'associazione per delinquere, non modificata, come ad esempio  e'
accaduto per il sesto  comma  dell'art.  416  cod.  pen.,  ricompreso
nell'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.;  inoltre,  sottolinea  il
rimettente,  un  sodalizio  avente  le  finalita'  in  questione   si
presenta, per sua stessa  natura,  con  «caratteristiche  di  estrema
varieta' delle forme di partecipazione», come sarebbe emerso nel caso
in esame: l'apporto del singolo sodale,  pertanto,  e'  «estremamente
vario e spesso non catalogabile in rigidi schemi».  Certamente  manca
«un forte radicamento in un dato territorio, come pure l'uso di forme
di intimidazione e lo stesso  legame  associativo  e'  basato  su  un
rapporto di mera convenienza economica e non sul rispetto  di  codici
di onore o patti di similare valore». In buona  sostanza,  ad  avviso
del rimettente, fanno difetto, nella fattispecie in esame, proprio le
caratteristiche  che  hanno  portato  questa  Corte  a  ritenere  non
irragionevole la deroga della disciplina delle misure cautelari per i
reati di mafia. 
    La natura associativa della  fattispecie,  inoltre,  non  sarebbe
ostativa a una valutazione di irragionevolezza della previsione della
sola custodia cautelare in carcere, come confermerebbe la sentenza n.
231 del 2011, relativa alla diversa, e ben  piu'  grave,  fattispecie
associativa prevista dall'art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990,  n.  309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti
e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura  e  riabilitazione   dei
relativi stati di tossicodipendenza). Questa sentenza ricorda «quelle
caratteristiche peculiari del delitto mafioso  che  lo  connotano  di
particolare pericolosita'», che ritiene  non  ravvisabili  nel  reato
associativo finalizzato alla  cessione  di  stupefacenti  e  che,  ad
avviso  del  rimettente,  ancor  meno  sarebbero  ravvisabili   nella
fattispecie associativa in esame, che  si  connota  come  fattispecie
"aperta", nel senso che  «puo'  manifestarsi  tramite  una  complessa
organizzazione, con consistenti investimenti di  capitali,  ma  anche
tramite forme del tutto minimali». 
    Ritiene dunque il rimettente che l'art. 275, comma 3, cod.  proc.
pen., nella parte in cui richiama l'art. 51, comma 3-bis, cod.  proc.
pen. in relazione al delitto dell'art. 416 cod. pen. finalizzato alla
realizzazione dei reati di cui  agli  artt.  473  e  474  cod.  pen.,
contrasti con l'art. 3 Cost., «derogando al principio di  uguaglianza
sulla base di una scelta  irragionevole  perche'  impositiva  di  una
presunzione assoluta in materia di misure cautelari non basata su una
peculiare  specificita'  della  fattispecie  penale  alla  quale   fa
riferimento». Di conseguenza, la norma censurata sarebbe lesiva anche
del principio di inviolabilita'  della  liberta'  personale  e  della
presunzione di non colpevolezza, dato che si basa su «una presunzione
assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare massima senza una
ragionevole specificita' della fattispecie stessa». 
    2. - E' intervenuto nel giudizio di  legittimita'  costituzionale
il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che  la  questione
sia dichiarata non fondata. 
    Richiamata l'ordinanza n. 450 del 1995 di questa Corte, la difesa
dello Stato osserva che  mentre  la  sussistenza  in  concreto  delle
esigenze cautelari prefigurate dalla legge non puo', per definizione,
prescindere dall'accertamento della loro  esistenza,  la  scelta  del
tipo di misura cautelare non impone di riservare al  giudice  analogo
potere di apprezzamento. Nel caso di specie, la scelta legislativa di
imporre, in presenza di esigenze cautelari, il ricorso alla  custodia
cautelare non puo' essere  ritenuta  irragionevole  in  relazione  al
reato previsto dall'art. 416 cod. pen., in considerazione  del  fatto
che tale fattispecie inerisce a condotte, non meramente  individuali,
offensive  del  bene  fondamentale  dell'ordine  pubblico.   Andrebbe
esclusa,  inoltre,  l'incompatibilita'  della  norma  denunciata  con
l'art. 13, primo comma, Cost., essendo stata rispettata la riserva di
legge in materia di liberta' personale,  e  con  l'art.  27,  secondo
comma, Cost., data l'estraneita' di tale parametro all'assetto e alla
conformazione delle misure restrittive della liberta' personale,  che
operano sul piano cautelare, del tutto  distinto  rispetto  a  quello
concernente la condanna e l'irrogazione della pena. 
    3. - Con una successiva memoria difensiva, l'Avvocatura  generale
dello Stato ha ribadito la richiesta  di  declaratoria  di  manifesta
infondatezza della questione,  sottolineando  che  la  struttura  del
reato previsto dall'art. 416  cod.  pen.  realizzato  allo  scopo  di
commettere i reati di cui agli artt. 473 e  474  cod.  pen.  presenta
peculiarita'  strutturali  tali  da  rendere  evidente   la   ragione
dell'imposizione  della   misura   cautelare   piu'   rigorosa,   non
diversamente  da  quanto  si  riscontra  rispetto   al   delitto   di
associazione  di  tipo  mafioso.  Nel  caso  in  esame,  sarebbe   la
peculiarita' dei  reati-fine  a  caratterizzare  l'associazione  come
organizzazione   imprenditoriale   stabile,   ovvero   articolata   e
complessa, fondata su un precisa distribuzione dei ruoli e ramificata
su una porzione stabile di  territorio.  Secondo  l'Avvocatura  dello
Stato, «dette caratteristiche costitutive valgono a  giustificare  la
presunzione assoluta  di  adeguatezza  della  sola  misura  cautelare
censurata nell'ordinanza di  rimessione,  non  apparendo  che,  nella
generalita' dei casi concreti, le esigenze cautelari volte a recidere
i contatti tra imputato (o indagato)  ed  associazione  criminale  di
appartenenza possano essere soddisfatte con misure meno severe  della
custodia in carcere». 


				 
                       Considerato in diritto 

 
    1. - Il Giudice per le indagini preliminari presso  il  Tribunale
di Ancona dubita, in riferimento agli articoli 3, 13, primo comma,  e
27,   secondo   comma,   della   Costituzione,   della   legittimita'
costituzionale dell'articolo 275, comma 3, del  codice  di  procedura
penale, come modificato dall'art. 2, comma 1,  del  decreto-legge  23
febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica
e di contrasto alla  violenza  sessuale,  nonche'  in  tema  di  atti
persecutori), convertito, con modificazioni, dalla  legge  23  aprile
2009, n. 38, «nella parte in cui impone l'applicazione o non consente
la sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere  con
altra differente misura meno afflittiva» in relazione al  delitto  di
cui  all'art.  416  del  codice  penale  realizzato  allo  scopo   di
commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 dello stesso codice. 
    Il rimettente ritiene estensibili alla fattispecie  in  esame  le
ragioni   che   hanno   indotto    questa    Corte    a    dichiarare
costituzionalmente illegittima la norma  censurata  in  relazione  ad
alcuni delitti a sfondo sessuale  (sentenza  n.  265  del  2010),  al
delitto di omicidio (sentenza n. 164 del 2011) e al delitto  previsto
dall'art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (sentenza n.  231  del
2011). 
    Esclusa     la     praticabilita'      di      un'interpretazione
costituzionalmente orientata, in considerazione della specificita'  e
della eterogeneita' delle singole fattispecie cui si riferisce l'art.
275, comma 3, censurato,  ad  avviso  del  rimettente  e'  certamente
carente, nell'associazione per delinquere realizzata  allo  scopo  di
commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 cod. pen.,  «un  forte
radicamento in un dato  territorio,  come  pure  l'uso  di  forme  di
intimidazione e lo stesso legame associativo e' basato su un rapporto
di mera convenienza economica e non sul rispetto di codici di onore o
patti di similare valore»:  nella  fattispecie  in  esame  farebbero,
dunque, difetto proprio le caratteristiche che hanno  portato  questa
Corte  a  ritenere  non  irragionevole  la  deroga  della  disciplina
generale delle misure  cautelari  stabilita  per  i  reati  di  mafia
(ordinanza n. 450 del 1995). 
    2. - La questione e' fondata, nei termini di seguito specificati. 
    3. - In via preliminare, deve rilevarsi che e' corretta  la  tesi
del   rimettente,   secondo   cui   le   parziali   declaratorie   di
illegittimita'  costituzionale  della  norma  impugnata,  aventi  per
esclusivo riferimento i reati oggetto delle  precedenti  pronunce  di
questa  Corte,  non  si  possono  estendere  alle  altre  fattispecie
criminose ivi disciplinate. E' inoltre da aggiungere che  la  lettera
della norma impugnata, il cui significato non  puo'  essere  valicato
neppure per mezzo  dell'interpretazione  costituzionalmente  conforme
(sentenza n. 219 del 2008), non consente  in  via  interpretativa  di
conseguire  l'effetto  che  solo  una  pronuncia  di   illegittimita'
costituzionale puo' produrre. 
    4. - La norma censurata e' frutto della  stratificazione  di  una
serie di interventi legislativi, che ha visto, piu'  di  recente,  il
legislatore del 2009 (art.  2,  comma  1,  lettere  a  e  a-bis,  del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni,
dalla legge 23 aprile 2009, n. 38) estendere la disciplina introdotta
nel 1995 per i delitti di cui all'art. 416-bis cod. pen.  o  commessi
avvalendosi delle  condizioni  previste  dal  predetto  art.  416-bis
ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle  associazioni  previste
dallo stesso articolo (art. 5, comma 1, della legge 8 agosto 1995, n.
332) a  numerose  altre  fattispecie  penali,  tra  le  quali  quelle
individuate attraverso il richiamo ai delitti  di  cui  all'art.  51,
commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. 
    Successivamente,  il  delitto  di  associazione  per   delinquere
realizzato allo scopo di commettere i delitti  previsti  dagli  artt.
473 e 474  cod.  pen.  e'  stato  inserito,  nel  "catalogo"  dettato
dall'art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., dall'art.  15,  comma  4,
della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni  per  lo  sviluppo  e
l'internazionalizzazione  delle  imprese,  nonche'  in   materia   di
energia). 
    5. - Con la sentenza n.  265  del  2010,  questa  Corte  ha  gia'
dichiarato l'illegittimita'  costituzionale  della  norma  censurata,
nella parte in cui configura  una  presunzione  assoluta  -  anziche'
relativa - di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare
le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da  gravi
indizi di colpevolezza per  taluni  delitti  a  sfondo  sessuale:  in
particolare, per i reati di induzione alla prostituzione  minorile  o
di favoreggiamento o sfruttamento della stessa, di violenza  sessuale
e di atti sessuali con minorenne (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis
e 609-quater cod. pen.). Ad analoga  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale questa Corte e' inoltre pervenuta nei  riguardi  della
medesima norma, nella parte in cui assoggetta a presunzione  assoluta
anche il delitto di omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011)  e
quello di associazione finalizzata al traffico illecito  di  sostanze
stupefacenti  o  psicotrope  (sentenza  n.  231  del  2011).  Infine,
successivamente  all'ordinanza  di  rimessione,   questa   Corte   ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 12, comma 4-bis,
del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286  (Testo  unico  delle
disposizioni concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e  norme
sulla condizione dello straniero), recante una disciplina  analoga  a
quella contenuta nell'art. 275, comma 3,  secondo  e  terzo  periodo,
cod. proc. pen. (sentenza n. 331 del 2011). 
    Nelle decisioni appena richiamate, e' stato rilevato  come,  alla
luce dei principi costituzionali di riferimento  -  segnatamente,  il
principio di inviolabilita' della liberta' personale (art. 13,  primo
comma, Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27,  secondo
comma, Cost.) - la disciplina delle  misure  cautelari  debba  essere
ispirata  al  criterio  del  «minore   sacrificio   necessario»:   la
compressione  della  liberta'  personale   deve   essere,   pertanto,
contenuta entro  i  limiti  minimi  indispensabili  a  soddisfare  le
esigenze cautelari del caso concreto. Cio' impegna il legislatore, da
una parte, a strutturare il  sistema  cautelare  secondo  il  modello
della  «pluralita'  graduata»,  predisponendo  una  gamma  di  misure
alternative,  connotate  da  differenti  gradi  di  incidenza   sulla
liberta' personale, dall'altra,  a  prefigurare  criteri  per  scelte
«individualizzanti»  del  trattamento  cautelare,  parametrate  sulle
esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete.  A  questi
canoni si conforma la disciplina generale  del  codice  di  procedura
penale, basata sulla tipizzazione di  un  «ventaglio»  di  misure  di
gravita' crescente (artt. 281-285) e sulla correlata enunciazione del
principio di «adeguatezza» (art. 275, comma 1), in  applicazione  del
quale il giudice e' tenuto a scegliere la misura meno afflittiva  tra
quelle  astrattamente  idonee  a  soddisfare  le  esigenze  cautelari
ravvisabili nel caso concreto e, conseguentemente, a far ricorso alla
misura "massima" (la custodia cautelare in carcere) solo quando  ogni
altra misura risulti inadeguata (art. 275, comma 3, primo periodo). 
    Da tali coordinate si discosta vistosamente la disciplina dettata
dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell'art. 275 cod.  proc.
pen., che, come quella  delineata  dall'art.  12,  comma  4-bis,  del
d.lgs. n. 286 del 1998, stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da
gravi  indizi  di  colpevolezza  per  taluni  delitti,  una   duplice
presunzione:  relativa,  quanto  alla  sussistenza   delle   esigenze
cautelari, e assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando  il
legislatore adeguata, ove la presunzione relativa non risulti  vinta,
unicamente la custodia cautelare in carcere, senza  alcuna  possibile
alternativa. 
    A tale proposito, questa Corte ha ribadito  che  «le  presunzioni
assolute,  specie  quando  limitano  un  diritto  fondamentale  della
persona, violano il principio di eguaglianza, se  sono  arbitrarie  e
irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono   a   dati   di   esperienza
generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod   plerumque
accidit» e che «l'irragionevolezza della presunzione assoluta si puo'
cogliere tutte le volte in cui sia  "agevole"  formulare  ipotesi  di
accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a  base  della
presunzione stessa» (sentenza  n.  139  del  2010,  richiamata  dalle
decisioni sopra citate). 
    L'evenienza ora indicata e' stata riscontrata  in  rapporto  alla
presunzione assoluta in questione, nella parte in cui era riferita ai
delitti a sfondo sessuale prima indicati (sentenza n. 265 del  2010),
all'omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011),  all'associazione
finalizzata al narcotraffico (sentenza n. 231 del 2011) e alle figure
di favoreggiamento delle immigrazioni illegali  richiamate  dall'art.
12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del  1998  (sentenza  n.  331  del
2011). A tali figure delittuose non poteva,  infatti,  estendersi  la
ratio giustificativa del  regime  derogatorio  gia'  ravvisata  dalla
Corte, con l'ordinanza n. 450 del 1995, per i  delitti  di  mafia  (i
soli  considerati  dall'art.  275,   comma   3,   cod.   proc.   pen.
anteriormente alla novella legislativa del  2009),  considerando  che
dalla struttura stessa della fattispecie  e  dalle  sue  connotazioni
criminologiche deriva, nella  generalita'  dei  casi  e  secondo  una
regola  di   esperienza   sufficientemente   condivisa,   un'esigenza
cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in
carcere (non essendo le misure  "minori"  sufficienti  a  troncare  i
rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale  di  appartenenza,
neutralizzandone la pericolosita'). 
    Connotazioni analoghe non erano invece ravvisabili rispetto  alle
figure criminose sopra elencate, che abbracciano  fatti  marcatamente
eterogenei tra loro e suscettibili di  proporre,  in  un  numero  non
marginale di casi, esigenze  cautelari  adeguatamente  fronteggiabili
con misure diverse e meno afflittive  di  quella  carceraria.  Questa
Corte ha ritenuto, quindi, che l'art. 275, comma 3, cod.  proc.  pen.
(cosi' come l'art. 12, comma 4-bis,  del  d.lgs.  n.  286  del  1998)
violasse, in parte qua, sia  l'art.  3  Cost.,  per  l'ingiustificata
parificazione ai delitti di mafia e per l'irrazionale assoggettamento
a un medesimo regime cautelare dei diversi fatti  riconducibili  alle
indicate figure criminose; sia l'art. 13, primo comma,  Cost.,  quale
referente fondamentale del regime ordinario  delle  misure  cautelari
privative della liberta' personale; sia, infine, l'art.  27,  secondo
comma, Cost., per  essere  attribuiti  alla  coercizione  processuale
tratti funzionali tipici della pena. 
    6. - Particolarmente significativa, ai fini dello scrutinio della
presente questione di legittimita' costituzionale, e' la sentenza  n.
231 del 2011,  con  la  quale  e'  stata  dichiarata  illegittima  la
presunzione de qua in riferimento a una fattispecie associativa.  Con
tale pronuncia, infatti, questa Corte  ha  avuto  modo  di  porre  in
evidenza  che  il  delitto  di  associazione  di  tipo   mafioso   e'
«normativamente   connotato   -    di    riflesso    ad    un    dato
empirico-sociologico - come quello  in  cui  il  vincolo  associativo
esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento  e
di omerta', che da quella derivano, per conseguire  determinati  fini
illeciti. Caratteristica essenziale e' proprio tale specificita'  del
vincolo, che, sul piano  concreto,  implica  ed  e'  suscettibile  di
produrre, da un lato,  una  solida  e  permanente  adesione  tra  gli
associati,  una  rigida  organizzazione  gerarchica,  una   rete   di
collegamenti  e  un  radicamento  territoriale  e,  dall'altro,   una
diffusivita' dei  risultati  illeciti,  a  sua  volta  produttiva  di
accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono
tali peculiari connotazioni a fornire una congrua  "base  statistica"
alla presunzione considerata,  rendendo  ragionevole  la  convinzione
che, nella generalita' dei casi, le esigenze cautelari derivanti  dal
delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se
non con la misura carceraria, in quanto idonea -  per  valersi  delle
parole della Corte europea dei diritti  dell'uomo  -  "a  tagliare  i
legami  esistenti  tra  le  persone  interessate  e  il  loro  ambito
criminale di origine", minimizzando "il rischio che  esse  mantengano
contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali  e
possano commettere nel frattempo delitti" (sentenza 6 novembre  2003,
Pantano contro Italia)». La sentenza n. 231 del 2011 ha  escluso  che
altrettanto possa dirsi per il delitto di associazione finalizzata al
traffico illecito di  sostanze  stupefacenti  o  psicotrope,  che  si
concreta «in una forma  speciale  del  delitto  di  associazione  per
delinquere, qualificata unicamente dalla  natura  dei  reati-fine  (i
delitti previsti dall'art. 73  del  d.P.R.  n.  309  del  1990)»;  si
tratta, dunque, di  «fattispecie,  per  cosi'  dire,  "aperta",  che,
descrivendo in definitiva solo lo scopo dell'associazione e non anche
specifiche qualita' di essa, si presta a qualificare penalmente fatti
e situazioni in concreto i piu' diversi ed eterogenei». 
    Le argomentazioni appena  richiamate  sono  riferibili  anche  al
delitto di associazione  per  delinquere  realizzato  allo  scopo  di
commettere i reati di cui agli artt. 473 e  474  cod.  pen.  Anche  a
questa  figura  criminosa,  incentrata  sulla  norma   incriminatrice
"generale" dell'associazione per delinquere,  dettata  dall'art.  416
cod. pen., e' confacente  la  definizione  di  fattispecie  "aperta",
qualificata solo dalla tipologia dei reati-fine  (i  delitti  di  cui
agli artt. 473 e 474 cod. pen.) e non gia' da specifiche connotazioni
dell'associazione stessa. In particolare, il paradigma  legale  della
figura  criminosa  in  esame  e'  del  tutto  svincolato  da   quelle
connotazioni  normative   (la   forza   intimidatrice   del   vincolo
associativo e la condizione di assoggettamento e di  omerta'  che  ne
deriva) proprie dell'associazione di  tipo  mafioso  e  in  grado  di
fornire, con riguardo ad essa, una  congrua  "base  statistica"  alla
presunzione in esame. All'associazione per delinquere realizzata allo
scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473  e  474  cod.  pen.
sono, dunque, riconducibili fattispecie  concrete  diverse,  come  e'
confermato da alcuni orientamenti della Corte di cassazione, che  per
la configurazione del  reato  ex  art.  416  cod.  pen.  ha  ritenuto
sufficiente ora l'esistenza di strutture  anche  rudimentali  (Cass.,
sez. VI, 15 giugno 2011, n. 25698), ora lo svolgimento dell'attivita'
associativa per un breve periodo (Cass., sez. V, 5  maggio  2009,  n.
31149). E' dunque corretta la tesi del rimettente, secondo cui  nella
fattispecie in esame  fanno  difetto  le  caratteristiche  che  hanno
portato  questa  Corte  a  ritenere  legittimo  il  regime  cautelare
speciale per i reati di mafia. 
    Ne' in  senso  contrario  sono  decisivi  gli  argomenti  addotti
dall'Avvocatura generale dello Stato in relazione, per un  verso,  al
bene dell'ordine pubblico tutelato dall'art. 416  cod.  pen.  e,  per
altro  verso,  alle  peculiarita'  dei  reati-fine.  Sotto  il  primo
profilo, infatti, la natura e il rango  dell'interesse  tutelato  dal
reato rispetto al quale opera la presunzione in  questione  non  sono
idonei a fungere da elementi preclusivi ai fini della verifica  della
sussistenza e del grado delle esigenze cautelari (sentenza n. 265 del
2010). Sotto il secondo profilo, e' di tutta evidenza come anche  per
le fattispecie incriminatrici delineate dagli artt. 473  e  474  cod.
pen. debba escludersi la individuabilita' di  connotazioni  idonee  a
fornire una congrua "base statistica" al regime cautelare censurato. 
    Deve, inoltre, escludersi che l'inserimento dell'associazione per
delinquere realizzata allo scopo di commettere i reati  di  cui  agli
artt. 473 e 474 cod. pen. tra i reati indicati  dall'art.  51,  comma
3-bis,  cod.  proc.  pen.  sia  idoneo   a   offrire   legittimazione
costituzionale  alla  norma  in  esame:  questa  Corte  ha,  infatti,
chiarito che la disciplina stabilita dall'art. 51, comma 3-bis,  cod.
proc. pen. risponde a «una logica distinta ed eccentrica  rispetto  a
quella sottesa alla disposizione sottoposta a scrutinio», trattandosi
di una norma «ispirata da ragioni di opportunita' organizzativa degli
uffici del pubblico ministero, anche in relazione  alla  tipicita'  e
alla qualita' delle tecniche di indagine richieste da  taluni  reati,
ma che non consentono inferenze in  materia  di  esigenze  cautelari,
tantomeno al fine di omologare quelle relative a  tutti  procedimenti
per i quali quella deroga e' stabilita» (sentenza n. 231 del 2011). 
    7. - Come gia' precisato da questa  Corte,  cio'  che  vulnera  i
parametri costituzionali sopra richiamati non e'  la  presunzione  in
se', ma il suo carattere assoluto, che implica una  indiscriminata  e
totale negazione di  rilievo  al  principio  del  «minore  sacrificio
necessario». La previsione, invece, di una presunzione solo  relativa
di adeguatezza della custodia carceraria  -  atta  a  realizzare  una
semplificazione del  procedimento  probatorio  suggerita  da  aspetti
ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile
da  elementi  di  segno  contrario  -  non   eccede   i   limiti   di
compatibilita'  costituzionale,  rimanendo   per   tale   verso   non
censurabile   l'apprezzamento   legislativo   circa   la    ordinaria
configurabilita'  di  esigenze  cautelari  nel  grado  piu'   intenso
(sentenze n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011, e n. 265 del 2010). 
    Va,   pertanto,   dichiarata   l'illegittimita'    costituzionale
dell'art. 275, comma  3,  secondo  periodo,  cod.  proc.  pen.,  come
modificato dall'art. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009,  convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009, nella parte in  cui  -
nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza  in
ordine al delitto di cui all'art.  416  cod.  pen.,  realizzato  allo
scopo di commettere i delitti previsti dagli artt.  473  e  474  cod.
pen., e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che  siano
acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono  esigenze
cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti
che le  esigenze  cautelari  possono  essere  soddisfatte  con  altre
misure.