ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di  legittimita'  costituzionale  dell'articolo  216,
ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del
fallimento,   del   concordato    preventivo,    dell'amministrazione
controllata e della  liquidazione  coatta  amministrativa),  promossi
dalla Corte d'appello di Trieste con ordinanza del 20 gennaio 2011  e
dalla  Corte  di  cassazione  con  ordinanza  del  21  aprile   2011,
rispettivamente iscritte ai nn. 77 e 251 del registro ordinanze  2011
e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 19  e  51,
prima serie speciale, dell'anno 2011. 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del  4  aprile  2012  il  Giudice
relatore Paolo Maria Napolitano. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 20  gennaio  2011  la  Corte  d'appello  di
Trieste ha sollevato - in riferimento agli articoli 3, 4,  27,  terzo
comma,  e  41  della  Costituzione  -   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'articolo 216, ultimo comma, del regio decreto  16
marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento,  del  concordato
preventivo, dell'amministrazione  controllata  e  della  liquidazione
coatta amministrativa), nella parte in  cui  prevede  che,  per  ogni
ipotesi di condanna per i fatti  di  bancarotta  previsti  nei  commi
precedenti del medesimo articolo, si applichino  le  pene  accessorie
dell'inabilitazione  all'esercizio  di   un'impresa   commerciale   e
dell'incapacita' ad  esercitare  uffici  direttivi  presso  qualsiasi
impresa per la durata di dieci anni. 
    La  Corte  rimettente  premette  che  oggetto  del  giudizio   e'
l'appello avverso la sentenza con la quale gli appellanti sono  stati
condannati dal Tribunale di Udine in ordine al «delitto di bancarotta
fraudolenta patrimoniale p. e p. dagli artt. 110 e 40, comma 2,  c.p.
e dagli artt. 216, comma 1 n. 1, 223, comma 1, e 219 R.D.  16.3.1942,
n. 267 (l. Fall.), per avere (recte: perche'), in concorso tra  loro,
quali  componenti  del  consiglio  di   amministrazione,   e   quindi
amministratori  della  societa'  (omissis)  con  sede  in  Trivignano
Udinese (UD) [...] dichiarata fallita con sentenza del  Tribunale  di
Udine n. 30/2006 del 26 giugno 2006, distraevano, dissipavano, ovvero
non impedivano la distrazione e la dissipazione, di  attivita'  della
societa' fallita». 
    La Corte rimettente evidenzia che il Tribunale di Udine,  con  la
sentenza  appellata,  ha  condannato  tutti  gli   imputati,   previa
concessione delle attenuanti generiche ritenute  prevalenti  rispetto
alle aggravanti contestate, alla  pena  principale  di  anni  due  di
reclusione e alla pena accessoria, di cui all'art. 216, ultimo comma,
del r.d.  n.  267  del  1942,  dell'inabilitazione  all'esercizio  di
un'impresa   commerciale   per   la   durata   di   anni   dieci    e
dell'incapacita',  per  la  stessa  durata,  ad   esercitare   uffici
direttivi presso qualsiasi impresa. A tutti  gli  imputati  e'  stato
concesso, inoltre, il beneficio della sospensione condizionale  della
pena. 
    All'udienza dibattimentale del giudizio di appello  il  difensore
degli imputati ha rinunciato ai motivi d'appello  diversi  da  quello
afferente l'entita' della pena principale e  delle  conseguenti  pene
accessorie, di cui all'art. 216, ultimo comma, del r.d.  n.  267  del
1942 e ha concluso chiedendo la riduzione di entrambe le pene, quella
principale e quella accessoria. 
    Il Procuratore Generale della Repubblica ha chiesto la  riduzione
della pena inflitta agli imputati,  tenuto  conto  «dell'intervenuto,
seppur tardivo, risarcimento del danno nei confronti  del  fallimento
gia' costituitosi parte civile,  costituzione  revocata  in  apertura
d'udienza, a quella di anni  uno  e  mesi  sei  di  reclusione  e  la
conferma delle ulteriori  statuizioni  dell'impugnata  sentenza,  fra
cui, l'irrogazione delle pene accessorie anzidette per la  durata  di
anni dieci». 
    La  Corte  d'appello  di  Trieste,  cosi'  delineata  la  vicenda
processuale, precisa di aver esaminato i profili  di  responsabilita'
degli  imputati,  particolarmente  per  quanto  attiene  all'elemento
soggettivo del reato e di ritenere che la pena inflitta agli imputati
possa essere effettivamente ridotta  come  richiesto  dalla  pubblica
accusa. 
    In particolare, la rimettente valorizza, ai fini della  riduzione
della  pena,  i  seguenti  fatti:  che   la   contestata   bancarotta
fraudolenta non sarebbe stata consumata con artifizi particolari - le
condotte materiali risultano  in  termini  trasparenti  dalle  stesse
scritture contabili tanto che, non  a  caso,  non  e'  contestata  la
bancarotta documentale -, che la «distrazione» ha connotati del tutto
peculiari,  e  che  gli   imputati   si   sono   adoperati,   seppure
tardivamente,  per  risarcire  il  danno,   in   modo   da   meritare
l'applicazione dell'attenuante comune di cui all'art. 62, numero  6),
del codice penale. 
    Secondo la Corte  rimettente,  stante  la  ridotta  gravita'  dei
fatti, anche le pene accessorie dovrebbero, secondo  equita',  essere
ridotte, ma osterebbe a tale riduzione il disposto dell'ultimo  comma
dell'art. 216 del r.d. n. 267 del 1942 che stabilisce  la  durata  di
tali pene in misura fissa (dieci anni). 
    Anche la giurisprudenza di legittimita' ha interpretato  -  anche
se non univocamente -  la  norma  in  esame  nel  senso  che  non  e'
possibile una rimodulazione della pena accessoria in  relazione  alla
maggiore o minore gravita' del fatto (Corte di cassazione, sezione  V
penale, 18 febbraio 2007, n. 39337; sezione  V  penale,  18  febbraio
2010, n. 17960). 
    La Corte  d'appello  di  Trieste  cita  anche  la  giurisprudenza
contraria (Corte di cassazione, sezione V penale, 31 marzo  2010,  n.
23720) che, se pur fondata su esigenze di equita' e di conformita'  a
Costituzione, ritiene di non poter seguire a fronte dell'inderogabile
previsione normativa  significativamente  diversa,  anche  sul  piano
letterale, da quella dell'art. 217, ultimo comma, del r.d. n. 267 del
1942. 
    Secondo la rimettente, l'art. 216, ultimo comma, del r.d. n.  267
del 1942 non sarebbe conforme a molteplici  principi  costituzionali,
da quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), a  quelli  che
riconoscono il diritto al lavoro e che permettono ad  ogni  cittadino
di svolgere, secondo le proprie possibilita'  e  la  propria  scelta,
un'attivita' o una funzione che concorra  al  progresso  materiale  o
spirituale della societa' (art. 4 Cost.). La disposizione legislativa
contrasterebbe, infine, con la finalita' rieducativa della pena (art.
27, terzo comma, Cost.), e con i  principi  che  indirizzano  a  fini
sociali l'iniziativa economica privata  (art.  41  Cost.)  e  che  ne
riconoscono la liberta'. 
    La norma oggetto di censura, nel predeterminare in  misura  fissa
la durata delle pene accessorie, non terrebbe  conto  del  fatto  che
tali  pene  accessorie  conseguono  a   comportamenti   di   gravita'
assolutamente diversa, essendo profondamente differenziate  le  varie
condotte   sussunte   nella   norma   incriminatrice   -   bancarotta
distrattiva, dissipativa, documentale, preferenziale -  difformi  fra
loro sul piano oggettivo e che consentono al giudice  di  determinare
la pena principale in un ampio ambito che va da tre a dieci  anni  di
reclusione,  riconoscendosi  in  tal  modo  implicitamente   che   la
fattispecie  astratta  trova  applicazione  rispetto  a  condotte  di
gravita' molto diversa tra loro. 
    Lo spettro sanzionatorio sarebbe ancora piu' ampio, posto che  le
pene accessorie  predeterminate  nella  durata  trovano  applicazione
indifferentemente  tanto  nelle  ipotesi  aggravate  che  in   quelle
attenuate contemplate dall'art. 219 del r.d. n. 267 del 1942. 
    Secondo la Corte rimettente, infine, una pena accessoria di  tale
durata - «e che puo' prolungarsi  ben  oltre  la  durata  della  pena
principale» - non sarebbe conforme alle esigenze  di  rieducazione  e
reinserimento   sociale   del   condannato   anche    quale    membro
economicamente attivo della societa',  considerato  che  non  gli  e'
consentito di svolgere alcuna attivita' imprenditoriale di produzione
di  beni  o  servizi  ovvero  commerciale,  anche  come  imprenditore
individuale. 
    Tale pena accessoria, pertanto, comprimerebbe significativamente,
«nell'ambito del solo  lavoro  dipendente  e  non  dirigenziale»,  le
attitudini lavorative del  condannato,  per  un  tempo  che  potrebbe
essere  persino  superiore  di  dieci  volte  la  durata  della  pena
principale inflitta. 
    2.- E'  intervenuto  nel  presente  giudizio  il  Presidente  del
Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione. 
    Secondo la difesa statale, lo stesso giudice a quo  avrebbe  dato
atto dell'esistenza di  un  indirizzo  giurisprudenziale  secondo  il
quale l'art. 216, ultimo comma, del r.d. n.  267  del  1942  -  lungi
dall'aver stabilito la durata  delle  pene  accessorie  nella  misura
fissa ed inderogabile di dieci anni - ha solo individuato  la  misura
massima delle stesse, lasciando al giudice  la  commisurazione  della
durata in concreto di tali pene accessorie, in applicazione dell'art.
133 cod. pen. (Corte di cassazione, sezione quinta penale,  31  marzo
2010, n. 23720). 
    L'Avvocatura dello Stato prende atto che il rimettente afferma di
non poter seguire tale indirizzo, a  cio'  ostando  l'inderogabilita'
della previsione normativa,  significativamente  diversa,  anche  sul
piano letterale, da quella dell'art. 217, ultimo comma,  della  legge
fallimentare. Osserva,  al  riguardo,  che  l'opzione  interpretativa
autorevolmente  avallata  dalla  piu'  recente  giurisprudenza  della
Suprema  Corte  trova  il   suo   fondamento   nella   consapevolezza
dell'incostituzionalita'  della  disposizione   in   questione,   ove
interpretata in senso angustamente  letterale,  e  della  conseguente
esigenza di darne una lettura costituzionalmente orientata. 
    Sulla base di  queste  argomentazioni  l'Avvocatura  dello  Stato
chiede che la questione sia dichiarata infondata. 
    3.- Con ordinanza del 21 aprile del 2011 la Corte  di  cassazione
ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, 27, terzo  comma,  e  111
della  Costituzione  -  questione  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, nella parte in
cui prevede che,  per  ogni  ipotesi  di  condanna  per  i  fatti  di
bancarotta previsti nei commi precedenti del  medesimo  articolo,  si
applichino le pene accessorie  dell'inabilitazione  all'esercizio  di
un'impresa  commerciale  e  dell'incapacita'  ad  esercitare   uffici
direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni. 
    La Corte rimettente premette, in fatto, di  dover  giudicare  sul
ricorso avverso una sentenza di applicazione della pena su  richiesta
delle parti emessa dal Giudice per le indagini preliminari presso  il
Tribunale di Caltanissetta nei confronti di alcuni imputati, a  vario
titolo, di fatti di bancarotta fraudolenta. 
    Tra i motivi di  impugnazione,  prosegue  la  rimettente,  vi  e'
quello relativo all'applicazione  delle  sanzioni  accessorie  -  non
dedotte nell'accordo pattizio - in misura fissa, anziche'  pari  alla
durata della pena principale. 
    Su questo motivo di ricorso, il Collegio da' atto  di  non  poter
decidere allo stato degli atti, ravvisando un contrasto  di  pronunce
sul punto anche all'interno  della  stessa  sezione  della  Corte  di
cassazione. 
    Il contrasto attiene all'interpretazione  dell'art.  216,  ultimo
comma, del r.d. n. 267 del 1942 e, segnatamente,  alla  durata  della
sanzione dell'inabilitazione ivi prevista. 
    L'orientamento seguito pressoche' costantemente  dalla  Corte  in
tema di bancarotta fraudolenta (rilevabile sin dalla  sentenza  della
sezione V del 16 ottobre 1973, n. 126018) e' nel senso  che  la  pena
accessoria dell'inabilitazione all'esercizio di  imprese  commerciali
ed alla incapacita' di esercitare uffici direttivi  presso  qualsiasi
impresa, sia fissata inderogabilmente nella  misura  di  dieci  anni.
Pertanto, non trattandosi di pena indeterminata,  la  sua  durata  si
sottrae alla disciplina disposta dall'art. 37 cod. pen. 
    Tuttavia, a fronte di siffatta lettura, recenti  sentenze  (Corte
di cassazione, sezione V penale, 10 marzo 2010, n.  9672;  sezione  V
penale, 31 marzo 2010, n. 23720) hanno ritenuto che la fissita' della
sanzione  accessoria  contrasti  con   «il   "volto   costituzionale"
dell'illecito penale», e che il  sistema  normativo  debba  lasciare,
comunque, adeguati spazi alla discrezionalita' del giudice,  al  fine
di permettere l'adeguamento  della  risposta  punitiva  alle  singole
fattispecie concrete: in tal senso sarebbe illegittima una previsione
che lasci il giudice privo di sufficienti margini di adattamento  del
trattamento sanzionatorio alle  peculiarita'  della  singola  ipotesi
concreta. 
    La  Corte  rimettente  precisa  che  questo   secondo   indirizzo
ermeneutico  e'  ispirato  da   importanti   pronunce   della   Corte
costituzionale (ordinanze nn. 91 e 4 del 2008, n. 50 del 1980)  nelle
quali si e' detto  che:  «In  linea  di  principio  [...]  previsioni
sanzionatorie  rigide  non  appaiono  in  armonia   con   il   "volto
costituzionale" del sistema penale; ed il  dubbio  di  illegittimita'
costituzionale potra' essere, caso per caso,  superato  a  condizione
che, per la natura dell'illecito sanzionatorio e per la misura  della
sanzione    prevista,     quest'ultima     appaia     ragionevolmente
"proporzionata"   rispetto   all'intera   gamma   di    comportamenti
riconducibili allo specifico tipo di reato». 
    A parere della Corte di cassazione, la sottrazione  del  giudizio
ai consueti criteri dettati dagli artt. 132 e 133 cod. pen. urta  con
le previsioni costituzionali degli artt. 3 e 27 Cost. 
    Venendo alla motivazione sulla rilevanza e  sulla  non  manifesta
infondatezza,  la   rimettente   precisa,   in   primo   luogo,   che
l'interpretazione costituzionalmente orientata si scontra con il dato
testuale dell'art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 e  che
spetta  alla  Corte  costituzionale   l'eventuale   affermazione   di
illegittimita' della previsione legislativa. 
    In questa prospettiva si ravvisa un  contrasto  tra  l'art.  216,
ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, e gli  artt.  3  e  27  della
Carta   fondamentale,   attesa   la   rigidita'   dispositiva   della
prescrizione penale, a fronte del variare della situazione  concreta,
caratteristica che determina una sostanziale ingiustizia nel trattare
allo stesso modo condotte di rilievo penale  tra  loro  differenti  e
difformemente sanzionate dal legislatore mediante la pena principale. 
    La Corte di cassazione si riferisce, in particolare, alla ipotesi
di  «bancarotta  preferenziale»  nonche'  alla   singolare   ampiezza
dell'escursione afflittiva contemplata dalle circostanze speciali  di
cui all'art. 219, primo e ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942. 
    Inoltre, evidenzia la sproporzione che l'ordinamento appresta nei
riti alternativi in cui - come nel caso in esame - la risposta  della
pena principale  risulta  grandemente  inferiore  rispetto  a  quella
accessoria, a cagione della diminuzione premiale consentita o imposta
dal legislatore. 
    Anche  in  relazione   all'art.   111   Cost.   il   ragionamento
precedentemente  svolto  sembra,   secondo   la   Corte   rimettente,
rafforzarsi. Tale norma costituzionale, nell'imporre  all'ordinamento
la celebrazione  di  processi  «giusti»,  non  pretende  soltanto  un
corretto svolgimento degli stessi per il rispetto della legge,  delle
garanzie  assegnate   alle   parti,   del   contraddittorio   e   per
l'espletamento del processo in  limiti  di  tempo  ragionevoli.  Essa
prefigura anche la garanzia di un'equa  soluzione,  alla  luce  delle
risultanze di causa  che  il  giudice  acquisisce  nella  varie  fasi
processuali. 
    Risulterebbero  vanificati  gli   strumenti   di   garanzia   che
assicurano  equilibrio   del   dibattito   e   pienezza   di   poteri
argomentativi per arrivare, in un processo «giusto», ad una  decisone
«giusta», se poi la  soluzione  che  compete  al  giudice,  terzo  ed
imparziale, fosse coartata nella fase decisionale in ordine  ai  dati
correttamente versati in atti. 
    In  altri  termini,  non  si   comprenderebbe   quale   effettivo
significato possa darsi ad un sistema  che  annovera  un  dettagliato
paradigma valutativo negli artt. 132 e 133 cod. pen., ma, all'effetto
pratico, impedisce al giudice di ricondurre siffatti esiti ad un'equa
e adeguata considerazione sanzionatoria, ancorche' «accessoria». 
    In conclusione, la norma censurata sarebbe in  contrasto  con  il
principio del «minore sacrificio necessario» nella risposta  punitiva
dell'ordinamento a  fronte  della  violazione  penale,  quando  nulla
impedirebbe di estendere i parametri  propri  della  pena  principale
alla misura della pena accessoria, assegnando al  giudice,  caso  per
caso, la piu' opportuna statuizione. 
    3.1.-  E'  intervenuto  nel  giudizio  di  costituzionalita'   il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per  l'infondatezza
della questione. 
    Secondo la difesa statale lo stesso giudice a  quo  avrebbe  dato
atto dell'esistenza di  un  indirizzo  giurisprudenziale  secondo  il
quale l'art. 216, ultimo comma, del  r.d.  n.  267  del  1942,  lungi
dall'aver stabilito la durata  delle  pene  accessorie  nella  misura
fissa ed inderogabile di dieci anni, ha solo  individuato  la  misura
massima delle stesse, lasciando al giudice  la  commisurazione  della
durata in concreto di tali pene accessorie, in applicazione dell'art.
133 cod. pen. (in particolare, Corte di cassazione 31 marzo 2010,  n.
23720). 
    Il rimettente afferma di non poter seguire tale indirizzo a  cio'
ostando     l'inderogabilita'     della     previsione     normativa,
significativamente diversa, anche  sul  piano  letterale,  da  quella
dell'art. 217, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942. 
    In  realta',  l'opzione  interpretativa  autorevolmente  avallata
dalla piu' recente giurisprudenza della Suprema Corte risulta proprio
dalla consapevolezza dell'incostituzionalita' della  disposizione  in
questione, ove interpretata in senso angustamente letterale, e  della
conseguente  esigenza  di  darne   una   lettura   costituzionalmente
orientata. 
    Sulla base di  queste  argomentazioni  l'Avvocatura  dello  Stato
chiede che la questione sia dichiarata infondata. 
    Con memoria depositata  in  prossimita'  dell'udienza  la  difesa
statale ribadisce la proprie argomentazioni circa la possibilita'  di
un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma impugnata
e conclude per l'infondatezza della questione sollevata. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte d'appello di Trieste, con ordinanza del  20  gennaio
2011, e la Corte di cassazione, con ordinanza del 21 aprile del 2011,
hanno sollevato - in riferimento agli articoli 3, 4, 27, terzo comma,
41  e  111   della   Costituzione   -   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'articolo 216, ultimo comma, del regio decreto  16
marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento,  del  concordato
preventivo, dell'amministrazione  controllata  e  della  liquidazione
coatta amministrativa), nella parte in  cui  prevede  che,  per  ogni
ipotesi di condanna per i fatti  di  bancarotta  previsti  nei  commi
precedenti del medesimo articolo, si applichino  le  pene  accessorie
dell'inabilitazione  all'esercizio  di   un'impresa   commerciale   e
dell'incapacita' ad  esercitare  uffici  direttivi  presso  qualsiasi
impresa per la durata di dieci anni. 
    Secondo  la  Corte  d'appello  di   Trieste   la   determinazione
dell'entita'  della  pena  accessoria  del  delitto   di   bancarotta
fraudolenta in misura fissa violerebbe gli artt. 3 e 27 Cost. perche'
non consentirebbe di tener conto del fatto che tali  pene  accessorie
conseguono a condotte di gravita' assolutamente diversa -  bancarotta
distrattiva,  dissipativa,  documentale,  preferenziale  -  tanto  da
consentire al giudice di determinare la pena principale in  un  ampio
ambito che va da tre a dieci anni di  reclusione,  riconoscendosi  in
tal  modo  implicitamente   che   la   fattispecie   astratta   trova
applicazione rispetto a condotte di gravita' molto diverse tra loro. 
    Inoltre, una pena  accessoria  di  tale  durata  -  e  che  «puo'
prolungarsi ben oltre la durata della pena principale» - non  sarebbe
conforme alle esigenze di rieducazione e  reinserimento  sociale  del
condannato  quale  membro  economicamente  attivo   della   societa',
violando, quindi, gli artt. 27, terzo comma, e 4 Cost. 
    Infine, risulterebbe violato anche l'art. 41 Cost., in quanto una
pena  accessoria   cosi'   modulata   «comprime   significativamente,
nell'ambito  del  solo  lavoro  dipendente  e  non  dirigenziale   le
attitudini lavorative del condannato per un  tempo  che  puo'  essere
persino superiore di dieci volte  la  durata  della  pena  principale
inflitta». 
    Anche la questione sollevata dalla Corte di cassazione  si  fonda
sulla violazione degli artt. 3, 27 e 111 Cost. perche'  la  rigidita'
della prescrizione, a fronte del variare della  situazione  concreta,
determinerebbe una sostanziale ingiustizia nel trattare  allo  stesso
modo condotte di rilievo penale tra loro differenti  e  difformemente
sanzionate dal legislatore mediante la pena principale e, anche,  una
violazione del «giusto processo». 
    1.1.- Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche  o
analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per  essere  definiti
con unica decisione. 
    I giudici a quibus dubitano, in riferimento a plurimi  parametri,
della legittimita' costituzionale della disciplina che stabilisce  la
durata della pena accessoria, prevista, per il delitto di  bancarotta
fraudolenta dall'art. 216, ultimo comma, del r.d. n.  267  del  1942,
nella misura fissa di dieci anni. 
    2.- Premesso che la Corte intende ribadire (da ultimo,  ordinanza
n. 293 del 2008) l'opportunita' che il legislatore ponga mano ad  una
riforma del sistema delle pene accessorie, che  lo  renda  pienamente
compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare  con
l'art.  27,  terzo  comma,  tuttavia  le  questioni  di  legittimita'
costituzionale oggi all'esame sono  inammissibili  in  considerazione
del petitum formulato dai rimettenti. 
    Infatti, in entrambe le ordinanze, si lamenta la non  conformita'
a Costituzione della predeterminazione nella misura  fissa  di  dieci
anni  della  pena  accessoria  dell'inabilitazione  all'esercizio  di
un'impresa  commerciale  e  ad  esercitare  uffici  direttivi  presso
qualsiasi impresa, di cui all'art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267
del 1942 per il delitto di bancarotta. 
    La Corte d'appello di Trieste afferma che la predeterminazione in
misura fissa della pena accessoria impedisce l'applicazione dell'art.
37 cod. pen. secondo il quale «Quando  la  legge  stabilisce  che  la
condanna importa una pena  accessoria  temporanea,  e  la  durata  di
questa non e' espressamente determinata, la pena  accessoria  ha  una
durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe
scontarsi,  nel  caso  di   conversione,   per   insolvibilita'   del
condannato». 
    Nello stesso senso la Corte  di  cassazione,  ritenendo  preclusa
un'interpretazione dell'art. 216, ultimo comma, del r.d. n.  267  del
1942, che consenta di applicare l'art. 37 cod. pen.,  vuole  giungere
al medesimo risultato mediante una pronuncia di questa Corte. 
    Le rimettenti, dunque,  chiedono  alla  Corte  di  aggiungere  le
parole «fino a» all'ultimo comma dell'art. 216 del r.d.  n.  267  del
1942 al fine di rendere possibile l'applicazione  dell'art.  37  cod.
pen. 
    Tuttavia,  la  soluzione  prospettata  e'  solo  una  tra  quelle
astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento  della  questione:
infatti  sarebbe  anche  possibile  prevedere  una  pena   accessoria
predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque  a  dieci
anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie  in  rapporto
all'entita' della pena detentiva. 
    Risulta evidente che l'addizione normativa richiesta dai  giudici
a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente  obbligata,
ed eccede i poteri di intervento di questa Corte,  implicando  scelte
affidate alla discrezionalita' del legislatore. 
    Pertanto  deve  farsi  applicazione  del  principio,  piu'  volte
espresso,  secondo  il  quale  sono  inammissibili  le  questioni  di
costituzionalita' relative a materie riservate alla  discrezionalita'
del legislatore e che si risolvono  in  una  richiesta  di  pronuncia
additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato.