ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 34  del
codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Lecce,  sezione
distaccata di Nardo', nel procedimento penale a carico  di  C.M.  con
ordinanza del 23  maggio  2011,  iscritta  al  n.  209  del  registro
ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 43, prima serie speciale, dell'anno 2011. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 15 febbraio 2012  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 23 maggio 2011, il  Tribunale  di
Lecce, sezione distaccata di Nardo',  ha  sollevato,  in  riferimento
agli articoli 3, 111,  secondo  comma,  e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'articolo
34 del codice di procedura penale, «nella parte in cui  non  prevede,
quale causa di incompatibilita' del giudice a celebrare  il  giudizio
ordinario  dibattimentale,   determinata   da   atti   compiuti   nel
procedimento, l'ipotesi del giudice che, gia' investito in precedenza
della richiesta di  convalida  dell'arresto  e  di  celebrazione  del
giudizio direttissimo in relazione allo stesso reato posto  a  carico
dello stesso imputato, non abbia convalidato l'arresto  dell'imputato
per insussistenza del reato e abbia disposto  la  restituzione  degli
atti al pubblico ministero». 
    Il giudice a quo riferisce di essere investito del  processo  nei
confronti di una persona imputata del reato di evasione (art. 385 del
codice penale), perche', trovandosi sottoposta alla misura  cautelare
degli arresti  domiciliari  presso  la  propria  abitazione,  si  era
allontanata da tale luogo. 
    Dal fascicolo per il dibattimento  emergeva  che  l'imputato  era
gia' stato  tratto  a  giudizio  per  il  medesimo  fatto  a  seguito
dell'arresto in flagranza avvenuto il 23 maggio 2009, in relazione al
quale  il  pubblico  ministero  aveva  chiesto  la  convalida  e   il
contestuale giudizio direttissimo. Nel corso della relativa udienza -
che era stata tenuta dallo stesso giudice rimettente  -  il  pubblico
ministero aveva chiesto, altresi', che all'imputato  fosse  applicata
la misura cautelare della custodia in carcere. 
    Il giudice a quo  non  aveva,  peraltro,  convalidato  l'arresto,
ritenendo  che  «non  vi  fossero  elementi  di  prova   per   potere
configurare il  contestato  reato  di  evasione».  Di  conseguenza  -
ordinata la liberazione dell'imputato,  se  non  detenuto  per  altra
causa -  aveva  disposto  la  restituzione  degli  atti  al  pubblico
ministero, ai sensi dell'art. 558, comma 5, cod. proc. pen. 
    In seguito a tale  provvedimento,  il  pubblico  ministero  aveva
nuovamente citato a giudizio l'imputato, nelle forme ordinarie.  Dopo
le formalita'  di  apertura  del  dibattimento,  il  difensore  aveva
chiesto, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen.,  il  proscioglimento
del proprio assistito perche' il fatto non sussiste,  richiamando  la
precedente decisione assunta dallo stesso giudice rimettente in  sede
di convalida dell'arresto. Il  pubblico  ministero  si  era  opposto,
chiedendo la prosecuzione del giudizio. 
    Cio'  premesso,  il  giudice  a  quo  dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 34 cod. proc. pen., nella parte in  cui  non
prevede  che  non  possa  svolgere  le  funzioni   di   giudice   del
dibattimento ordinario il giudice  che  -  precedentemente  investito
della  richiesta  di  convalida  dell'arresto  dell'imputato   e   di
contestuale giudizio direttissimo - non abbia  convalidato  l'arresto
per ritenuta insussistenza del  reato  e  abbia  quindi  disposto  la
restituzione degli atti al pubblico ministero. 
    Al riguardo, il rimettente rileva come  la  Corte  costituzionale
sia  stata  investita  piu'  volte  di  questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 34 cod. proc. pen., nella parte in  cui  non
prevede che non possa partecipare al giudizio direttissimo il giudice
che abbia convalidato l'arresto e applicato una misura cautelare  nei
confronti dell'imputato, dichiarandole - a partire dalla sentenza  n.
177 del 1996 - tutte infondate o inammissibili. 
    In tali occasioni, la Corte aveva preso, peraltro, le  mosse  dal
rilievo che il giudice  del  dibattimento,  al  quale  e'  presentato
l'imputato   per   il    giudizio    direttissimo,    si    pronuncia
pregiudizialmente, con la convalida dell'arresto, sull'esistenza  dei
presupposti  che  gli  consentono  di  procedere  immediatamente   al
giudizio ed e',  altresi',  competente  ad  adottare  incidentalmente
misure cautelari, attratte nella competenza  per  la  cognizione  del
merito. In una simile  situazione,  non  poteva  configurarsi  alcuna
menomazione dell'imparzialita' del giudice, giacche' questi  adottava
decisioni preordinate al proprio giudizio o incidentali  rispetto  ad
esso. 
    L'ipotesi  oggetto  dell'odierno  quesito  di   costituzionalita'
sarebbe,  tuttavia,  diversa:  nella  specie,  infatti,  il   giudice
rimettente non aveva convalidato l'arresto  dell'imputato,  ritenendo
insussistente il reato di evasione contestato, e non aveva applicato,
conseguentemente,  alcuna  misura   cautelare   (pur,   come   detto,
richiesta), ma aveva disposto la restituzione degli atti al  pubblico
ministero,  «cosi'  chiudendo  la  fase   processuale».   A   seguito
dell'emissione  del  decreto  di   citazione   diretta   a   giudizio
dell'imputato, il giudice a quo si e' trovato, quindi,  investito  di
un nuovo giudizio per  lo  stesso  fatto  e  a  carico  del  medesimo
imputato, per effetto di un replicato esercizio dell'azione penale da
parte del pubblico ministero nelle forme ordinarie. Non si verserebbe
piu', pertanto, nella medesima fase processuale in  seno  alla  quale
era stata adottata la decisione  sulla  convalida,  ma  in  una  fase
distinta, nel cui ambito la  decisione  precedentemente  assunta  dal
rimettente non assumerebbe alcuna rilevanza «endoprocedimentale». 
    La  pregressa  decisione  comprometterebbe,  peraltro,  in   modo
evidente l'imparzialita' del giudizio sul  merito,  avendo  implicato
una valutazione in  ordine  alla  sussistenza  del  reato  del  tutto
analoga  a  quella  poi  richiesta  in  dibattimento  dal   difensore
dell'imputato con l'istanza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129
cod. proc. pen. 
    Omettendo   di   prevedere   l'incompatibilita'    del    giudice
nell'ipotesi considerata,  la  norma  denunciata  verrebbe  a  porsi,
dunque, in contrasto con i principi di terzieta' ed imparzialita' del
giudice,  sanciti  dall'art.  111,  secondo   comma,   Cost.,   quali
condizioni essenziali del «giusto processo». 
    Sarebbe violato, inoltre, l'art. 3 Cost., giacche'  l'ipotesi  in
discussione  resterebbe  soggetta  ad  un  regime   irragionevolmente
differenziato rispetto  a  quello  operante  nel  caso,  strettamente
affine, del giudice per le indagini  preliminari  che  -  chiamato  a
convalidare  l'arresto  e  ad  applicare  una  misura  cautelare  nei
confronti  dell'arrestato  -  rigetti  le  richieste   per   ritenuta
insussistenza  del  fatto:  evenienza  nella   quale   egli   diviene
incompatibile alla funzione di giudizio in forza di  quanto  disposto
dall'art. 34, comma 2-bis, cod. proc. pen. 
    La norma censurata violerebbe, infine, l'art. 117,  primo  comma,
Cost., ponendosi in contrasto con l'art. 6 della Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con
legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in avanti: «CEDU»), che garantisce
il diritto di ogni  persona  ad  essere  giudicata  da  un  tribunale
indipendente e imparziale. 
    Secondo  quanto  precisato  dalla  Corte  europea   dei   diritti
dell'uomo,   agli   effetti   della   citata   norma    convenzionale
l'imparzialita' deve essere valutata, di volta in  volta,  attraverso
un procedimento soggettivo, cercando di determinare la convinzione ed
il comportamento personali del giudice,  e  secondo  un  procedimento
oggettivo, volto a verificare se egli offra garanzie sufficienti  per
escludere  in  proposito  ogni  legittimo   dubbio.   In   ordine   a
quest'ultimo aspetto, e' necessario, in  particolare,  chiedersi  se,
indipendentemente  dalla  condotta  del  giudice,  determinati  fatti
verificabili ne pongano comunque in discussione  l'imparzialita':  in
materia, infatti,  anche  le  apparenze  sono  rilevanti,  stante  la
fiducia che i tribunali di una  societa'  democratica  debbono  poter
ispirare alle persone da essi giudicate (Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, sentenza 22 aprile 2004, Cianetti contro Italia). 
    In tale prospettiva, si e' ravvisata la  violazione  dell'art.  6
della CEDU nel caso in cui il processo venga  tenuto  da  un  giudice
che, nella fase preliminare, aveva  applicato  una  misura  cautelare
all'imputato sul presupposto dell'esistenza di significativi elementi
di colpevolezza a suo carico, manifestando, cosi', la sua convinzione
in ordine alla responsabilita' dell'imputato medesimo (Corte  europea
dei diritti dell'uomo, sentenza 24  maggio  1989,  Hauschildt  contro
Danimarca, nonche' la gia' citata sentenza Cianetti contro Italia). 
    Analoga  conclusione  si  imporrebbe  anche  in   rapporto   alla
fattispecie che viene in rilievo nel giudizio a quo: ossia  allorche'
venga chiamato a pronunciarsi sulla  colpevolezza  dell'imputato,  in
sede dibattimentale,  un  giudice  che  si  e'  gia'  espresso  sulla
fondatezza  dell'accusa  nell'ambito  del   giudizio   di   convalida
dell'arresto preordinato allo svolgimento del giudizio  direttissimo,
mai tenuto proprio in conseguenza del diniego della convalida. 
    Ne', d'altra parte, sarebbe possibile  adeguare  l'art.  34  cod.
proc.  pen.  alle  previsioni  dell'art.  6   della   CEDU   in   via
interpretativa, essendosi al cospetto di una norma  eccezionale,  non
suscettibile di letture che ne dilatino il senso letterale. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. 
    2.1.- Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato,  il  giudice  a  quo
avrebbe omesso di considerare  che  la  nuova  citazione  a  giudizio
dell'imputato, disposta dal pubblico ministero dopo  la  restituzione
degli atti ai sensi dell'art. 558, comma 5, cod. proc. pen., si fonda
anche sulle risultanze dell'ulteriore attivita' investigativa, svolta
dopo la precedente fase. Rispetto a tali nuovi elementi,  il  giudice
pronunciatosi in sede di convalida dell'arresto non  difetterebbe  di
imparzialita' e terzieta', non avendoli mai apprezzati in precedenza. 
    2.2.- Nella memoria illustrativa successivamente  depositata,  la
difesa  dello  Stato  ha  ulteriormente  rilevato   come   la   Corte
costituzionale abbia reiteratamente escluso che  la  decisione  sulla
convalida dell'arresto e sull'applicazione di  una  misura  cautelare
determini  l'incompatibilita'  del  giudice  chiamato  a  tenere   il
dibattimento con il rito direttissimo. Se tale conclusione  e'  stata
raggiunta con riguardo ad  un  giudice  che,  convalidato  l'arresto,
abbia disposto una misura cautelare, a maggior ragione essa  dovrebbe
valere in rapporto ad un giudice che non abbia convalidato l'arresto,
ne' applicato alcuna misura, quale l'odierno rimettente. 
    La convalida dell'arresto, d'altra parte - come evidenziato dalla
stessa giurisprudenza costituzionale - non comporta  la  formulazione
di un giudizio di merito sulla colpevolezza, essendo volta soltanto a
verificare la legittimita' o meno dell'arresto medesimo.  Il  giudice
della convalida - secondo quanto chiarito dalla Corte di cassazione -
e' chiamato, infatti, unicamente a riscontrare la  sussistenza  degli
elementi che legittimavano l'arresto con verifica  «ex  ante»,  senza
tenere conto degli elementi di  indagine  acquisiti  successivamente,
utilizzabili solo  ai  fini  dell'ulteriore  pronuncia  sullo  status
libertatis. Il vaglio operato dal giudice in  tale  fase  atterrebbe,
pertanto, soltanto alla  verifica  del  ragionevole  uso  dei  poteri
discrezionali della polizia giudiziaria. 
    Nella specie, il giudice a quo riferisce di non aver  convalidato
l'arresto sul presupposto «che non vi fossero elementi di  prova  per
configurare il reato». Allora, delle due l'una: o  il  rimettente  ha
negato  la  convalida  esprimendo  un  giudizio   di   merito   sulla
contestazione, nel qual caso il provvedimento adottato si  esporrebbe
a censura; oppure ha correttamente negato la convalida sulla base dei
criteri indicati dalla giurisprudenza: ma in questo caso la decisione
assunta  non  potrebbe  determinare  alcuna   incompatibilita'   allo
svolgimento della  funzione  di  giudice  del  dibattimento,  proprio
perche' non espressiva di un giudizio di merito sul reato  contestato
all'imputato. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di  Nardo',  dubita
della legittimita' costituzionale  dell'articolo  34  del  codice  di
procedura penale, nella parte  in  cui  non  prevede  che  non  possa
esercitare le funzioni di giudice del dibattimento  il  giudice  che,
precedentemente investito della richiesta di  convalida  dell'arresto
dell'imputato e  di  contestuale  giudizio  direttissimo,  non  abbia
convalidato l'arresto per ritenuta insussistenza del  reato  e  abbia
conseguentemente disposto la  restituzione  degli  atti  al  pubblico
ministero. 
    Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata  violerebbe,  per
questo verso, i principi di terzieta' e  imparzialita'  del  giudice,
enunciati dall'art. 111, secondo comma, Cost., giacche' la  decisione
precedentemente assunta, la quale si colloca  in  una  distinta  fase
processuale,  esplicherebbe  effetti  pregiudicanti  sul   successivo
giudizio di merito in ordine alla fondatezza dell'accusa. 
    Sarebbe violato, altresi', l'art. 3  Cost.,  per  l'irragionevole
disparita' di  trattamento  della  fattispecie  considerata  rispetto
all'ipotesi - in assunto, del tutto affine - in cui a pronunciarsi in
senso negativo sulla convalida dell'arresto  e  sull'applicazione  di
una misura cautelare sia il giudice per le indagini  preliminari,  il
quale, in conseguenza di cio', non puo' partecipare al giudizio, alla
luce di quanto disposto dall'art. 34, comma 2-bis, cod. proc. pen. 
    La norma censurata lederebbe, da ultimo, l'art. 117, primo comma,
Cost.,  ponendosi  in  contrasto  con  l'art.  6  della  CEDU  -  che
garantisce il diritto di ogni  persona  ad  essere  giudicata  da  un
tribunale indipendente e imparziale - cosi' come  interpretato  dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    2.- La questione non e' fondata, nei sensi di seguito precisati. 
    Per costante giurisprudenza  di  questa  Corte,  le  norme  sulla
incompatibilita'  del  giudice  determinata  da  atti  compiuti   nel
procedimento presidiano i valori della sua terzieta' e  imparzialita'
- attualmente  oggetto  di  espressa  previsione  nel  secondo  comma
dell'art. 111 Cost., aggiunto dalla legge costituzionale 23  novembre
1999,  n.  2  (Inserimento   dei   principi   del   giusto   processo
nell'articolo  111  della  Costituzione),  ma  gia'   in   precedenza
pacificamente insiti nel sistema costituzionale. Tali norme risultano
in particolare volte ad evitare che la  decisione  sul  merito  della
causa  possa  essere  o  apparire  condizionata  dalla  "forza  della
prevenzione"  -  ossia  dalla  naturale  tendenza  a  confermare  una
decisione gia' presa o a mantenere un atteggiamento  gia'  assunto  -
scaturente da valutazioni cui il giudice  sia  stato  precedentemente
chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (sentenza n.  224  del
2001). 
    Questa Corte ha da  tempo  precisato,  in  termini  generali,  le
condizioni    in    presenza    delle     quali     la     previsione
dell'incompatibilita' del giudice deve  ritenersi  costituzionalmente
necessaria. Anzitutto - benche' l'architettura del nuovo rito  penale
richieda, in linea di principio, che  le  conoscenze  probatorie  del
giudice si formino nella fase del dibattimento - non basta a generare
l'incompatibilita' la semplice  «conoscenza»  di  atti  anteriormente
compiuti, ma occorre che il giudice sia stato chiamato a compiere una
«valutazione» di essi, strumentale all'assunzione di  una  decisione.
In secondo luogo, detta decisione deve avere natura non «formale», ma
«di  contenuto»:  essa  deve  comportare,  cioe',   valutazioni   che
attengono al merito dell'ipotesi dell'accusa,  e  non  gia'  al  mero
svolgimento   del   processo.   Da    ultimo,    affinche'    insorga
l'incompatibilita', e' necessario che la  precedente  valutazione  si
collochi in una diversa fase  del  procedimento,  essendo  del  tutto
ragionevole che, all'interno di ciascuna delle fasi,  resti  comunque
preservata «l'esigenza di continuita' e di  globalita'»:  prospettiva
nella quale il giudice chiamato al giudizio di merito non incorre  in
incompatibilita' allorche' compia valutazioni preliminari,  anche  di
merito,  destinate  a  sfociare  in  quella   conclusiva   (venendosi
altrimenti   a   determinare   una   «assurda   frammentazione»   del
procedimento, che implicherebbe la necessita'  di  disporre,  per  la
medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono  gli
atti da compiere) (sentenza n. 131 del 1996). 
    3.- In questo  quadro,  la  Corte  ha  avuto  modo  di  occuparsi
reiteratamente  dello  specifico  tema  evocato  dalla  questione  di
legittimita' costituzionale oggi in esame: vale a dire del  possibile
vulnus  all'imparzialita'  della  funzione  giudicante  recato  dalla
precedente assunzione di decisioni attinenti alla liberta'  personale
dell'imputato. 
    Al  riguardo,  superando  un  originario  orientamento  di  segno
contrario, volto a configurare il merito  dell'accusa  e  le  cautele
come ambiti distinti per oggetto e funzione (sentenze n. 124 del 1992
e n. 502 del 1991; ordinanza  n.  516  del  1991),  questa  Corte  ha
ritenuto che le  decisioni  relative  all'applicazione  delle  misure
cautelari siano, in linea di principio,  idonee  a  compromettere  (o
comunque a fare apparire compromessa) l'imparzialita' della decisione
conclusiva   sulla   responsabilita'   dell'imputato,    in    quanto
presuppongono   sempre   un    giudizio    prognostico    su    detta
responsabilita': giudizio che - non solo alla luce del  nuovo  codice
di rito, ma anche delle modifiche introdotte  dalla  legge  8  agosto
1995, n. 332 (Modifiche al codice di  procedura  penale  in  tema  di
semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di
difesa) - e' divenuto piu' approfondito che  in  passato  e  tale  da
superare, ai fini che interessano, la distinzione tra valutazioni  di
tipo indiziario, rilevanti ai fini  della  cautela,  e  giudizio  sul
merito dell'accusa, basato su elementi di prova (sentenze n. 131  del
1996 e n. 432 del 1995). 
    Su  tale  premessa,  la  Corte  ha  quindi  pronunciato  numerose
sentenze dichiarative dell'illegittimita' costituzionale dell'art. 34
cod. proc. pen., nella parte in cui non  rendeva  incompatibile  alla
funzione di giudizio il giudice che, in altra fase del  procedimento,
avesse  adottato  decisioni  de  libertate.   Tali   pronunce   hanno
riguardato, anzitutto, l'incompatibilita' alla funzione  di  giudizio
dibattimentale del giudice per  le  indagini  preliminari  che  abbia
applicato una misura cautelare personale nei confronti  dell'imputato
(sentenza n. 432 del 1995); per  poi  estendersi  al  componente  del
tribunale  del  riesame  o  dell'appello  de  libertate  che  si  sia
pronunciato su una di dette misure: con la precisazione che, rispetto
al componente  del  tribunale  dell'appello  (la  cui  cognizione,  a
differenza di quella del tribunale del riesame, e' limitata ai motivi
proposti), l'incompatibilita' opera a  condizione  che  egli  si  sia
pronunciato «su aspetti non  esclusivamente  formali»  dell'ordinanza
che provvede sulla misura cautelare (sentenza n. 131 del 1996). 
    L'effetto di pregiudizio derivante dal complesso di decisioni  in
materia di liberta' personale ora ricordate e' stato  indi  ravvisato
anche in  rapporto  alla  partecipazione  al  giudizio  abbreviato  e
all'applicazione della pena su richiesta delle parti, trattandosi  di
riti  speciali  che  implicano  anch'essi  un  giudizio  sul   merito
dell'accusa. In  pari  tempo,  sono  stati  inclusi  nell'area  delle
pronunce pregiudicanti anche i provvedimenti con i quali  il  giudice
per le indagini preliminari disponga la modifica, la  sostituzione  o
la revoca di misure cautelari personali, ovvero rigetti la  richiesta
di applicazione,  modifica,  sostituzione  o  revoca  di  una  misura
cautelare, formulata dal pubblico ministero o dall'imputato: cio', in
quanto, anche in tali  casi,  la  pronuncia  comporta  una  decisione
sull'esistenza delle condizioni legittimanti  la  cautela  personale,
suscettibile di tradursi in «un'anticipazione  di  valutazioni  della
medesima natura di quelle afferenti al merito della causa»  (sentenza
n. 155 del 1996). 
    4.-  In  sede  di  attuazione  della   delega   legislativa   per
l'istituzione del giudice unico di primo grado  (d.lgs.  19  febbraio
1998, n. 51, recante «Norme in materia  di  istituzione  del  giudice
unico di primo grado»), il legislatore ha aggiunto all'art.  34  cod.
proc. pen.  il  comma  2-bis,  che  sancisce,  in  termini  generali,
l'incompatibilita' alla funzione di giudizio (oltre che alla funzione
di giudice  dell'udienza  preliminare  o  all'emissione  del  decreto
penale di condanna) del magistrato che,  nel  medesimo  procedimento,
abbia esercitato funzioni di giudice  per  le  indagini  preliminari,
fatta eccezione per le ipotesi in cui si sia limitato ad assumere uno
dei   provvedimenti   (di   marginale    rilievo    o    anticipatori
dell'istruzione   dibattimentale)   specificamente    elencati    nei
successivi commi 2-ter e 2-quater. 
    Con tale disposizione - come emerge dalla relazione al d.lgs.  n.
51  del  1998  -  il  legislatore  ha  inteso  recepire  le  numerose
dichiarazioni  di  illegittimita'   costituzionale   pronunciate   in
precedenza da questa Corte in tema di  incompatibilita'  del  giudice
per le indagini preliminari - tra cui, prime fra tutte, quelle dianzi
ricordate - accorpandole in una previsione unitaria di piu' immediata
leggibilita', che peraltro ne supera l'ambito con  la  configurazione
di  una  incompatibilita'  di  tipo  "funzionale",   nella   precipua
prospettiva di prevenire ulteriori pronunce del medesimo segno. 
    Tra i provvedimenti atti  a  determinare  l'incompatibilita',  ai
sensi  dell'art.  34,  comma  2-bis,  cod.  proc.   pen.,   rientrano
tipicamente quelli assunti dal giudice per  le  indagini  preliminari
nell'ambito del giudizio di convalida  dell'arresto:  subprocedimento
entro il quale possono,  peraltro,  collocarsi  -  e  solitamente  si
collocano - anche decisioni  in  ordine  all'applicazione  di  misure
coercitive nei confronti dell'arrestato  (art.  391,  comma  5,  cod.
proc. pen.). 
    Per effetto delle ricordate sentenze di questa Corte, nonche' del
loro recepimento legislativo nei termini ora indicati, deve ritenersi
ormai presente nell'ordinamento processuale penale  il  principio  in
forza del quale - anche fuori dei casi indicati dal citato  art.  34,
comma 2-bis, cod. proc. pen. - l'adozione di  provvedimenti  inerenti
alla  liberta'  personale  dell'imputato,  i  quali  implichino   una
valutazione prognostica in ordine alla sua responsabilita', ancorche'
su base indiziaria e allo stato degli atti,  impediscono  al  giudice
che  li  ha  emessi  di  partecipare  al  giudizio,  sempre   che   i
provvedimenti in questione si  collochino  in  una  fase  processuale
distinta da quella pregiudicata. 
    5.-  Uno  dei  tratti  peculiari  del  giudizio  direttissimo  e'
rappresentato, peraltro, dal possibile innesto del subprocedimento di
convalida dell'arresto all'interno della medesima fase processuale in
cui si esercita la funzione di giudizio:  quando  l'arresto  non  sia
stato gia' in precedenza convalidato (art. 449, comma 5,  cod.  proc.
pen.), l'arrestato puo' essere, infatti, presentato  in  vinculis  al
giudice del dibattimento per la convalida e il  contestuale  giudizio
(artt. 449, comma 1, e 558, commi 1 e seguenti, cod. proc. pen.,  con
riferimento,  rispettivamente,  al  giudizio  davanti  al   tribunale
collegiale e al tribunale  monocratico).  In  tale  ipotesi,  l'esito
positivo del procedimento di convalida e' condizione affinche'  possa
procedersi  con  il  rito  speciale:  qualora   l'arresto   non   sia
convalidato,  il  giudice  deve,  infatti,  restituire  gli  atti  al
pubblico ministero, salvo che  l'imputato  e  il  pubblico  ministero
consentano che il giudizio si svolga nella forma speciale (art.  449,
comma 2, e 558, comma 5, cod. proc. pen.). 
    A tale riguardo, questa Corte - in linea con il principio  dianzi
indicato - ha reiteratamente escluso che l'art. 34  cod.  proc.  pen.
possa ritenersi costituzionalmente illegittimo, nella  parte  in  cui
non prevede che non possa partecipare  al  giudizio  direttissimo  il
giudice  che  ha  convalidato  l'arresto  ed  applicato  una   misura
cautelare nei confronti dell'imputato presentato a  dibattimento  per
detto giudizio. In  tale  caso,  non  e'  infatti  configurabile  una
menomazione dell'imparzialita' del giudice, in quanto le decisioni de
libertate si collocano all'interno della  medesima  fase  processuale
che si ipotizza pregiudicata,  assumendo  una  valenza  prodromica  o
incidentale rispetto al giudizio attribuito allo stesso  giudice  del
dibattimento.  Con  la  convalida  dell'arresto,   il   giudice   del
dibattimento  si  pronuncia  pregiudizialmente   sull'esistenza   dei
presupposti  che  gli  consentono  di  procedere  immediatamente   al
giudizio ed e',  altresi',  competente  ad  adottare  incidentalmente
misure cautelari, attratte nella competenza  per  la  cognizione  del
merito (sentenza n. 177 del 1996; ordinanze n. 90 del 2004, n. 40 del
1999, n. 286 del 1998, n. 433, n. 316 e n. 267 del 1996). 
    6.- La fattispecie  ora  sottoposta  all'esame  della  Corte  e',
tuttavia, strutturalmente diversa da quella in precedenza scrutinata. 
    Secondo quanto si  riferisce  nell'ordinanza  di  rimessione,  il
rimettente - chiamato a convalidare  l'arresto  e  ad  applicare  una
misura cautelare (la custodia in carcere) nei confronti dell'imputato
presentatogli per il giudizio direttissimo - ha, infatti,  negato  la
convalida, sul rilievo che non sussistessero  elementi  per  ritenere
configurabile, nel caso di specie, il reato contestato (evasione). In
tal modo, il giudice a quo non si e' limitato  a  pronunciarsi  sulla
convalida - come sembra presupporre  l'Avvocatura  dello  Stato,  nel
formulare le sue difese - ma ha anche disatteso, sulla  base  di  una
prognosi  negativa  circa  la   responsabilita'   dell'imputato,   la
richiesta di applicazione della misura coercitiva, adottando cosi' un
provvedimento  cui  questa  Corte  ha  gia'  specificamente   annesso
possibili  effetti  pregiudicanti.  In  conseguenza   di   cio',   il
rimettente ha restituito gli atti al pubblico ministero, il quale  ha
poi tratto nuovamente a giudizio l'imputato nelle forme ordinarie. 
    Il  provvedimento  di  restituzione  degli   atti   al   pubblico
ministero, determinando la regressione  del  procedimento  alla  fase
delle indagini preliminari, ha creato una evidente  frattura  tra  la
fase - prodromica al giudizio direttissimo - in cui e' stata  assunta
la  decisione  negativa  sulla  convalida  e   sulla   richiesta   di
applicazione  della  misura   cautelare,   e   la   successiva   fase
dibattimentale ordinaria,  instaurata  per  effetto  della  citazione
diretta a giudizio dell'imputato da parte del pubblico ministero.  In
tale situazione, la  decisione  precedentemente  assunta,  "a  monte"
della disposta restituzione degli  atti,  non  puo'  essere,  dunque,
qualificata come decisione  preordinata  o  incidentale  rispetto  al
giudizio  dibattimentale  ordinario  del  quale  il   rimettente   e'
attualmente investito, inidonea, in quanto tale, a  compromettere  (o
fare apparire compromessa) l'imparzialita' della funzione giudicante. 
    Come lo stesso giudice a quo correttamente evidenzia,  una  volta
venuta meno l'unicita' di fase, la decisione anteriormente assunta in
nulla si differenzia da quella adottata dal giudice per  le  indagini
preliminari,  che  -   investito   della   richiesta   di   convalida
dell'arresto e di applicazione di una misura cautelare nei  confronti
dell'indagato  -  parimenti  la  respingesse,  divenendo   con   cio'
incompatibile alla funzione di giudizio nel dibattimento ordinario. 
    7.- Considerato, dunque, che - come in precedenza  evidenziato  -
questa Corte ha reiteratamente avuto modo di affermare  il  principio
in forza del quale il giudice che si e' pronunciato  in  una  diversa
fase processuale sulla liberta' personale  dell'imputato,  formulando
un apprezzamento prognostico (positivo o negativo) in ordine alla sua
responsabilita' (ancorche' su base  indiziaria  e  allo  stato  degli
atti), diviene incompatibile all'esercizio della funzione di giudizio
sul merito dell'accusa; e rilevato che -  per  quanto  detto  -  tale
principio puo'  considerarsi  ormai  penetrato,  come  paradigma  "di
sistema", nel vigente ordinamento processuale penale, ne  deriva  che
di esso il giudice rimettente  puo'  fare  direttamente  applicazione
nell'ipotesi in esame, senza la  necessita'  di  invocare  una  nuova
pronuncia additiva di questa Corte sul punto, che sarebbe  del  tutto
superflua. 
    La questione va dichiarata,  pertanto,  in  questi  termini,  non
fondata in rapporto a tutti i parametri invocati.