ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
sorto a seguito dell'attivita' di intercettazione telefonica,  svolta
nell'ambito di un procedimento penale pendente dinanzi  alla  Procura
della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, effettuata
su utenza di  altra  persona,  nell'ambito  della  quale  sono  state
captate conversazioni del Presidente della Repubblica,  promosso  dal
Presidente della Repubblica con ricorso depositato in cancelleria  il
30 luglio 2012 ed iscritto al n. 4 del registro conflitti tra  poteri
dello Stato 2012, fase di ammissibilita'. 
    Uditi nella camera di consiglio del 19 settembre 2012  i  Giudici
relatori Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo. 
    Ritenuto che, con  ricorso  depositato  il  30  luglio  2012,  il
Presidente della Repubblica, rappresentato e  difeso  dall'Avvocatura
generale dello Stato, ha  sollevato  conflitto  di  attribuzione  tra
poteri dello Stato, «per violazione  degli  articoli  90  e  3  della
Costituzione  e  delle  disposizioni  di  legge  ordinaria   che   ne
costituiscono attuazione» - in particolare, l'art. 7  della  legge  5
giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali  e  di
reati previsti  dall'articolo  90  della  Costituzione),  «anche  con
riferimento all'art. 271  del  codice  di  procedura  penale»  -  nei
confronti  del  Procuratore  della  Repubblica  presso  il  Tribunale
ordinario di Palermo, in relazione all'attivita'  di  intercettazione
telefonica, effettuata su utenza di altra persona nell'ambito  di  un
procedimento penale pendente presso la Procura  della  Repubblica  di
Palermo, nel corso della quale sono state captate conversazioni dello
stesso Presidente della Repubblica; 
    che il ricorrente riferisce di come, con nota del 27 giugno 2012,
l'Avvocato generale dello Stato, su mandato del Segretariato generale
della Presidenza della Repubblica, abbia chiesto al  dott.  Francesco
Messineo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale  ordinario
di Palermo, «una conferma o una smentita» di quanto emergerebbe dalle
dichiarazioni rese dal Sostituto procuratore Antonino Di  Matteo  nel
corso di una intervista rilasciata alla giornalista Alessandra Ziniti
e pubblicata sul quotidiano «La Repubblica» del 22 giugno 2012: ossia
che  sarebbero  state  intercettate  conversazioni  telefoniche   del
Presidente della Repubblica, considerate allo stato  irrilevanti,  ma
che la Procura di Palermo si sarebbe riservata di utilizzare; 
    che, con nota del 6 luglio 2012, il Procuratore della  Repubblica
- allegando una missiva del giorno precedente, con la quale il  dott.
Di Matteo aveva  rappresentato  come,  in  risposta  ad  una  domanda
«assolutamente  generica»  della  giornalista   sulla   sorte   delle
intercettazioni  effettuate,  egli  si  fosse   limitato   «all'ovvio
richiamo alla  corretta  applicazione  della  normativa  in  tema  di
utilizzo degli esiti delle attivita' di intercettazione telefonica» -
aveva comunicato che l'Ufficio da lui diretto, «avendo gia'  valutato
come irrilevante ai  fini  del  procedimento  qualsivoglia  eventuale
comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato, non  ne
prevede[va] alcuna  utilizzazione  investigativa  o  processuale,  ma
esclusivamente la distruzione da effettuare  con  l'osservanza  delle
formalita' di legge»; 
    che con successiva nota, diffusa il 9 luglio 2012, e con  lettera
pubblicata sul quotidiano «La Repubblica» l'11 luglio 2012, il  dott.
Messineo aveva ulteriormente affermato che «nell'ordinamento  attuale
nessuna  norma  prescrive  o  anche  soltanto  autorizza  l'immediata
cessazione dell'ascolto e della registrazione, quando, nel  corso  di
una  intercettazione  telefonica  legittimamente  autorizzata,  venga
casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad
intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva  essere
disposta alcuna intercettazione»; aggiungendo  che,  «in  tali  casi,
alla  successiva  distruzione  della   conversazione   legittimamente
ascoltata e registrata si procede esclusivamente, previa  valutazione
della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento
e con la autorizzazione del  Giudice  per  le  indagini  preliminari,
sentite le parti»; 
    che,  ad  avviso  del  ricorrente,  la   tesi   del   Procuratore
palermitano non sarebbe condivisibile, in quanto, alla luce dell'art.
90 Cost. e dell'art. 7 della legge n. 219 del 1989 - salvi i casi  di
alto tradimento e di attentato alla Costituzione e con l'applicazione
del regime previsto dalle  norme  che  disciplinano  il  procedimento
d'accusa - le intercettazioni delle conversazioni  cui  partecipa  il
Presidente della Repubblica, ancorche' «indirette» od  «occasionali»,
dovrebbero ritenersi radicalmente vietate; 
    che detto  divieto  sarebbe,  infatti,  insito  nella  previsione
dell'art. 90  Cost.,  in  forza  della  quale  «il  Presidente  della
Repubblica non e' responsabile  degli  atti  compiuti  nell'esercizio
delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento  o  per  attentato
alla Costituzione», ipotesi nelle quali «e' messo in stato di  accusa
dal Parlamento in seduta comune,  a  maggioranza  assoluta  dei  suoi
membri»; 
    che l'immunita' prevista dalla norma costituzionale non consiste,
infatti, solo in una irresponsabilita' giuridica per  le  conseguenze
penali, amministrative e civili eventualmente  derivanti  dagli  atti
tipici compiuti dal Presidente della Repubblica nell'esercizio  delle
proprie funzioni, ma anche in una irresponsabilita' politica, diretta
a garantire la piena liberta' e la sicurezza di tutte le modalita' di
esercizio delle funzioni presidenziali; 
    che, lungi dal costituire un «inammissibile  privilegio»,  legato
ad esperienze ormai definitivamente superate e tale da  incrinare  il
principio  dell'eguaglianza  dei  cittadini   davanti   alla   legge,
l'immunita' in questione  risulterebbe  strumentale  all'espletamento
degli altissimi compiti che la  Costituzione  demanda  al  Presidente
della  Repubblica,  nella  sua  veste  di  Capo  dello  Stato  e   di
rappresentante dell'unita' nazionale, intesi ad  assicurare  in  modo
imparziale, insieme  agli  altri  organi  di  garanzia,  il  corretto
funzionamento del sistema istituzionale e la tutela  degli  interessi
permanenti della Nazione:  prospettiva  nella  quale  la  statuizione
dell'art. 90 Cost. rappresenterebbe anche un limite alle attribuzioni
degli altri poteri dello Stato; 
    che sarebbe, peraltro, del tutto evidente come, nello svolgimento
dei predetti compiti, debba  essere  garantito  al  Presidente  della
Repubblica «il massimo di liberta'  di  azione  e  di  riservatezza»,
anche perche' alcune delle attivita' che  egli  pone  in  essere  nel
perseguimento  delle  finalita'  costituzionali  -  e  di  non   poco
significato - «non hanno un carattere formalizzato»; 
    che la conseguente impossibilita' di sottoporre a limitazioni  la
liberta' di  comunicazione  del  Presidente  risulterebbe  confermata
dall'interpretazione sistematica delle norme di legge ordinaria  che,
in  attuazione  dei  principi  costituzionali,  ne  disciplinano   la
posizione; 
    che, infatti, l'art. 7, comma 3, della legge n. 219  del  1989  -
disposizione  contenuta  in  una  fonte  legislativa   esplicitamente
«connessa» alle previsioni dell'art. 90 Cost., cosi' da  assumere  un
«ruolo integrativo»  della  norma  costituzionale  -  vieta  in  modo
assoluto di disporre l'intercettazione di conversazioni telefoniche o
di altre forme di comunicazione nei confronti  del  Presidente  della
Repubblica, se non dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto
la sospensione dalla carica; 
    che, pur essendo il divieto sancito con riferimento ai soli reati
per i quali, in base all'art. 90 Cost.,  il  Presidente  puo'  essere
messo  in  stato  di  accusa,  avuto  riguardo  alla  intercettazione
«diretta» delle sue conversazioni, sarebbe «naturale» la concomitanza
di un divieto, altrettanto assoluto, di intercettare (e, se del caso,
di utilizzare) anche le comunicazioni captate  in  modo  indiretto  o
casuale, trattandosi di attivita' egualmente idonea a ledere la sfera
di immunita' del Capo dello Stato; 
    che il divieto assoluto di  ricorso  ai  mezzi  in  questione  di
ricerca della prova, enunciato in rapporto  ai  reati  presidenziali,
dovrebbe evidentemente estendersi, inoltre, pur  nel  silenzio  della
legge, ad altre fattispecie di reato che  possano  a  diverso  titolo
coinvolgere il Presidente; 
    che,  a  maggior  ragione,   dovrebbe   ritenersi   inammissibile
l'utilizzazione di conversazioni del Capo  dello  Stato  intercettate
occasionalmente nel corso di indagini concernenti reati  al  medesimo
non addebitabili, come sarebbe avvenuto nel caso in esame; 
    che, in conclusione, il divieto di intercettazione  riguarderebbe
anche le cosiddette intercettazioni  indirette  o  casuali,  comunque
effettuate mentre il Presidente della Repubblica e' in carica; 
    che, per tale ragione, i risultati delle intercettazioni  operate
malgrado il  divieto  sarebbero  assolutamente  inutilizzabili  e  la
relativa documentazione dovrebbe essere immediatamente  distrutta  ai
sensi dell'art. 271 cod. proc. pen., trattandosi  di  intercettazioni
eseguite «fuori dei casi consentiti della legge»; 
    che rimarrebbe inapplicabile, di  conseguenza,  la  procedura  di
selezione delle  conversazioni  nel  contraddittorio  tra  le  parti,
delineata dall'art. 268, comma 4 e  seguenti,  cod.  proc.  pen.,  in
vista della trascrizione e  dell'inserimento  nel  fascicolo  per  il
dibattimento; 
    che non sarebbe, del pari, riferibile all'ipotesi in questione la
previsione dell'art. 269 cod. proc.  pen.,  inerente  all'obbligo  di
conservazione integrale dei verbali e delle registrazioni  fino  alla
sentenza non piu' soggetta ad impugnazione, salva la possibilita' per
il giudice di disporre in apposita udienza  camerale  la  distruzione
della documentazione non necessaria ai  fini  del  procedimento,  ove
richiesta dagli interessati a tutela della riservatezza; 
    che neppure sarebbe ipotizzabile, d'altra parte,  l'utilizzazione
dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi,  secondo
quanto previsto dall'art. 270 cod. proc. pen.; 
    che alla fattispecie considerata, infine, non sarebbe applicabile
l'art. 6 della  legge  20  giugno  2003,  n.  140  (Disposizioni  per
l'attuazione dell'articolo 68 della Costituzione nonche'  in  materia
di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), che
disciplina le intercettazioni indirette o casuali di conversazioni  o
comunicazioni di membri del Parlamento, non potendo la posizione  del
Presidente  della  Repubblica  essere   assimilata   a   quella   del
parlamentare; 
    che, infatti, solo i membri del Parlamento, e non anche  il  Capo
dello Stato, possono essere sottoposti ad  intercettazione  da  parte
del  giudice  ordinario,  previa  autorizzazione  della   Camera   di
appartenenza, e solo ai parlamentari si riferisce il  citato  art.  6
della  legge  n.  140  del  2003,  quando  stabilisce  la  necessita'
dell'autorizzazione   «successiva»    per    l'utilizzazione    delle
intercettazioni indirette o casuali; 
    che la Corte costituzionale, d'altro canto, nel  dichiarare,  con
la sentenza n. 390 del 2007, l'illegittimita' costituzionale parziale
della  norma  ora  indicata,  ha  escluso  che  l'autorizzazione  sia
necessaria  quando  le  intercettazioni  occasionali  debbano  essere
utilizzate  nei  confronti  di  soggetti  diversi  dal  parlamentare,
confermando, cosi', che la disciplina della legge  n.  140  del  2003
concerne solo le comunicazioni dei componenti delle due Camere; 
    che, piu' in generale, riguardo alle intercettazioni  occasionali
eseguite nel corso di indagini concernenti reati  ascritti  ad  altri
soggetti, la tutela  del  parlamentare  risponderebbe  ad  una  ratio
diversa da quella  della  tutela  del  Presidente  della  Repubblica:
rispetto al Presidente, detta ratio risiederebbe  nella  salvaguardia
della funzione; per il parlamentare, invece,  nella  sola  protezione
della sua riservatezza, per la quale  -  come  rilevato  dalla  Corte
costituzionale nella citata sentenza n.  390  del  2007  -  sarebbero
ingiustificati livelli di tutela piu' elevati di quelli assicurati ad
ogni  altro  cittadino,  non  ricorrendo  un   pregiudizio   per   la
funzionalita'  della  Camera  di  appartenenza,   unico   presupposto
dell'autorizzazione prevista dall'art. 68 Cost.; 
    che,   alla   stregua   delle   considerazioni   che   precedono,
sussisterebbero  nella  fattispecie  che  da'  origine  al  conflitto
«precisi elementi oggettivi di prova» del non corretto uso dei propri
poteri da parte della Procura della Repubblica di Palermo, in termini
lesivi delle attribuzioni  costituzionali  del  ricorrente:  elementi
consistenti nell'avere  «quantomeno»  registrato  le  intercettazioni
nelle quali era casualmente e indirettamente coinvolto il  Presidente
della Repubblica, unitamente alle  circostanze  -  «pacifiche  e  non
contestate» -  che  il  testo  delle  telefonate  e'  agli  atti  del
procedimento, che ne e' stata addirittura valutata la «(ir)rilevanza»
ai fini del procedimento in corso e - soprattutto - che  si  ipotizza
lo svolgimento di un'udienza secondo le modalita' indicate  dall'art.
268 cod. proc. pen. per ottenerne l'acquisizione  o  la  distruzione;
procedimento che, implicando l'instaurazione  di  un  contraddittorio
fra le  parti  sul  punto,  aggraverebbe  gli  effetti  lesivi  delle
precedenti condotte, rendendoli definitivi; 
    che il ricorrente Presidente della Repubblica  chiede,  pertanto,
alla Corte di dichiarare che non spetta alla Procura della Repubblica
presso  il  Tribunale  ordinario  di  Palermo  «omettere  l'immediata
distruzione   delle   intercettazioni    telefoniche    casuali    di
conversazioni del Presidente della Repubblica» di cui si discute, ne'
valutarne la «(ir)rilevanza», sottoponendole  all'«udienza  stralcio»
disciplinata dall'art. 268 cod. proc. pen. 
    Considerato che,  in  questa  fase  del  giudizio,  la  Corte  e'
chiamata, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge  11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte  costituzionale),  a  svolgere,  senza   contraddittorio,   una
delibazione preliminare di ammissibilita'  del  ricorso,  concernente
l'esistenza della materia di un conflitto la cui  risoluzione  spetti
alla sua competenza,  con  riferimento  ai  requisiti  soggettivi  ed
oggettivi indicati dal  primo  comma  dello  stesso  art.  37,  fermo
restando che tale valutazione  preliminare  e  interlocutoria  lascia
impregiudicata ogni ulteriore  e  diversa  determinazione,  anche  in
relazione alla stessa ammissibilita' del ricorso; 
    che, nella specie, per quanto attiene all'aspetto soggettivo,  la
natura di potere dello Stato  e  la  conseguente  legittimazione  del
Presidente  della  Repubblica  ad  avvalersi  dello   strumento   del
conflitto a tutela delle  proprie  attribuzioni  costituzionali  sono
state piu' volte riconosciute, in modo univoco, nella  giurisprudenza
di questa Corte (sentenze  n.  200  del  2006  e  n.  129  del  1981;
ordinanze n. 354 del 2005 e n. 150 del 1980); 
    che questa Corte ha del  pari  riconosciuto,  con  giurisprudenza
costante, la natura di potere dello Stato al pubblico  ministero,  in
quanto  investito  dell'attribuzione,  costituzionalmente  garantita,
inerente all'esercizio  obbligatorio  dell'azione  penale  (art.  112
della Costituzione), cui si connette la titolarita' delle indagini ad
esso finalizzate (ex plurimis, sentenze n.  88  e  n.  87  del  2012,
ordinanze n. 241 e n. 104 del 2011), ritenendo, altresi', legittimato
ad agire e a resistere nei giudizi per conflitto di  attribuzione  il
Procuratore  della  Repubblica  presso  il   Tribunale,   in   quanto
competente  a  dichiarare  definitivamente,  nell'assolvimento  della
ricordata funzione, la volonta' del potere cui appartiene  (ordinanza
n. 60 del 1999); 
    che, sotto  il  profilo  oggettivo,  il  ricorso  e'  proposto  a
salvaguardia di prerogative del Presidente della Repubblica che  sono
prospettate  come  insite  nella  garanzia  dell'immunita'   prevista
dall'art. 90 Cost. e nelle disposizioni di legge  ordinaria  ad  essa
collegate, a fronte di lesioni in assunto  realizzate  o  prefigurate
dalla Procura della  Repubblica  presso  il  Tribunale  ordinario  di
Palermo nello svolgimento dei propri compiti; 
    che deve ritenersi dunque sussistente,  allo  stato  -  salvo  il
definitivo giudizio all'esito dell'instaurazione del  contraddittorio
- la materia di un conflitto di attribuzione tra poteri  dello  Stato
la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte.