ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'articolo  5,
comma  2,  della  legge   7   marzo   1986,   n.   65   (Legge-quadro
sull'ordinamento della polizia municipale),  promosso  dal  Tribunale
amministrativo regionale per la Sicilia nel procedimento vertente tra
Collana Carmelo e l'Ufficio Territoriale del Governo di Agrigento  ed
altri, con ordinanza del 7  aprile  2011,  iscritta  al  n.  168  del
registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2011. 
    Visto l'atto di costituzione di Collana Carmelo nonche' l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  19  giugno  2012  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo; 
    uditi l'avvocato Paolo Accardo per Collana Carmelo  e  l'avvocato
dello Stato Maria Elena Scaramucci per il  Presidente  del  Consiglio
dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata  il  7  aprile  2011,  il  Tribunale
amministrativo regionale per la Sicilia ha sollevato, in  riferimento
agli  articoli  3,  97  e  117,  secondo  comma,  lettera  h),  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'articolo
5,  comma  2,  della  legge  7  marzo  1986,  n.   65   (Legge-quadro
sull'ordinamento della polizia municipale). 
    Il giudice a quo premette che  nel  marzo  2005  il  Sindaco  del
Comune di Canicatti'  aveva  chiesto  al  Prefetto  di  Agrigento  di
conferire la qualifica di agente  di  pubblica  sicurezza,  ai  sensi
della norma denunciata, a diciassette dipendenti comunali, assunti da
detto Comune con la qualifica di vigile urbano. Con provvedimento del
21 agosto 2006 il prefetto aveva respinto la richiesta in rapporto ad
uno di detti  dipendenti,  sulla  base  di  una  duplice  valutazione
negativa: la prima relativa al suo  «ambito  parentale»  (essendo  il
padre e lo zio  sospettati  di  appartenenza  ad  una  organizzazione
mafiosa ed essendo  stato  il  fratello  condannato  per  spaccio  di
sostanze stupefacenti,  anche  se  successivamente  riabilitato);  la
seconda concernente la condotta dello stesso interessato (il quale si
accompagnerebbe con soggetti dediti al  consumo  e  allo  spaccio  di
sostanze stupefacenti e appartenenti alla  criminalita',  sia  comune
che organizzata). 
    Il  provvedimento  era  stato  impugnato  innanzi  al   Tribunale
rimettente dal vigile urbano interessato, il quale aveva lamentato  -
in aggiunta ad altri motivi - che il diniego  risultasse  fondato  su
ragioni   esorbitanti   dall'ambito   delle    valutazioni    rimesse
all'autorita' prefettizia dalla disposizione censurata. 
    Ad avviso del giudice a quo,  in  relazione  a  tale  motivo,  il
ricorso dovrebbe essere accolto. L'art. 5, comma 2, della legge n. 65
del  1986  prevede,  infatti,  che  il  prefetto  conferisca,  previa
comunicazione  del  sindaco,  la  qualita'  di  agente  di   pubblica
sicurezza al personale che svolge il servizio di polizia  municipale,
dopo aver accertato che gli interessati  siano  in  possesso  di  tre
requisiti: «a) godimento dei diritti civili e politici; b)  non  aver
subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere
stato sottoposto a misura di prevenzione; c) non essere stato espulso
dalle Forze armate o dai Corpi militarmente organizzati o  destituito
dai pubblici uffici». Alla luce di  una  consolidata  interpretazione
giurisprudenziale,   qualificabile   come   «diritto   vivente»,   il
conferimento della  qualita'  di  agente  di  pubblica  sicurezza  al
personale  in  questione  costituirebbe  atto  vincolato,  privo   di
qualsiasi margine di  discrezionalita',  rimanendo  subordinato  alla
sola verifica dei  requisiti  tassativamente  indicati  dalla  norma,
senza alcuna possibilita' di estensione del sindacato  dell'autorita'
prefettizia  alla  «posizione  familiare»  e  al  comportamento   del
soggetto interessato. 
    Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimita' costituzionale
di tale assetto, rilevando come esso appaia «largamente  distonic[o]»
rispetto  alla  disciplina  intesa  a  contrastare  le  infiltrazioni
mafiose nei contratti pubblici, contenuta nella legge 31 maggio 1965,
n. 575 (Disposizioni  contro  le  organizzazioni  criminali  di  tipo
mafioso, anche straniere), nel decreto legislativo 8 agosto 1994,  n.
490 (Disposizioni attuative della legge 17 gennaio 1994,  n.  47,  in
materia di comunicazioni e certificazioni  previste  dalla  normativa
antimafia nonche' disposizioni concernenti i poteri del  prefetto  in
materia di contrasto alla criminalita' organizzata) e nel decreto del
Presidente della  Repubblica  3  giugno  1998,  n.  252  (Regolamento
recante norme per la semplificazione  dei  procedimenti  relativi  al
rilascio delle comunicazioni e  delle  informazioni  antimafia).  Del
tutto illogico risulterebbe, in specie, che  un  quadro  parentale  e
comportamentale   che,   attraverso   la   cosiddetta    «informativa
prefettizia atipica», impedisce a un soggetto di divenire parte di un
contratto di appalto o di fornitura con una pubblica amministrazione,
debba essere ritenuto irrilevante  ai  fini  del  conferimento  della
qualifica di agente di pubblica sicurezza. 
    Il dubbio di legittimita'  costituzionale  non  sarebbe,  d'altra
parte, fugato dalla considerazione addotta - secondo il giudice a quo
- nelle pronunce giurisprudenziali espressive del «diritto  vivente»,
per spiegare l'avvenuta previsione, da parte della norma  denunciata,
in assunto chiaramente «troppo ristretta», di una serie di requisiti:
e, cioe', che il requisito della «buona condotta», previsto dall'art.
11 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione  del  testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza), sarebbe gia' stato vagliato
dall'amministrazione comunale all'atto dell'assunzione del dipendente
che aspira all'ottenimento della qualifica di cui si discute. 
    La verifica della «buona condotta» si  tradurrebbe,  infatti,  in
una valutazione diversa e meno ampia di quella effettuata nel caso di
specie dall'autorita' prefettizia, in una  prospettiva  di  contrasto
della  criminalita'   comune   ed   organizzata.   Per   ragioni   di
«corrispondenza» con la riserva allo Stato della potesta' legislativa
in materia di tutela dell'ordine pubblico  e  della  sicurezza  (art.
117, secondo comma, lettera h, Cost.), la  valutazione  in  questione
dovrebbe essere, in ogni caso, demandata alle autorita' governative a
cio' specificamente preposte, e non gia' alle autonomie locali. 
    In questa prospettiva, la  norma  censurata  violerebbe,  quindi,
l'art. 3 Cost., assegnando al giudizio degli enti locali, non forniti
delle necessarie competenze e informazioni, una  illogica  prevalenza
rispetto alle valutazioni operate dagli organi  governativi  deputati
alla tutela della pubblica sicurezza: con correlata lesione anche del
riparto di attribuzioni prefigurato  dal  citato  art.  117,  secondo
comma, lettera h), Cost. 
    La disposizione denunciata si porrebbe,  altresi',  in  contrasto
con il  principio  del  buon  andamento  e  dell'imparzialita'  della
pubblica  amministrazione  (art.  97   Cost.),   rendendo   possibile
l'assegnazione della qualifica di  agente  di  pubblica  sicurezza  a
soggetti inidonei all'espletamento delle relative funzioni. 
    L'art. 3 Cost. risulterebbe leso, infine, anche sotto l'ulteriore
profilo della «irragionevolezza intrinseca» di un sistema che, da  un
lato, in rapporto ai  contratti  pubblici,  prevede  tutele  avanzate
rispetto  a  fenomeni  di  infiltrazione  mafiosa  o,  comunque,   di
«vicinanza»  del  contraente  privato  alla  criminalita'  comune  ed
organizzata;  e,  dall'altro,  consente  invece   l'inserimento   nel
comparto della  pubblica  sicurezza  di  soggetti  che  le  autorita'
preposte al settore hanno ritenuto privi delle qualita' necessarie. 
    2.- Si e' costituito il ricorrente nel giudizio a quo,  il  quale
ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente infondata. 
    Ad avviso della parte privata, le fattispecie poste  a  confronto
dall'ordinanza di rimessione risulterebbero  palesemente  eterogenee,
con  conseguente  inidoneita'  del  confronto  stesso  a   dimostrare
l'illegittimita' costituzionale della disciplina  censurata.  Mentre,
infatti, le disposizioni in  materia  di  infiltrazioni  mafiose  nei
contratti pubblici sarebbero volte ad assicurare,  tramite  i  poteri
demandati  all'autorita'  prefettizia,  una  rigorosa  selezione  del
contraente nel libero mercato, al  fine  di  impedire  che  l'impresa
collusa  con  la  criminalita'   organizzata   possa   avvantaggiarsi
economicamente   attraverso   il    rapporto    con    la    pubblica
amministrazione; la disposizione oggetto  dell'odierno  incidente  di
costituzionalita' attiene, invece, all'attribuzione  della  qualifica
di agente di pubblica  sicurezza  ad  un  soggetto  gia'  stabilmente
inserito nell'organico  della  pubblica  amministrazione,  a  seguito
dell'espletamento di un concorso pubblico. 
    Al di la' di cio',  i  motivi  sui  quali  si  basa  il  giudizio
negativo formulato, nel caso di  specie,  dall'autorita'  prefettizia
risulterebbero  inidonei  a  supportare  tanto  il  provvedimento  di
diniego impugnato che le censure di legittimita'  costituzionale  del
Tribunale rimettente. 
    Quanto, infatti, alla valutazione negativa inerente al  «contesto
parentale» del ricorrente, si dovrebbe senz'altro escludere che, alla
luce dei principi costituzionali, il conferimento di una  particolare
qualifica nell'ambito del pubblico impiego - e, in specie, quella  di
agente di pubblica sicurezza - possa rimanere inibita in ragione  del
mero rapporto di parentela dell'interessato con  soggetti  condannati
per determinati delitti o sospettati di averli  commessi,  ovvero  in
qualche modo  legati  alla  criminalita'  comune  od  organizzata  (o
sospettati di esserlo). 
    Con la sentenza n. 391  del  2000,  la  Corte  costituzionale  ha
dichiarato, infatti, costituzionalmente  illegittime,  per  contrasto
con gli artt. 3 e 51  Cost.,  le  disposizioni  che  escludevano  dai
concorsi per l'accesso alla magistratura ordinaria  e  ai  ruoli  del
personale del Corpo della polizia penitenziaria coloro i cui parenti,
in linea retta entro il primo grado ed in linea collaterale entro  il
secondo, avessero riportato  condanna  per  determinati  delitti  non
colposi. Nell'occasione, la Corte ha  rilevato  come  sia  arbitrario
prendere in considerazione condotte criminose di soggetti diversi dal
candidato per desumerne incontestabilmente l'inidoneita' del medesimo
a ricoprire l'ufficio pubblico cui aspira: venendosi, in tal modo,  a
perpetuare  quella  presunzione  legislativa  connessa  al  requisito
dell'«appartenenza a famiglia di estimazione morale indiscussa», gia'
in precedenza previsto ai  fini  dell'ammissione  ai  concorsi  della
magistratura ordinaria, la cui palese arbitrarieta' aveva indotto  la
Corte stessa a ravvisarvi - con la sentenza n. 108  del  1994  -  una
irragionevole limitazione all'accesso ai pubblici uffici. 
    Se tali considerazioni valgono  per  l'accesso  nei  ruoli  della
magistratura o  nelle  Forze  di  polizia  -  alle  quali  ultime  e'
automaticamente connessa l'attribuzione della qualifica di agente  di
pubblica sicurezza - a maggior ragione esse dovrebbero valere  per  i
dipendenti degli Enti locali che, dopo aver regolarmente superato  un
concorso pubblico, aspirino ad espletare in modo compiuto le funzioni
per le quali sono stati selezionati, anche attraverso il conferimento
della qualifica di agente di pubblica sicurezza. 
    Quanto, poi, all'asserita necessita' della valutazione, da  parte
del prefetto, del comportamento tenuto dallo stesso aspirante,  detta
valutazione, da un lato, si risolverebbe in una inutile  duplicazione
del  controllo  gia'  effettuato  in  sede  di  accesso   all'impiego
pubblico; dall'altro, comporterebbe l'assoggettamento  del  personale
che svolge il servizio di polizia municipale  ad  una  verifica  piu'
rigorosa rispetto a quella prevista per gli appartenenti  alle  Forze
di polizia: assetto, questo, del tutto  irrazionale,  specie  ove  si
consideri che, ai sensi della stessa legge n. 65 del 1986,  i  vigili
urbani che abbiano acquisito  la  qualifica  di  agente  di  pubblica
sicurezza sono chiamati a svolgere  funzioni  di  pubblica  sicurezza
meramente ausiliarie. 
    3.- E' intervenuto, altresi', il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  il  quale  ha  chiesto  che  la  questione  venga  dichiarata
inammissibile o infondata. 
    Ad  avviso  della  difesa  dello  Stato,  la  questione   sarebbe
inammissibile, in quanto sollevata, non  per  dirimere  un  effettivo
dubbio di legittimita' costituzionale, ma per conseguire un improprio
avallo interpretativo. In base ad un indirizzo, seppure  minoritario,
della giurisprudenza amministrativa, la sospensione e la revoca della
qualita' di agente di pubblica sicurezza potrebbero essere,  infatti,
disposte dal prefetto, non solo nelle ipotesi in cui venga  meno  uno
dei requisiti previsti dalla norma censurata, ma anche nell'esercizio
degli ordinari poteri a lui spettanti  in  materia  di  provvedimenti
autorizzativi ed abilitativi in base al testo unico  delle  leggi  di
pubblica sicurezza. In questa prospettiva, il provvedimento impugnato
sarebbe legittimo, perche' fondato su fatti  rilevanti  ai  fini  del
requisito  di  affidabilita'  soggettiva,  desumibile  analogicamente
dagli artt. 10 e 11 del r.d. n. 773 del 1931. 
    Il giudice a quo non avrebbe tenuto  conto,  in  ogni  caso,  del
fatto che la qualita' di agente di pubblica sicurezza,  eventualmente
conferita  al  personale  della  polizia  municipale,   e'   limitata
all'esercizio di funzioni ausiliarie (art. 5 della legge  n.  65  del
1986) e specificamente di collaborazione  con  le  Forze  di  polizia
dello Stato, «previa disposizione del sindaco, quando ne venga fatta,
per  specifiche  operazioni,  motivata  richiesta  dalle   competenti
autorita'» (art. 3 della medesima legge). 
    La tutela dell'ordine  pubblico  e  della  sicurezza  resterebbe,
dunque, riservata allo Stato, dal momento che,  nell'esercizio  delle
funzioni  in  questione,   il   personale   di   polizia   municipale
dipenderebbe operativamente dalla competente autorita' giudiziaria  o
di pubblica sicurezza,  nel  rispetto  di  eventuali  intese  con  il
sindaco. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale  amministrativo  regionale  per  la  Sicilia  ha
sollevato, in riferimento agli articoli 3, 97 e 117,  secondo  comma,
lettera   h),   della   Costituzione,   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'articolo 5, comma 2, della legge 7 marzo 1986, n.
65 (Legge-quadro sull'ordinamento della polizia municipale). 
    La disposizione censurata prevede che il prefetto  conferisca  al
personale che  svolge  il  servizio  di  polizia  municipale,  previa
comunicazione  del  sindaco,  la  qualita'  di  agente  di   pubblica
sicurezza, dopo aver accertato che  l'interessato  goda  dei  diritti
civili e politici, che non abbia subito condanna a pena detentiva per
delitto non colposo o che  non  sia  stato  sottoposto  a  misura  di
prevenzione e, infine, che non sia stato espulso dalle Forze armate o
dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici uffici. 
    Il giudice a quo muove  dalla  premessa  che,  alla  luce  di  un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, qualificabile come  «diritto
vivente», il  conferimento  della  qualita'  di  agente  di  pubblica
sicurezza al  personale  in  questione  costituisce  atto  vincolato,
rimanendo subordinato alla sola verifica dei requisiti tassativamente
indicati dalla norma, senza, dunque, che il  sindacato  del  prefetto
possa  estendersi  -   in   una   prospettiva   di   prevenzione   di
«infiltrazioni  mafiose»  o  di  soggetti  comunque   «vicini»   alla
criminalita' organizzata o comune - anche alla «posizione  familiare»
e alla piu' generale condotta dell'interessato. Regime, questo, che -
secondo il rimettente - sarebbe  stato  giustificato  dalle  pronunce
giurisprudenziali   espressive   del   «diritto   vivente»   con   la
considerazione che, nell'ipotesi in questione,  la  «buona  condotta»
dell'aspirante  sarebbe  gia'  stata  vagliata   dall'amministrazione
municipale di appartenenza, in occasione della sua assunzione. 
    Cio' posto, il rimettente ritiene  che  la  norma  denunciata  si
ponga in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.),
sotto un duplice profilo. In primo luogo,  perche'  attribuirebbe  al
giudizio  dell'ente  locale,  privo  delle  necessarie  competenze  e
informazioni, una illogica prevalenza rispetto alle valutazioni degli
organi governativi specificamente deputati alla tutela della pubblica
sicurezza. In  secondo  luogo,  per  l'incongruenza  complessiva  del
sistema, che, da un lato, in materia di contratti  pubblici,  prevede
forme avanzate  di  tutela  rispetto  al  pericolo  di  infiltrazioni
mafiose o, comunque, di soggetti «vicini» alla criminalita' comune od
organizzata, e, dall'altro, consente l'ingresso  nel  comparto  della
pubblica sicurezza di soggetti che le autorita' preposte  al  settore
ritengono privi delle necessarie qualita'. 
    Sarebbe violato, inoltre, l'art. 117, secondo comma, lettera  h),
Cost., giacche' la riserva allo Stato della potesta'  legislativa  in
materia di ordine pubblico e sicurezza implicherebbe che,  a  livello
amministrativo, la  valutazione  circa  l'idoneita'  all'espletamento
delle  funzioni  di  agente  di  pubblica  sicurezza  debba  rimanere
riservata alle autorita' governative, senza  poter  essere  demandata
alle autonomie locali. 
    La norma censurata violerebbe, da ultimo, il  principio  di  buon
andamento e di imparzialita' della pubblica amministrazione (art.  97
Cost.), rendendo possibile l'inserimento tra gli agenti  di  pubblica
sicurezza di soggetti da ritenere inidonei. 
    2.- La questione e' inammissibile. 
    Benche'  il  dispositivo  dell'ordinanza  di  rimessione  risulti
apparentemente formulato in termini di richiesta di ablazione "secca"
della norma denunciata,  dal  tenore  complessivo  della  motivazione
risulta evidente come il Tribunale rimettente  miri,  in  realta',  a
conseguire  una  pronuncia  manipolativa  che  ampli   l'ambito   del
sindacato rimesso al prefetto in sede di attribuzione della qualifica
di agente di pubblica sicurezza al personale che svolge  il  servizio
di polizia municipale, in una prospettiva di contrasto  dei  pericoli
di infiltrazione della «criminalita' comune ed organizzata». 
    Il giudice  a  quo  omette,  tuttavia,  di  individuare  in  modo
puntuale ed univoco quale tipo  di  intervento  dovrebbe  essere,  in
concreto,  operato  da  questa  Corte,  ai  fini  del   conseguimento
dell'indicato obiettivo. 
    Non e'  chiaro,  in  particolare,  se  il  rimettente  chieda  di
estendere  alla  fattispecie  considerata  la  disciplina  intesa   a
prevenire infiltrazioni mafiose nei contratti  pubblici,  alla  quale
viene fatto preliminare riferimento al fine di dimostrare  l'asserita
irrazionalita'  della  norma  censurata:  disciplina   che   risulta,
peraltro, evocata in modo del tutto generico, tramite il richiamo  ad
interi corpi  normativi  e  senza  una  specifica  indicazione  delle
disposizioni che dovrebbero formare oggetto dell'ipotetico intervento
estensivo. Cio', a prescindere dall'inidoneita' di tale disciplina  a
fungere da tertium comparationis, per la palese  eterogeneita'  della
situazione da essa regolata  (attinente  alla  posizione  di  imprese
operanti nel mercato che intendono  intrattenere  rapporti  economici
con le pubbliche amministrazioni) rispetto a quella che qui viene  in
rilievo (riguardante l'acquisizione  della  qualifica  di  agente  di
pubblica sicurezza da parte di persone fisiche gia'  alle  dipendenze
di un'amministrazione municipale, in veste di vigili urbani). 
    Il tenore complessivo delle doglianze non consente, in ogni caso,
di comprendere se  il  giudice  a  quo  abbia  avuto  di  mira  altre
alternative,  in  luogo  di  quella  dianzi  ipotizzata,   quale   il
riconoscimento al  prefetto  di  un  generico  potere  discrezionale,
ovvero di una autonoma potesta' di diniego della qualifica, basata  -
come in fatto e' avvenuto nel caso oggetto del giudizio principale  -
sulla valutazione della condotta dell'interessato e dei suoi rapporti
di parentela con soggetti appartenenti o «vicini»  alla  criminalita'
organizzata e comune: intervento che, peraltro -  per  la  pluralita'
delle soluzioni  astrattamente  praticabili  -  implicherebbe  scelte
discrezionali, chiaramente eccedenti i poteri di questa Corte.  Tutto
cio', a prescindere dalla considerazione che l'intervento considerato
si porrebbe  in  controtendenza  rispetto  all'evoluzione  normativa,
nella parte in cui condizionasse  il  provvedimento  positivo  ad  un
generico apprezzamento della «buona condotta» dell'interessato (legge
29 ottobre 1984, n. 732, recante «Eliminazione  del  requisito  della
buona condotta ai  fini  dell'accesso  agli  impieghi  pubblici»),  e
colliderebbe con i principi affermati da questa Corte, nella parte in
cui  facesse  derivare  l'inidoneita'  dell'aspirante   da   condotte
ascrivibili a soggetti diversi, ancorche' a lui legati da vincoli  di
parentela (sentenze n. 319 del 2000 e n. 108 del 1994). 
    3.- Alla luce della  costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,
l'indeterminatezza   ed    ambiguita'    del    petitum    comportano
l'inammissibilita' della questione (ex plurimis, sentenze n. 186 e n.
117 del 2011; ordinanze n. 335 e n. 260 del 2011). 
    L'ulteriore   eccezione   di   inammissibilita'   sollevata   dal
Presidente del Consiglio dei ministri resta assorbita.