ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 1385, secondo comma, del codice civile, promosso dal Tribunale ordinario di Tivoli nel procedimento vertente tra P. S. ed altro e C. C. ed altro, con ordinanza del 10 ottobre 2012, iscritta al n. 2 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 2013. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 25 settembre 2013 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli. Ritenuto che - in un giudizio civile promosso per ottenere la restituzione di somma che gli attori assumevano versata come anticipo (in misura di circa un terzo del pattuito) per l'acquisto di un immobile, che non aveva poi potuto, pero', aver luogo per la mancata erogazione, ad essi, di un mutuo bancario destinato a coprire il residuo prezzo - l'adito Tribunale ordinario di Tivoli, premesso che nel preliminare di vendita, l'importo corrisposto dai promissari acquirenti, era stato testualmente qualificato come "caparra confirmatoria", ha sollevato d'ufficio, con l'ordinanza in epigrafe, questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 1385, secondo comma, del codice civile, «nella parte in cui non dispone che - nelle ipotesi in cui la parte che ha dato la caparra e' inadempiente, l'altra puo' recedere dal contratto, ritenendo la caparra e nella ipotesi in cui, se inadempiente e' invece la parte che l'ha ricevuta, l'altra puo' recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra - il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o ove [...] sussistano giustificati motivi»; che, ad avviso del rimettente, si prospetta, nella specie, una esigenza di bilanciata tutela del diritto della parte non inadempiente (cioe' del venditore), a percepire la caparra, e dell'opposto interesse di quella inadempiente (cioe' del promissario acquirente) a non perdere un capitale notevole, ed eccessivo nella sua quantificazione, a fronte di un (proprio) inadempimento che, «seppur colposo, certamente non e' stato voluto e rispetto al quale si e' adoperato in ogni modo per trovare una soluzione»; che, pero', l'automatismo della disciplina recata dalla disposizione denunciata non lascerebbe spazio al giudice per alcun rimedio ripristinatorio dell'equita' oggettiva e del complessivo equilibrio contrattuale; dal che il dubbio, appunto, della sua "irragionevolezza"; che e' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilita' della questione, per omessa espressa indicazione dei parametri costituzionali violati; e, in subordine, per la sua non fondatezza. Considerato che, dal contesto dell'ordinanza di rimessione, e' chiaramente individuabile, nell'articolo 3, secondo comma, della Costituzione, il parametro rispetto al quale il giudice a quo sollecita la verifica di costituzionalita' della disciplina della caparra confirmatoria, per sospetta sua «intrinseca incoerenza [...] rispetto alla complessiva finalita' perseguita dal legislatore», per cui non risulta fondata l'eccezione di inammissibilita' come sopra formulata dall'Avvocatura; che la questione in esame e', pero', comunque, manifestamente inammissibile per difetto di motivazione, in punto sia di non manifesta infondatezza che di rilevanza; che, infatti, per il primo profilo, nel presupporre un oggettivo ed insuperabile automatismo tra l'inadempimento del tradens e la ritenzione della caparra confirmatoria da parte dell'accipiens (e, specularmente, tra l'inadempimento dell'accipiens e il diritto della controparte ad esigerne il doppio), il rimettente omette di considerare che cio' che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall'articolo 1385 del codice civile, e' comunque un inadempimento «gravemente colpevole, [...] cioe' imputabile (ex art. 1218 c.c. e art. 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456 c.c.)», come ben posto in evidenza nella sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 533 del 2009; che, in punto poi di rilevanza, il Tribunale rimettente, per un verso, trascura di indagare compiutamente la reale portata dei patti conclusi dalle parti contrattuali, cosi' da poter esprimere un necessario coerente giudizio di corrispondenza del nomen iuris rispetto all'effettiva funzione della caparra confirmatoria; per altro verso, non tiene conto dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come, nella specie, egli prospetta) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E cio' in ragione della rilevabilita', ex officio, della nullita' (totale o parziale) ex articolo 1418 cod. civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell'articolo 2 Cost., (per il profilo dell'adempimento dei doveri inderogabili di solidarieta') che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, «funzionalizzando cosi' il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell'interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l'interesse proprio dell'obbligato» (Corte di cassazione n. 10511 del 1999; ma gia' n. 3775 del 1994 e, in prosieguo, a sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.