ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'articolo  28,
comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una
famiglia), promosso dal Tribunale per i minorenni di  Catanzaro,  sul
ricorso proposto da R.  M.,  con  ordinanza  del  13  dicembre  2012,
iscritta al n. 43 del registro  ordinanze  2013  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  11,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 9  ottobre  2013  il  Giudice
relatore Paolo Grossi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il  Tribunale  per  i  minorenni  di  Catanzaro  solleva,  in
riferimento agli  articoli  2,  3,  32  e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art.  28,
comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una
famiglia), come  sostituito  dall'art.  177,  comma  2,  del  decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia  di  protezione
dei dati personali), «nella parte in cui esclude la  possibilita'  di
autorizzare la persona adottata all'accesso alle  informazioni  sulle
origini senza  avere  previamente  verificato  la  persistenza  della
volonta'  di  non  volere  essere  nominata  da  parte  della   madre
biologica». 
    Premette il giudice a quo che una donna, nata nel 1963 e adottata
nel 1969, esponeva di essere venuta a conoscenza della  sua  adozione
soltanto in occasione della procedura di separazione e  divorzio  dal
marito e che la ignoranza delle sue origini le aveva  cagionato  vari
condizionamenti anche di ordine sanitario, limitando le  possibilita'
di  diagnosi  e  cura  per  patologie  (nodulo  al  seno  e  disturbi
ricollegabili forse ad una menopausa precoce)  che  avrebbero  dovuto
comportare una anamnesi di tipo familiare. Soggiungeva la istante che
non era animata da spirito  di  rivendicazione  nei  confronti  della
madre biologica, la quale  avrebbe  potuto  ricevere  conforto  dalla
conoscenza della figlia, «cosi' chiudendo un conto con  il  passato».
Da  qui,  la  richiesta  di  conoscere  le  generalita'  della  madre
naturale. Il pubblico ministero aveva espresso parere favorevole,  ma
il Tribunale rilevava che, a fronte della  possibilita'  riconosciuta
all'adottato che abbia compiuto i 25 anni di accedere ad informazioni
riguardanti i propri genitori biologici,  previa  autorizzazione  del
Tribunale per i minorenni, tale possibilita' era invece esclusa dalla
disposizione  oggetto  di  impugnativa,  ove   le   informazioni   si
riferiscano alla madre che abbia dichiarato alla nascita - come nella
specie - di non voler essere nominata, ai sensi dell'art.  30,  comma
1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e
la semplificazione  dell'ordinamento  dello  stato  civile,  a  norma
dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127). 
    A proposito della violazione  dell'art.  2  Cost.,  il  Tribunale
osserva come la  conoscenza  delle  proprie  origini  rappresenti  un
presupposto indefettibile per l'identita' personale dell'adottato, la
quale integra un diritto fondamentale, che viene  tutelato  sotto  il
profilo della  immagine  sociale  della  persona;  vale  a  dire,  di
quell'insieme di valori rilevanti nella rappresentazione che di  essa
viene data  nella  vita  di  relazione.  Il  diritto  alla  identita'
personale ed alla ricerca delle proprie radici e' salvaguardato dagli
artt. 7 e 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a  New
York il 20 novembre 1989, resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991,
n. 176 - che assicurano, appunto, il relativo diritto a  conoscere  i
propri genitori ed  a  preservare  la  propria  identita'  -  nonche'
dall'art. 30  della  Convenzione  per  la  tutela  dei  minori  e  la
cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L'Aja  il
29 maggio 1993, resa esecutiva con la legge 31 dicembre 1998, n. 476,
la quale impone agli  Stati  aderenti  di  assicurare  l'accesso  del
minore o del suo rappresentante alle informazioni relative  alle  sue
origini, fra le quali, in particolare, quelle relative  all'identita'
dei propri genitori. Il diritto all'identita' e' stato poi di recente
riaffermato  e  puntualizzato  dalla  Corte   europea   dei   diritti
dell'uomo, nella sentenza Godelli  contro  Italia  del  25  settembre
2012, ove si e' affermato che, nel  perimetro  della  tutela  offerta
dall'art.  8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto  1955,  n.  848,  rientra
anche  la  possibilita'  di  «disporre  dei  dettagli  sulla  propria
identita' di  essere  umano  e  l'interesse  vitale,  protetto  dalla
Convenzione ad ottenere informazioni necessarie alla  scoperta  della
verita' concernente un aspetto  importante  della  propria  identita'
personale, ad esempio l'identita' dei genitori». 
    Il diritto a conoscere le proprie origini  contribuisce,  dunque,
in maniera determinante a delineare  la  personalita'  di  un  essere
umano e rientra, quindi, nell'ambito dei principi tutelati  dall'art.
2 Cost., che nella specie risulterebbero violati: negare, infatti,  a
priori  l'autorizzazione  all'accesso  alle  notizie  sulle   proprie
origini, in ragione del fatto che il genitore abbia dichiarato di non
voler essere nominato, compromette il diritto all'identita' personale
dell'adottato. 
    D'altra parte - sottolinea il  giudice  a  quo  -  a  fronte  del
diritto all'anonimato, basterebbe prevedere che,  in  presenza  della
richiesta del figlio, la madre fosse posta in condizione di  ribadire
o meno la scelta fatta molti anni prima, non senza sottolineare  come
il mutamento del costume sociale non faccia piu'  percepire  come  un
disonore  la  nascita  di  un  figlio  fuori  del  matrimonio.   Tale
possibilita', inoltre, non presenterebbe "pericoli" maggiori  neppure
per la famiglia adottiva, tenuto  conto  delle  possibilita'  offerte
all'adottato dai commi 5 e 6 dell'art. 28 in discorso. La logica  che
ne ha informato la novellazione, d'altra  parte,  pare  essere  tutta
orientata verso il  recepimento  dei  dati  scientifici,  convergenti
nell'assegnare importanza  alla  conoscenza  delle  proprie  origini;
sicche', la disposizione dettata dal comma  7,  oggetto  di  censura,
rischierebbe di «precludere irrazionalmente, nella maggior parte  dei
casi, cio' che voleva consentire». 
    La  disposizione  oggetto  di  impugnativa  violerebbe  anche  il
principio di uguaglianza, trattando in modo diverso l'adottato la cui
madre non abbia dichiarato alcunche' e  quello  la  cui  madre  abbia
dichiarato  di  non  voler   essere   nominata,   senza   considerare
l'eventualita' che possa aver cambiato idea  e  lei  stessa  desideri
avere notizie del figlio.  Nella  specie,  sussisterebbero  interessi
contrapposti: da un lato, quello dell'adottato a conoscere le proprie
origini,  quale  espressione  del  diritto  alla  propria   identita'
personale; dall'altro,  le  esigenze  di  protezione  della  famiglia
adottiva  e  quello  all'anonimato  della  famiglia  naturale,  quale
ulteriore garanzia per  la  famiglia  adottiva.  La  norma  impugnata
avrebbe  privilegiato   esclusivamente   l'interesse   del   genitore
all'anonimato, senza controllarne l'attualita', sacrificando sempre e
comunque l'interesse dell'adottato, in  ipotesi  anche  a  fronte  di
gravi esigenze attinenti alla sua salute psico-fisica. 
    Infine, la disposizione in  questione,  operando  solo  a  tutela
dell'anonimato, discriminerebbe irragionevolmente  gli  adottati,  in
quanto diversamente dal caso  di  genitori  naturali  che  non  hanno
dichiarato di non voler essere nominati - e che possono  in  concreto
essersi opposti all'adozione, cosi' da  rappresentare  un  potenziale
pericolo per  la  famiglia  adottiva  -  un  simile  rischio  non  e'
rappresentato dal genitore  il  quale  abbia  richiesto  l'anonimato.
L'impossibilita'  di  accertare,  poi,  se  la  madre  abbia   mutato
orientamento circa l'anonimato costituirebbe violazione del principio
di uguaglianza,  giacche'  «accertato  il  superamento  del  rapporto
conflittuale fra il  diritto  dell'adottato  alla  propria  identita'
personale e  quello  della  madre  naturale  al  rispetto  della  sua
volonta' di anonimato»,  la  diversita'  di  disciplina  fra  le  due
ipotesi sarebbe ingiustificata. 
    Risulterebbe  compromesso  anche  l'art.  32  Cost.,  in   quanto
l'impedimento alla conoscenza dei dati inerenti alla  madre  naturale
priverebbe l'adottato  di  qualsiasi  possibilita'  di  ottenere  una
anamnesi familiare, essenziale per  interventi  di  profilassi  o  di
accertamenti diagnostici, essendo gia' egli privo di notizie circa la
storia sanitaria del ramo paterno  del  proprio  albero  genealogico.
Cio', peraltro, in costanza  della  prassi,  diffusa  negli  ospedali
italiani,  di  omettere  la  stessa  ordinaria  raccolta   dei   dati
anamnestici non identificativi della madre. 
    Sussisterebbe, infine, violazione  dell'art.  117,  primo  comma,
Cost., in riferimento all'art. 8 della CEDU,  per  come  interpretato
dalla Corte di Strasburgo nella gia'  richiamata  sentenza  nel  caso
Godelli contro Italia, la quale ha ritenuto che la normativa italiana
in materia violi  l'art.  8  della  Convenzione,  non  essendo  stati
bilanciati fra loro gli interessi delle parti  contrapposte,  in  tal
modo eccedendo dal margine di valutazione riconosciuto  alla  stregua
del principio convenzionale. 
    Sottolinea il giudice a quo, rammentando la giurisprudenza  della
Corte costituzionale in tema di interpretazione adeguatrice,  che  la
Corte europea non ha considerato che la normativa nazionale (art.  93
del d.lgs. n. 196 del 2003), da un lato, consente l'acquisizione  dei
dati relativi alla nascita  trascorsi  cento  anni  dalla  formazione
della cartella clinica o del certificato di assistenza  al  parto  e,
dall'altro, riconosce la possibilita' di  ottenere  informazioni  non
identificative della madre. 
    Tuttavia - soggiunge il Giudice rimettente - la Corte europea  ha
censurato la normativa italiana in  rapporto  a  circostanze  diverse
rispetto all'accesso alle informazioni non identificative,  le  quali
ultime, peraltro, restano disciplinate in modo confuso, al  punto  da
aver   generato   prassi   applicative   assai   differenziate.    La
reversibilita' del segreto, introdotta dalla legislazione francese  -
che ha passato immune, nel caso Odievre, il controllo della Corte  di
Strasburgo  -,  costituirebbe   un   passo   in   avanti   verso   il
soddisfacimento dell'esigenza di conoscenza  delle  proprie  origini,
valutato  come  elemento  fondamentale  per  la   costruzione   della
personalita'   dai   nuovi   approdi   della   scienza   psicologica.
Risulterebbe   poi   contestabile   l'assunto   che    la    garanzia
dell'anonimato preserverebbe dal rischio di "decisioni  irreparabili"
della donna, tenuto conto  dei  dati  statistici  sugli  infanticidi.
Inoltre, il parto  in  anonimato  sarebbe  tra  le  prime  cause  che
favoriscono  alterazioni  di  stato,  tanto  da   aver   indotto   il
legislatore a  predisporre  rimedi  in  prevenzione,  secondo  quanto
stabilito dall'art. 74 della legge n. 184 del 1983. 
    In punto di rilevanza, infine, il Tribunale sottolinea che, nella
specie,  la  madre  biologica  ha  dichiarato  di  non  voler  essere
nominata, con la  conseguenza  che  e'  precluso  anche  il  semplice
interpello della donna:  il  che  confermerebbe  la  rilevanza  della
questione, giacche' -  come  gia'  detto  -  la  ricorrente  vedrebbe
frustrata la sua aspirazione di conoscenza delle  proprie  origini  e
insoddisfatte le esigenze di salute connesse alla  impossibilita'  di
ottenere una ordinaria anamnesi familiare. 
    Non   sussisterebbe,   poi,   possibilita'   di   procedere    ad
interpretazioni della norma interna tali  da  escludere  l'intervento
del Giudice delle leggi, a nulla valendo,  anche  per  le  incertezze
normative, il ricorso ad elementi non identificativi. D'altra  parte,
«sia  emettendo  un  provvedimento  che  respingesse  la  domanda  di
accesso,  ovvero  autorizzasse  almeno  la  conoscenza  di  dati  non
identificativi, di fatto neppure esistenti perche' mai  raccolti  e/o
conservati, la soluzione non soddisferebbe la decisione della CEDU». 
    2.- Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata  manifestamente
infondata. 
    La difesa erariale segnala come  il  Tribunale  rimettente  abbia
trascurato, salvo un breve passaggio, di considerare che la questione
e' gia' stata dichiarata non fondata dalla Corte con la  sentenza  n.
425 del 2005, in riferimento proprio agli artt.  2,  3  e  32  Cost.,
rievocando la storia del quadro normativo e ponendo in luce la  ratio
della disciplina censurata («da un  lato,  assicurare  che  il  parto
avvenga in condizioni ottimali e, dall'altro, distogliere la donna da
decisioni irreparabili»), che, pure, il giudice a quo  ha  richiamato
per disattenderne la concludenza. Del pari, la Corte ebbe a escludere
la violazione del principio di uguaglianza, tra  figlio  adottato  la
cui madre abbia dichiarato di non  voler  essere  nominata  e  figlio
adottato i cui genitori non abbiano reso  tale  dichiarazione,  posto
che - osservo' la Corte - «solo la  prima  ipotesi  e  non  anche  la
seconda e' caratterizzata dal rapporto conflittuale  fra  il  diritto
dell'adottato alla propria identita' personale e quello  della  madre
al rispetto della sua volonta' di anonimato». 
    Il novum sarebbe dunque rappresentato dalla sentenza  della  CEDU
nel "caso Godelli" e la questione andrebbe esaminata, pertanto,  solo
sul versante della conformazione del quadro  normativo  agli  impegni
internazionali. Anche  sotto  questo  profilo,  pero',  la  questione
sarebbe infondata, giacche', se e' vero che la legislazione nazionale
risolve  in  favore  della  tutela  dell'anonimato  il  contrasto  di
interessi, attraverso quella tutela si salvaguarda anche la vita  del
nascituro e la salute della donna. In linea con  il  comune  sentire,
quindi, si e' considerato piu' grave  il  «vulnus  che  patirebbe  la
donna dal vedere svelata la sua identita' di madre contro la  propria
volonta', rispetto al pericolo  di  una  (non  certa)  compromissione
dell'aspirazione dell'individuo alla sua  piena  realizzazione  anche
attraverso la conoscenza delle sue origini». 
    D'altra parte - e come ricordato dallo stesso  rimettente  -,  il
legislatore ha consentito l'accesso alla cartella clinica della madre
ove venga in gioco la salute del figlio; tutela di natura eccezionale
che non viene invece  accordata  se  la  madre  si  e'  sottoposta  a
pratiche di fecondazione assistita (art. 9 della  legge  19  febbraio
2004, n. 40, recante «Norme in materia di  procreazione  medicalmente
assistita»). Per altro verso, l'accesso ai dati  e'  consentito  dopo
cento anni e, prima, sono acquisibili i dati non identificativi della
madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata. 
    Pertanto, e contrariamente all'assunto della Corte di Strasburgo,
la  legislazione  nazionale  avrebbe  «regolato  con   equilibrio   e
proporzionalita' i diversi interessi coinvolti». Mentre  risulterebbe
priva di base scientifica la tesi del giudice a quo secondo la  quale
le ragioni della tutela dell'anonimato sarebbero venute meno  per  il
mutamento dei costumi sociali e della morale civile. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il  Tribunale  per  i  minorenni  di  Catanzaro  solleva,  in
riferimento agli  articoli  2,  3,  32  e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art.  28,
comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una
famiglia), come  sostituito  dall'art.  177,  comma  2,  del  decreto
legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia  di  protezione
dei dati personali), «nella parte in cui esclude la  possibilita'  di
autorizzare la persona adottata all'accesso alle  informazioni  sulle
origini senza  avere  previamente  verificato  la  persistenza  della
volonta'  di  non  volere  essere  nominata  da  parte  della   madre
biologica». 
    La disposizione denunciata  contrasterebbe  con  l'art.  2  della
Costituzione, configurando «una violazione  del  diritto  di  ricerca
delle proprie origini e dunque del  diritto  all'identita'  personale
dell'adottato»; con l'art. 3 Cost., in riferimento all'«irragionevole
disparita' di trattamento fra l'adottato  nato  da  donna  che  abbia
dichiarato di non  voler  essere  nominata  e  l'adottato  figlio  di
genitori che non abbiano reso alcuna  dichiarazione  e  abbiano  anzi
subito   l'adozione»;   con   l'art.    32    Cost.,    in    ragione
dell'impossibilita',  per  il  figlio,  di  ottenere  dati   relativi
all'anamnesi familiare, anche in relazione al rischio  genetico;  con
l'art. 117, primo comma,  Cost.,  in  riferimento  all'art.  8  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma  il  4  novembre  1950  e  resa
esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, per  come  interpretato
dalla Corte europea dei  diritti  dell'uomo  nella  sentenza  del  25
settembre 2012 nel caso Godelli contro Italia, la quale ha dichiarato
che la normativa italiana rilevante violi il predetto  art.  8  della
Convenzione, non adeguatamente bilanciando  fra  loro  gli  interessi
delle parti contrapposte. 
    2.- Intervenuto nel giudizio, il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri   ha   osservato   che   la   questione   di    legittimita'
costituzionale, gia' dichiarata non fondata con la  sentenza  n.  425
del 2005 in riferimento ai parametri di cui agli  artt.  2,  3  e  32
Cost., risulterebbe del pari non fondata in riferimento all'art. 117,
primo comma, Cost., considerato che con la tutela  dell'anonimato  si
salvaguarda anche la vita del nascituro e la  salute  della  donna  e
che, diversamente da come prospettato dalla Corte di  Strasburgo,  la
normativa   italiana   avrebbe    «regolato    con    equilibrio    e
proporzionalita' i diversi interessi coinvolti». 
    3.- La questione e' fondata, nei termini di cui appresso. 
    4.- Come il giudice a quo  e  la  stessa  difesa  erariale  hanno
puntualmente rilevato, il tema del diritto all'anonimato della  madre
e quello del diritto del figlio a conoscere  le  proprie  origini  ai
fini della tutela dei suoi diritti fondamentali  hanno  gia'  formato
oggetto di pronunce tanto di questa Corte che della Corte europea dei
diritti dell'uomo. 
    Si  tratta  di  questioni  di  particolare  delicatezza,  perche'
coinvolgono, entrambe, valori costituzionali di  primario  rilievo  e
vedono  i  rispettivi   modi   di   concretizzazione   reciprocamente
implicati; al punto che - come e' evidente -  l'ambito  della  tutela
del diritto all'anonimato della madre non puo' non  condizionare,  in
concreto,  il  soddisfacimento  della  contrapposta  aspirazione  del
figlio alla conoscenza delle proprie origini, e viceversa. 
    Nel giudizio concluso con la sentenza n.  425  del  2005,  questa
Corte fu chiamata a pronunciarsi su un quesito del  tutto  analogo  a
quello ora nuovamente  devoluto  dal  giudice  rimettente:  anche  in
quella circostanza, infatti, il petitum perseguito  non  mirava  alla
mera ablazione del diritto della madre che, alla nascita del  figlio,
avesse dichiarato, agli effetti degli atti dello stato civile, di non
voler essere nominata, ai sensi dell'art. 30, comma 1, del  d.P.R.  3
novembre  2000,  n.  396  (Regolamento  per   la   revisione   e   la
semplificazione  dell'ordinamento  dello  stato   civile,   a   norma
dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio  1997,  n.  127);  e
neppure era volto a conseguire  una  sorta  di  bilanciamento  fra  i
diritti  -   potenzialmente   alternativi,   quanto   al   rispettivo
soddisfacimento  -  di  cui  innanzi   si   e'   detto;   ma   mirava
esclusivamente ad introdurre nel sistema normativo -  che  sul  punto
era del tutto silente - la possibilita' di verificare la  persistenza
della volonta' della madre naturale di non essere nominata. 
    Ebbene, nella circostanza, non si manco' di  rammentare  come  la
finalita' della norma, oggi nuovamente impugnata in parte qua,  fosse
quella di assicurare, da  un  lato,  che  il  parto  avvenisse  nelle
condizioni ottimali  tanto  per  la  madre  che  per  il  figlio,  e,
dall'altro lato, di «distogliere la donna da decisioni  irreparabili,
per quest'ultimo ben piu' gravi». E l'irrevocabilita'  degli  effetti
di questa scelta venne spiegata secondo una logica  di  rafforzamento
dei  corrispondenti  obiettivi,  escludendo  che  la  decisione   per
l'anonimato potesse comportare, per la madre, «il rischio di  essere,
in un imprecisato futuro e su richiesta del figlio mai  conosciuto  e
gia' adulto, interpellata dall'autorita' giudiziaria per decidere  se
confermare o revocare quella lontana dichiarazione di volonta'». 
    Il nucleo fondante della scelta allora adottata si coglie, cosi',
agevolmente, nella ritenuta corrispondenza biunivoca tra  il  diritto
all'anonimato, in se' e per se' considerato, e la  perdurante  quanto
inderogabile tutela dei profili di riservatezza o, se  si  vuole,  di
segreto, che l'esercizio di quel diritto  inevitabilmente  coinvolge.
Un nucleo fondante che - vale la pena puntualizzare -  non  puo'  che
essere riaffermato, proprio alla luce dei valori di primario  risalto
che esso intende preservare. 
    Il   fondamento   costituzionale   del   diritto   della    madre
all'anonimato riposa, infatti, sull'esigenza di salvaguardare madre e
neonato da qualsiasi perturbamento,  connesso  alla  piu'  eterogenea
gamma di situazioni, personali, ambientali, culturali, sociali,  tale
da generare l'emergenza di pericoli per la salute psico-fisica  o  la
stessa incolumita' di entrambi e  da  creare,  al  tempo  stesso,  le
premesse perche' la nascita possa avvenire nelle condizioni  migliori
possibili. 
    La salvaguardia della vita e della salute sono, dunque, i beni di
primario rilievo presenti sullo  sfondo  di  una  scelta  di  sistema
improntata nel senso di favorire, per se' stessa,  la  genitorialita'
naturale. 
    Peraltro, in questa prospettiva, anche il diritto  del  figlio  a
conoscere le proprie origini - e  ad  accedere  alla  propria  storia
parentale  -  costituisce  un  elemento  significativo  nel   sistema
costituzionale di tutela della persona,  come  pure  riconosciuto  in
varie pronunce della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo.  E  il
relativo bisogno di conoscenza  rappresenta  uno  di  quegli  aspetti
della personalita' che possono condizionare l'intimo atteggiamento  e
la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale.  Elementi,
tutti, affidati alla disciplina che  il  legislatore  e'  chiamato  a
stabilire, nelle forme e con le modalita'  reputate  piu'  opportune,
dirette anche a evitare che il suo esercizio si ponga  in  collisione
rispetto  a  norme  -  quali  quelle  che  disciplinano  il   diritto
all'anonimato della madre  -  che  coinvolgono,  come  si  e'  detto,
esigenze volte a tutelare il bene supremo della vita. 
    5.- Tuttavia, l'aspetto che viene qui in specifico  rilievo  -  e
sul quale la sentenza della Corte  di  Strasburgo  del  25  settembre
2012,  Godelli  contro  Italia,  invita  a  riflettere,  secondo   la
prospettazione dello stesso giudice rimettente  -  ruota  attorno  al
profilo, per cosi' dire,  "diacronico"  della  tutela  assicurata  al
diritto all'anonimato della madre. 
    Con  la  disposizione  all'esame,  l'ordinamento  pare,  infatti,
prefigurare una sorta di "cristallizzazione" o di  "immobilizzazione"
nelle relative modalita'  di  esercizio:  una  volta  intervenuta  la
scelta  per  l'anonimato,  infatti,  la  relativa  manifestazione  di
volonta'   assume   connotati    di    irreversibilita'    destinati,
sostanzialmente, ad "espropriare" la persona titolare del diritto  da
qualsiasi ulteriore  opzione;  trasformandosi,  in  definitiva,  quel
diritto in una sorta di vincolo obbligatorio, che finisce  per  avere
un'efficacia espansiva esterna al suo stesso titolare e, dunque,  per
proiettare l'impedimento alla eventuale  relativa  rimozione  proprio
sul figlio, alla posizione  del  quale  si  e'  inteso,  ab  origine,
collegare il vincolo del segreto su chi lo abbia generato. 
    Tutto cio' e' icasticamente scolpito dall'art. 93, comma  2,  del
ricordato d.lgs. n. 196 del 2003,  secondo  cui  «Il  certificato  di
assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi  dei  dati
personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di
non  voler  essere  nominata  avvalendosi  della  facolta'   di   cui
all'articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica
3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale
a chi vi abbia interesse, in conformita' alla  legge,  decorsi  cento
anni dalla formazione del documento». 
    Ebbene, a cercare un fondamento a tale sistema  -  che  commisura
temporalmente lo spazio del  "vincolo"  all'anonimato  a  una  durata
idealmente eccedente quella della vita umana -, se ne ricava che esso
riposa sulla ritenuta esigenza di prevenire turbative  nei  confronti
della madre in relazione all'esercizio di un suo "diritto  all'oblio"
e, nello stesso tempo, sull'esigenza di salvaguardare erga  omnes  la
riservatezza circa l'identita' della madre, evidentemente considerata
come esposta a rischio ogni volta in  cui  se  ne  possa  cercare  il
contatto per verificare  se  intenda  o  meno  mantenere  il  proprio
anonimato. 
    Ma ne' l'una ne' l'altra esigenza puo' ritenersi  dirimente:  non
la prima, in quanto al pericolo di turbativa della madre  corrisponde
un contrapposto pericolo per il figlio, depauperato  del  diritto  di
conoscere le proprie origini; non la  seconda,  dal  momento  che  la
maggiore o minore ampiezza della tutela della riservatezza resta,  in
conclusione, affidata alle diverse modalita' previste dalle  relative
discipline, oltre che all'esperienza della loro applicazione. 
    Sul piano piu' generale, una scelta per l'anonimato che  comporti
una rinuncia  irreversibile  alla  "genitorialita'  giuridica"  puo',
invece,  ragionevolmente  non  implicare  anche  una   definitiva   e
irreversibile rinuncia  alla  "genitorialita'  naturale":  ove  cosi'
fosse, d'altra parte, risulterebbe introdotto nel sistema  una  sorta
di divieto destinato a precludere in radice qualsiasi possibilita' di
reciproca  relazione  di  fatto  tra  madre  e  figlio,   con   esiti
difficilmente compatibili con l'art. 2 Cost. 
    In altri termini, mentre la scelta per l'anonimato legittimamente
impedisce l'insorgenza di una "genitorialita' giuridica", con effetti
inevitabilmente stabilizzati pro futuro, non appare  ragionevole  che
quella scelta risulti necessariamente  e  definitivamente  preclusiva
anche  sul  versante  dei  rapporti  relativi  alla   "genitorialita'
naturale":  potendosi  quella  scelta  riguardare,   sul   piano   di
quest'ultima, come opzione eventualmente revocabile (in seguito  alla
iniziativa  del  figlio),   proprio   perche'   corrispondente   alle
motivazioni per le  quali  essa  e'  stata  compiuta  e  puo'  essere
mantenuta. 
    6.- La disciplina all'esame e', dunque, censurabile  per  la  sua
eccessiva rigidita'. 
    Cio', d'altra parte, risulta sulla base degli stessi rilievi,  in
sostanza,  formulati  dalla  Corte  EDU  nella  richiamata  "sentenza
Godelli". 
    In essa - come accennato e nei termini di seguito precisati -  si
e' stigmatizzato  che  la  normativa  italiana  non  darebbe  «alcuna
possibilita' al figlio adottivo e non riconosciuto  alla  nascita  di
chiedere l'accesso  ad  informazioni  non  identificative  sulle  sue
origini o la reversibilita' del segreto»,  a  differenza  di  quanto,
invece, previsto nel sistema  francese,  scrutinato,  in  parte  qua,
nella sentenza 13 febbraio 2003, nel "caso Odievre". 
    Ora, e' agevole osservare, quanto al primo rilievo, che  il  gia'
citato art. 93 del d.lgs. n. 196 del 2003 prevede  espressamente,  al
comma 3, la comunicabilita', in ogni tempo (e nel  termine  di  cento
anni fissato per il segreto), delle informazioni "non identificative"
ricavabili dal certificato di assistenza al parto  o  dalla  cartella
clinica, tuttavia ancorandola soltanto all'osservanza, ai fini  della
tutela della riservatezza  della  madre,  delle  relative  «opportune
cautele per evitare che quest'ultima sia identificabile». 
    Resta   evidente   che   l'apparente,    quanto    significativa,
genericita', o elasticita', della formula «opportune cautele»  sconta
l'ovvia - e sia pure non insormontabile - difficolta' di  determinare
con esattezza  astratte  regole  dirette  a  soddisfare  esigenze  di
segretezza variabili in ragione delle  singole  situazioni  concrete.
Altrettanto evidente che debba, inoltre, essere assicurata la  tutela
del diritto alla salute del figlio,  anche  in  relazione  alle  piu'
moderne tecniche diagnostiche basate su ricerche di tipo genetico. 
    Il vulnus e', dunque, rappresentato  dalla  irreversibilita'  del
segreto. La quale, risultando, per le ragioni anzidette, in contrasto
con gli artt. 2 e 3 Cost., deve conseguentemente essere rimossa. 
    Restano assorbiti i motivi di censura  formulati  in  riferimento
agli ulteriori parametri. 
    Sara' compito del legislatore  introdurre  apposite  disposizioni
volte a consentire la  verifica  della  perdurante  attualita'  della
scelta della madre naturale di non voler  essere  nominata  e,  nello
stesso  tempo,  a  cautelare  in  termini  rigorosi  il  suo  diritto
all'anonimato,  secondo  scelte  procedimentali   che   circoscrivano
adeguatamente le modalita' di accesso, anche da  parte  degli  uffici
competenti, ai  dati  di  tipo  identificativo,  agli  effetti  della
verifica di cui innanzi si e' detto.