ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 7, comma 6,
del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449 (Determinazione delle
sanzioni  disciplinari  per  il  personale  del  Corpo   di   polizia
penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti,  a
norma dell'art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990,  n.  395),
promosso dal Tribunale amministrativo  regionale  per  il  Lazio  nel
procedimento vertente tra I. G. e il Ministero della  giustizia,  con
ordinanza del 21 febbraio 2013,  iscritta  al  n.  178  del  registro
ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2014  il  Giudice
relatore Giancarlo Coraggio. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Con  ordinanza  del   21   febbraio   2013,   il   Tribunale
amministrativo regionale per  il  Lazio  ha  sollevato  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  7,  comma  6,  del   decreto
legislativo 30 ottobre 1992, n. 449  (Determinazione  delle  sanzioni
disciplinari per il personale del Corpo di  polizia  penitenziaria  e
per la regolamentazione dei relativi procedimenti, a norma  dell'art.
21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395),  nella  parte  in
cui tale disposizione, anche per il caso in cui l'imputato sia  stato
prosciolto a seguito di dichiarazione di  estinzione  del  reato  per
prescrizione, fa decorrere, in assenza di notifica, il termine di 120
giorni per  l'avvio  del  procedimento  disciplinare  dalla  data  di
pubblicazione  della   sentenza,   anziche'   dalla   data   in   cui
l'Amministrazione ne ha avuto notizia, per violazione degli artt. 3 e
97 della Costituzione. 
    2.- Il giudice a quo premette di essere stato adito da I. G., con
ricorso avente ad oggetto l'impugnazione della sanzione  disciplinare
della destituzione dal Corpo  della  polizia  penitenziaria,  cui  lo
stesso apparteneva. 
    Il provvedimento espulsivo veniva adottato in relazione  a  fatti
per i quali era stata promossa l'azione penale. 
    Il  Tribunale  aveva  emesso  pronuncia   di   condanna,   previa
concessione delle attenuanti generiche equivalenti all'aggravante. 
    La Corte d'appello, con sentenza depositata in cancelleria il  13
dicembre 2005, e divenuta irrevocabile  il  28  gennaio  2006,  aveva
dichiarato non doversi procedere nei confronti di I. G. per essere il
reato ascrittogli estinto a causa di intervenuta prescrizione. 
    L'Amministrazione penitenziaria veniva portata a conoscenza della
sentenza dall'ufficio giudiziario in data 14 luglio 2006  ed  avviava
il procedimento disciplinare il successivo 28 luglio. 
    3.- Il rimettente espone, quindi, che il provvedimento conclusivo
e' stato impugnato per la violazione del termine di cui  all'art.  7,
comma 6, del d.lgs. n. 449 del 1992. 
    Se il termine per avviare l'azione disciplinare fosse decorso dal
13 dicembre 2005, data di deposito della sentenza di proscioglimento,
il  provvedimento  sanzionatorio  sarebbe  incorso   nel   vizio   di
violazione di legge, in quanto intervenuto oltre il previsto  termine
di 120 giorni da tale data. 
    4.- Il TAR Lazio ritiene la sussistenza della rilevanza in quanto
la disposizione censurata trova  applicazione  nella  fattispecie  in
esame, sia in ragione  dell'appartenenza  dell'interessato  al  Corpo
della polizia penitenziaria, sia perche' il  caso  in  esame  rientra
nell'ampia dizione «procedimento penale comunque definito». 
    5.- Il rimettente, pur dando atto che parte della  giurisprudenza
amministrativa ha  interpretato  analoga  disposizione,  relativa  al
personale della Polizia di  Stato,  nel  senso  che  il  termine  per
iniziare il procedimento disciplinare decorre  dalla  conoscenza  che
l'amministrazione ha avuto della pronuncia  penale,  afferma  di  non
poter addivenire ad un'interpretazione  costituzionalmente  orientata
della norma sospettata di illegittimita' costituzionale,  in  ragione
del tenore letterale della stessa e dell'ambito normativo in  cui  si
colloca. 
    Come si evince dall'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990,
n. 19 (Modifiche in tema  di  circostanze,  sospensione  condizionale
della pena e destituzione dei pubblici dipendenti),  e  dall'art.  5,
comma 4, della legge 27 marzo 2001, n. 97  (Norme  sul  rapporto  tra
procedimento  penale  e  procedimento  disciplinare  ed  effetti  del
giudicato penale nei confronti dei dipendenti  delle  amministrazioni
pubbliche), il legislatore ha inteso far coincidere la decorrenza del
termine per promuovere l'azione  disciplinare  con  la  data  in  cui
l'Amministrazione ha assunto consapevolezza  della  sentenza  penale,
secondo i diversi meccanismi ivi previsti, solo nel caso di condanna. 
    Diversamente,  in  presenza  di  una   sentenza   definitiva   di
proscioglimento, l'art. 97 del d.P.R. 10 gennaio 1957,  n.  3  (Testo
unico delle  disposizioni  concernenti  lo  statuto  degli  impiegati
civili dello Stato), ha enunciato la regola opposta,  ribadita  dalla
norma   impugnata.   Tale   regola   ha   superato   il   vaglio   di
costituzionalita' (sentenza n. 264 del 1990), essendo stata  ritenuta
non irragionevole. 
    6.- Il TAR Lazio censura la disposizione in  esame  assumendo  la
violazione degli artt. 3 e 97 Cost. 
    Il giudice a quo richiama la giurisprudenza  costituzionale  che,
nel  bilanciamento  degli  interessi  che  vengono  in  rilievo   nel
procedimento disciplinare, ha inteso valorizzare,  anche  a  garanzia
del  buon  andamento  della  pubblica  amministrazione,  quello   del
pubblico dipendente a non essere sottoposto senza  certi  e  definiti
limiti temporali all'azione disciplinare. Afferma, quindi,  che  tali
principi  potrebbero  essere  attualizzati  rispetto  al  caso  della
sentenza penale che accerti l'estinzione del reato per  prescrizione,
non assimilabile tout court alle sentenze di proscioglimento. 
    7.- Dunque, il bilanciamento operato dal legislatore  con  l'art.
7, comma 6, del  d.lgs.  n.  449  del  1992,  contrasterebbe  con  il
principio di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e con  il
principio di buon andamento della pubblica amministrazione  (art.  97
Cost.),  nel  caso  in  cui  l'interesse  pubblico  a  sanzionare  il
dipendente  in  via  disciplinare  venga  sacrificato  nonostante  la
pronuncia penale possa  recare  in  se'  un  accertamento  implicante
responsabilita' in ordine al fatto. Potrebbero trovare  applicazione,
in tal caso, i principi gia' enunciati  nella  sentenza  n.  186  del
2004, nel senso che si tratterebbe di  una  soluzione  sbilanciata  a
vantaggio del dipendente pubblico, giocando a favore di  quest'ultimo
lo scorrere del tempo necessario affinche' l'amministrazione venga  a
conoscenza di una notizia, che invece dovrebbe esserle comunicata. La
disposizione impugnata,  invece,  non  opera  distinzioni  quanto  al
termine di avvio o di ripresa dell'azione disciplinare, nel frattempo
sospesa,  con  riguardo   a   fattispecie   che   sarebbero   appunto
differenziate. 
    8.- Infine, il rimettente rileva come  le  pronunce  della  Corte
costituzionale successive alla sentenza n. 264 del 1990 abbiano posto
in rilievo che non sempre l'interesse del  pubblico  dipendente  alla
piu' sollecita definizione del giudizio disciplinare  puo'  prevalere
su quello dell'amministrazione, nei casi in cui le  difficolta'  alla
stessa   opposte   si   rivelino,   in    concreto,    manifestamente
irragionevoli. 
    9.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, che ha chiesto dichiararsi non fondata la questione. 
    Assume la difesa dello Stato di non  condividere  l'assimilazione
tra sentenze di  improcedibilita'  dell'azione,  per  estinzione  del
reato a seguito  di  prescrizione,  e  quelle  di  condanna,  essendo
previsto  solo  per  queste  ultime  che  il  termine  decorra  dalla
conoscenza delle stesse. 
    Tale   equiparazione   lederebbe   la   posizione   dell'imputato
"prosciolto" per prescrizione che non e' stato sottoposto  a  "giusto
processo", come statuito dall'art. 111 Cost. 
    La norma censurata appare, altresi', conforme agli artt. 3  e  97
Cost., secondo gli insegnamenti della sentenza n. 374 del 1995  della
Corte costituzionale, pronunciata in riferimento all'art.  97,  comma
3, del d.P.R. n. 3 del 1995. Ne' potrebbe richiamarsi l'art. 9, comma
2, della legge n. 19 del 1990 che ha  diversi  presupposti  fattuali,
essendosi in presenza di sentenze penali di condanna. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Con  ordinanza  del   21   febbraio   2013,   il   Tribunale
amministrativo regionale  per  il  Lazio  dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 7,  comma  6,  del  decreto  legislativo  30
ottobre 1992, n. 449 (Determinazione delle sanzioni disciplinari  per
il  personale  del  Corpo  di  polizia   penitenziaria   e   per   la
regolamentazione dei relativi procedimenti,  a  norma  dell'art.  21,
comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395), in quanto  la  norma,
secondo la quale, «quando da un procedimento penale comunque definito
emergono fatti e circostanze che rendano l'appartenente al  Corpo  di
polizia penitenziaria passibile di sanzioni disciplinari, questi deve
essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di 120
giorni dalla data di pubblicazione della sentenza,  oppure  entro  40
giorni  dalla   data   di   notificazione   della   sentenza   stessa
all'Amministrazione», anziche' dalla data in cui l'Amministrazione ne
ha avuto notizia, trova applicazione  anche  nel  caso  in  cui,  nei
confronti  dell'imputato,  sia  stata  pronunciata  sentenza  di  non
doversi  procedere  per  essere  il  reato  estinto  per  intervenuta
prescrizione. 
    Il  TAR  e'  consapevole  dell'esistenza  di   due   contrapposti
indirizzi  giurisprudenziali,  l'uno  che   da'   della   norma   una
interpretazione letterale e  l'altro  che  ritiene  invece  di  poter
pervenire all'affermazione della necessita' della conoscenza  per  il
decorso del  termine;  e  peraltro,  data  l'assenza  di  un  diritto
vivente, ritiene insuperabile il dato letterale e  quindi  necessaria
una pronuncia di incostituzionalita'. 
    Ad avviso del rimettente, infatti, la sentenza di  assoluzione  e
quella di improcedibilita' dell'azione, conseguente  alla  estinzione
del reato per prescrizione, non sarebbero  assimilabili,  atteso  che
quest'ultima  puo'  intervenire,  in  secondo  grado,  all'esito   di
pronuncia  di  condanna  di  primo   grado,   recante   un   compiuto
accertamento della responsabilita' penale  del  dipendente,  in  modo
analogo alla sentenza penale di condanna. 
    Pertanto, la norma impugnata violerebbe i principi di uguaglianza
e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), nonche' quello di buon  andamento
della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), poiche' la previsione
di  un  termine  di  decadenza,  che  inizi  a  decorrere  senza  che
l'Amministrazione ne sia a conoscenza, lederebbe l'interesse pubblico
a sanzionare il dipendente laddove la pronuncia penale, anche se  non
di  condanna,   rechi   in   se'   un   accertamento   che   implichi
responsabilita' in ordine al fatto per cui si e' proceduto. 
    2.-  La  questione  non  e'  fondata,  perche'  la   disposizione
impugnata puo' essere interpretata in modo da superare i  prospettati
dubbi di legittimita' costituzionale. 
    3.- Va in proposito ricordato  che  ad  una  adeguata  operazione
ermeneutica   non   e'   estranea,    fra    l'altro,    l'evoluzione
dell'ordinamento   giuridico.   La   norma,   infatti,   non   rimane
cristallizzata, ma partecipa delle complesse dinamiche che nel  tempo
investono le fonti del diritto a livello nazionale e  sovranazionale,
che l'interprete deve necessariamente prendere in esame, al  fine  di
preservare attualita' ed effettivita' delle  tutele,  in  particolare
sotto il profilo del corretto bilanciamento degli interessi presi  in
considerazione, «essendo la "vivenza" della  norma  una  vicenda  per
definizione aperta, ancor piu'  quando  si  tratti  di  adeguarne  il
significato a precetti costituzionali» (ordinanza n. 191 del 2013). 
    4.-  Questo  profilo  merita  nel  caso  di  specie   particolare
attenzione, atteso che il  legislatore,  nel  corso  degli  anni,  ha
modificato con significativi interventi il sistema  disciplinare  nel
pubblico impiego. 
    E' dunque  necessario  riepilogare  l'articolata  evoluzione  del
quadro normativo in cui si inserisce la norma oggetto del  dubbio  di
costituzionalita', al fine di verificarne le ricadute sulla  relativa
interpretazione. 
    Si premette che il Corpo degli agenti di  custodia  ha  avuto  un
ordinamento civile fino al  1945,  ai  sensi  del  regio  decreto  30
dicembre 1937, n. 2584 (Regolamento per  il  Corpo  degli  agenti  di
custodia degli Istituti di prevenzione e di  pena).  Successivamente,
per effetto del decreto legislativo luogotenenziale 21  agosto  1945,
n. 508 (Modificazioni  all'ordinamento  del  Corpo  degli  agenti  di
custodia delle carceri), poi integrato con il decreto legislativo del
Capo provvisorio dello Stato 5 maggio 1947, n. 381 (Modificazioni  al
regolamento per il Corpo degli agenti di  custodia  delle  carceri  e
norme per il reclutamento dei combattenti, partigiani e  reduci),  il
Corpo venne militarizzato. 
    La legge 15 dicembre 1990,  n.  395  (Ordinamento  del  Corpo  di
polizia penitenziaria) ha disciolto il Corpo degli agenti di custodia
ed ha soppresso il ruolo delle vigilatrici penitenziarie,  istituendo
il Corpo di polizia  penitenziaria,  che  fa  parte  delle  Forze  di
polizia e il cui rapporto di impiego ha  carattere  pubblicistico  ai
sensi degli artt. 2,  commi  2  e  3,  e  3,  comma  1,  del  decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165  (Norme  generali  sull'ordinamento
del lavoro  alle  dipendenze  delle  amministrazioni  pubbliche).  Si
tratta di un ordinamento speciale, ma ai sensi dell'art. 1, comma  4,
della legge n. 395 del 1990,  «Per  tutto  quanto  non  espressamente
disciplinato  nella  presente  legge,   si   applicano,   in   quanto
compatibili, le norme relative agli impiegati civili dello Stato». 
    Quanto al profilo disciplinare, in particolare, il d.lgs. n.  449
del 1992, all'art. 24, comma 5, dispone analogamente che «Per  quanto
non previsto dal presente decreto  in  materia  di  disciplina  e  di
procedura, si applicano, in  quanto  compatibili,  le  corrispondenti
norme contenute nel testo unico  delle  disposizioni  concernenti  lo
statuto degli impiegati civili dello Stato», approvato con il  d.P.R.
10 gennaio 1957, n. 3  (Testo  unico  degli  impiegati  civili  dello
Stato). 
    5.-  Pur  in  presenza  di  una  disciplina   speciale,   dunque,
l'interpretazione dell'art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 449  del  1992,
va condotta alla luce dell'evoluzione normativa che ha interessato il
procedimento  disciplinare  nel   pubblico   impiego.   Quest'ultimo,
infatti, ha costituito il punto di riferimento comune per gli statuti
giuridici   speciali   di   diverse   categorie   professionali   non
contrattualizzate,  la  cui  disciplina  e'  strettamente   collegata
(l'art. 21 della legge n. 395  del  1990  rimanda,  in  sostanza,  al
d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, che reca "Sanzioni  disciplinari  per
il   personale   dell'Amministrazione   di   pubblica   sicurezza   e
regolamentazione  dei  relativi  procedimenti",  prevedendo  che   il
sistema  disciplinare  del  Corpo  di  polizia  penitenziaria   debba
ispirarsi ai principi e ai criteri previsti per gli appartenenti alla
Polizia di Stato). 
    6.- Occorre ricordare che il rapporto fra procedimento  penale  e
procedimento disciplinare, come delineato nel d.lgs. n. 449 del 1992,
e' caratterizzato dalla cosiddetta pregiudiziale penale. 
    Di conseguenza, nella pendenza del  procedimento  penale,  assume
peculiare  rilievo  l'istituto  della  sospensione  cautelare,  e  al
termine dello stesso, sono previsti meccanismi di arresto,  inizio  o
prosecuzione del procedimento disciplinare. 
    In particolare, ai sensi dell'art. 6, comma 4, del d.lgs. n.  449
del  1992,  il  procedimento  disciplinare  per  l'irrogazione  della
sanzione  della  destituzione,  a  seguito  di  sentenza  penale   di
condanna, deve essere proseguito o promosso entro centottanta  giorni
dalla data in cui l'Amministrazione ha avuto notizia  della  sentenza
irrevocabile di condanna. Viceversa, nel caso di  sentenza  la  quali
dichiari che il fatto  non  sussiste  o  che  l'imputato  non  lo  ha
commesso, ai  sensi  dell'art.  7,  comma  5,  del  medesimo  decreto
legislativo, la sospensione e' revocata a tutti gli effetti, e non si
da' corso al procedimento disciplinare, poiche' l'art. 653 del codice
di procedura penale ha conferito a  tale  sentenza,  cosi'  come  per
quella di condanna, efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare. 
    La norma impugnata, dunque, disciplina le ipotesi residuali,  fra
le quali rientra quella della pronuncia di non doversi procedere  per
estinzione del reato per prescrizione. 
    Questa  regolazione  dei   rapporti   tra   processo   penale   e
procedimento disciplinare  si  spiega  con  la  circostanza  che,  al
momento dell'adozione  del  d.lgs.  n.  449  del  1992,  il  relativo
procedimento nel pubblico impiego  rinveniva  la  propria  disciplina
generale nel d.P.R. n. 3  del  1957  e  nell'art.  9  della  legge  7
febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di  circostanze,  sospensione
condizionale della pena e destituzione dei  pubblici  dipendenti)  ed
era appunto informato al principio della pregiudiziale  penale  (art.
117 del citato d.P.R.). 
    6.1.- Si aggiunga che il  sistema  giuridico  disciplinare  preso
come riferimento per il Corpo di polizia  penitenziaria  e  trasfuso,
tout court, nel d.lgs. n. 449 del  1992,  si  era  venuto  a  formare
gradualmente e che, in particolare, la disciplina della legge  n.  19
del 1990 era intervenuta a seguito della sentenza di questa Corte  n.
971 del  1988  che  dichiarava  l'illegittimita'  della  destituzione
"automatica", come prevista dal d.P.R. n.  3  del  1957,  in  ragione
della necessita' di «ponderare, con le garanzie del  contraddittorio,
la rilevanza disciplinare dei fatti accertati nel corso del  giudizio
penale, tenendo conto, altresi', della  personalita'  dell'incolpato,
del suo rendimento in servizio e di ogni altro interesse pubblico che
possa   essere   validamente   considerato   nell'ambito   di   detto
procedimento», come posto in evidenza dalla  successiva  sentenza  n.
197 del 1999. 
    6.2.- Dunque, il legislatore, che con il d.P.R.  n.  3  del  1957
aveva affermato  una  preminenza  del  processo  penale  rispetto  al
procedimento disciplinare, prevedendo la destituzione di diritto, che
veniva irrogata «escluso il procedimento disciplinare», con la  legge
n. 19  del  1990  inizia  a  riscrivere,  in  modo  coerente  con  la
significativa coeva regolamentazione del procedimento amministrativo,
le dinamiche tra i due ambiti, in una logica di reciproca  autonomia,
giungendo, di  recente,  ad  escludere  la  cosiddetta  pregiudiziale
penale, prevedendo, tra i criteri direttivi della delega conferita al
Governo dall'art. 7, comma 1, lettera b), della legge 4  marzo  2009,
n.  15  (Delega  al  Governo  finalizzata  all'ottimizzazione   della
produttivita' del lavoro pubblico e  alla  efficienza  e  trasparenza
delle  pubbliche  amministrazioni  nonche'  disposizioni  integrative
delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e  del
lavoro e alla Corte dei conti),  «che  il  procedimento  disciplinare
possa proseguire e concludersi anche  in  pendenza  del  procedimento
penale, stabilendo eventuali  meccanismi  di  raccordo  all'esito  di
quest'ultimo». 
    Quindi, l'art. 55-ter, comma 1,  del  d.lgs.  n.  165  del  2001,
introdotto  dal  decreto  legislativo  27  ottobre   2009,   n.   150
(Attuazione  della  legge  4  marzo  2009,  n.  15,  in  materia   di
ottimizzazione  della  produttivita'  del  lavoro   pubblico   e   di
efficienza  e  trasparenza  delle  pubbliche   amministrazioni),   ha
stabilito: «Il procedimento disciplinare, che abbia  ad  oggetto,  in
tutto o in parte, fatti in relazione  ai  quali  procede  l'autorita'
giudiziaria,  e'  proseguito  e  concluso  anche  in   pendenza   del
procedimento penale». 
    Tale evoluzione si inserisce, poi, nel profondo rinnovamento  che
in quegli stessi anni  ha  interessato  le  regole  dell'agire  della
pubblica amministrazione, con  l'entrata  in  vigore  della  legge  7
agosto  1990,  n.  241  (Nuove  norme  in  materia  di   procedimento
amministrativo e di diritto di accesso ai documenti  amministrativi),
rinnovamento che ha dato piena attuazione ai canoni costituzionali di
imparzialita' e buon andamento (art. 97 Cost.). 
    7.- E' in linea con questo complessivo quadro di riferimento  che
il Consiglio di Stato (IV sezione, decisione n.  2942  del  2011)  ha
affermato che l'art. 7, comma 6, del d.lgs.  n.  449  del  1992  deve
essere  interpretato  tenuto   conto   dell'esigenza   che   l'azione
amministrativa si svolga secondo i canoni del giusto  procedimento  e
del buon andamento, i quali suggeriscono di individuare  "il  dies  a
quo"  del  termine  in  questione  dalla  data  di  conoscenza  della
pronunzia penale. Secondo il giudice amministrativo, infatti, in caso
contrario,   si   perverrebbe   alla    conclusione,    illogica    e
contraddittoria, di sottoporre l'esercizio del potere disciplinare al
termine decadenziale senza  che  l'amministrazione  abbia  conoscenza
degli elementi fattuali emersi  in  sede  penale  e  suscettibili  di
legittimare il  procedimento  sanzionatorio.  In  tale  situazione  -
sempre secondo la decisione -, atteso  che  l'organo  giurisdizionale
non ha alcun dovere di notificare all'amministrazione di appartenenza
dell'impiegato  la  sentenza  penale  definitiva  che  lo   riguardi,
l'autorita'  potrebbe   scegliere   solo   tra   il   non   procedere
disciplinarmente o procedere senza elementi, in entrambi i  casi  con
risultati incompatibili con il principio del giusto procedimento. 
    Tale indirizzo ha trovato conferma in una  decisione  intervenuta
successivamente al promovimento della questione di  costituzionalita'
(Consiglio di Stato, IV sezione, decisione  n.  5999  del  2013),  e,
d'altro  canto,  la  data  nella  quale  l'amministrazione  ha  avuto
conoscenza certa della decisione del giudice penale  era  gia'  stata
assunta come dies a quo, dal Consiglio di Stato, con la decisione  n.
6521 del 2008, con riguardo  all'art.  9,  comma  6,  del  d.P.R.  25
ottobre  1981,  n.  737  (Sanzioni  disciplinari  per  il   personale
dell'Amministrazione di pubblica  sicurezza  e  regolamentazione  dei
relativi  procedimenti)  -  di  contenuto  analogo  -   relativo   al
procedimento disciplinare della Polizia di Stato. 
    8.-  Ebbene,  questo  indirizzo   appare   saldamente   ancorato,
anzitutto,  allo  spirito  delle  nuove  regole   che   nel   sistema
disciplinare generale conformano i rapporti tra il procedimento ed il
processo, privilegiando, rispetto alle  preclusioni  temporali  e  in
genere ai  formalismi  procedimentali,  la  visione  sostanzialistica
della adeguata ponderazione dei  fatti,  che  e'  appunto  la  chiave
interpretativa dell'evoluzione normativa ricordata. 
    Non meno significativo nella motivazione e' poi il riferimento ai
principi  generali  dell'azione   amministrativa:   anche   la   loro
applicazione, infatti, e' stata oggetto  di  un'evoluzione  non  meno
profonda di quella della normativa di settore, sotto la spinta  della
giurisprudenza e della legislazione. Con la legge n. 241 del  1990  e
le sue successive modificazioni, in particolare, l'imparzialita' e il
buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97  Cost.)  hanno
assunto un ruolo non solo ben piu' determinante, ma anche  fortemente
complementare. In questa prospettiva,  accanto  ad  un  rafforzamento
delle garanzie per il cittadino,  attraverso  la  valorizzazione  del
contraddittorio e della trasparenza, l'amministrazione  e'  impegnata
ad assicurare l'effettivo raggiungimento dello scopo cui e' orientata
la sua azione, e quindi la  realizzazione  degli  interessi  pubblici
alla cui cura essa e' chiamata, anche attraverso il  superamento  dei
vizi formali, se si dimostri che «il contenuto del provvedimento  non
avrebbe potuto essere diverso» (art. 21-octies della citata legge  n.
241 del 1990). 
    9.- D'altro canto anche nella  giurisprudenza  costituzionale  si
puo' rilevare  un'evoluzione,  nella  valutazione  del  bilanciamento
degli interessi che si contrappongono nel procedimento  disciplinare,
in sintonia con il  progressivo  rilievo  attribuito  al  dato  della
conoscenza nel procedimento amministrativo. 
    Con  la  sentenza  n.  264  del  1990  si   affermava   che   nel
bilanciamento dei contrapposti interessi, quello dell'amministrazione
a non vedersi impedito l'esercizio del potere disciplinare, e  quello
dell'impiegato a vedere definita la propria  posizione  disciplinare,
non  poteva  ritenersi  irragionevole  che  il   legislatore   avesse
privilegiato il secondo, una volta ritenuto,  in  via  di  principio,
come emergeva da tutta la disciplina del  procedimento  disciplinare,
che a tale definizione si doveva pervenire in un congruo termine. 
    Tuttavia, con la sentenza n. 186 del 2004, intervenuta  dopo  una
consolidata attuazione,  anche  nel  procedimento  disciplinare,  dei
principi sul procedimento amministrativo,  la  Corte  ha  operato  un
diverso bilanciamento  degli  interessi,  ritenendo  irragionevole  e
contrario al principio di buon andamento dell'amministrazione il  far
decorrere il termine per instaurare il procedimento dalla conclusione
del  giudizio  penale  con  sentenza  irrevocabile,  anziche'   dalla
comunicazione  della  sentenza   all'amministrazione.   E   cio'   in
considerazione del fatto che, non prevedendosi che  l'amministrazione
sia  posta  a  conoscenza  del  termine  iniziale  (sentenza   penale
irrevocabile di condanna) per l'instaurazione  del  procedimento,  ed
imponendosi lo svolgimento  di  un'attivita'  per  la  conoscenza  di
questo  dato,  si  espone   l'amministrazione   stessa   al   rischio
dell'infruttuoso decorso del  termine  decadenziale,  rendendo  cosi'
piu' difficoltosa ed incerta la stessa applicazione delle sanzioni. 
    10.-  Correttamente,   dunque,   nel   caso   in   questione   la
giurisprudenza  amministrativa  richiamata  ha  fatto  uso  di   tali
principi nella esegesi di questa  norma  che,  nata  in  un  contesto
profondamente diverso, deve essere confrontata e letta  alla  stregua
della profonda evoluzione del quadro normativo in cui e' chiamata  ad
operare la pubblica amministrazione. 
    Cio' che invece non ha fatto il rimettente, il quale, partendo da
considerazioni condivisibili circa la  possibile  portata  di  questo
tipo di sentenza,  ritiene  senz'altro  la  disposizione  lesiva  dei
richiamati  parametri  costituzionali,  e   segnatamente   del   buon
andamento della  pubblica  amministrazione,  senza  pero'  utilizzare
quegli stessi parametri per pervenire ad una diversa  interpretazione
nel caso in questione. 
    Al contrario, stabilizzata nell'ordinamento  la  riconduzione  di
tutte le sanzioni disciplinari, compresa la destituzione,  nell'alveo
del relativo  procedimento  amministrativo,  in  una  prospettiva  di
autonomia  dal  processo  penale,  il  buon   andamento   dell'azione
amministrativa    sollecita    un'interpretazione    che    valorizzi
l'intervenuta conoscenza da parte dell'amministrazione della sentenza
di non doversi procedere. Solo in tal  modo,  infatti,  e'  possibile
assicurare    un    corretto    bilanciamento     degli     interessi
costituzionalmente protetti che vengono in rilievo nel procedimento. 
    Dunque, proprio in  considerazione  delle  ragioni  indicate  dal
rimettente con riferimento al caso della sentenza di improcedibilita'
dell'azione in  forza  di  estinzione  del  reato  per  prescrizione,
sussiste l'esigenza che il dies a quo per  l'amministrazione  decorra
dalla conoscenza effettiva, cosi' come  effettive  sono  le  garanzie
procedimentali di cui si avvale il dipendente. 
    11.-  Dalla  riscontrata   possibilita'   di   un'interpretazione
conforme  a  Costituzione   della   disposizione   denunciata,   gia'
sperimentata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, discende la
non fondatezza della questione.