ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  degli  artt.  666,
comma 3, 678, comma 1, e  679,  comma  1,  del  codice  di  procedura
penale,  promosso  dal  Magistrato  di  sorveglianza  di  Napoli  nel
procedimento relativo a Z.U. con  ordinanza  del  29  novembre  2012,
iscritta al n. 17 del registro  ordinanze  2013  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  7,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2014  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 29 novembre 2012,  il  Magistrato
di sorveglianza di Napoli ha sollevato,  in  riferimento  agli  artt.
111, primo comma, e 117, primo comma, della  Costituzione,  questione
di legittimita' costituzionale degli artt. 666, comma 3,  678,  comma
1, e 679, comma 1, del codice di procedura penale,  «nella  parte  in
cui non consentono che la procedura di applicazione delle  misure  di
sicurezza si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme  della
pubblica udienza». 
    Il giudice  a  quo  -  investito  di  un  procedimento,  promosso
d'ufficio, per la dichiarazione di abitualita' nel reato -  riferisce
che il difensore dell'interessato  aveva  chiesto  che  la  procedura
fosse trattata «in forma pubblica». 
    Il rimettente rileva che, in  base  alla  normativa  vigente,  la
richiesta non potrebbe essere accolta.  L'art.  679,  comma  1,  cod.
proc.  pen.  demanda  la  competenza  in  materia  al  magistrato  di
sorveglianza, stabilendo che «Quando una misura di sicurezza  diversa
dalla confisca e' stata, fuori dei casi previsti  dall'articolo  312,
ordinata con sentenza, o deve  essere  ordinata  successivamente,  il
magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o  di
ufficio, accerta se l'interessato e' persona socialmente pericolosa e
adotta  i  provvedimenti  conseguenti,  premessa,  ove  occorra,   la
dichiarazione di abitualita' o professionalita' nel reato». Quanto al
rito, l'art. 678, comma 1, cod. proc. pen. dispone che il  magistrato
di sorveglianza, nelle materie attinenti alle misure di  sicurezza  e
alla dichiarazione  di  abitualita'  o  professionalita'  nel  reato,
procede «a norma dell'articolo 666», il  cui  comma  3  a  sua  volta
prevede che «il giudice [...],  designato  il  difensore  di  ufficio
all'interessato che ne sia  privo,  fissa  la  data  dell'udienza  in
camera di consiglio». 
    Il  dato  normativo  risulterebbe,  pertanto,  inequivoco   nello
stabilire che il procedimento  per  l'applicazione  delle  misure  di
sicurezza abbia luogo «in camera di consiglio»: formula  che  -  alla
luce  di  un  consolidato  orientamento   della   giurisprudenza   di
legittimita' - implica un rinvio  alla  disciplina  generale  dettata
dall'art. 127 cod. proc. pen., il cui comma 6  dispone  espressamente
che l'udienza si svolge «senza la presenza del pubblico». 
    La pubblicita' dell'udienza non potrebbe essere,  d'altra  parte,
"recuperata" neppure in sede di  appello  avverso  la  decisione  del
magistrato di sorveglianza, posto che, in forza del citato art.  678,
comma 1, cod. proc. pen., anche il tribunale di  sorveglianza  -  cui
l'appello e' devoluto (art. 680, comma 1, cod. proc. pen.) -  procede
nelle materie di sua competenza a norma dell'art. 666. 
    Ad avviso del giudice a quo, le norme censurate violerebbero, per
questo verso, l'art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in  contrasto
- non superabile in via di interpretazione  -  con  il  principio  di
pubblicita'  dei  procedimenti  giudiziari,  sancito   dall'art.   6,
paragrafo 1,  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848, cosi' come  interpretato  dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo. 
    In recenti pronunce nei confronti dello Stato italiano, attinenti
ad altre materie (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro
Italia; sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia; sentenza
10 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia), la Corte di Strasburgo  ha
in effetti ritenuto che la procedura «in camera di  consiglio»  -  e,
dunque, senza l'intervento  del  pubblico  -  sia  incompatibile  con
l'indicata garanzia convenzionale. Cio' e' avvenuto, in  particolare,
con riguardo al  procedimento  per  l'applicazione  delle  misure  di
prevenzione (cui si riferiscono le prime due pronunce dianzi citate).
La  Corte  europea  ha,  infatti,  osservato  che  -  pur  a   fronte
dell'elevato  «grado  di  tecnicismo»  di  dette  procedure  e  delle
esigenze di protezione della vita  privata  di  terzi  indirettamente
interessati, in esse spesso riscontrabili - l'entita' della «posta in
gioco» e  gli  effetti  che  le  procedure  stesse  possono  produrre
impongono di ritenere che il controllo  del  pubblico  sull'esercizio
della giurisdizione rappresenti una condizione necessaria ai fini del
rispetto dei diritti dei soggetti coinvolti: prospettiva nella  quale
dovrebbe essere offerta a questi ultimi «almeno  la  possibilita'  di
sollecitare una pubblica udienza davanti alle  sezioni  specializzate
dei tribunali e delle corti d'appello». 
    Se questa conclusione vale quando  la  «posta  in  gioco»  e'  la
confisca di  «beni  e  capitali»,  come  nel  caso  delle  misure  di
prevenzione  patrimoniali,  a  maggior  ragione  essa  si  imporrebbe
rispetto al procedimento di sicurezza, suscettibile  di  incidere  in
modo diretto  e  rilevante  sulla  liberta'  personale  del  soggetto
interessato.  Nell'ipotesi  sottoposta  all'esame   del   rimettente,
l'eventuale  dichiarazione  di   abitualita'   nel   reato   potrebbe
determinare l'applicazione di  una  misura  di  sicurezza  detentiva,
quale l'assegnazione ad una casa di lavoro per un periodo  minimo  di
due anni, o  anche  non  detentiva,  ma  comunque  significativamente
limitativa della liberta' personale, quale la liberta' vigilata. 
    L'incidenza   del   procedimento   sulla    liberta'    personale
dell'interessato sarebbe resa, d'altro canto, ancor piu' «traumatica»
dalla circostanza che la pronuncia del magistrato di sorveglianza non
segue immediatamente la commissione  dei  fatti  di  reato,  ma  puo'
intervenire anche  a  notevole  distanza  di  tempo  da  essi:  cio',
segnatamente nei casi in cui il procedimento sia  attivato  all'esito
di valutazioni basate sulle condanne risultanti del  certificato  del
casellario giudiziale, come tipicamente avviene per la  dichiarazione
di abitualita' nel reato. 
    Le affermazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo, dianzi
ricordate, indurrebbero a dubitare della legittimita'  costituzionale
delle norme censurate anche in riferimento all'art. 111, primo comma,
Cost., in forza del quale  la  giurisdizione  si  attua  mediante  il
giusto processo regolato dalla legge. 
    Sebbene, infatti, il procedimento disciplinato dagli  artt.  666,
678, 680 e 127 cod. proc. pen. appaia strutturato, nel complesso,  in
modo tale da assicurare l'effettivita'  del  diritto  di  difesa,  la
previsione del suo svolgimento nella forma dell'udienza camerale  non
garantirebbe    un    controllo     sull'esercizio     dell'attivita'
giurisdizionale adeguato alla gravita' dei provvedimenti  adottabili.
In questa prospettiva, ai fini dell'attuazione di un «equo processo»,
dovrebbe essere prevista la possibilita' di svolgere il  procedimento
in forma pubblica almeno su richiesta degli interessati. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata. 
    La  difesa  dello  Stato  osserva  come  nel   procedimento   per
l'applicazione delle misure di sicurezza vengano in rilievo  esigenze
di riservatezza,  in  relazione  agli  elementi  istruttori  posti  a
fondamento della decisione, la quale costituisce la risultante di  un
giudizio che non ha ad oggetto la sussistenza di un  fatto-reato,  ma
soprattutto la personalita' dell'interessato. 
    Tali  esigenze,  unite  a  quelle   di   celerita'   processuale,
prevarrebbero sull'esigenza della pubblicita', la quale, anche  nella
disciplina  del  dibattimento  penale,  risulta   recessiva   laddove
sussistano particolari esigenze di riservatezza,  tanto  che  in  tal
caso l'udienza puo' svolgersi a porte chiuse. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Magistrato  di  sorveglianza  di  Napoli  dubita   della
legittimita' costituzionale della disposizione combinata degli  artt.
666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, del codice  di  procedura
penale, nella parte in cui  non  consente  che  il  procedimento  per
l'applicazione delle misure di sicurezza si svolga, su istanza  degli
interessati, nelle forme dell'udienza pubblica. 
    Ad avviso del giudice a  quo,  le  norme  censurate  violerebbero
l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  ponendosi  in  contrasto  -  non
superabile  in  via  di  interpretazione  -  con  il   principio   di
pubblicita'  dei  procedimenti  giudiziari,  sancito   dall'art.   6,
paragrafo 1,  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848, cosi' come  interpretato  dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo. 
    Le medesime  disposizioni  violerebbero,  altresi',  l'art.  111,
primo comma, Cost., giacche' la possibilita'  di  svolgere  in  forma
pubblica il procedimento in  questione,  almeno  su  richiesta  degli
interessati, risulterebbe indispensabile ai fini  dell'attuazione  di
un «giusto processo», tenuto conto della gravita'  dei  provvedimenti
adottabili in esito al procedimento  stesso,  direttamente  incidenti
sulla liberta' personale. 
    2.- In via preliminare, va rilevato che, nonostante  la  generica
formulazione del quesito, il dubbio  di  legittimita'  costituzionale
sottoposto all'esame della Corte  deve  ritenersi  circoscritto  alla
mancata previsione  della  possibilita'  di  trattazione  in  udienza
pubblica dei procedimenti di sicurezza nei  gradi  di  merito  (prima
istanza e appello). 
    A  questi  soltanto  risulta,  infatti,  riferito  il   principio
affermato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo  nelle  decisioni
richiamate a sostegno delle censure. Lo  stesso  rimettente,  d'altro
canto,  nello  svolgere  le  sue  doglianze,   ha   posto   l'accento
esclusivamente sull'assenza di pubblicita'  delle  udienze  che,  nel
procedimento in discussione, si svolgono  davanti  al  magistrato  di
sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, competente per l'appello
(art. 680, comma 1, cod. proc.  pen.),  senza  alcun  riferimento  al
giudizio davanti alla Corte di cassazione,  eventualmente  introdotto
ai sensi dell'art. 666, comma 6, cod. proc. pen. 
    3.- Cosi' precisata, la  questione  e'  fondata,  in  riferimento
all'art. 111, primo comma, e all'art. 117, primo comma, Cost. 
    Con la sentenza n. 93 del 2010, questa Corte ha  gia'  dichiarato
costituzionalmente illegittimi, per  contrasto  con  il  secondo  dei
parametri indicati, l'art. 4 della legge 27 dicembre  1956,  n.  1423
(Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per  la
sicurezza e per la pubblica moralita') e l'art. 2-ter della legge  31
maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia),  nella  parte  in
cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento
per l'applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti  al
tribunale e alla corte d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica. 
    Considerazioni analoghe a quelle  svolte  in  detta  decisione  -
successivamente recepita dal legislatore negli artt. 7,  comma  1,  e
10, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice
delle leggi antimafia e delle misure di  prevenzione,  nonche'  nuove
disposizioni in materia di documentazione antimafia,  a  norma  degli
articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136)  -  valgono  anche
agli odierni fini. 
    Secondo la giurisprudenza di questa  Corte,  costante  a  partire
dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le norme della  CEDU  -  nel
significato  loro  attribuito  dalla  Corte   europea   dei   diritti
dell'uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e
applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione)  -  integrano,
quali  «norme  interposte»,  il  parametro  costituzionale   espresso
dall'art. 117, primo comma, Cost.,  nella  parte  in  cui  impone  la
conformazione della legislazione interna ai vincoli  derivanti  dagli
«obblighi internazionali» (ex plurimis, sentenze n. 30 del  2014,  n.
264 del 2012, n. 236, n. 113 e n. 80 del 2011). Ne deriva che, ove si
profili un contrasto - non superabile a mezzo di una  interpretazione
"adeguatrice" - fra una norma interna e  una  norma  della  CEDU,  il
giudice comune,  non  potendo  rimuoverlo  tramite  la  semplice  non
applicazione  della  norma  interna,  deve  denunciare  la   rilevata
incompatibilita' tramite la proposizione di una questione incidentale
di legittimita' costituzionale per violazione del suddetto parametro. 
    Nel caso  oggi  in  esame,  i  dubbi  di  compatibilita'  con  la
normativa convenzionale attengono alle modalita' di  svolgimento  del
procedimento in materia di applicazione delle  misure  di  sicurezza,
previsto dall'art. 679, comma 1, cod. proc.  pen.:  procedimento  del
quale non e' in discussione il carattere giurisdizionale,  del  resto
espressamente  evocato  dall'art.  2,  numero  96),  della  legge  16
febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della  Repubblica
per l'emanazione del nuovo codice  di  procedura  penale).  La  norma
censurata stabilisce, in specie,  nella  parte  cui  e'  riferita  la
questione, che «Quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca
e' stata, fuori dei casi previsti  dall'articolo  312,  ordinata  con
sentenza, o deve essere ordinata successivamente,  il  magistrato  di
sorveglianza, su richiesta  del  pubblico  ministero  o  di  ufficio,
accerta se l'interessato e' persona socialmente pericolosa e adotta i
provvedimenti conseguenti, premessa, ove occorra, la dichiarazione di
abitualita' o professionalita' nel reato».  Contro  il  provvedimento
del magistrato di sorveglianza e' ammesso  appello  al  tribunale  di
sorveglianza (art. 680, comma 1, cod. proc. pen.). 
    Come rimarca il giudice a quo, il dato normativo  appare  univoco
nello stabilire che il procedimento  in  questione  si  svolga  nella
forma dell'udienza  in  camera  di  consiglio  e,  dunque,  senza  la
partecipazione del pubblico. 
    L'art. 678, comma 1, cod. proc. pen.  prevede,  infatti,  che  il
tribunale di sorveglianza, nelle materie  di  sua  competenza,  e  il
magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti (per  quanto  qui
interessa)  alle  misure  di  sicurezza  e  alla   dichiarazione   di
abitualita'  o  professionalita'  nel  reato,  applicano  le   regole
stabilite per il procedimento di esecuzione dall'art. 666 cod.  proc.
pen.  Trova  applicazione,  pertanto,  anche  il  comma  3  di  detto
articolo, il quale prevede la fissazione di una «udienza in camera di
consiglio». 
    Tale  formula  rende  operante,  a  sua  volta,  per  quanto  non
diversamente  disposto,  la  disciplina  generale   in   materia   di
«procedimento in camera di  consiglio»  dettata  dall'art.  127  cod.
proc. pen.: e, dunque, - nell'assenza di previsioni  derogatorie  sul
punto - anche la disposizione del  comma  6,  in  forza  della  quale
«l'udienza si svolge senza la presenza del pubblico». 
    4.- Siffatto regime non appare, tuttavia, compatibile con  l'art.
6, paragrafo 1, della CEDU,  il  quale  stabilisce  -  per  la  parte
conferente - che «ogni persona ha diritto a  che  la  sua  causa  sia
esaminata [...], pubblicamente ed entro un termine ragionevole da  un
tribunale indipendente e imparziale [...]»,  soggiungendo,  altresi',
che «la sentenza deve essere resa pubblicamente, ma  l'accesso  nella
sala di udienza puo' essere vietato alla stampa e al pubblico durante
tutto o parte del processo nell'interesse della  morale,  dell'ordine
pubblico o della sicurezza nazionale  in  una  societa'  democratica,
quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita
privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata  strettamente
necessaria  dal  tribunale,  quando  in   circostanze   speciali   la
pubblicita'  possa   portare   pregiudizio   agli   interessi   della
giustizia». 
    La  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo   ha   reiteratamente
ravvisato  una  simile  situazione  di  contrasto  con  riguardo   al
procedimento applicativo delle misure di prevenzione,  del  quale  la
disciplina  italiana  vigente  all'epoca   prevedeva   parimenti   la
trattazione in forma camerale (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e
Rizza contro Italia, sulla cui scia sentenza 17 maggio 2011, Capitani
e Campanella contro Italia; sentenza 2 febbraio  2010,  Leone  contro
Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno  e  altri  contro  Italia;
sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia). 
    A tale conclusione la Corte europea e' pervenuta  richiamando  la
propria costante giurisprudenza,  secondo  la  quale  la  pubblicita'
delle  procedure  giudiziarie  tutela  le   persone   soggette   alla
giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge  al  controllo
del pubblico, e costituisce anche uno  strumento  per  preservare  la
fiducia  nei  giudici,  contribuendo  cosi'  a  realizzare  lo  scopo
dell'art. 6, paragrafo 1, della CEDU: ossia l'equo processo. 
    Come attestano le eccezioni previste dalla  seconda  parte  della
norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorita'  giudiziarie
di derogare al principio di pubblicita' dell'udienza. La stessa Corte
europea  ha,  d'altra   parte,   ritenuto   che   alcune   situazioni
eccezionali, attinenti alla natura  delle  questioni  da  trattare  -
quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso -
possano giustificare che si faccia a meno di un'udienza pubblica.  In
ogni caso, tuttavia, l'udienza a porte  chiuse,  per  tutta  o  parte
della durata, deve essere  «strettamente  imposta  dalle  circostanze
della causa». 
    Con riguardo alla fattispecie sottoposta al suo esame,  la  Corte
europea non ha contestato che il procedimento per  l'applicazione  di
misure  di  prevenzione  possa  presentare  «un  elevato   grado   di
tecnicita'», in quanto tendente - nel caso di misure  patrimoniali  -
al controllo «delle finanze e dei movimenti di capitali», o che possa
talora coinvolgere «interessi superiori», quale la  protezione  della
vita privata di terze persone  indirettamente  interessate  da  detto
controllo. Non e' tuttavia possibile - secondo la Corte europea - non
tener conto dell'entita' della «posta in gioco»  nelle  procedure  in
questione - le quali mirano  alla  confisca  di  «beni  e  capitali»,
incidendo cosi'  direttamente  sulla  situazione  patrimoniale  della
persona soggetta a giurisdizione - nonche'  degli  effetti  che  esse
possono produrre sulle persone: situazione a fronte della quale  «non
si puo'  affermare  che  il  controllo  del  pubblico»  -  almeno  su
sollecitazione del soggetto  coinvolto  -  «non  sia  una  condizione
necessaria alla garanzia dei diritti dell'interessato». 
    Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte di  Strasburgo  ha,
quindi, ritenuto «essenziale»,  ai  fini  della  realizzazione  della
garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone [...]
coinvolte  in  un  procedimento  di  applicazione  delle  misure   di
prevenzione si vedano almeno offrire la possibilita'  di  sollecitare
una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali
e delle corti d'appello». 
    5.- In termini analoghi la Corte europea si e' espressa, piu'  di
recente,  con  riferimento  al  procedimento   per   la   riparazione
dell'ingiusta detenzione, del quale  la  legge  processuale  italiana
(art. 315, comma 3, in relazione all'art. 646, comma  1,  cod.  proc.
pen.) egualmente prevede  lo  svolgimento  nelle  forme  dell'udienza
camerale (sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia). 
    Anche  in  questo  caso,  la  Corte  di  Strasburgo  ha  ritenuto
essenziale che i singoli coinvolti nella procedura  fruiscano  almeno
della  facolta'  di  richiedere  la  trattazione  in  forma  pubblica
dell'udienza innanzi la corte d'appello  (competente  nel  merito  in
unico grado), non ravvisando alcuna circostanza eccezionale che valga
a giustificare  una  deroga  generale  e  assoluta  al  principio  di
pubblicita' dei giudizi.  Nell'ambito  della  procedura  considerata,
infatti, i giudici interni sono chiamati essenzialmente a valutare se
l'interessato  abbia  contribuito  a  provocare  la  sua   detenzione
intenzionalmente o  per  colpa  grave:  sicche'  non  si  discute  di
«questioni di natura tecnica che possono essere regolate  in  maniera
soddisfacente unicamente in base al fascicolo». 
    6.- Con la citata sentenza n. 93 del 2010, questa Corte  ha  gia'
avuto modo di  escludere  che  la  norma  convenzionale,  cosi'  come
interpretata dalla Corte europea, contrasti con le conferenti  tutele
offerte dalla nostra  Costituzione:  ipotesi  nella  quale  la  norma
stessa - che si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale  -
rimarrebbe inidonea a integrare il  parametro  dell'art.  117,  primo
comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 113 del 2011, n. 311 del 2009,
n. 349 e n. 348 del 2007). 
    L'assenza di un esplicito richiamo, non  scalfisce,  infatti,  il
valore costituzionale del  principio  di  pubblicita'  delle  udienze
giudiziarie, peraltro consacrato anche in altre carte  internazionali
dei diritti fondamentali. La pubblicita' del  giudizio  -  specie  di
quello penale - rappresenta, in effetti, un principio connaturato  ad
un ordinamento democratico (ex plurimis, sentenze n. 373 del 1992, n.
69 del 1991 e n. 50 del 1989). Il principio non ha  valore  assoluto,
potendo cedere in presenza  di  particolari  ragioni  giustificative,
purche', tuttavia, obiettive e razionali (sentenza n. 212 del  1986),
e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di  tutela
di beni a rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971). 
    7.- Cio' posto, le conclusioni raggiunte dalla Corte europea  dei
diritti dell'uomo in  rapporto  ai  procedimenti  per  l'applicazione
delle misure  di  prevenzione  e  per  la  riparazione  dell'ingiusta
detenzione non possono non valere anche in relazione al  procedimento
di applicazione  delle  misure  di  sicurezza,  oggetto  dell'odierna
questione. 
    L'obiettivo precipuo di detto procedimento e', infatti, quello di
accertare la concreta pericolosita' sociale del soggetto che dovrebbe
essere sottoposto alla misura: accertamento al quale il magistrato di
sorveglianza e' chiamato non solo nell'ipotesi in cui sia egli stesso
a provvedere alla dichiarazione di abitualita' o professionalita' nel
reato o all'applicazione di una misura di sicurezza nei casi previsti
dall'art. 205, secondo comma, cod. pen., ma anche quando si tratti di
dare esecuzione ai corrispondenti provvedimenti assunti  dal  giudice
con la sentenza di condanna o di  proscioglimento  che  definisce  il
processo penale. Cio', in ossequio al principio che esige - una volta
rimosse le presunzioni legali prefigurate dall'originaria  disciplina
del  codice  penale  -  un  giudizio  sulla  pericolosita'  effettiva
dell'interessato non solo nel momento in cui la misura  di  sicurezza
e'  applicata,  ma  anche  in  quello  nel  quale  essa  deve  essere
concretamente eseguita. 
    Avuto riguardo all'evidenziato oggetto dell'accertamento, non  si
e', dunque, di fronte ad  un  contenzioso  a  carattere  meramente  e
altamente «tecnico», rispetto al  quale  il  controllo  del  pubblico
sull'esercizio dell'attivita' giurisdizionale -  richiesto  dall'art.
6, paragrafo 1, della CEDU, cosi' come interpretato  dalla  Corte  di
Strasburgo - possa ritenersi non necessario alla luce della peculiare
natura delle questioni trattate. 
    Quanto,  poi,  alle  esigenze  di  riservatezza  che,  ad  avviso
dell'Avvocatura  dello  Stato,  giustificherebbero   la   sottrazione
dell'udienza di sicurezza al regime della pubblicita',  esse  vengono
riferite allo stesso soggetto nei cui confronti  il  procedimento  si
svolge, in correlazione ai mezzi istruttori  richiesti  ai  fini  del
giudizio sulla sua personalita'. Ma,  a  prescindere  da  ogni  altra
possibile obiezione, e' dirimente al riguardo il rilievo che siffatte
esigenze risulterebbero comunque ininfluenti rispetto al petitum, che
mira   a   lasciare   allo   stesso   interessato   la    valutazione
dell'opportunita' di rendere pubblica la trattazione della procedura. 
    Per altro verso, poi, la «posta in  gioco»  nel  procedimento  in
questione si presenta, senza alcun dubbio,  particolarmente  elevata.
Nella generalita' dei casi, la verifica della pericolosita'  sociale,
operata nell'ambito del procedimento di cui si discute, e' prodromica
alla sottoposizione dell'interessato a misure di sicurezza  personali
(art.  215  cod.  pen.).  Nell'ambito  delle  misure   di   sicurezza
patrimoniali (art. 236, primo comma, cod. pen.), la confisca risulta,
infatti,  espressamente  esclusa  dall'ambito  di  operativita'   del
procedimento stesso, essendo la competenza in materia  attribuita  al
giudice dell'esecuzione (art. 676, comma 1, cod. proc. pen.);  mentre
la cauzione di buona condotta  e'  prevista  in  pochissime  ipotesi,
oltre a risultare largamente desueta nella pratica. 
    Le  misure   di   sicurezza   personali   comportano,   peraltro,
limitazioni  di   rilevante   spessore   alla   liberta'   personale,
raggiungendo,  nel  caso  delle  misure  detentive,   un   tasso   di
afflittivita' del tutto analogo a quello delle pene detentive.  Dette
misure sono  applicate,  inoltre,  per  periodi  minimi  di  notevole
durata.  Nell'ipotesi  oggetto  del  giudizio  a  quo,  ad   esempio,
l'eventuale dichiarazione di  delinquenza  abituale  dell'interessato
potrebbe comportare la sua assegnazione ad una colonia agricola o  ad
una casa di lavoro per la durata minima di due anni  (art.  217  cod.
pen.); in altre ipotesi il periodo minimo di  internamento  e'  anche
piu' lungo. La revoca anticipata della misura, prima  della  scadenza
del  termine  di  durata  minima,  all'esito  di  un  riesame   della
pericolosita', rappresenta, d'altro canto, una mera eventualita'. 
    Al pari del  procedimento  per  l'applicazione  delle  misure  di
prevenzione, anche quello considerato  presenta,  dunque,  specifiche
particolarita', che valgono a differenziarlo da un complesso di altre
procedure camerali e che conferiscono specifico risalto alle esigenze
alla cui soddisfazione il principio di pubblicita' delle  udienze  e'
preordinato. Si tratta, infatti, di  un  procedimento  all'esito  del
quale il giudice e' chiamato ad  esprimere  un  giudizio  di  merito,
idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e  sostanziale  su  un
bene primario dell'individuo, costituzionalmente tutelato,  quale  la
liberta' personale. 
    Si deve, pertanto, concludere che, anche nel caso in  esame,  sia
indispensabile, ai fini della realizzazione della  garanzia  prevista
dall'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, che le  persone  coinvolte  nel
procedimento abbiano la possibilita' di chiedere il  suo  svolgimento
in forma pubblica. 
    8.- Gli artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679,  comma  1,  cod.
proc.   pen.   vanno   dichiarati,    pertanto,    costituzionalmente
illegittimi, nella parte in cui non consentono che, su istanza  degli
interessati, il  procedimento  per  l'applicazione  delle  misure  di
sicurezza si svolga, davanti  al  magistrato  di  sorveglianza  e  al
tribunale di sorveglianza, nelle forme dell'udienza pubblica.