ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  18-bis,
commi 3 e 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione
delle direttive 93/104/CE e  2000/34/CE  concernenti  taluni  aspetti
dell'organizzazione dell'orario di lavoro), promosso dal Tribunale di
Brescia, nel procedimento vertente tra F.D. ed altra e  il  Ministero
del lavoro e delle politiche  sociali  -  Direzione  provinciale  del
lavoro di Brescia, con ordinanza del 21 marzo 2012,  iscritta  al  n.
170 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2012. 
    Visti l'atto  di  costituzione  di  Airest  s.p.a.  (gia'  Airest
s.r.l.), nonche' l'atto di intervento del  Presidente  del  Consiglio
dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  15  aprile  2014  il  Giudice
relatore Sergio Mattarella; 
    uditi l'avvocato Andrea  Bortoluzzi  per  l'Airest  s.p.a.  (gia'
Airest s.r.l.)  e  l'avvocato  dello  Stato  Filippo  Bucalo  per  il
Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Nel  corso  di  un  giudizio  di  opposizione  ad  ordinanza
ingiunzione  emessa  dalla  Direzione  provinciale  del  lavoro   per
l'irrogazione di sanzioni amministrative in  materia  di  lavoro,  il
Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di  giudice  del  lavoro,
con  ordinanza  del  21  marzo  2012  ha  sollevato,  in  riferimento
all'articolo  76  della  Costituzione,  questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 18-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo
8  aprile  2003,  n.  66  (Attuazione  delle  direttive  93/104/CE  e
2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario
di lavoro). 
    1.1.- Il giudice remittente  precisa,  in  punto  di  fatto,  che
l'ordinanza ingiunzione oggetto di opposizione e' stata emessa per le
seguenti violazioni: art. 4, commi 2, 3 e 4, del  d.lgs.  n.  66  del
2003, per superamento della  durata  massima  dell'orario  di  lavoro
settimanale; art. 5, comma 3, del medesimo decreto,  per  svolgimento
di lavoro straordinario oltre il limite di 250 ore annuali;  art.  7,
comma 1, del medesimo  decreto,  per  mancata  fruizione  del  riposo
giornaliero di undici  ore  ogni  ventiquattro  nel  periodo  dal  1°
ottobre 2007 al 26  aprile  2008;  art.  9,  comma  1,  del  medesimo
decreto, per mancata concessione del  riposo  settimanale  di  almeno
ventiquattro ore nel medesimo periodo appena riportato. 
    Rileva poi il  Tribunale  che  la  parte  privata  ricorrente  ha
eccepito l'illegittimita'  costituzionale  del  regime  sanzionatorio
applicabile  nella  specie,  e  che  l'accoglimento  della  questione
determinerebbe l'applicazione di un regime «diverso e  migliore»,  in
base alla normativa in precedenza vigente. 
    In particolare, per le violazioni degli artt. 7 e 9 del d.lgs. n.
66 del 2003, se  si  applicasse  nella  specie  l'art.  9  del  regio
decreto-legge 15 marzo  1923,  n.  692  (Limitazione  dell'orario  di
lavoro per gli  operai  ed  impiegati  delle  aziende  industriali  o
commerciali di  qualunque  natura),  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 17 aprile 1925, n. 473 la sanzione sarebbe  compresa  tra
25 e 154 euro ovvero, qualora si tratti di piu' di cinque lavoratori,
tra i 154 e i 1.032 euro; la disciplina introdotta nel 2003,  invece,
individua limiti compresi tra  euro  104  ed  euro  630  per  ciascun
lavoratore e non piu' per singola violazione,  mentre  la  violazione
dell'art. 4 del d.lgs. n. 66 del 2003 prevede una sanzione oscillante
tra 130 e 780 euro per ogni lavoratore e per ciascun periodo. 
    1.2.- Tanto premesso, il giudice a quo osserva che il  d.lgs.  n.
66 del 2003 e' stato emanato sulla base della delega contenuta  nella
legge 1°  marzo  2002,  n.  39  (Disposizioni  per  l'adempimento  di
obblighi  derivanti  dall'appartenenza  dell'Italia  alle   Comunita'
europee. Legge comunitaria 2001), la quale  prevedeva,  fra  l'altro,
nel suo art. 2, comma 1, lettera c), il criterio direttivo per cui le
sanzioni  amministrative  dovevano   essere   regolate   secondo   la
previsione per cui in ogni caso «saranno previste sanzioni  identiche
a quelle eventualmente gia' comminate  dalle  leggi  vigenti  per  le
violazioni che siano omogenee e di pari  offensivita'  rispetto  alle
infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi». Sulla base  di
simile previsione, il remittente pone a confronto le regole  previste
in materia di orario di lavoro nella disciplina previgente  e  quelle
contenute nel d.lgs. n. 66 del 2003, allo scopo di verificare  se  si
possa parlare  di  violazioni  «omogenee  e  di  pari  offensivita'»,
pervenendo alla conclusione affermativa. 
    Ed infatti, la regolazione dell'orario di lavoro di cui  all'art.
4 del decreto n. 66  del  2003  trova  un'evidente  rispondenza  alle
previsioni di cui agli artt. 1 e 5 del r.d.l. n. 692 del 1923 (orario
di lavoro massimo di otto ore, pari a  quarantotto  ore  settimanali,
con non piu' di due ore al giorno di  straordinario);  queste  ultime
norme prevedevano un regime dell'orario di lavoro la  cui  violazione
implicava l'irrogazione delle sanzioni di cui all'art. 9  del  r.d.l.
n. 692 del 1923. Allo stesso modo, l'art. 4 del  decreto  n.  66  del
2003  «non  si  differenzia  dalla  disciplina  previgente   se   non
limitatamente al computo complessivo inderogabile  settimanale»,  per
cui la violazione del  medesimo  dovrebbe  comportare  l'applicazione
della sanzione di cui al menzionato art. 9 del r.d.l. menzionato. 
    Considerazioni  analoghe  possono  essere  svolte  -  secondo  il
Tribunale - a proposito della disciplina sul  riposo  giornaliero  di
cui all'art. 7 del d.lgs. n. 66 del  2003,  nonche'  per  quella  del
riposo settimanale di cui all'art. 9 del medesimo decreto.  Rimanendo
ferma, rispetto alla regolazione precedente,  la  regola  del  riposo
settimanale di ventiquattro ore,  si  aggiungono  modeste  differenze
rispetto alla disciplina contenuta nella legge 22 febbraio  1934,  n.
370 (Riposo domenicale e settimanale). 
    La conclusione cui perviene il Tribunale di Brescia e' nel  senso
che, pure in assenza di una «perfetta identita'» tra  le  fattispecie
di cui al decreto  n.  66  del  2003  e  quelle  di  cui  alle  leggi
previgenti sopra richiamate, «sotto il profilo della  omogeneita'  si
tratta  di  discipline  regolanti  entrambe  il  rispetto  di  minimi
irrinunciabili  nel  rapporto  tra  tempo   lavorativo   e   riposo».
Analogamente, sotto il profilo delle sanzioni, la disciplina  vigente
e quella pregressa sono animate dal medesimo fine, che e'  quello  di
«salvaguardare le condizioni del singolo lavoratore, senza che  possa
farsi derivare una diversa conclusione in relazione al  differenziato
regime della disciplina previgente nel caso di violazioni relative ad
un numero di lavoratori superiori ai  cinque».  Sicche',  secondo  il
Tribunale, l'unicita'  della  materia  e  la  semplice  differenziata
modulazione dei sistemi di conteggio dei limiti massimi consentono di
ritenere  che  la  nuova  disciplina  sia  omogenea   rispetto   alla
precedente. 
    Cio'  comporta  la  necessita'  della   rimessione   alla   Corte
costituzionale, attesa la violazione dell'art. 76 della Costituzione. 
    2.- Nel giudizio si e' costituita la parte privata Airest s.p.a.,
ricorrente avverso l'ordinanza ingiunzione, chiedendo  l'accoglimento
della prospettata questione. 
    2.1.- La parte, dopo aver ricordato le circostanze di  fatto  del
giudizio a quo e le violazioni contestate degli artt. 4, 5, 7 e 9 del
d.lgs. n. 66 del 2003, osserva che il  provvedimento  di  ingiunzione
prevedeva una sanzione complessiva  pari  ad  euro  23.610,  sanzione
pagata con riserva di ripetizione. 
    Cio' premesso, la parte provvede ad una ricostruzione del  quadro
normativo nel quale si inserisce l'odierna questione. Con  la  citata
legge n. 39 del 2002 e' stata concessa una delega dal  Parlamento  al
Governo per l'attuazione  di  direttive  comunitarie,  tra  le  quali
quelle in materia di orario di lavoro; l'art. 2, comma 1, lettera c),
della legge ha previsto come criterio direttivo  quello  per  cui  le
sanzioni amministrative dovevano essere identiche a quelle  comminate
dalle  leggi  vigenti  per  le  violazioni   omogenee   e   di   pari
offensivita'. In attuazione della delega, gli artt. 4, 7 e  9,  comma
1, del d.lgs. n. 66 del 2003, regolando  la  materia  dell'orario  di
lavoro e dei riposi giornalieri e settimanali, nella loro  originaria
formulazione non prevedevano specifiche sanzioni per la violazione di
dette norme; ed anche le direzioni  provinciali  del  lavoro  avevano
inteso tale silenzio come indice del fatto che dovessero continuare a
trovare applicazione le sanzioni previste  per  precetti  di  analogo
contenuto nella  legislazione  previgente.  In  particolare,  per  la
violazione delle  regole  sul  riposo  giornaliero  si  applicava  la
sanzione di cui all'art. 9  del  r.d.l.  n.  692  del  1923;  per  la
violazione della disciplina del riposo settimanale  si  applicava  la
sanzione dell'art. 27 della legge n. 370 del 1934; per la  violazione
della disciplina  sull'orario  di  lavoro  settimanale  si  applicava
l'art. 9 del r.d.l. n. 692 del 1923. 
    La situazione, pero', e' radicalmente  mutata  con  l'entrata  in
vigore del decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213  (Modifiche  ed
integrazioni al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in  materia
di  apparato  sanzionatorio  dell'orario  di   lavoro),   il   quale,
introducendo l'art. 18-bis del d.lgs. n.  66  del  2003,  ha  fissato
specifiche sanzioni per la violazione delle disposizioni di cui  agli
artt. 4, commi 2, 3 e 4, 7, comma  1,  e  9,  comma  1,  del  decreto
stesso; sanzioni molto piu' elevate rispetto a quelle previste  dalle
citate leggi  precedenti,  le  quali  sono  rimaste  applicabili,  al
massimo, per le violazioni compiute fino al  31  agosto  2004  e  non
oltre. La legittimita' costituzionale di  tale  modifica  legislativa
costituisce l'oggetto del presente giudizio. 
    2.2.- Secondo la parte costituita, la  rilevanza  della  presente
questione e' palese. Il  giudizio  a  quo,  infatti,  verte  soltanto
sull'ammontare delle sanzioni dovute; e l'eventuale  declaratoria  di
illegittimita' costituzionale determinerebbe o il venire meno di ogni
sanzione per le violazioni contestate nel giudizio in  corso,  oppure
l'applicazione delle  piu'  lievi  sanzioni  di  cui  alla  normativa
pregressa. 
    2.3.- La parte privata passa quindi all'esame della non manifesta
infondatezza della questione. 
    Il criterio direttivo di cui al citato art. 2 della legge  delega
dovrebbe far comprendere che il legislatore, nel momento in cui si e'
richiamato alle sanzioni previste dalle leggi vigenti, non poteva che
intendere le leggi vigenti al momento della sua  entrata  in  vigore.
Com'e' stato confermato anche da numerosi  interpreti,  l'espressione
"in  ogni  caso"  usata  dal  legislatore   delegante   deve   essere
interpretata  nel  senso  di   non   ammettere   deroghe,   imponendo
l'attuazione del  principio  anche  se  «essa  avesse  comportato  la
previsione di una sanzione amministrativa di importo non compreso tra
euro 103 ed euro 103.291», in  cio'  superando  il  diverso  criterio
direttivo contenuto nella medesima disposizione della  legge  delega.
In altre parole, in  presenza  di  violazioni  «omogenee  e  di  pari
offensivita'», il criterio fissato nella delega sarebbe,  secondo  la
parte, quello per cui non potrebbe essere prevista  l'irrogazione  di
sanzioni diverse da quelle gia'  previste  in  precedenza.  Da  tanto
consegue che non sarebbe possibile «negare l'omogeneita'  e  la  pari
offensivita' delle violazioni di norme, che immutate nel principio  e
nella  struttura,  prevedano  limiti  quantitativi  diversi  al   cui
superamento consegue la sanzione oppure ipotesi derogatorie diverse». 
    Premessa questa ricostruzione, la  societa'  costituita  passa  a
confrontare le norme sanzionatorie contenute nel  d.lgs.  n.  66  del
2003 con quelle previste nel sistema  previgente  e,  sulla  base  di
richiami giurisprudenziali e  di  dottrina,  perviene  alle  seguenti
conclusioni: 1) che la disposizione dell'art. 9, comma 1, del  d.lgs.
n. 66  del  2003  in  tema  di  riposo  settimanale  ha  in  sostanza
riprodotto l'art. 1, comma 1, della legge n. 370 del 1934, pur  senza
negare che vi sono alcune diversita' lessicali le quali non mutano la
sostanza del precetto, tanto che le direzioni provinciali del  lavoro
avevano applicato sempre l'art. 27 della legge n. 370 del  1934  fino
all'entrata in vigore del d.lgs. n. 213 del 2004; 2) che l'art. 7 del
d.lgs. n. 66 del 2003 «ha di fatto riproposto un principio omogeneo a
quello deducibile, nel vigore del sistema previgente,  dal  combinato
disposto degli artt. 1 e 5 del r.d.l. n. 692 del 1923»; 3) che l'art.
4 del d.lgs. n. 66 del 2003 in tema di durata  media  dell'orario  di
lavoro ha pure riproposto un principio  deducibile,  nel  vigore  del
sistema previgente, dal combinato disposto degli  artt.  1  e  5  del
r.d.l. n. 692 del 1923. 
    La parte privata, pertanto, conclude nel senso  che  le  sanzioni
amministrative introdotte dall'art. 18-bis del d.lgs. n. 66 del  2003
sono  di  misura  ben  superiore  rispetto  a  quelle  esistenti  nel
pregresso sistema, con cio' determinando l'evidente violazione  della
disposizione contenuta nella legge delega  e,  quindi,  dell'art.  76
Cost. 
    3.- Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione venga  dichiarata  inammissibile  o
infondata. 
    3.1.- L'inammissibilita' deriverebbe dal fatto che l'ordinanza di
rimessione non consente di apprezzare la rilevanza  della  questione,
poiche' il Tribunale non indica analiticamente le sanzioni  comminate
nella specie,  ne'  quelle  che  sarebbero  applicabili  in  caso  di
declaratoria di illegittimita' costituzionale. 
    3.2.-  Nel  merito,  la  questione  sarebbe  comunque  priva   di
fondamento. 
    Osserva  l'Avvocatura  dello   Stato   che   il   tema   centrale
dell'odierno giudizio consiste nello stabilire l'esatta portata della
nozione di "omogeneita'" delle violazioni cui si riporta la norma  di
delega. Soltanto ove tale requisito  fosse  dimostrato,  infatti,  si
potrebbe prefigurare una fondatezza della prospettata  questione.  Ma
tale omogeneita' non sussiste, secondo la parte intervenuta. 
    L'ordinamento italiano, infatti,  dovendo  dare  attuazione  alle
direttive  dell'Unione  europea,  non  ha  scelto  di  modificare   o
integrare   le   disposizioni   precedenti,   quanto   di   procedere
all'integrale riscrittura della disciplina dell'orario di lavoro. Nel
sistema attuale, essa  prevede  la  fissazione  di  un  orario  medio
complessivo settimanale, comprensivo del lavoro straordinario, pari a
quarantotto ore; un periodo minimo di riposo  giornaliero  di  undici
ore ogni ventiquattro e un  periodo  di  riposo  settimanale  pari  a
ventiquattro ore ogni sette giorni. La durata massima della settimana
lavorativa, pero', viene demandata  alla  contrattazione  collettiva.
Nel sistema precedente, invece, gli artt. 1 e 5 del r.d.l. n. 692 del
1923 fissavano la durata massima  del  lavoro  ordinario,  di  quello
straordinario e della settimana lavorativa. 
    La previsione di una durata  media  complessiva  della  settimana
lavorativa, da  rispettare  sull'arco  temporale  di  riferimento  di
quattro mesi, consente la concentrazione del  lavoro  in  periodi  di
tempo ridotti, mentre  il  r.d.l.  n.  692  del  1923  non  conteneva
analoghe disposizioni.  Sotto  questo  profilo  sarebbe  evidente  il
carattere fortemente innovativo dell'odierno sistema, sia  in  ordine
all'orario settimanale che a quello  giornaliero.  Quanto  al  lavoro
giornaliero,  il  limite  delle  undici  ore  ogni  ventiquattro  non
esisteva nel sistema pregresso; ed anche per  il  riposo  settimanale
l'art. 9 del d.lgs. n. 66 del 2003 innova rispetto alla disciplina di
cui alla legge n. 370 del 1934. 
    In conclusione - secondo l'Avvocatura  dello  Stato  -  la  nuova
disciplina si fonda su presupposti totalmente diversi da  quelli  del
passato, sicche' la mancanza di omogeneita' esclude  la  possibilita'
di violazione del precetto contenuto nella legge delega. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del
lavoro,  ha  sollevato,  in   riferimento   all'articolo   76   della
Costituzione,  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
18-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 8  aprile  2003,  n.  66
(Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni
aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro). Tali disposizioni
- le  quali  prevedono,  rispettivamente,  che  la  violazione  delle
disposizioni di cui agli artt. 4, commi 2, 3 e 4, e 10, comma 1,  del
decreto stesso sia punita con la sanzione amministrativa da 130 a 780
euro per ogni lavoratore e per ciascun periodo (comma 3),  e  che  la
violazione delle disposizioni di cui agli artt.  7,  comma  1,  e  9,
comma 1, del decreto stesso sia punita con la sanzione amministrativa
da 105 a 630 euro (comma 4) - si porrebbero in contrasto  con  l'art.
2, comma 1, lettera c), della legge  delega  1°  marzo  2002,  n.  39
(Disposizioni    per    l'adempimento    di    obblighi     derivanti
dall'appartenenza   dell'Italia   alle   Comunita'   europee.   Legge
comunitaria 2001), il quale ha previsto come  criterio  direttivo  in
materia di sanzioni amministrative che, nel passaggio dal  precedente
al nuovo regime, in ogni caso «saranno previste sanzioni identiche  a
quelle eventualmente  gia'  comminate  dalle  leggi  vigenti  per  le
violazioni che siano omogenee e di pari  offensivita'  rispetto  alle
infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi».  E  poiche'  -
secondo la  ricostruzione  operata  dal  Tribunale  -  le  precedenti
disposizioni in materia prevedevano l'irrogazione  di  sanzioni  piu'
miti,  cio'   si   tradurrebbe   nella   conseguente   illegittimita'
costituzionale per violazione della legge delega. 
    2.- Va innanzitutto rigettata l'eccezione  preliminare  sollevata
dall'Avvocatura dello Stato secondo la  quale  la  questione  sarebbe
inammissibile perche' l'ordinanza  di  rimessione  non  avrebbe  dato
conto in modo adeguato della rilevanza  della  medesima.  L'eccezione
non e' fondata, perche' il Tribunale di Brescia ha illustrato sia  la
fattispecie  concreta  posta   al   suo   esame   sia   le   sanzioni
amministrative che sono state irrogate  sulla  base  delle  censurate
disposizioni,  indicando  anche  quali  erano  -   secondo   la   sua
prospettazione - le sanzioni che si  sarebbero  dovute  applicare  in
base al sistema previgente, il  che  comporta  che  sia  da  ritenere
dimostrata in modo sufficiente la rilevanza dell'odierna questione di
legittimita' costituzionale. 
    3.-  Ai  fini  del  corretto  inquadramento  della  questione  e'
opportuna una breve premessa di carattere ricostruttivo. 
    Il decreto legislativo n. 66 del 2003 ha dato  attuazione,  anche
se con notevole ritardo, a due direttive comunitarie, n. 93/104/CE  e
n. 2000/34/CE in materia di organizzazione dell'orario di lavoro.  In
sede di emanazione  del  decreto  si  decise,  per  ragioni  che  non
interessano  nella  sede  odierna,  di  non  intervenire  sul  regime
sanzionatorio relativo  alle  violazioni  in  materia  di  orario  di
lavoro.  Di  tanto  costituisce  specchio  evidente   la   previsione
dell'art. 19, comma 2, del d.lgs. n.  66  del  2003  che,  nella  sua
versione originaria, prevedeva l'abrogazione, dalla data  di  entrata
in vigore, di tutte le disposizioni legislative  e  regolamentari  in
materia,  «salve  le  disposizioni  espressamente  richiamate  e   le
disposizioni aventi carattere sanzionatorio»; il  che  prova  che  il
legislatore  delegato  era  ben  consapevole  della   necessita'   di
mantenere in vita le sanzioni amministrative previgenti. 
    Un ulteriore e successivo intervento, rappresentato  dal  decreto
legislativo 19 luglio 2004, n.  213  (Modifiche  ed  integrazioni  al
decreto legislativo 8 aprile 2003, n.  66,  in  materia  di  apparato
sanzionatorio dell'orario di  lavoro),  avvalendosi  dello  strumento
della delega correttiva - prevista, nel caso specifico, dall'art.  1,
comma 4, della legge delega n. 39 del 2002 - aggiunse nel  corpo  del
d.lgs. n. 66 del 2003, oltre ad altre modifiche, anche il nuovo  art.
18-bis, oggetto del presente giudizio. 
    La  materia,  peraltro,  non  ha  trovato  una  propria   stabile
sistemazione con  l'introduzione  dell'art.  18-bis  oggi  censurato,
perche' successivamente il  legislatore  e'  intervenuto  piu'  volte
proprio su tale articolo, che e' stato oggetto di ulteriori modifiche
contenute prima nell'art. 41 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la  semplificazione,
la competitivita', la stabilizzazione della  finanza  pubblica  e  la
perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1,
comma  1,  della  legge  6  agosto  2008,  n.  133.  Successivamente,
nell'art. 7 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe  al  Governo
in materia di  lavori  usuranti,  di  riorganizzazione  di  enti,  di
congedi,  aspettative  e  permessi,  di  ammortizzatori  sociali,  di
servizi   per   l'impiego,   di   incentivi    all'occupazione,    di
apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'  misure  contro  il
lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro  pubblico  e  di
controversie di lavoro). Da ultimo, nell'art. 14,  comma  1,  lettera
c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145 (Interventi urgenti di
avvio del piano "Destinazione  Italia",  per  il  contenimento  delle
tariffe  elettriche  e  del  gas,  per  l'internazionalizzazione,  lo
sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonche' misure  per  la
realizzazione di opere  pubbliche  ed  EXPO  2015),  convertito,  con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n.
9. 
    E' necessario precisare che, avendo il giudice a quo chiarito che
le sanzioni  amministrative  inflitte  nel  giudizio  davanti  a  lui
pendente riguardano il periodo di tempo che va dall'ottobre  2007  al
giugno 2008, lo scrutinio della Corte sara' limitato, in  conformita'
al principio della domanda, al testo originario dell'art. 18-bis, che
e' quello cui si riferisce il Tribunale di Brescia, senza  riguardare
in alcun modo il testo risultante dalle modifiche successive di detta
norma. 
    4.- Lo scrutinio della Corte,  quindi,  riguarda  la  prospettata
violazione dei principi della legge delega derivante dalla previsione
di sanzioni amministrative piu' elevate rispetto a quelle di  cui  al
sistema previgente; in particolare, la Corte e' chiamata a  stabilire
se le sanzioni  introdotte  dalla  norma  impugnata  possano  o  meno
considerarsi diverse - e, in questo  caso,  maggiori  -  rispetto  «a
quelle eventualmente  gia'  comminate  dalle  leggi  vigenti  per  le
violazioni che siano omogenee e di pari offensivita'». La sussistenza
del  carattere  della  omogeneita'  costituisce,  evidentemente,   un
aspetto  decisivo,  perche'  il  riconoscimento  dell'eventuale   non
omogeneita'   delle   nuove   sanzioni   rispetto   alle   precedenti
escluderebbe in radice la sussistenza di una violazione  della  legge
delega; e proprio su questo punto,  infatti,  si  e'  concentrata  la
linea difensiva dell'Avvocatura dello  Stato.  Una  volta  verificata
l'esistenza di tale elemento, si dovra' procedere al confronto  delle
sanzioni. 
    4.1.- E' appena il  caso  di  rammentare  -  trattandosi  di  una
questione di legittimita' costituzionale  prospettata  esclusivamente
in termini di violazione della delega legislativa -  che  costituisce
giurisprudenza pacifica di questa Corte il principio secondo cui, ove
sia necessario verificare la conformita' della  norma  delegata  alla
norma delegante, e' richiesto lo svolgimento di un  duplice  processo
ermeneutico, condotto in parallelo: l'uno, concernente la  norma  che
determina l'oggetto, i principi e i criteri direttivi  della  delega;
l'altro,  relativo  alla  norma   delegata,   da   interpretare   nel
significato  compatibile  con  questi  ultimi.  Nel  determinare   il
contenuto della delega si deve tenere conto del complessivo  contesto
normativo nel quale si inseriscono  la  legge  delega  e  i  relativi
principi  e  criteri  direttivi,  nonche'  delle  finalita'  che   la
ispirano, che costituiscono non solo la base e il limite delle  norme
delegate, ma anche gli strumenti  per  l'interpretazione  della  loro
portata. Deve, altresi', considerarsi che la delega  legislativa  non
esclude ogni discrezionalita' del legislatore delegato;  questa  puo'
essere piu' o meno ampia, in relazione al grado di  specificita'  dei
criteri fissati nella legge delega.  Pertanto,  per  valutare  se  il
legislatore abbia ecceduto tali margini di discrezionalita',  occorre
individuare la ratio della delega per verificare se la norma delegata
sia stata con questa coerente (fra le altre, sentenze n. 272 del 2012
e n. 184 del 2013). 
    In  riferimento,   poi,   ai   cosiddetti   decreti   legislativi
integrativi   e   correttivi,   questa   Corte,   nel    riconoscerne
l'ammissibilita' da un punto di  vista  costituzionale,  ha  tuttavia
precisato che cio' che conta e' «che si intervenga solo  in  funzione
di correzione o integrazione delle norme delegate gia' emanate, e non
gia' in funzione di un esercizio tardivo, per la prima  volta,  della
delega "principale";  e  che  si  rispettino  pienamente  i  medesimi
principi e criteri  direttivi  gia'  imposti  per  l'esercizio  della
medesima delega "principale"» (sentenza n.  206  del  2001).  Il  che
significa, nel caso di specie, che  il  medesimo  criterio  direttivo
sopra richiamato, ancorche'  dettato  per  l'esercizio  della  delega
principale, deve ovviamente valere anche in sede  di  emanazione  del
decreto integrativo e correttivo, ossia quello che contiene la  norma
oggi in esame. 
    5.- E' necessario, quindi, procedere al confronto,  in  relazione
alle sanzioni amministrative in concreto erogate nel giudizio a  quo,
tra le previsioni dei censurati commi 3  e  4  dell'art.  18-bis  del
d.lgs. n. 66 del 2003 e le sanzioni di cui al sistema precedente. 
    5.1.- Come correttamente risulta dall'ordinanza di rimessione, il
sistema sanzionatorio relativo alle violazioni in tema di  orario  di
lavoro  e  di  riposo  domenicale  e  festivo  era  contenuto,   fino
all'entrata in vigore della norma oggi in  esame,  in  una  normativa
molto risalente nel tempo, ossia  il  regio  decreto-legge  15  marzo
1923, n. 692 (Limitazioni dell'orario di lavoro  per  gli  operai  ed
impiegati  delle  aziende  industriali  o  commerciali  di  qualunque
natura), e la legge 22 febbraio 1934, n.  370  (Riposo  domenicale  e
settimanale). 
    In particolare, gli artt. 1 e  5  del  r.d.l.  n.  692  del  1923
prevedevano una durata massima della normale giornata di lavoro  pari
ad otto ore al giorno per 48 ore settimanali di lavoro effettivo, con
possibilita' di incremento, a titolo di lavoro straordinario, per non
piu' di due ore al giorno per dodici  ore  settimanali.  La  relativa
sanzione era contenuta nel successivo art. 9 il  quale  -  nel  testo
risultante dalle modifiche di cui all'art. 3, comma  1,  del  decreto
legislativo 19 dicembre 1994, n. 758 (Modificazioni  alla  disciplina
sanzionatoria  in  materia  di  lavoro)  -  prevedeva  una   sanzione
amministrativa da lire cinquantamila a lire trecentomila (ossia da 25
a 155 euro), con incremento qualora  essa  si  riferisse  a  piu'  di
cinque lavoratori ovvero si  fosse  verificata  nel  corso  dell'anno
solare per piu' di cinquanta giorni. 
    In materia di riposo settimanale, l'art. 1 della legge n. 370 del
1934 prevedeva l'obbligo di un riposo di 24 ore consecutive per  ogni
settimana, di regola fissato per la domenica (art.  3);  le  relative
sanzioni erano contenute nel  successivo  art.  27,  secondo  cui  la
contravvenzione  a  tale  previsione  era  punita  con  la   sanzione
amministrativa   da   lire   cinquantamila   a   lire   trecentomila,
suscettibile di aumento qualora la stessa fosse riferita  a  piu'  di
cinque lavoratori. 
    Tali disposizioni, com'e' evidente, rispondevano ad  una  realta'
economica e lavorativa assai piu'  semplice  di  quella  odierna,  ma
tuttavia dimostrano come fin da  allora  la  legge  fosse  attenta  a
questo profilo, ritenendo che la violazione della disciplina in  tema
di orario di lavoro fosse un indice di sfruttamento  dei  lavoratori,
da punire con il necessario rigore. 
    5.2.- Rispetto a tale risalente normativa, il d.lgs.  n.  66  del
2003 introduce alcune significative modifiche. 
    Ai fini che interessano  l'odierna  questione,  e'  da  porre  in
evidenza, ad esempio, che l'art. 3, nel prevedere un  orario  normale
di 40 ore settimanali, consente ai contratti collettivi di  stabilire
una durata minore; l'art. 4, nell'attribuire ai contratti  collettivi
il potere di stabilire la durata massima settimanale  dell'orario  di
lavoro, dispone che la durata media  non  possa  superare,  per  ogni
periodo  di  sette  giorni,  le  48  ore,   comprese   quelle   dello
straordinario; e il successivo comma 3 stabilisce che la durata media
vada calcolata con riferimento ad un periodo non superiore a  quattro
mesi. 
    Quanto al lavoro straordinario, l'art. 5 del  d.lgs.  n.  66  del
2003, pur rimandando  ai  contratti  collettivi  la  regolamentazione
delle relative prestazioni, fissa un massimo di 250 ore annuali. 
    In relazione, infine, al riposo giornaliero e settimanale, l'art.
7 determina il riposo giornaliero in undici ore di riposo consecutivo
ogni ventiquattro ore, mentre l'art. 9 dispone che il  lavoratore  ha
diritto ogni sette giorni a un periodo di riposo  di  almeno  24  ore
consecutive, di regola in coincidenza con la domenica. 
    Per cio' che riguarda, invece,  il  sistema  delle  sanzioni,  il
comma 3  dell'art.  18-bis  oggi  censurato  stabilisce  la  sanzione
amministrativa da 130 a 780 euro, per ogni lavoratore e  per  ciascun
periodo di violazione, per le violazioni di cui agli artt.  4,  commi
2, 3 e 4, e 10,  comma  1,  del  decreto  (fra  i  quali  rientra  la
disciplina sull'orario di lavoro); mentre il comma 4 dell'art. 18-bis
oggi censurato stabilisce la sanzione amministrativa  da  105  a  630
euro per le violazioni di cui agli artt. 7, comma 1, e  9,  comma  1,
del  medesimo  decreto,  ossia  le  norme  che  regolano  il   riposo
giornaliero e settimanale. 
    6.- La questione e' fondata. 
    Dalla ricostruzione operata fin qui risulta in modo evidente  che
il sistema delineato dal d.lgs. n. 66 del 2003, pur in parte  diverso
da quello passato, presenta una definizione dei limiti  di  lavoro  e
delle relative violazioni omogenea rispetto a quella precedente. 
    Il fatto, ad esempio, che gli artt. 1 e 5 del r.d.l. n.  692  del
1923 non contenessero una norma esplicita sulla durata dell'orario di
lavoro settimanale, ma solo la previsione di  un  orario  giornaliero
normale e straordinario, dava conto anche, sia  pure  indirettamente,
dell'orario settimanale; si puo' riconoscere che, prima  dell'entrata
in vigore dell'art. 7 del d.lgs. n. 66 del 2003, non c'era una  norma
esplicita sul riposo giornaliero,  ma  e'  altrettanto  vero  che  lo
stesso  derivava  (per  sottrazione)  dalla  durata  della   giornata
togliendo le ore massime  di  lavoro.  Sembra  innegabile,  in  altre
parole,  che,  nonostante  le  indubbie  diversita',   vi   sia   una
sostanziale coincidenza nella logica di fondo che anima i due diversi
sistemi: entrambi sanzionano l'eccesso di lavoro  e  lo  sfruttamento
del lavoratore che ne consegue, ponendo limiti all'orario  di  lavoro
giornaliero e settimanale ed imponendo periodi di necessario  riposo.
Ed e' appena il caso di rilevare che, nel lungo tempo che  separa  la
legislazione  degli  anni  venti  e  trenta   dello   scorso   secolo
dall'intervento del legislatore del 2003, si colloca anche  l'entrata
in vigore della Costituzione, il  cui  art.  36  demanda  alla  legge
ordinaria il compito di stabilire la durata  massima  della  giornata
lavorativa e riconosce al lavoratore il diritto al riposo settimanale
ed alle ferie annuali retribuite. 
    Ai fini, quindi, del rispetto dei  criteri  fissati  nella  legge
delega, deve affermarsi che le sanzioni amministrative  previste  dal
r.d.l. n. 692 del 1923 e dalla legge n. 370 del 1934 corrispondono  a
violazioni da ritenere omogenee rispetto a quelle regolate dal d.lgs.
n. 66 del 2003 e che, pertanto, la normativa  sanzionatoria  oggi  in
esame era tenuta al rispetto della previsione della delega nel  senso
della necessaria identita'  rispetto  alle  sanzioni  precedenti;  le
quali, come si e' gia' detto, erano state  ritoccate  al  rialzo  dal
d.lgs. n. 758 del 1994. 
    Risulta  in  modo  evidente,  invece,  proprio  sulla  base   del
confronto sopra compiuto,  che  le  sanzioni  amministrative  di  cui
all'art. 18-bis del d.lgs. n. 66 del 2003 sono piu'  alte  di  quelle
irrogate nel sistema precedente; e, trattandosi di  un'operazione  di
puro confronto aritmetico, non sussistono dubbi interpretativi. 
    Ne  discende  la  fondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale, perche' effettivamente  sussiste  la  violazione  del
criterio direttivo contenuto nell'art. 2, comma 1, lettera c),  della
legge  di  delega  n.  39  del  2002,   sicche'   se   ne   impongono
l'accoglimento  e  la  conseguente  declaratoria  di   illegittimita'
costituzionale delle censurate disposizioni, per violazione dell'art.
76 Cost. 
    E' appena il caso di rilevare, d'altronde, che le conclusioni cui
la Corte giunge trovano ulteriore conforto dalla consultazione  degli
atti parlamentari, dai quali si evince che il legislatore delegato ha
riformato il sistema sanzionatorio nella erronea convinzione di poter
intervenire  liberamente  per  l'assenza   di   norme   sanzionatorie
precedenti (in particolare,  la  seduta  del  28  aprile  2004  della
undicesima Commissione della Camera dei deputati). 
    7.-  Alla  luce  di  quanto  gia'  osservato  incidentalmente  al
precedente punto 3, l'accoglimento dell'odierna questione  si  limita
al petitum richiesto e non esplica alcuna efficacia sulle  successive
modifiche legislative relative alla  medesima  disposizione  oggi  in
esame.