ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 2-bis, comma
3, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di  equa  riparazione
in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica
dell'articolo 375 del codice di  procedura  civile),  promossi  dalla
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, con ordinanze del
16 e del 19 settembre,  del  24  ottobre  e  dell'11  novembre  2013,
rispettivamente iscritte al n. 266 del registro ordinanze 2013 ed  ai
nn. 3, 21 e  23  del  registro  ordinanze  2014  e  pubblicate  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  50,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2013 e nn. 5 e 11, prima serie speciale, dell'anno 2014. 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio dell'11 giugno  2014  il  Giudice
relatore Sergio Mattarella. 
    Ritenuto che, con ordinanza del 16 settembre 2013  (r.o.  n.  266
del 2013), la Corte d'appello di  Reggio  Calabria,  sezione  civile,
nella persona del giudice  designato  al  fine  di  provvedere  sulla
domanda di  equa  riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine
ragionevole del processo, nel  corso  di  un  procedimento  avente  a
oggetto una domanda di equa riparazione proposta  nei  confronti  del
Ministero della  giustizia  dalla  parte  risultata  soccombente  nel
processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all'art. 117 della
Costituzione, in relazione all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in avanti, «CEDU»
o «Convenzione»), questione di legittimita'  del  comma  3  dell'art.
2-bis  della  legge  24  marzo  2001,  n.  89  (Previsione  di   equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo  e  modifica  dell'articolo  375  del  codice  di  procedura
civile), articolo aggiunto dall'art. 55, comma  1,  lettera  b),  del
decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per  la  crescita
del Paese), convertito, con  modificazioni,  dall'art.  1,  comma  1,
della legge 7 agosto 2012, n. 134; 
    che, ad avviso del giudice a quo, tale impugnata  disposizione  -
secondo cui: «La misura dell'indennizzo, anche in deroga al  comma  1
[che prevede, a sua volta, che: «Il giudice liquida a titolo di  equa
riparazione una somma di denaro, non  inferiore  a  500  euro  e  non
superiore a  1.500  euro,  per  ciascun  anno,  o  frazione  di  anno
superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del
processo»], non puo' in ogni caso essere superiore  al  valore  della
causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice»  -
viola il parametro invocato «nella parte  in  cui  limita  la  misura
dell'indennizzo (liquidabile in favore della parte che  abbia  subito
un danno per la durata irragionevole  del  processo  presupposto)  al
"valore del diritto accertato" senza alcuna ulteriore  specificazione
o limite, comportando in tal modo l'impossibilita'  di  liquidare  in
alcuna misura un'equa riparazione in  favore  della  parte  che,  nel
processo presupposto, sia risultata interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere  investito  del  ricorso,  proposto  il  19  luglio  2013  nei
confronti del Ministero della giustizia, con  il  quale  M.F.,  nella
qualita' di erede di  A.S.,  aveva  chiesto  l'indennizzo  del  danno
subito per effetto dell'irragionevole durata di una  controversia  in
materia di lavoro promossa davanti al Tribunale ordinario  di  Patti,
sezione distaccata di S. Agata di Militello; b) che la ricorrente nel
giudizio  a  quo  era  risultata  interamente  soccombente  in  detto
presupposto processo di  lavoro,  atteso  che  lo  stesso  era  stato
definito con la sentenza del Tribunale ordinario  di  Patti,  sezione
distaccata di S. Agata di Militello, che aveva rigettato  la  domanda
della stessa ricorrente e che era passata in giudicato il 22  gennaio
2013; 
    che  il  medesimo  giudice   rimettente   sviluppa   poi   alcune
considerazioni in punto di diritto; 
    che, prima di prendere in esame la disposizione  censurata,  egli
evidenzia la portata innovativa, rispetto alla normativa anteriore al
decreto-legge n. 83 del 2012, dell'alinea  e  della  lettera  a)  del
comma 2 dell'art. 2-bis della legge  n.  89  del  2001,  secondo  cui
«L'indennizzo e' determinato a norma dell'articolo  2056  del  codice
civile, tenendo conto: a) dell'esito del processo  nel  quale  si  e'
verificata la violazione di cui al comma 1 dell'articolo 2»; 
    che, a tale proposito, il giudice a quo osserva che,  nel  vigore
di detta previgente normativa, la Corte di cassazione aveva affermato
la spettanza del diritto all'equa riparazione a tutte  le  parti  del
processo  «indipendentemente  dal  fatto  che  esse  siano  risultate
vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed  importanza
del  giudizio»,  nonche'  l'irrilevanza,  al  medesimo  fine,   della
«asserita  consapevolezza  da   parte   dell'istante   della   scarsa
probabilita' di successo dell'iniziativa giudiziaria»  (sono  citate,
in tale senso, le sentenze n. 8632 e n. 8541  del  2010),  ammettendo
che si potesse tenere conto dell'esito del processo presupposto  solo
qualora esso «abbia un  indiretto  riflesso  sull'identificazione,  o
sulla  misura,  del  pregiudizio  morale  sofferto  dalla  parte   in
conseguenza dell'eccesiva  durata  della  causa»,  come  si  verifica
«quando il soccombente abbia promosso una  lite  temeraria,  o  abbia
artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire  proprio
il perfezionamento della fattispecie di cui al  richiamato  art.  2»,
con la precisazione, peraltro, che di tali  circostanze  «costituenti
abuso   del   processo»,   anche   ai   fini   della   commisurazione
dell'indennizzo, «deve dare prova  puntuale  l'Amministrazione»,  non
essendo «sufficiente, a tal fine, la deduzione che la  domanda  della
parte sia stata dichiarata manifestamente infondata» (e' citata,  nel
senso indicato, la sentenza n. 35 del 2012); 
    che,  a  fronte  di  tale  indirizzo  della   giurisprudenza   di
legittimita', formatosi anteriormente all'entrata in vigore del  d.l.
n. 83 del 2012, la citata lettera a)  del  comma  2  dell'art.  2-bis
avrebbe innovato sotto  il  duplice  profilo  che,  in  virtu'  della
stessa, l'esito del giudizio presupposto: a)  assumerebbe,  ancorche'
al solo fine della quantificazione  dell'indennizzo,  «un  ruolo  non
piu' eccezionale ma  normale,  fisiologico  e  soprattutto  sganciato
dalla condizione che esso si  accompagni  anche  alla  consapevolezza
della parte e, correlativamente, ad un uso strumentale del processo»;
b) non dovrebbe piu', per comportare una  riduzione  dell'indennizzo,
essere,  insieme  con  «l'abuso  del  processo  alla  base  di   esso
richiesto»,  allegato  e  provato  dall'amministrazione   resistente,
«potendo e dovendo il giudice  ex  se  [...]  sindacare  e  ponderare
l'esito del giudizio quale risultante dagli atti prodotti»; 
    che, passando all'esame dell'impugnato comma 3  dell'art.  2-bis,
il  rimettente  afferma  che  lo  stesso  stabilisce  che  la  misura
dell'indennizzo, anche in deroga agli importi indicati  dal  comma  1
dello stesso art. 2-bis, non puo' superare non solo il  valore  della
controversia - cio' che,  secondo  lo  stesso  giudice  a  quo,  «da'
espressione ad una convinzione di comune buon  senso  particolarmente
avvertita per le cause bagatellari»  -,  ma  neppure  il  valore  del
diritto accertato dal giudice, quando questo sia inferiore al  valore
della causa; 
    che,  ad  avviso  del  rimettente,   tale   ultima   disposizione
comporterebbe che la domanda di equa riparazione per  l'irragionevole
durata del processo potrebbe essere accolta solo nel caso in cui  chi
la propone sia risultato, almeno in parte,  vittorioso  nel  giudizio
presupposto, mentre nessun indennizzo potrebbe essere riconosciuto  a
chi, nello stesso giudizio, fosse risultato interamente  soccombente,
atteso che,  in  tale  ultimo  caso,  l'accertamento  negativo  della
sussistenza  del  diritto  fatto  valere  in  giudizio   equivarrebbe
all'accertamento che tale diritto, in quanto inesistente, «per  cosi'
dire, "vale zero"»; 
    che il rimettente conclude, sul punto, affermando che: «Non  puo'
sfuggire  pertanto  il  paradosso  (ed  anche   la   violazione   del
fondamentale parametro di cui all'art. 3 Cost.) cui si incorrerebbe a
ritenere che, posto il valore della causa uguale a 100: a) in caso di
diritto accertato uguale a 10,  sia  liquidabile  un  indennizzo  non
maggiore di 10; b) in caso di radicale  rigetto  della  domanda,  sia
invece liquidabile un indennizzo maggiore  fino  al  limite  di  100.
Occorrerebbe presumere, cioe', ma non si vede con quale plausibilita'
logica, che la durata irragionevole del processo  sia  fonte  per  la
parte di sofferenza morale maggiore in caso di totale  rigetto  della
sua domanda e minore in caso di parziale accoglimento»; 
    che, sempre ad avviso del  rimettente,  sarebbe  «tutt'altro  che
certo [...] che una tale interpretazione della norma,  fondata  sulla
sua insuperabile formulazione letterale, vada oltre l'intenzione  del
legislatore, potendosi rinvenire da altre parti della novella  indici
alquanto significativi nella medesima direzione»; 
    che tali sarebbero, anzitutto, le disposizioni delle lettere b) e
c) del comma 2-quinquies dell'art. 2 della legge n.  89  del  2001  -
comma aggiunto dall'art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l.
n. 83 del 2012 - le quali escludono qualunque indennizzo  in  favore,
rispettivamente, della parte che abbia visto  accogliere  la  propria
domanda in misura non superiore a una proposta conciliativa che abbia
rifiutato senza giustificato motivo (art. 91,  primo  comma,  secondo
periodo, cod.  proc.  civ.),  e  della  parte  vincitrice  che  abbia
rifiutato la proposta  di  mediazione  quando  il  provvedimento  che
definisce il giudizio  corrisponde  interamente  al  contenuto  della
stessa (art. 13, primo comma, primo periodo, del decreto  legislativo
4 marzo 2010, n. 28, recante «Attuazione dell'articolo 60 della legge
18 giugno 2009, n. 69, in  materia  di  mediazione  finalizzata  alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali»),  trattandosi
di «ipotesi [...] rispetto alle quali l'avere agito infondatamente in
giudizio costituisce sicuramente un minus (dal  punto  di  vista  del
riconoscimento che nel giudizio presupposto hanno ricevuto le ragioni
fatte valere dalla parte)»; 
    che «rilievo  convergente»  dovrebbe  essere  attribuito,  sempre
secondo il giudice a quo,  anche  alle  seguenti  disposizioni  della
legge n. 89 del 2001 (anch'esse aggiunte o  sostituite  dall'art.  55
del d.l. n. 83 del 2012): a) la gia' menzionata lettera a) del  comma
2 dell'art. 2-bis, che indica l'«esito del processo» tra i  parametri
di cui e'  necessario  tenere  conto  ai  fini  della  determinazione
dell'indennizzo; b) l'art. 4,  che  ha  escluso  che  la  domanda  di
riparazione  possa  essere  proposta  prima  della  conclusione   del
procedimento con provvedimento definitivo; c) la lettera c) del comma
3 dell'art. 3, che impone al ricorrente di depositare, unitamente  al
ricorso, copia autentica della sentenza o dell'ordinanza irrevocabili
che abbiano definito il giudizio; 
    che tali disposizioni evidenzierebbero,  secondo  il  rimettente,
l'importanza attribuita dal legislatore della novella al fatto che il
giudice investito della domanda di equa riparazione  conosca  l'esito
definitivo del giudizio, il che «non altrimenti puo' spiegarsi se non
con il preponderante rilievo attribuito dal legislatore [...] a  tale
aspetto  della   vicenda,   quale   parametro   determinativo   della
liquidazione dell'indennizzo»; 
    che una «indiretta conferma della  ragionevolezza»  dell'indicata
interpretazione della disposizione censurata  si  trarrebbe,  infine,
dall'affermazione, contenuta nella relazione illustrativa al  disegno
di legge di conversione del d.l. n. 83 del 2012, secondo cui  tra  le
finalita' delle modificazioni della legge n. 89 del 2001 vi era anche
quella di «non allargare  le  maglie  di  un  bacino  di  domanda  di
giustizia  suscettibile  di  distorsioni  che  sono   gia'   presenti
nell'attuale sistema (in cui accade che una causa  venga  instaurata,
al  di  la'  della  fondatezza  della  pretesa,   in   funzione   del
conseguimento del successivo indennizzo spettante per  la  violazione
del temine di durata ragionevole del processo,  dal  momento  che  la
Corte europea dei diritti  dell'uomo  ha  piu'  volte  affermato  che
l'indennizzo in parola spetta anche alla  parte  rimasta  soccombente
nel processo "presupposto"»; 
    che, ad  avviso  del  giudice  rimettente,  il  passaggio  citato
tradirebbe la consapevolezza del legislatore che il  principio  della
spettanza  dell'equa  riparazione  anche   alla   parte   interamente
soccombente  «e'   causa   di   distorsioni   nel   funzionamento   e
nell'impostazione teorica stessa dei fondamenti e  della  natura  del
diritto all'equa riparazione»; 
    che, sempre secondo il rimettente, ancorche' l'indicata relazione
illustrativa indichi come obiettivo  della  novella  quello  di  «non
allargare  le  maglie»  della  detta  distorsione,  le   disposizioni
effettivamente introdotte e appena indicate «prescindendo del  tutto,
nell'attribuire   il   visto   rilievo   all'esito   del    giudizio,
dall'accertamento  dell'esistenza  di  un  atteggiamento  negligente,
strumentale o abusivo a fondamento della domanda  rigettata  o  della
resistenza a quella interamente  accolta  -  appaiono  oggettivamente
[idonee] anche a contrastare in radice il principio  suddetto»  della
spettanza  dell'equa  riparazione  anche   alla   parte   interamente
soccombente; 
    che il giudice rimettente afferma  di  non  ignorare  l'esistenza
dell'«indice di segno contrario» costituito dalla disposizione  della
lettera a) del comma 2-quinquies dell'art. 2 della legge  n.  89  del
2001 - secondo cui non e' riconosciuto alcun  indennizzo  «in  favore
della parte soccombente  condannata  a  norma  dell'articolo  96  del
codice di procedura civile  [cioe'  per  responsabilita'  processuale
aggravata]» - la quale, in base all'argomento a  contrario,  dovrebbe
essere interpretata nel  senso  della  spettanza  dell'indennizzo  in
favore della  parte  soccombente  che  non  abbia  subito  la  citata
condanna, con la conseguenza che la mera soccombenza non sarebbe,  di
per se' sola, ragione di esclusione dal diritto all'equa riparazione; 
    che a tale conclusione si opporrebbe,  tuttavia,  sempre  secondo
l'opinione   del   rimettente,   l'«indice   normativo»    costituito
dall'impugnato comma 3 dell'art. 2-bis, il quale, pur non riguardando
i presupposti in astratto della spettanza del diritto  all'indennizzo
ma  la  commisurazione  di  quest'ultimo  (a  priori,  percio',   non
escluso), finisce -  rivelandosi  cosi'  «piu'  potente  rispetto  ai
limitati obiettivi per i quali era stato probabilmente pensato» - con
l'annullarlo completamente in tutti i casi di soccombenza; 
    che alla  stregua  di  cio',  secondo  il  rimettente,  «A  tutto
concedere  non  puo'  non  registrarsi   un   insanabile   contrasto,
quantomeno agli effetti pratici, tra le  due  norme,  il  che  pero',
lungi dal poter autorizzare [...] a una  mera  disapplicazione  della
seconda nella parte in cui risulti in  contrasto  con  la  prima,  ne
rafforza piuttosto il sospetto di incostituzionalita'»; 
    che il giudice a quo afferma, infine, di non  conoscere  pronunce
giurisprudenziali che, in base alla disciplina dell'equa  riparazione
per la violazione del termine  ragionevole  del  processo  risultante
dalle modificazioni recate dall'art. 55 del  d.l.  n.  83  del  2012,
abbiano riconosciuto il diritto all'indennizzo alla parte soccombente
nel processo presupposto, ma solo pronunce  di  rigetto  dei  ricorsi
presentati da tale parte (sono citati, in proposito, i decreti  della
Corte d'appello di Bari 25 settembre 2012 reso  nel  procedimento  n.
547/12 V.G., 6 novembre 2012 reso nel procedimento n. 610/12 V.G.,  6
novembre 2012 reso nel procedimento n. 613/12, 15 gennaio  2013  reso
nel procedimento n. 641/12  V.G.,  nonche'  il  decreto  della  Corte
d'appello di Caltanissetta del 7 febbraio 2013); 
    che, sulla base di tali premesse, il giudice a  quo,  dopo  avere
compiuto  un'ampia  rassegna  dei  principi   che,   in   base   alla
giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di  cassazione
e della Corte di giustizia dell'Unione europea, governano i  rapporti
tra la legislazione interna e la CEDU (sono citate,  in  particolare,
le sentenze della Corte costituzionale n. 303, n.  236,  n.  175,  n.
196, n. 113, n. 80 e n. 1 del 2011, n. 187, n. 138 e n. 93 del  2010,
n. 311 del 2009, n. 348 e n. 349 del 2007, nonche'  le  ordinanze  n.
180 e n. 138 del 2011 e n. 150 del 2002; le sentenze della  Corte  di
cassazione n. 5894 del 2009, n. 1341, n. 1340, n. 1339 e n. 1338  del
2004, e la sentenza della Corte di giustizia dell'Unione  europea  24
aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj), afferma, in punto  di  non
manifesta infondatezza, che l'impugnato comma 3 dell'art. 2-bis della
legge n. 89 del 2001 si pone in contrasto con l'art. 6, paragrafo  1,
della  CEDU,  come  interpretato  dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo; 
    che, a proposito di  tale  parametro  interposto,  il  rimettente
sottolinea come detta  Corte  abbia  sempre  ritenuto  «l'irrilevanza
della soccombenza del ricorrente, in se' e per  se'  considerata»  ai
fini della spettanza dell'equa soddisfazione  prevista  dall'art.  41
della CEDU, in  base  al  rilievo  che  la  parte,  indipendentemente
dall'esito della causa, «ha comunque  subito  una  diminuzione  della
qualita' della vita in  conseguenza  dei  patemi  d'animo  sopportati
durante il lungo  arco  temporale  che  ha  preceduto  la  definitiva
decisione della sua posizione processuale» (e' citata, in  proposito,
la sentenza 19 febbraio 1992, recte, 1998, Paulsen-Medalen e Svensson
contro Svezia); 
    che tale principio,  prosegue  il  rimettente,  e'  sempre  stato
affermato anche dalla Corte di cassazione nel vigore della disciplina
dettata dalla legge n. 89 del 2001 anteriormente  alle  modificazioni
ad essa apportate dal d.l. n. 83 del 2012, avendo  la  giurisprudenza
di legittimita' costantemente affermato, come si e' gia'  visto,  che
il danno non patrimoniale non  e'  escluso  dall'esito  negativo  del
processo o dall'elevata possibilita' del rigetto della domanda e che,
per ritenere infondata la domanda di indennizzo, e' necessario che la
parte soccombente si sia  resa  responsabile  di  lite  temeraria  o,
comunque, di un abuso del processo (sono citate le sentenze n. 8632 e
n. 8541 del 2010), del quale deve fornire la prova la  parte  che  lo
eccepisce (e' citata la sentenza n. 819 del 2010); 
    che la stessa Corte di cassazione aveva ancora affermato che,  al
fine di negare la sussistenza del danno, puo' si' assumere rilievo la
«chiara, originaria e perdurante certezza  sulla  inconsistenza»  del
diritto fatto valere in giudizio, con la precisazione, tuttavia,  che
non «equivale a siffatta certezza originaria la  mera  consapevolezza
della scarsa probabilita' di successo dell'azione» (sentenze n.  8165
del 2010 e n. 24269 del 2008); 
    che il giudice a quo precisa infine che  il  quadro  normativo  e
giurisprudenziale  descritto  non  puo'   ritenersi   «rilevantemente
mutato» a seguito dell'entrata in vigore del  nuovo  testo  dell'art.
35, paragrafo 3, lettera b), della CEDU, come modificato dall'art. 12
del Protocollo n. 14 alla Convenzione, firmato  a  Strasburgo  il  13
maggio 2004, ratificato e reso esecutivo con  la  legge  15  dicembre
2005, n. 280 (Ratifica  ed  esecuzione  del  Protocollo  n.  14  alla
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta'  fondamentali  emendante  il  sistema  di  controllo   della
Convenzione, fatto a Strasburgo il 13 maggio 2004), secondo  cui  «La
Corte dichiara irricevibile ogni ricorso  individuale  presentato  ai
sensi dell'articolo 34 se ritiene che: [...] (b) il ricorrente non ha
subito alcun  pregiudizio  importante,  salvo  che  il  rispetto  dei
diritti dell'uomo garantiti dalla Convenzione e dai  suoi  Protocolli
esiga un esame del ricorso nel merito e a condizione di non rigettare
per questo motivo alcun caso che non sia stato debitamente  esaminato
da un tribunale interno»; 
    che,  secondo  il  rimettente  -  il  quale,  a   proposito   del
significato attribuito dalla Corte europea dei diritti  dell'uomo  al
menzionato art. 35, paragrafo 3, lettera  b),  della  CEDU,  cita  le
sentenze 6 marzo 2012, Gagliano contro Italia, 19 ottobre 2010, Rinck
contro Francia e 18 ottobre 2010, Giusti  contro  Italia  -  infatti,
«nulla autorizza a ritenere che una tale clausola, essendo rapportata
a parametri ulteriori e diversi dal mero esito della causa  e  legati
piuttosto alla considerazione delle variabili  circostanze  del  caso
concreto, possa di per se' comportare  una  revisione  dei  descritti
parametri talmente radicale da potersi prevedere che, in forza  della
stessa, possa escludersi tout  court,  sempre  e  in  ogni  caso,  la
riconoscibilita' dell'equo indennizzo alla parte soccombente»; 
    che, quanto alla rilevanza, la rimettente Corte d'appello afferma
anzitutto che un'interpretazione costituzionalmente  orientata  della
disposizione censurata, tale da renderla compatibile  con  l'invocato
parametro interposto dell'art.  6,  paragrafo  1,  della  CEDU,  come
interpretato dalla Corte  europea  dei  diritto  dell'uomo,  e'  resa
impossibile dal suo tenere letterale, il quale impedisce di liquidare
l'indennizzo in misura superiore «al valore del diritto accertato»; 
    che, in particolare, non  sarebbe  praticabile  l'interpretazione
«restrittiva e  correttiva»  dell'impugnato  comma  3  nel  senso  di
ritenere, come sostenuto in uno dei primi commenti  alla  novella  di
cui all'art. 55 del d.l. n. 83  del  2012,  che  «il  riferimento  al
diritto  accertato  dal   giudice   costituisca   un   limite   nella
determinazione  del  valore  della  causa  cosi'  come  avviene   per
individuare  lo  scaglione  di  valore  della  causa  ai  fini  della
liquidazione delle spese legali»; 
    che a tale interpretazione si  opporrebbero,  infatti,  l'analisi
logica  della  disposizione  censurata  e   l'uso   della   locuzione
disgiuntiva «o», rafforzata dall'inciso «se inferiore», elementi  che
evidenzierebbero che il valore del diritto accertato dal  giudice  e'
indicato dalla norma censurata, in alternativa al valore della causa,
come limite alla  misura  dell'indennizzo  e  non  come  criterio  di
determinazione del valore della causa; 
    che ne conseguirebbe,  conclusivamente,  che  una  lettura  della
disposizione censurata diversa da quella accolta  si  tradurrebbe  in
un'interpretazione contra legem, non consentita neppure  al  fine  di
rendere detta disposizione conforme alla CEDU; 
    che, sempre in punto di rilevanza, il giudice  a  quo  sottolinea
come la norma impugnata abbia una «diretta incidenza» sulla decisione
in ordine alla domanda di equa riparazione proposta; 
    che, infatti, «se  ne  fosse  [...]  confermata  la  legittimita'
costituzionale in applicazione della stessa la domanda [...] andrebbe
rigettata; in caso contrario essa andrebbe accolta,  salvo  solo  una
commisurazione tendenzialmente al minimo  dell'indennizzo  spettante,
all'interno del range fissato dal primo comma dell'art. 2-bis e salvo
sempre il limite rappresentato dal valore della causa»; 
    che il rimettente precisa infine che, ancorche' la fattispecie al
suo esame riguardi un'ipotesi di rigetto integrale della domanda, con
soccombenza del ricorrente nel processo  presupposto,  il  dubbio  di
costituzionalita' prospettato «e' destinato  a  porsi,  nei  medesimi
termini,  anche  nell'ipotesi  inversa  di  soccombenza  della  parte
resistente (o convenuta) nel processo presupposto, ovviamente ove sia
questa a proporre la domanda per equa riparazione»; 
    che ad avviso del giudice a quo, infatti, «sembra evidente che il
riferimento al  valore  del  diritto  accertato  va  rapportato  alla
posizione che nel processo presupposto assumeva la parte  che  avanzi
richiesta d'indennizzo ai sensi della legge n. 89/2001»; 
    che, pertanto, nel caso di soccombenza del convenuto,  «non  deve
fuorviare la considerazione che [...] il giudizio presupposto si  sia
concluso  ovviamente  con  l'accoglimento  della   domanda   avanzata
dall'attore e quindi con il  positivo  accertamento  del  diritto  da
quest'ultimo fatto valere, posto che, ai fini qui in  considerazione,
rileva piuttosto l'altra faccia di quella  statuizione  che,  per  il
convenuto, equivale al rigetto delle sue tesi difensive»; 
    che, per converso, anche  nel  caso  di  soccombenza  dell'attore
(come e' avvenuto nel giudizio a quo), ove a richiedere  l'indennizzo
fosse, pero', non lo stesso attore ma la parte convenuta,  vittoriosa
nel giudizio, «nei confronti della stessa non varrebbe ovviamente  il
limite qui censurato, posto che, in rapporto alla sua  posizione,  il
rigetto della domanda attrice equivale al pieno riconoscimento  della
fondatezza del suo diritto a contrastare la pretesa avversaria»; 
    che il rimettente precisa ancora che «La  norma  censurata  evoca
[...], a ben vedere,  il  valore  dell'accertamento  contenuto  nella
sentenza; e un  contenuto  di  accertamento  e'  sempre  presente  in
qualsiasi sentenza: di rigetto, di condanna, costitutiva  o  di  mero
accertamento (positivo o negativo) che sia. Un tale contenuto poi  e'
sempre ambivalente rispetto alle posizioni delle parti in  lite  (per
definizione, ovviamente, contrapposte). L'attore dunque che agisce in
giudizio per ottenere l'accertamento di un suo  diritto,  chiede  per
l'appunto un accertamento positivo di una tale situazione  giuridica;
nella  stessa  causa  ovviamente  si  contrappone  la  posizione  del
convenuto   che,   resistendo   alla   domanda,   per   cio'   stesso
implicitamente invoca un accertamento negativo  di  tale  situazione,
non rilevando, ai nostri fini, se ne faccia a sua  volta  oggetto  di
domanda riconvenzionale o semplicemente di mera difesa»; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che  la  difesa  statale  afferma  anzitutto  che  la   questione
sollevata  sarebbe  inammissibile  sia  in  quanto  sarebbe  volta  a
ottenere  un'indicazione  interpretativa   da   parte   della   Corte
costituzionale sul significato da attribuire alla  locuzione  "valore
del diritto accertato dal giudice" (valore inteso  come  limite  alla
misura dell'indennizzo), percio'  configurandosi  come  un  improprio
tentativo di conseguire dalla  Corte  un  avallo  interpretativo  (e'
citata la sentenza della Corte costituzionale n. 21 del 2013), sia in
quanto il rimettente avrebbe omesso di verificare la possibilita'  di
una,  in  effetti  praticabile,  interpretazione   costituzionalmente
orientata della disposizione censurata, idonea a superare i dubbi  di
legittimita' della stessa; 
    che, sotto tale secondo aspetto, la difesa statale  sostiene  che
la  Corte  di  appello  rimettente,  pur  avendo  prospettato   delle
interpretazioni dell'impugnato comma 3  dell'art.  2-bis  diverse  da
quella - ritenuta incompatibile con l'art. 6, paragrafo 1, della CEDU
- che escluda la  liquidazione  dell'indennizzo  alla  parte  rimasta
soccombente  nel  processo  presupposto,  non   avrebbe   esplicitato
«l'incompatibilita'     costituzionale     [di     tali]     restanti
interpretazioni»; 
    che  l'Avvocatura  generale  dello  Stato  rileva,  infine,   che
«rispetto all'ipotesi ritenuta coerente con i principi CEDU  (quella,
cioe', secondo cui il soccombente totale verrebbe comunque liquidato,
tenendo conto dei  parametri  di  quantificazione  individuati  dalla
disciplina    in    via    generale)    viene    incongruamente    (e
contraddittoriamente) ipotizzato un contrasto con l'art.  117,  primo
comma, della Costituzione, senza alcun  riferimento  alla  violazione
del parametro dell'eguaglianza di cui all'articolo 3  Cost.  rispetto
alla posizione del soccombente parziale; l'indennizzo riconosciuto  a
quest'ultimo  e',  infatti,  parametrato  al   valore   del   diritto
accertato, che e' inferiore, secondo quanto prospetta  il  giudice  a
quo, rispetto a quello minimo riconosciuto al soccombente  totale  in
relazione alla forbice di cui all'art. 2-bis, comma 1, della legge 89
del 2001»; 
    che,   ai    fini    della    ricerca    di    un'interpretazione
costituzionalmente orientata della disposizione censurata, il giudice
rimettente  avrebbe  omesso  di  considerare  sia  la   ratio   delle
modificazioni apportate dall'art. 55 del d.l. n.  83  del  2012  alla
legge n. 89 del  2001,  sia  il  contesto  sistematico  in  cui  tale
disposizione si inserisce; 
    che, al riguardo, la difesa statale  rammenta  anzitutto  che  la
citata novella si configura come un «tentativo di contenere i costi a
carico del bilancio dello Stato derivanti dagli indennizzi  liquidati
e di razionalizzare  il  carico  di  lavoro  che  grava  sulle  Corti
d'appello,  evitando  che  la  durata   dei   procedimenti   per   la
liquidazione delle  indennita'  possa  dar  luogo,  a  sua  volta,  a
responsabilita' dello Stato per violazione dell'articolo 6 CEDU»; 
    che, a tale fine, il menzionato  art.  55  avrebbe  «diversamente
strutturato lo stesso diritto all'equa riparazione» attraverso: a) la
fissazione, in via presuntiva, dei termini di durata ragionevole  dei
processi (art. 2, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater della legge n. 89 del
2001); b) l'individuazione di «ipotesi tipicamente abusive dei poteri
processuali   [...]   che   costituiscono   cause    di    esclusione
dell'indennizzo» (art. 2, comma 2-quinquies, della legge  n.  89  del
2001); c) la previsione di parametri e  limiti  nella  determinazione
concreta dell'indennizzo (art. 2-bis della legge n. 89 del 2001); 
    che, sempre secondo la difesa dello Stato, spetta,  comunque,  al
giudice  investito  della  domanda,  la  doverosa  valutazione  della
sussistenza del diritto a un'equa riparazione - da effettuare in base
a un criterio che tenga conto dei  parametri  (fissati  dal  comma  2
dell'art. 1 della legge n. 89  del  2001,  anch'esso  sostituito  dal
numero 1 della lettera a del comma 1 dell'art. 55 del d.l. n. 83  del
2012) della complessita' del caso, dell'oggetto del procedimento, del
comportamento delle parti  e  del  giudice  durante  il  procedimento
presupposto (nonche' di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi  o
a contribuire alla sua definizione) - sicche' «perche' l'obbligazione
indennitaria consegua alla violazione della  ragionevole  durata  del
processo e sia in concreto configurabile,  e'  necessario  il  previo
accertamento costitutivo del giudice» e che, analogamente, la mancata
previsione di automatismi nella commisurazione dell'indennizzo deriva
dalla necessita' di considerare la specificita' di ciascun caso; 
    che l'Avvocatura generale dello Stato prosegue sottolineando come
sia pacifico nella giurisprudenza della Corte di cassazione - che  ha
recepito, sul punto, gli orientamenti della Corte europea dei diritti
dell'uomo   -   che   il   diritto   all'equa   riparazione    spetta
indipendentemente dall'esito del processo presupposto  «ad  eccezione
del caso in cui il soccombente fosse consapevole della  inconsistenza
delle proprie istanze», sicche' sarebbe impossibile,  sempre  secondo
la difesa statale, interpretare l'impugnato comma  3  nel  senso  che
esso nega l'indennizzo all'interamente soccombente; 
    che vi sarebbe, invece, la possibilita' di liquidare a tale parte
soccombente nel processo presupposto un indennizzo compreso tra 500 e
1.500 euro per ogni anno di ritardo secondo quanto previsto dal comma
1 dell'art. 2-bis, «dando spazio,  nella  decisione,  agli  ulteriori
parametri oggettivi di valutazione introdotti con la sopra illustrata
finalita' calmieratrice della riforma»; 
    che, del resto, prosegue la difesa  statale,  «il  richiamo  alla
soglia del valore del "diritto accertato"  conferma  la  coerenza  di
un'interpretazione in linea con la ratio della riforma,  nell'ipotesi
in  cui  il   soccombente   parziale   (la   cui   pretesa   si   sia
considerevolmente ridotta in sede di accertamento giudiziale)  abbia,
nel  successivo  giudizio  di   equa   riparazione,   sostanzialmente
prospettato, in  termini  di  tendenziale  abuso  del  processo,  una
domanda irragionevolmente eccedente il diritto effettivamente vantato
(e riconosciuto nel giudizio presupposto). Cosi' limitato lo  spettro
dell'intervento normativo,  se  ne  comprende  la  ragionevolezza  in
chiave  costituzionalmente  orientata:  la  parte  che  nel  giudizio
presupposto abbia chiesto 1.000 e ottenuto 100 avra', in sede di equa
riparazione, una liquidazione non superiore a  quest'ultimo  importo,
perche',  pur  avendo  ragione  nel   merito,   ha   ecceduto   nella
quantificazione della richiesta; cio' non e' incongruo rispetto  alla
posizione di chi, pur avendo chiesto allo stesso modo 1.000,  non  ha
avuto riconosciuto nulla per effetto di una decisione sull'an di  una
pretesa comunque legittimamente e non abusivamente avanzata»; 
    che, poiche' una  tale  interpretazione  «non  e'  stata  neppure
ipotizzata dal giudice  rimettente»,  anche  sotto  tale  profilo  la
questione sarebbe manifestamente inammissibile; 
    che, con ordinanza del 19 settembre 2013 (r.o. n. 3 del 2014), la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente a oggetto  una  domanda
di equa riparazione proposta dalla parte  risultata  soccombente  nel
processo presupposto,  ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117
Cost., in relazione all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di
legittimita' del comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del  2001,
«nella parte in cui limita la misura dell'indennizzo (liquidabile  in
favore  della  parte  che  abbia  subito  un  danno  per  la   durata
irragionevole  del  processo  presupposto)  al  "valore  del  diritto
accertato"  senza   alcuna   ulteriore   specificazione   o   limite,
comportando in tal  modo  l'impossibilita'  di  liquidare  in  alcuna
misura un'equa riparazione in favore della parte  che,  nel  processo
presupposto, sia risultata interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere  investito  del  ricorso,  proposto  il  26  luglio  2013  nei
confronti del Ministero della giustizia,  con  il  quale  F.G.  aveva
chiesto l'indennizzo del danno subito per effetto  dell'irragionevole
durata di una  controversia  civile  promossa  davanti  al  Tribunale
ordinario di Messina; b) che il ricorrente nel  giudizio  a  quo  era
risultato  interamente  soccombente  in  detto  presupposto  processo
civile, atteso che lo stesso era stato definito con una sentenza  del
Tribunale ordinario di Messina che aveva rigettato la  domanda  dello
stesso ricorrente e che era passata in giudicato il 15 aprile 2013; 
    che, in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza  della
questione, la  Corte  di  appello  rimettente  svolge  considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza del 16 settembre 2013 (r.o.
n. 266 del 2013); 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 266 del registro ordinanze 2013; 
    che, con ordinanza del 24 ottobre 2013 (r.o. n. 21 del 2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente a oggetto  una  domanda
di equa riparazione proposta dalla parte  risultata  soccombente  nel
processo presupposto,  ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117
Cost., in relazione all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di
legittimita' del comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del  2001,
«nella parte in cui limita la misura dell'indennizzo (liquidabile  in
favore  della  parte  che  abbia  subito  un  danno  per  la   durata
irragionevole  del  processo  presupposto)  al  "valore  del  diritto
accertato"  senza   alcuna   ulteriore   specificazione   o   limite,
comportando in tal  modo  l'impossibilita'  di  liquidare  in  alcuna
misura un'equa riparazione in favore della parte  che,  nel  processo
presupposto, sia risultata interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso in riassunzione, proposto il 17  ottobre
2013 nei confronti del Ministero della giustizia, con il  quale  M.N.
aveva   chiesto   l'indennizzo   del   danno   subito   per   effetto
dell'irragionevole durata  di  una  controversia  di  lavoro  da  lui
promossa davanti al  Giudice  del  lavoro  di  Siracusa  con  ricorso
depositato il 3 ottobre 1996 diretto  a  ottenere  il  riconoscimento
dell'illegittimita' del  licenziamento  intimatogli  dalla  Industria
Acqua Siracusana s.p.a.; b) che il ricorrente nel giudizio a quo  era
risultato interamente soccombente in detto  presupposto  processo  di
lavoro, atteso che lo stesso era stato definito, in sede  di  rinvio,
con la sentenza della Corte d'appello di Messina n.  1289  del  2011,
che aveva rigettato la domanda dello stesso ricorrente; 
    che, in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nelle ordinanze iscritte  al  n.  266  del
registro ordinanze 2013 e al n. 3 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui agli atti di intervento nei giudizi  iscritti
al n. 266 del  registro  ordinanze  2013  e  al  n.  3  del  registro
ordinanze 2014; 
    che, con ordinanza pronunciata il 31 ottobre  2013  e  depositata
l'11 novembre 2013 (reg. ord. n. 23 del 2014), la Corte d'appello  di
Reggio Calabria, sezione civile, nel  corso  di  un  procedimento  di
opposizione contro un decreto che aveva deciso su di una  domanda  di
equa riparazione  proposta  dalla  parte  risultata  soccombente  nel
processo presupposto,  ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117
Cost., in relazione all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di
legittimita' del comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del  2001,
«nella parte in cui limita la misura dell'indennizzo (liquidabile  in
favore  della  parte  che  abbia  subito  un  danno  per  la   durata
irragionevole  del  processo  presupposto)  al  "valore  del  diritto
accertato"  senza   alcuna   ulteriore   specificazione   o   limite,
comportando in tal  modo  l'impossibilita'  di  liquidare  in  alcuna
misura un'equa riparazione in favore della parte  che,  nel  processo
presupposto, sia risultata interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito dell'opposizione proposta, ai sensi dell'art.  5-ter
della legge n. 89 del 2001, da S.F. nei confronti del Ministero della
giustizia avverso il decreto del 22 maggio 2013 con il quale la Corte
d'appello di Reggio Calabria  aveva  rigettato  il  ricorso  proposto
dallo stesso S.F. il 2 maggio 2013 al fine di  ottenere  l'indennizzo
del  danno  subito  per  effetto  dell'irragionevole  durata  di  una
controversia;  b)  che  il  contraddittorio  era  stato   ritualmente
integrato nei confronti dell'amministrazione opposta  a  mezzo  della
notificazione  del  ricorso  in  opposizione  presso  la   competente
Avvocatura distrettuale dello Stato il  2  agosto  2013;  c)  che  il
diritto all'indennizzo era stato negato dal giudice di prime cure  in
ragione  del  fatto  che  lo  stesso  S.F.  era  stato  integralmente
soccombente nel processo presupposto; d) che l'opponente S.F. lamenta
che: d.1.) la tipicita' e la tassativita' delle ipotesi di esclusione
del diritto all'indennizzo  previste  dall'art.  2-quinquies  (recte:
art. 2, comma 2-quinquies) della legge n. 89 del 2001 impedisce  che,
tra di esse, possa essere compresa «quella ulteriormente coniata  dal
provvedimento   impugnato»;   d.2.)   la   negazione   del    diritto
all'indennizzo da parte del giudice di prime  cure  «deriverebbe,  in
ogni caso, da un'applicazione analogica dell'art. 2-bis [della  legge
n. 89 del 2001] non consentita dalla  circostanza  del  vertere  tale
disposizione  non  l'an,  ma   solo   il   quantum,   dell'indennizzo
riconoscibile»;  e)  che  l'opposto  Ministero  della  giustizia   ha
dedotto: e.1.) l'inammissibilita' del  ricorso  in  opposizione  «per
omessa illustrazione delle  ragioni  fondanti  il  relativo  merito»;
e.2.) in  subordine,  l'infondatezza  della  domanda;  f)  che  detta
eccezione di inammissibilita'  del  ricorso  in  opposizione  non  e'
fondata  perche'  dalla  documentazione  in  atti   si   evince   che
l'opponente S.F. «pur non allegando il decreto opposto ha chiaramente
ed efficacemente, quantunque per sintesi, enunciato il contenuto  del
medesimo e le ragioni ivi addotte, nonche' le doglianze  al  riguardo
da  se'  mosse,  consentendo  cosi'   agevolmente   l'esercizio   del
contraddittorio»; 
    che  il  medesimo  giudice  rimettente  espone  poi  le  seguenti
considerazioni in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza
della questione sollevata; 
    che egli premette  anzitutto  che  la  soccombenza  nel  giudizio
presupposto e' espressamente prevista come  causa  di  rigetto  della
domanda di equa  riparazione  solo  nel  caso  in  cui  ricorrano  le
ulteriori condizioni  previste  dalle  lettere  a)  e  b)  del  comma
2-quinquies dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001 o quando la  parte
soccombente nel giudizio presupposto abbia «posto in essere un  abuso
di  poteri  processuali  che  abbia   determinato   un'ingiustificata
dilatazione  dei  termini  del  procedimento»,  sicche'  persiste  la
«legittimazione  in  capo  [a  detta]  parte  [...]  a  far  valutare
l'eventuale sussistenza d'una lesione del suo diritto a conseguire in
un  tempo  ragionevole  una  pronuncia  risolutiva  della   questione
controversa»; 
    che il comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, che ha
introdotto  un  tetto  massimo   o   valore   soglia   della   misura
dell'indennizzo, «in quanto  non  coordinata  con  [detto]  superiore
principio», farebbe insorgere i seguenti due problemi  interpretativi
che,  in  quanto  reciprocamente  interdipendenti,   necessitano   di
soluzioni tra loro coerenti: a) il  significato  da  attribuire  alla
locuzione  "valore  del  diritto  accertato  dal  giudice";  b)   «se
l'introduzione d'un tetto massimo  all'indennizzo  liquidabile  [...]
valga per tutti i possibili epiloghi del giudizio presupposto  e  per
tutte le parti d'esso (qualora, ovviamente, promuovano un ricorso  ex
lege Pinto)»; 
    che, quanto al primo dei problemi segnalati,  il  giudice  a  quo
osserva che: a) il parametro  del  "valore  del  diritto  accertato",
ancorche' suppletivo, prevale rispetto  a  quello  del  valore  della
causa, qualora in concreto sia inferiore a quest'ultimo; b)  al  fine
di individuare il parametro primario del valore della causa, il  solo
riferimento e' quello alla disciplina della determinazione del valore
della controversia dettata dagli articoli da 7 a 17 cod. proc.  civ.;
c) mentre per la cause  di  valore  determinato  o  determinabile  il
limite dell'indennizzo costituito  dal  valore  della  causa  sarebbe
agevolmente individuabile, per le cause di valore indeterminabile «e'
dubbio se debba applicarsi il criterio per cui la causa avra'  valore
entro il tetto massimo di competenza del giudice adito (soluzione che
potrebbe operare peraltro soltanto per le  cause  di  competenza  del
giudice di pace) o quello aliunde determinato ai sensi degli artt. 10
e ss., ovvero se la predetta disposizione non  trovi  applicazione  e
quindi l'indennizzo liquidabile ex lege n. 89 del 2001 non debba,  in
tali ipotesi, incontrare  alcun  tetto  massimo»;  d)  l'epilogo  del
procedimento  presupposto,  in  particolare  la  soccombenza  di  chi
successivamente proponga domanda di  equa  riparazione,  rileva  come
elemento per stabilire il limite massimo  della  misura  in  concreto
dell'indennizzo; e) «in subiecta materia notoriamente e' ammesso  che
sussiste  un  pregiudizio  in  re  ipsa,   suscettibile   dunque   di
quantificazione equitativa», con  la  conseguenza  che  non  potrebbe
affermarsi ne' che e' onere  del  ricorrente  dedurre  e  provare  se
sussista e quale sia, nella specie, il valore soglia di cui al  comma
3 dell'art. 2-bis, ne' che, in difetto di allegazione o deduzione  di
elementi idonei a  consentire  l'individuazione  dello  stesso,  cio'
comporterebbe l'inammissibilita' o il rigetto del  ricorso  (trovando
applicazione, in virtu'  del  rinvio  ad  essi  operato  dal  secondo
periodo del comma 4 dell'art. 3 della legge n. 89 del 2001,  i  primi
due commi dell'art. 640 cod. proc. civ.); f) mentre,  ai  fini  della
competenza, la legge fa riferimento, per la determinazione del valore
della causa, al petitum (o ai petita), la legge n.  89  del  2001  fa
riferimento al valore ritenuto nella decisione, ragione per  cui  «va
chiarito  quale  sia   l'effettivo   contenuto   prescrittivo   della
disposizione»; 
    che, quanto al secondo dei problemi segnalati, secondo  la  Corte
rimettente andrebbe verificato se la disposizione  censurata  integri
un'ulteriore causa di eventuale esclusione dell'indennizzo, ancorche'
non  indicata  come  tale,  «nel  senso  che   nulla   possa   essere
riconosciuto all'istante nel caso in  cui  il  diritto  dallo  stesso
asseritamente vantato sia fatto  valere  in  giudizio  ma  sia  stato
affermato insussistente (in tutto o in parte), ovvero se  qualora  il
ricorrente sia stato soccombente (in tutto o in parte)  nel  giudizio
presupposto e detto giudizio abbia  avuto  durata  irragionevole,  la
negazione del diritto preteso non valga anche ad escludere il diritto
ad equo indennizzo»; 
    che, a fronte  di  tale  problema,  sussisterebbero,  secondo  il
rimettente, «almeno» le tre seguenti opzioni praticabili:  a)  quella
ora indicata per prima che, pur se apparentemente  in  contrasto  con
l'orientamento della Corte  EDU  secondo  il  quale  anche  la  parte
interamente soccombente ha diritto all'equa soddisfazione nel caso di
durata irragionevole del processo,  sarebbe  praticabile  in  quanto:
a.1)  quella  «probabilmente  [...]  piu'  coerente  con   l'esigenza
calmieratrice» alla quale avrebbe inteso  rispondere  l'art.  55  del
d.l. n. 83 del 2012;  a.2)  «in  sintonia  [...]  con  alcuni  spunti
offerti dalla relazione introduttiva del testo del disegno  di  legge
poi [...] approvato dal Parlamento» (in particolare, con il rilevo da
essa  attribuito  alla  «necessita'  d'arginare  la  presunzione   di
dannosita' della prolungata durata di un processo  in  modo  che  non
divenga assoluta, ma rimanga iuris  tantum»;  a.3)  coerente  con  la
ratio  sottostante  alle   disposizioni   del   comma   2   dell'art.
2-quinquies,  della  lettera  a)  del  comma  2  dell'art.  2-bis,  e
dell'art. 4 della legge  n.  89  del  2001;  b)  quella  secondo  cui
l'indennizzo e' riconosciuto anche al ricorrente  che  sia  risultato
totalmente soccombente nel giudizio presupposto - salve le  cause  di
esclusione espressamente previste - «ma pure che  esso  debba  essere
commisurato entro il range normativamente stabilito - tra i 500 ed  i
1500 euro per anno (o frazione) - e comunque con  le  limitazioni  di
soglia o di tetto massimo dettate dall'art. 2-quinquies comma 3 (come
dire che non solo il vittorioso nel giudizio presupposto ma anche  il
soccombente  incontrera'  un   limite   quantitativo   alla   pretesa
riconoscibile»; c) quella in base alla quale «in detta liquidazione a
pro del totale soccombente il valore  soglia  suddetto  non  dovrebbe
operare (perche' non v'e' a suo favore riconoscimento d'alcun diritto
al cui valore parametrare tale tetto massimo); ma e' palese che tanto
implicherebbe una diversificazione di trattamento (con esito premiale
per  il  soccombente  e  penalizzante  per  il  vittorioso  parziale)
difficilmente compatibile con i principi costituzionali d'uguaglianza
e ragionevolezza»; 
    che, ad avviso del ricorrente, la seconda delle opzioni  indicate
sarebbe quella piu' coerente con il costante  indirizzo  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo e con la lettera  della  legge  e,  per
tale ragione, andrebbe  «tendenzialmente  preferita,  perche'  se  il
legislatore  avesse  voluto  anche  in  tale  ipotesi  derogarvi  (in
ossequio   a   principi   superiori   d'ordinamento,   quali   quelli
d'uguaglianza  e  di  ragionevolezza)   avrebbe   potuto   e   dovuto
prevederlo»; 
    che,  tuttavia,  prosegue  il  rimettente,   occorre   ugualmente
chiarire cosa debba intendersi per "valore del diritto accertato"; 
    che, al riguardo, il giudice a quo afferma che: a) «assumere  che
il valore di soglia massima sia applicabile per il solo caso  in  cui
il ricorrente ex lege  n.  89  del  2001  sia  stato  sostanzialmente
vittorioso (in  tutto  o  in  parte)  nel  giudizio  presupposto  non
risulta, in difetto  d'espresse  clausole  limitative,  ammissibile»,
tenuto conto anche che la disposizione in esame deve esser coordinata
con il comma 2 del medesimo art. 2-bis, «che a  tanto  non  fa  alcun
riferimento», nonche' del fatto che l'accertamento  della  violazione
del diritto alla ragionevole durata del processo dipende non solo  da
quanto accade nel corso dello stesso (come sembrerebbe dalla  lettura
del comma 2 dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001), ma anche dal suo
esito (occorrendo verificare che non ricorrano le ipotesi di espressa
esclusione dal riconoscimento dell'indennizzo); b)  «opinare  che  la
superiore  lettera  possa  interpretarsi  nel  senso  di  aver  fatto
riferimento  alla  vittoriosita'  o   alla   soccombenza   in   senso
processuale e non  sostanziale  (equiparando  cosi'  l'una  all'altra
delle due parti del  giudizio  presupposto)  non  sembra  discutibile
tanto sotto il profilo  dell'equita'  sostanziale,  quanto  sotto  il
profilo del rigore  formale  dell'interpretazione»,  considerato  che
«non appare [...]  concettualmente  scorretto  legittimare,  in  tali
eventualita',  l'impiego  quale   valore   di   soglia   massima   di
liquidazione - in via suppletiva rispetto a  quello  del  valore  del
diritto riconosciuto (che non c'e' perche' la  sentenza  "rigetta"  o
dichiara inammissibile o improponibile o improcedibile la domanda)  -
quello del valore "positivo" che il giudizio  abbia  comunque  recato
alla parte processualmente  vittoriosa:  avendo  infatti  il  diritto
negato all'uno un rilievo concreto  economicamente  correlabile  alla
sfera giuridica dell'altro (nel senso che il convenuto  nel  giudizio
presupposto che non formuli riconvenzionali ma si limiti ad una  mera
difesa comunque "lucra"  dalla  sconfitta  della  pretesa  altrui  la
stabilizzazione della sua situazione quo antea, ossia  il  non  dover
corrispondere o il non dover adempiere ad un  facere  altrimenti  per
lui oneroso nella  misura  del  petitum  preteso  e  poi  disatteso),
l'interessato  potrebbe  venire  a  conseguire   un   indennizzo   da
irragionevole durata  pur  non  avendo  azionato  alcuna  pretesa  ex
adverso, ed addirittura in misura massima, mentre  quella  consentita
al sostanzialmente  vittorioso  (ma  processualmente  di  gran  lunga
soccombente) potrebbe essere decisamente inferiore alla prima; e cio'
non risulterebbe irragionevole (o  comunque  lesivo  dell'uguaglianza
sostanziale delle parti di lite), per la diversa  incidenza  concreta
sulla situazione di vita dell'uno e dell'altro della pendenza in  se'
d'un  processo  potenzialmente  foriero   d'apportare   vantaggio   o
svantaggio rilevante ad entrambi i contendenti; in  tale  ipotesi  si
dovrebbe pero' prescindere dal principio della  domanda,  che  sembra
invece recepito dal dictum espresso dalla disposizione in esame ("...
valore del diritto  accertato  ...")»;  c)  «di  dubbia  legittimita'
appare, invece, una liquidazione equitativa che - adottando,  in  via
suppletiva, un criterio  di  perequazione  correttivo  di  potenziali
distorsioni - riconoscesse che l'ammontare: o del valore del  diritto
riconosciuto in concreto alla controparte; o del valore del  giudizio
(in base al  variabile  grado  di  rilevanza  della  soccombenza,  se
parziale o totale)  possano  costituire  soglie  non  superabili  per
entrambi i gia' contendenti; e cio' nel senso che, qualora il  valore
del diritto accertato in capo all'attore (o ricorrente) del  giudizio
presupposto fosse o inferiore a quello del  valore  del  giudizio  in
senso processuale, o comunque accertato ex post,  della  controparte,
questa non  potrebbe  vedersi  comunque  riconosciuto  un  indennizzo
superiore a quello dell'attore sostanzialmente  soccombente;  e  cio'
poiche' tanto risulta incompatibile con l'indole oggettiva del valore
"soglia"  in  questione   e   non   e'   consentito   dal   tipo   di
discrezionalita' ammessa  per  il  giudicante  in  subiecta  materia,
poiche'  detta  discrezionalita'  e'   pur   sempre   "vincolata"   -
trattandosi  d'un  procedimento  liquidatorio   che   conferisce   al
decidente un potere mai sostanzialmente arbitrario, ove si  riconosca
che e' comunque prevista una soglia minima  inderogabile  (riferibile
all'indole non meramente simbolica dell'indennizzo da riconoscere)  -
e  la  sua  sindacabilita'  in  sede  d'opposizione  garantisce   che
l'eventuale ricorso appunto a  parametri  d'equita'  non  vulneri  il
fondamento  che  la  predetta  discrezionalita'  ripete  dalla  legge
vigente»; 
    che il rimettente indica percio' i seguenti  «casi  astrattamente
prospettabili» in cui il proponente la domanda  di  equa  riparazione
sia stato: a) parzialmente soccombente - quale attore (o  ricorrente)
o quale convenuto (o  resistente)  -  nel  giudizio  presupposto;  b)
totalmente  soccombente  -  quale  convenuto  (o  resistente)  -  nel
giudizio presupposto; c) totalmente soccombente  -  quale  attore  (o
ricorrente) - nel giudizio presupposto; 
    che, sulla base di quanto in precedenza esposto, il giudice a quo
afferma quindi che: a) nel primo caso, «il valore  "soglia"  comunque
non superabile nella liquidazione dell'indennizzo (imposto  dall'art.
2 bis comma 3 della  legge  citata)  debba  essere  identificato  nel
valore   del   diritto   effettivamente   riconosciuto   alla   parte
sostanzialmente vittoriosa»; b) nel secondo caso, «il valore "soglia"
comunque non superabile sara' pur sempre individuato nel  valore  del
diritto  riconosciuto  alla  parte  sostanzialmente  vittoriosa,   ed
ovviamente, salva la  specificita'  della  vicenda  processuale  (che
potra' giustificare, in situazioni peculiari,  anche  l'equiparazione
tra le parti), potra' essere diversificata la misura  dell'indennizzo
- entro il range assentito - con tendenziale liquidazione  di  quella
del  sostanzialmente  soccombente  in  misura  inferiore   a   quella
riconoscibile al sostanzialmente vittorioso ma  con  possibilita'  di
sua equiparazione  ad  essa»;  c)  nel  terzo  caso,  «l'accertamento
negativo della sussistenza di un  diritto  equivale  all'accertamento
che il diritto fatto valere in giudizio ha valore (per  chi  asseriva
di esserne titolare e di poterne fruire e disporre) giuridicamente ed
economicamente pari a zero»; 
    che il rimettente precisa ancora che  «ove  non  siano  formulate
riconvenzionali, ma mere difese (o eccezioni idonee a paralizzare  la
pretesa altrui), non v'e' ex adverso alcuna domanda  e  pertanto  non
puo' agevolmente affermarsi che  la  pronuncia  abbia  implicitamente
accertato contra un qualche diritto del convenuto  o  del  resistente
(cui riferire l'individuazione del predetto valore soglia)»; 
    che, a quest'ultimo proposito, il rimettente aggiunge ancora che:
a) «se il soccombente e la controparte  permangono  nella  situazione
quo antea, che dal punto  di  vista  della  controparte  vi  sia  una
sostanziale vittoriosita', poiche'  essa  pur  godra'  del  risultato
utile costituito dalla  continuita'  di  detta  situazione  di  fatto
rispetto  alle  pretese  dell'attore  (o  ricorrente)  su   cui   sia
intervenuto il giudicato ed entro i  limiti  del  suo  valore  (quale
emerso  in  decisione)  potra'  invocare  per  se'  indennizzo  (come
riconosciuto sub b)»; b) «cio' non equivale ad alcuna stabilizzazione
o qualificabilita' della  stessa  alla  stregua  d'un  diritto  o  di
situazione di fatto giuridicamente tutelabile ne'  verso  costui  ne'
verso chicchessia ed implichera' soltanto  che  il  bene  della  vita
controverso   (che   ha   pur   sempre   un   valore   economicamente
quantificabile) risultera' "intatto" rispetto all'iniziativa attorea,
ma solo interinalmente»; c) «a pro dell'attore  o  ricorrente  -  che
subisca  (nel   giudizio   presupposto)   la   predetta   soccombenza
processuale, eventualmente con condanna  soltanto  per  la  rifusione
delle spese processuali, ai fini della quantificazione del  correlato
diritto ad equo indennizzo in caso di durata irragionevole  di  detto
procedimento potra' utilizzarsi quale valore "soglia" non  superabile
quello del valore economico del diritto antea goduto dal convenuto  o
resistente vittorioso, o, qualora non ve ne fosse alcuno,  il  valore
soglia costituito dal valore economico del bene della vita dedotto in
controversia quale emerso in decisione mentre, in ultima analisi,  se
esso non sia suscettibile di rilievo patrimoniale,  non  v'e'  a  ben
vedere un parametro che consenta di provvedere»; 
    che il giudice rimettente afferma poi che  le  pronunce  adottate
sino ad allora dalla Corte d'appello di Reggio Calabria  erano  state
discordanti circa la soluzione da dare alla «questione esaminata»  in
quanto, in una occasione, essa era stata risolta,  da  un  magistrato
designato, «nel senso di riconoscere  comunque  l'operativita'  della
norma di riferimento,  pur  senza  che  sia  ritraibile  nel  sistema
certezza rassicurante in  proposito»,  in  un'altra,  sollevando,  da
parte  di  un  diverso  magistrato   designato,   la   questione   di
legittimita' costituzionale successivamente iscritta al  n.  185  del
registro ordinanze 2013; 
    che  il  rimettente,  dopo  avere  riprodotto   testualmente   la
motivazione di tale ordinanza di rimessione in punto di  rilevanza  e
di non manifesta infondatezza, conclude affermando che «quanto sinora
esposto legittima ulteriormente a ritenere sussistenti i  presupposti
per promuovere dunque, in piena adesione al secondo precedente  retro
richiamato, incidente  di  costituzionalita'  della  disposizione  in
premessa richiamata anche nell'odierno procedimento»; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
sostanzialmente analogo a quelle di cui agli atti di  intervento  nei
giudizi iscritti al n. 266 del registro ordinanze 2013 e ai nn.  3  e
21 del registro ordinanze 2014. 
    Considerato che la Corte d'appello di  Reggio  Calabria,  sezione
civile, nelle persone dei giudici designati al fine di provvedere  su
domande di equa riparazione per violazione  del  termine  ragionevole
del processo proposte da soggetti che erano risultati soccombenti nei
rispettivi processi presupposti, con  quattro  ordinanze  di  analogo
contenuto, dubita, in riferimento all'art. 117,  primo  comma,  della
Costituzione, della legittimita'  dell'art.  2-bis,  comma  3,  della
legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di
violazione  del  termine  ragionevole   del   processo   e   modifica
dell'articolo 375 del codice di  procedura  civile)  -  a  norma  del
quale: «La misura dell'indennizzo, anche in deroga al comma 1 [che, a
sua volta, stabilisce che: «Il  giudice  liquida  a  titolo  di  equa
riparazione una somma di denaro, non  inferiore  a  500  euro  e  non
superiore a  1.500  euro,  per  ciascun  anno,  o  frazione  di  anno
superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del
processo»], non puo' in ogni caso essere superiore  al  valore  della
causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice»  -
nella parte in  cui,  col  disporre  che  la  misura  dell'indennizzo
liquidabile a titolo di equa  riparazione  «non  puo'  in  ogni  caso
essere superiore [...] al valore del diritto accertato  dal  giudice»
(se inferiore al valore della causa), comporterebbe «l'impossibilita'
di liquidare in alcuna misura un'equa  riparazione  in  favore  della
parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata  interamente
soccombente»; 
    che, secondo i  rimettenti,  la  disposizione  denunciata,  cosi'
intesa, viola l'art. 117, primo comma,  Cost.,  perche'  si  pone  in
contrasto,  in  particolare,  con  l'art.  6,  paragrafo   1,   della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (di seguito, «CEDU» o «Convenzione»), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la  legge  4
agosto 1955, n. 848, il quale, nell'interpretazione che ne ha dato la
Corte europea dei diritti dell'uomo, prevede che l'equa soddisfazione
(art. 41 della CEDU) per la lesione del diritto - da esso garantito -
alla durata ragionevole del processo  spetta  a  tutte  le  parti  di
questo, indipendentemente dal suo esito, e,  in  specie,  anche  alla
parte che sia risultata soccombente; 
    che, in considerazione dell'identita'  delle  questioni  proposte
con le quattro ordinanze di rimessione,  i  giudizi  di  legittimita'
costituzionale  possono  essere  riuniti  e   decisi   con   un'unica
pronuncia; 
    che, preliminarmente, devono essere  disattese  le  eccezioni  di
inammissibilita'    della     sollevata     questione     prospettate
dall'Avvocatura generale dello Stato; 
    che va anzitutto rigettata l'eccezione,  formulata  dalla  difesa
statale, di inammissibilita'  della  sollevata  questione  in  quanto
diretta ad ottenere un'indicazione interpretativa sul significato  da
attribuire al limite dell'indennizzo costituito dal «valore [...] del
diritto accertato dal giudice», cio' che  configurerebbe  l'incidente
di costituzionalita' come un improprio  tentativo  di  conseguire  da
questa Corte un avallo interpretativo; 
    che, infatti, la questione sollevata non mira a ottenere l'avallo
di questa Corte all'interpretazione del comma 3 dell'art. 2-bis della
legge n. 89 del 2001  che,  tra  le  varie  possibili,  i  rimettenti
ritengono preferibile, ma consiste,  piuttosto,  nella  denuncia  del
contrasto tra l'unico significato normativo che i  giudici  a  quibus
reputano attribuibile a detta disposizione - quello secondo cui  essa
comporterebbe l'impossibilita' di liquidare un indennizzo a titolo di
equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata
del  processo  in  favore  di  chi  sia  risultato,   nello   stesso,
soccombente - e il parametro costituzionale invocato; 
    che deve pure essere respinta l'eccezione, formulata dalla difesa
statale, di inammissibilita'  della  questione  sollevata  perche'  i
rimettenti  avrebbero  omesso  di  verificare  la   possibilita'   di
un'interpretazione costituzionalmente  orientata  della  disposizione
censurata,  non  avendo,  in  particolare,  «neppure  ipotizzato»  la
possibilita' «di liquidare [alla  parte  totalmente  soccombente  nel
processo   presupposto]   un   importo   compreso    nella    forbice
predeterminata dalla  legge  (500/1.500  euro  per  ciascun  anno  di
ritardo)» al comma 1 dell'art. 2-bis; 
    che, infatti, contrariamente  a  quanto  sostenuto  dalla  difesa
erariale, i giudici rimettenti hanno verificato  la  possibilita'  di
un'interpretazione costituzionalmente  orientata  della  disposizione
denunciata, ritenendola, pero', impraticabile alla  luce  del  tenore
letterale della stessa che, a loro avviso, impedirebbe di attribuirle
un significato diverso da quello sospettato di illegittimita'  («ogni
pur  dovuto  tentativo  in   tale   direzione   [dell'interpretazione
costituzionalmente  adeguata]   e'   destinato   a   scontrarsi   con
l'insuperabile dato testuale della norma, che impedisce di  liquidare
un  indennizzo  in  misura   superiore   al   "valore   del   diritto
accertato"»); 
    che deve infine  essere  respinta  anche  l'ulteriore  eccezione,
sempre   formulata   dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,   di
inammissibilita' della questione sollevata in  quanto  i  rimettenti,
nel lamentare che il limite del  valore  del  diritto  accertato  dal
giudice, comportando che nessun indennizzo possa essere liquidato  al
soccombente nel processo presupposto, si pone in contrasto con l'art.
117, primo comma, Cost., avrebbero trascurato di considerare che,  in
caso di rimozione  di  detto  limite,  allo  stesso  soccombente  nel
processo  presupposto  verrebbe   riservato   un   trattamento   piu'
favorevole di quello spettante a  chi,  nello  stesso  processo,  sia
risultato, sia  pure  parzialmente,  vittorioso  (nel  senso  che  il
diritto da lui fatto valere in giudizio e' stato affermato, almeno in
parte, esistente), atteso che, solo nei  confronti  di  quest'ultimo,
continuerebbe a trovare applicazione il limite del valore del diritto
accertato dal giudice, con conseguente violazione dell'art. 3 Cost.; 
    che, infatti, la diversita'  di  trattamento  che,  nel  caso  di
accoglimento della questione sollevata, si verrebbe a determinare tra
il  soccombente  nel  processo  presupposto,  al   quale   diverrebbe
applicabile il solo, piu' favorevole, limite del valore della causa e
il  parzialmente  vittorioso  nello   stesso   processo,   al   quale
continuerebbe ad applicarsi il meno favorevole limite del valore  del
diritto accertato dal giudice, puo' fare sorgere un dubbio in  ordine
alla ragionevolezza di tale diversita'  e  all'eventuale  conseguente
contrasto con l'art. 3 Cost. che, tuttavia, di per se' solo,  non  e'
suscettibile  di  precludere  l'esame  del  merito  della   questione
sollevata e l'eventuale rimozione, in accoglimento della stessa,  del
vulnus all'art. 117, primo comma, Cost., denunciato dai rimettenti; 
    che, nel merito, la questione sollevata  deve  essere  dichiarata
manifestamente infondata; 
    che, infatti, questa Corte, con l'ordinanza n. 124 del  2014,  ha
gia' dichiarato la manifesta infondatezza di un'identica questione di
legittimita'  costituzionale  -   sollevata,   con   ulteriori   otto
ordinanze, dalla medesima Corte d'appello di Reggio  Calabria  -  sul
rilievo dell'erroneita'  del  presupposto  interpretativo  assunto  a
fondamento della stessa, atteso che il comma 3 dell'art. 2-bis  della
legge n. 89 del 2001, nella  parte  in  cui  prevede  che  la  misura
dell'indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione «non puo' in
ogni caso essere superiore [...] al valore del diritto accertato  dal
giudice», deve essere inteso nel senso che si riferisce ai soli  casi
in cui  questi  accerti  l'esistenza  del  diritto  fatto  valere  in
giudizio dall'attore, il cui valore accertato  «costituisce  un  dato
oggettivo, che non muta in ragione della posizione che la  parte  che
chiede  l'indennizzo  aveva  nel  processo   presupposto»,   con   la
conseguenza che detta censurata disposizione, contrariamente a quanto
ritenuto dai rimettenti, non comporta l'impossibilita'  di  liquidare
un indennizzo a titolo  di  equa  riparazione  della  violazione  del
diritto alla ragionevole durata  del  processo,  in  favore  di  chi,
attore o convenuto, sia risultato, nello stesso, soccombente; 
    che, al riguardo, i rimettenti non hanno prospettato, nel merito,
profili o argomentazioni diversi rispetto a quelli gia' esaminati  da
questa Corte con la citata ordinanza o comunque idonei ad indurre  ad
una differente pronuncia sulla sollevata  questione  di  legittimita'
costituzionale; 
    che  resta  estranea  all'oggetto  del  presente  giudizio   ogni
valutazione in ordine alla legittimita' del  limite  del  valore  del
diritto accertato dal giudice  con  riguardo  all'applicazione  dello
stesso nel caso in cui tale diritto  sia  stato  accertato  in  parte
esistente. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i  giudizi  davanti
alla Corte costituzionale.