ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  135  del
codice penale, come modificato dall'art. 3, comma 62, della legge  15
luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), e
dell'art. 53, secondo comma, della legge 24  novembre  1981,  n.  689
(Modifiche al sistema penale), promosso dal  Tribunale  ordinario  di
Imperia nel procedimento penale a carico di G.F. con ordinanza del 22
novembre 2013, iscritta al  n.  15  del  registro  ordinanze  2014  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  9,  prima
serie speciale, dell'anno 2014. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 21  maggio  2014  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 22 novembre 2013, il Tribunale ordinario di
Imperia, in composizione monocratica, ha  sollevato,  in  riferimento
agli artt. 3 e  27  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale della disposizione combinata dell'art. 135 del  codice
penale, come modificato dall'art. 3, comma 62, della legge 15  luglio
2009, n. 94  (Disposizioni  in  materia  di  sicurezza  pubblica),  e
dell'art. 53, secondo comma, della legge 24  novembre  1981,  n.  689
(Modifiche al sistema penale), nella parte in  cui  prevede  che,  ai
fini della sostituzione  delle  pene  detentive  brevi  con  la  pena
pecuniaria, il valore giornaliero  della  pena  detentiva  non  possa
essere inferiore ad euro 250, anziche' ad euro 97. 
    1.1.- Il giudice a quo premette di essere investito del  processo
penale nei confronti  di  una  persona  imputata  del  reato  di  cui
all'art. 186, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30  aprile
1992, n. 285  (Nuovo  codice  della  strada),  per  aver  guidato  un
motoveicolo sotto l'influenza dell'alcool. 
    Riferisce, altresi', che in  una  precedente  udienza  l'imputato
aveva chiesto, ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura  penale
- con il consenso del pubblico ministero - l'applicazione della  pena
di un mese e dieci giorni di arresto ed  euro  800  di  ammenda,  con
sostituzione della pena detentiva in pena pecuniaria sulla base di un
coefficiente di ragguaglio «pari ad euro 100 (quale "frazione di euro
250" ai sensi dell'art. 135 c.p.) per ogni giorno di pena detentiva»:
e, cosi', l'applicazione di una pena finale di euro 4.800 di ammenda.
La richiesta era stata peraltro rigettata dal Tribunale,  in  ragione
della  ritenuta  inaccettabilita'  del  coefficiente  di   ragguaglio
proposto. 
    A fronte della conseguente incompatibilita' del giudice che aveva
respinto  la  richiesta,  il  procedimento  era  stato  assegnato  al
rimettente, davanti al quale l'imputato aveva  presentato  una  nuova
istanza di patteggiamento, identica quanto all'entita' della pena  da
applicare in prima battuta, ma con richiesta della  sua  sostituzione
in ragione di euro 250 di pena pecuniaria per  ogni  giorno  di  pena
detentiva e, quindi, con applicazione di  una  pena  finale  di  euro
10.800 di ammenda, da pagare ratealmente. 
    Tanto premesso,  il  giudice  a  quo  dubita  della  legittimita'
costituzionale della disposizione combinata dell'art. 135 cod. pen. e
dell'art.  53,  secondo  comma,  della  legge  n.   689   del   1981:
disposizione della quale  sarebbe  chiamato  a  fare  applicazione  a
fronte della nuova istanza dell'imputato. 
    Preliminarmente, il rimettente nega validita' all'interpretazione
prospettata  in  un  primo  tempo  dall'imputato,  con  l'avallo  del
pubblico ministero, in base alla quale - posto che  l'art.  135  cod.
pen. prevede che il ragguaglio fra pene pecuniarie e  pene  detentive
abbia luogo calcolando «euro 250, o frazione di euro 250»,  per  ogni
giorno di pena detentiva - ciascun giorno di arresto potrebbe  essere
sostituito anche con 100 euro di ammenda,  quale  «frazione  di  euro
250».  Il  riferimento  al  computo  frazionario  non  riguarderebbe,
infatti, il caso in cui occorra convertire una pena detentiva in pena
pecuniaria, ma unicamente il caso opposto, stante la possibilita' che
la pena pecuniaria da convertire  in  pena  detentiva  non  sia  pari
all'importo previsto per il ragguaglio o  ad  un  suo  multiplo.  Una
diversa   interpretazione   comporterebbe,   d'altra    parte,    «un
inaccettabile vulnus al principio  di  tassativita'»,  in  quanto  il
giudice potrebbe sostituire un giorno di pena detentiva con qualsiasi
frazione di euro 250, e  quindi  anche  con  un  solo  euro  di  pena
pecuniaria. 
    Nell'ipotesi  della  sostituzione  della  pena  detentiva  breve,
l'interpretazione in parola  sarebbe  comunque  testualmente  esclusa
dall'art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del  1981,  in  forza
del quale il giudice deve determinare  il  valore  giornaliero  della
pena detentiva tenendo conto della condizione  economica  complessiva
dell'imputato e del suo nucleo familiare,  con  la  precisazione  che
tale  valore  «non  puo'  essere  inferiore   alla   somma   indicata
dall'articolo 135 del codice penale e  non  puo'  superare  di  dieci
volte tale ammontare». Risulterebbe, pertanto, evidente che la  somma
prevista dall'art. 135 cod. pen. - ossia,  attualmente,  250  euro  -
costituisce l'importo giornaliero minimo sotto il quale non  si  puo'
scendere in sede di sostituzione. 
    1.2.- Cio' posto, il rimettente rileva come  il  coefficiente  di
ragguaglio fra pene pecuniarie e pene  detentive  previsto  dall'art.
135 cod. pen. sia stato oggetto di  reiterate  modifiche,  variamente
cadenzate nel tempo, volte ad adeguarne progressivamente  l'ammontare
alla mutata «realta' economico-sociale». Da  ultimo,  a  distanza  di
sedici anni dalla precedente modifica, operata dalla legge 5  ottobre
1993,  n.  402  (Modifica  dell'articolo  135  del   codice   penale:
ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive), che  aveva  portato
il coefficiente in questione  a  lire  75.000  (convertite  poi,  per
arrotondamento, in euro 38), l'art. 3, comma 62, della  legge  n.  94
del 2009 lo ha aumentato ad euro 250: dunque, in misura pari a  circa
sei volte e mezzo in termini nominali e - cio' che piu' conta,  nella
prospettiva del rimettente - a quasi cinque volte  in  termini  reali
(al  netto,  cioe',  dell'aumento  corrispondente  alla  svalutazione
monetaria). 
    Ad avviso del giudice a quo, un  simile  incremento  risulterebbe
«del tutto sproporzionato e irragionevole». 
    La  censurata  modifica  dell'art.  135  cod.  pen.  si  colloca,
infatti, nell'ambito di un complesso di misure - previste  dai  commi
da 60 a 65 dell'art. 3 della  legge  n.  94  del  2009  -  intese  ad
adeguare  al  mutato  quadro  economico  il  sistema  delle  sanzioni
pecuniarie, sia penali che amministrative, e ad accrescerne, al tempo
stesso, l'efficacia deterrente. Tale obiettivo  e'  stato  perseguito
mediante tre ordini di  interventi:  il  sensibile  innalzamento  dei
limiti minimi e massimi della multa e dell'ammenda,  stabiliti  dagli
artt. 24 e 26 cod. pen. (art. 3, commi 60 e 61, della legge n. 94 del
2009); l'aggiornamento - appunto - del parametro  di  ragguaglio  tra
pene pecuniarie e pene detentive  (art.  3,  comma  62);  infine,  la
delega al Governo ad adottare uno o piu' decreti legislativi, diretti
a rivalutare l'ammontare delle multe, delle ammende e delle  sanzioni
amministrative originariamente previste come sanzioni penali (art. 3,
comma 65). 
    Il  secondo  intervento  -  quello  che  qui   interessa   -   si
rivelerebbe, peraltro, palesemente distonico rispetto al  terzo.  Dai
criteri di delega relativi alla revisione delle  sanzioni  pecuniarie
emergerebbe, infatti, come il legislatore abbia inteso  non  soltanto
adeguare dette sanzioni al diminuito  valore  dell'euro,  conseguente
alla  svalutazione  monetaria,  ma  anche  procedere   ad   un   loro
inasprimento in termini reali: inasprimento sensibile, bensi', ma non
sproporzionato. L'art. 3, comma  65,  della  legge  n.  94  del  2009
prevedeva, in  particolare,  che  le  sanzioni  pecuniarie  dovessero
essere aumentate sulla base di una serie  di  coefficienti,  maggiori
per quelle previste da norme piu' risalenti nel tempo  e  minori  per
quelle piu' recenti, tali da  comportare  -  secondo  i  calcoli  del
giudice a quo - un incremento in termini reali compreso tra un minimo
dell'11,49% e un massimo del 73,86%. 
    Per converso, il criterio di ragguaglio di cui all'art. 135  cod.
pen.  -  e,  con  esso,  l'importo  minimo  delle   pene   pecuniarie
applicabili dal giudice in sostituzione delle pene detentive brevi  -
e' stato, come detto, quasi quintuplicato, con un aumento in  termini
reali stimabile nel 349,64% e, quindi, enormemente superiore. 
    E' ben vero, d'altra parte, che i limiti minimi e  massimi  della
multa e dell'ammenda, previsti dagli  artt.  24  e  26  cod.  pen.  -
oggetto del primo fra gli indicati interventi di adeguamento  -  sono
stati  addirittura  decuplicati.  Ma,   al   riguardo,   occorrerebbe
considerare che i precedenti limiti minimi erano stabiliti  in  cifre
«praticamente [...] simboli[che]» (euro 5 ed euro 2), mentre i  nuovi
limiti (euro 50  ed  euro  20),  oltre  a  risultare  «obiettivamente
adeguati per una sanzione penale», non  avrebbero,  comunque,  «alcun
effetto  dirompente  sul  sistema».   Considerazione,   quest'ultima,
valevole anche per i nuovi limiti massimi, tenuto conto del fatto che
«il limite massimo e' nella quasi totalita' dei  casi  fissato  dalla
singola norma incriminatrice». 
    Altrettanto non potrebbe  dirsi,  invece,  per  l'incremento  del
criterio di ragguaglio di  cui  all'art.  135  cod.  pen.,  il  quale
apparirebbe foriero di un «innegabile squilibrio»  nel  sistema.  Per
effetto del richiamo operato dall'art. 53, secondo comma, della legge
n.  689  del  1981,  il  nuovo  coefficiente  di  ragguaglio  avrebbe
comportato, infatti, un rilevantissimo innalzamento dei «costi» della
sostituzione  delle  pene  detentive  brevi,  che   rischierebbe   di
estromettere dalla sfera di applicazione  dell'istituto  i  cittadini
meno abbienti: e cio', sebbene pochi anni prima lo stesso legislatore
avesse inteso dilatarne il perimetro operativo, aumentando da  tre  a
sei mesi il limite massimo della pena detentiva sostituibile  con  la
pena pecuniaria (art. 4, comma 1, lettera a, della  legge  12  giugno
2003, n. 134, recante «Modifiche al codice  di  procedura  penale  in
materia di applicazione della pena su richiesta delle parti»). 
    L'abnorme incremento del coefficiente di ragguaglio rischierebbe,
altresi', di incidere sull'efficienza del procedimento  per  decreto,
in tutti i casi in cui lo stesso venga adottato  previa  sostituzione
della  pena  detentiva  in  pena  pecuniaria,   essendo   ragionevole
attendersi che il sensibile  aumento  di  quest'ultima  determini  un
maggior numero di opposizioni. 
    Dai lavori preparatori non emergerebbe, peraltro, che gli effetti
negativi ora evidenziati siano stati presi in considerazione in  sede
di approvazione della legge n.  94  del  2009:  sicche'  si  dovrebbe
supporre che essi rappresentino «una conseguenza  non  voluta  e  non
calcolata dal legislatore». 
    1.3.- Alla luce di tali considerazioni, la disposizione combinata
dell'art. 135 cod. pen. e dell'art. 53, secondo comma, della legge n.
689 del 1981 si porrebbe in contrasto con l'art.  3  Cost.  sotto  un
triplice profilo. 
    In primo luogo, per la irragionevole disparita'  di  trattamento,
da essa indotta, fra l'imputato cui sia  direttamente  applicata  una
pena pecuniaria (per la  quale  la  legge  n.  94  del  2009  avrebbe
previsto un aumento massimo, in termini  reali,  pari  al  73,86%)  e
l'imputato cui la pena pecuniaria sia applicata  in  sostituzione  di
una pena detentiva  (che  subirebbe  invece  un  aumento,  sempre  in
termini reali, del 349,64%). 
    In secondo luogo, per la  «contraddittorieta'  intrinseca»  della
disposizione   denunciata   rispetto   alle   finalita'   complessive
perseguite dalla stessa legge n. 94 del 2009,  di  adeguamento  delle
pene pecuniarie al diminuito valore della moneta e di sensibile -  ma
non sproporzionato - inasprimento delle stesse. 
    In terzo luogo e  da  ultimo,  per  la  contraddittorieta'  della
medesima disposizione con il  contesto  normativo  in  cui  viene  ad
inserirsi, stante l'evidenziato effetto limitativo  dell'applicazione
di un istituto - quale la sostituzione delle pene detentive  brevi  -
del quale lo stesso legislatore aveva  inteso  viceversa  assicurare,
solo pochi anni prima, una applicazione piu' massiccia. 
    Al riguardo, il rimettente rimarca  come  il  nuovo  criterio  di
ragguaglio previsto dall'art. 135  cod.  pen.  risulti,  in  realta',
«eccessivo rispetto  alle  finalita'  del  legislatore»,  e  pertanto
irragionevole, non solo quando sia utilizzato per sostituire una pena
detentiva con una pena pecuniaria, ma anche quando sia  impiegato  in
senso inverso, ossia per ragguagliare una pena pecuniaria ad una pena
detentiva (ad esempio, in sede  di  verifica  della  possibilita'  di
concedere all'imputato  i  benefici  della  sospensione  condizionale
della pena o della non menzione della condanna  nel  certificato  del
casellario giudiziale). In questi casi, peraltro,  la  sproporzionata
rivalutazione del «tasso di cambio», operata dalla legge  n.  94  del
2009, si traduce in un vantaggio per  l'imputato,  che  non  potrebbe
essere rimosso dalla  Corte  costituzionale,  stante  la  preclusione
delle pronunce di  illegittimita'  costituzionale  in  malam  partem:
circostanza che spiegherebbe la limitazione della questione  proposta
ai  soli  riflessi  di  detta   rivalutazione   sull'istituto   della
sostituzione delle pene detentive brevi. 
    La palese eccessivita' della pena pecuniaria applicata sulla base
dell'art.  53,  secondo  comma,  della  legge   n.   689   del   1981
implicherebbe, per altro verso, la violazione dell'art. 27 Cost., che
esige la proporzionalita' del trattamento sanzionatorio rispetto alla
gravita' del reato. 
    1.4.-  Riguardo,  poi,  all'intervento  necessario  al  fine   di
rimuovere i vulnera  costituzionali  denunciati,  il  giudice  a  quo
rileva  come  -  ferma  restando  l'impossibilita'   per   la   Corte
costituzionale di sostituirsi al legislatore  nell'individuazione  di
un coefficiente di ragguaglio «adeguato»  -  un  parametro  oggettivo
atto a fungere da guida in tale operazione  sia  comunque  ricavabile
dai criteri di delega enunciati dall'art. 3, comma 65,  della  stessa
legge n. 94 del 2009. 
    Detti criteri dimostrerebbero, infatti - come gia' evidenziato  -
che il legislatore intendeva inasprire le pene pecuniarie in  termini
reali in misura compresa da un minimo dell'11,49% a  un  massimo  del
73,86%.  Di  conseguenza,   dovrebbe   ritenersi   costituzionalmente
illegittima la previsione di un criterio di ragguaglio  che  comporti
un aumento della pena pecuniaria,  applicata  in  sostituzione  della
pena detentiva, superiore, in termini reali, al 73,86% rispetto  alla
disciplina previgente, ossia ad euro 97 (il  precedente  coefficiente
di ragguaglio di 38 euro corrisponderebbe, infatti, a 55,60 euro  nel
luglio 2009: cifra che, aumentata del 73,86%, porterebbe ad un valore
di euro 96,66, arrotondabile ad euro 97). 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile. 
    La difesa dello Stato rileva, anzitutto, come  in  rapporto  alla
disposizione  denunciata  non  sia  ravvisabile   alcuna   violazione
dell'art. 76 Cost., sotto  il  profilo  dell'eccesso  di  delega,  in
quanto l'art. 135 cod. pen.  e'  stato  direttamente  modificato  dal
comma 62 (e non dal comma 65) della legge n. 94 del 2009. 
    Quanto, poi, alla prospettata violazione dell'art. 3  Cost.,  per
la presunta irragionevole disparita' di  trattamento  tra  l'imputato
cui sia applicata direttamente una pena pecuniaria  e  l'imputato  al
quale la pena pecuniaria sia applicata in sostituzione  di  una  pena
detentiva,  le  ipotesi  poste  a  raffronto  non  sarebbero  affatto
omogenee,    stante    la    «maggiore    afflittivita'     correlata
all'applicazione di una pena detentiva, anche se sostituita». 
    Insussistente  sarebbe,  infine,  l'asserita   contraddittorieta'
della disposizione denunciata  rispetto  alla  complessiva  finalita'
della legge n. 94 del 2009 e al contesto  normativo  di  riferimento.
Non vi sarebbe, infatti, alcun  divieto  di  applicare,  in  sede  di
sostituzione delle pene detentive, un coefficiente di ragguaglio pari
ad una frazione della somma di  euro  250,  conformemente  al  tenore
letterale dell'art. 135 cod. pen.:  conclusione,  questa,  avvalorata
tanto dall'inciso «per  qualsiasi  effetto  giuridico»,  che  compare
nella norma, quanto dalla regola generale in tema di discrezionalita'
del giudice nell'applicazione della pena di  cui  all'art.  132  cod.
pen. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Tribunale  ordinario   di   Imperia,   in   composizione
monocratica,   dubita   della   legittimita'   costituzionale   della
disposizione  combinata  dell'art.  135  del  codice   penale,   come
modificato dall'art. 3, comma 62, della legge 15 luglio 2009,  n.  94
(Disposizioni in materia di  sicurezza  pubblica),  e  dell'art.  53,
secondo comma, della legge 24 novembre 1981,  n.  689  (Modifiche  al
sistema penale), nella parte  in  cui  prevede  che,  ai  fini  della
sostituzione delle pene detentive brevi con la  pena  pecuniaria,  il
valore giornaliero della pena detentiva non possa essere inferiore ad
euro 250, anziche' ad euro 97. 
    Il giudice a quo censura gli effetti indotti sull'istituto  della
sostituzione delle pene detentive brevi dall'avvenuto  aumento  -  in
assunto  sproporzionato  e  irragionevole  -  del   coefficiente   di
ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie, di cui all'art.  135
cod. pen.: coefficiente che l'art. 3, comma 62, della legge n. 94 del
2009 ha elevato dai precedenti euro 38 agli attuali euro 250. 
    Ad avviso del rimettente, l'assetto normativo che ne  risulta  si
porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost. sotto tre distinti profili. 
    In primo luogo, per  l'irragionevole  disparita'  di  trattamento
venutasi a creare tra gli imputati cui sia inflitta  in  via  diretta
una pena pecuniaria e gli imputati cui quest'ultima sia applicata  in
sostituzione di una pena detentiva. L'art. 3, comma 65,  della  legge
n. 94 del 2009 ha delegato, infatti, il Governo ad aumentare le  pene
pecuniarie previste dalle singole norme incriminatrici sulla base  di
coefficienti che - secondo i calcoli del rimettente - implicherebbero
un  loro  incremento  in  termini  reali  (al  netto,  cioe',   della
svalutazione monetaria) compreso  tra  un  minimo  dell'11,49%  e  un
massimo del 73,86%. Per contro, il comma 62 dello stesso  art.  3  ha
incrementato, sempre in termini reali, il coefficiente di  ragguaglio
tra pene detentive e pene  pecuniarie  -  e,  con  esso,  l'ammontare
minimo della pena pecuniaria applicabile in sostituzione di una  pena
detentiva - in misura nettamente superiore, e cioe' (stando sempre ai
calcoli del giudice a quo) del 349,64%. 
    In secondo luogo, poi, la norma censurata violerebbe il principio
di ragionevolezza,  ponendosi  in  contraddizione  con  le  finalita'
complessive della stessa legge n. 94 del 2009, la quale  -  sotto  il
profilo che interessa - doveva ritenersi diretta ad adeguare le  pene
pecuniarie  al  diminuito  potere  d'acquisto  della  moneta   e   ad
inasprirle in modo sensibile, ma comunque non sproporzionato. 
    In  terzo  luogo  e  da  ultimo,   la   disposizione   denunciata
risulterebbe contraddittoria anche rispetto al contesto normativo  in
cui si inserisce, determinando  un  abnorme  incremento  dei  «costi»
della sostituzione della  pena  detentiva  breve,  che  comprimerebbe
fortemente  le  potenzialita'  applicative  dell'istituto,  in  danno
soprattutto delle persone meno abbienti: e cio',  sebbene  lo  stesso
legislatore, appena pochi anni prima,  avesse  inteso  dilatarne  gli
spazi di operativita', elevando da tre a sei mesi il limite  di  pena
detentiva sostituibile con la  pena  pecuniaria  (art.  4,  comma  1,
lettera a, della legge 12 giugno 2003, n. 134, recante «Modifiche  al
codice di procedura penale in materia di applicazione della  pena  su
richiesta delle parti»). 
    La palese eccessivita' della pena pecuniaria applicata sulla base
dell'art.  53,  secondo  comma,  della  legge   n.   689   del   1981
implicherebbe, per altro verso, la violazione dell'art. 27 Cost., che
esige la proporzionalita' del trattamento sanzionatorio rispetto alla
gravita' del reato. 
    Secondo  il  rimettente,  al  fine  di  rimuovere  il  vulnus  ai
parametri  costituzionali  evocati,  l'aumento  del  coefficiente  di
ragguaglio, che determina il valore  giornaliero  minimo  delle  pene
detentive  da  sostituire,  dovrebbe  essere  allineato  alla  misura
massima dell'aumento delle singole pene pecuniarie,  prefigurato  dai
criteri di delega di cui al citato art. 3, comma 65, della  legge  n.
94 del 2009 (73,86%, in termini reali): prospettiva  nella  quale  il
coefficiente in questione dovrebbe rimanere  conclusivamente  fissato
in euro 97, anziche' in euro 250. 
    2.- In via preliminare, va rilevato che - contrariamente a quanto
sostenuto dall'Avvocatura  generale  dello  Stato  -  il  presupposto
interpretativo da cui  muove  il  giudice  a  quo  nel  sollevare  la
questione risulta pienamente corretto. 
    L'art. 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981  stabilisce
- per quanto di interesse in questa sede - che per la  determinazione
della pena pecuniaria sostitutiva  il  giudice  individua  un  valore
giornaliero, tenendo conto  della  condizione  economica  complessiva
dell'imputato e del suo nucleo  familiare,  e  lo  moltiplica  per  i
giorni di pena  detentiva.  Precisa,  altresi',  che  l'ammontare  di
ciascun "tasso"  «non  puo'  essere  inferiore  alla  somma  indicata
dall'articolo 135 del codice penale e  non  puo'  superare  di  dieci
volte tale ammontare». 
    L'art.  135  cod.  pen.  prevede,  a  propria  volta,  nel  testo
attualmente in vigore, che «Quando, per qualsiasi effetto  giuridico,
si deve eseguire un ragguaglio fra pene pecuniarie e pene  detentive,
il computo ha luogo calcolando euro 250, o frazione di euro  250,  di
pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva». 
    Cio' posto, va escluso che la formula «o frazione di  euro  250»,
presente nel  citato  art.  135  cod.  pen.,  abiliti  il  giudice  a
determinare discrezionalmente il valore giornaliero minimo della pena
detentiva da sostituire in una somma anche  inferiore  ad  euro  250.
Come correttamente rilevato dal rimettente, la predetta formula  deve
intendersi, infatti, riferita alla  sola  ipotesi  della  conversione
della pena pecuniaria  in  pena  detentiva,  e  non  anche  a  quella
inversa, giacche' solo nel primo  caso  emerge  l'esigenza  di  tener
conto  di  eventuali  "resti"  (cio',  stante  la  possibilita'   che
l'ammontare della pena pecuniaria da convertire  non  corrisponda  al
coefficiente di ragguaglio o ad un suo multiplo). 
    Ma, al di la' di cio', con specifico riguardo  alla  sostituzione
delle pene detentive brevi, l'art. 53, secondo comma, della legge  n.
689 del 1981  e'  univoco  nello  stabilire  che  la  somma  indicata
nell'art. 135 cod. pen.  rappresenti  il  valore  giornaliero  minimo
della pena da sostituire: ne' avrebbe senso  individuare  una  soglia
minima   se,   poi,   fosse   consentito    al    giudice    scendere
discrezionalmente al di sotto di essa. 
    3.- Le ulteriori eccezioni prospettate dalla difesa dello Stato a
sostegno della dedotta inammissibilita' della questione -  una  delle
quali attiene, peraltro, a censura  che  il  giudice  a  quo  non  ha
affatto  formulato  (quella  di  violazione  dell'art.  76  Cost.)  -
evocano, in realta', profili di merito. 
    4.- Di essi non e' necessario lo scrutinio, essendo la  questione
inammissibile per una diversa ragione. 
    4.1.- Al riguardo, giova ricordare come il criterio di ragguaglio
fra pene detentive e pene pecuniarie - il quale consente di impostare
in  termini  matematici  una  proporzione  fra   entita',   in   se',
palesemente eterogenee - fosse fissato, nella versione originaria del
codice penale, in cinquanta lire di pena pecuniaria per un giorno  di
pena  detentiva.  Detto  importo  e'  stato  oggetto   di   reiterati
interventi di adeguamento, sollecitati dalla progressiva perdita  del
potere di acquisto della moneta,  cui  ha  fatto  da  contraltare  un
contemporaneo aumento delle pene pecuniarie  previste  dalle  singole
norme incriminatrici, sulla base di un moltiplicatore talora identico
(artt. 3 e 6 del decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre  1945,
n. 679, recante «Modifiche al Codice penale e al Codice di  procedura
penale»; artt. 101 e 113 della legge n. 689 del 1981), talaltra  piu'
o meno significativamente differenziato (artt.  5  e  7  del  decreto
legislativo del Capo provvisorio dello  Stato  21  ottobre  1947,  n.
1250, recante «Aumento delle sanzioni pecuniarie in materia  penale»;
artt.  1  e  3  della  legge  12  luglio  1961,   n.   603,   recante
«Modificazioni agli articoli 24, 26, 66, 78, 135  e  237  del  Codice
penale e agli articoli 19 e 20  del  regio  decreto-legge  20  luglio
1934, n. 1404, convertito nella legge 27 maggio 1935 n. 835»). 
    Con  la  riforma  attuata  dalla  legge  n.  689  del  1981,   il
coefficiente di ragguaglio e' stato,  in  particolare,  innalzato  da
5.000 lire a 25.000 lire (art. 101),  con  un  parallelo  aumento  di
cinque volte anche dell'ammontare delle singole pene pecuniarie (art.
113). Lo scopo era, dunque, quello di ristabilire i valori delle pene
pecuniarie alterati dalla svalutazione, mantenendo immutato  il  loro
equilibrio rispetto all'intero sistema di conversione. 
    L'evidenziato parallelismo e' venuto meno, peraltro, con la legge
5 ottobre 1993, n. 402 (Modifica dell'articolo 135 del codice penale:
ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive), che  ha  triplicato
il tasso di ragguaglio, elevandolo a  75.000  lire  (art.  1),  senza
tuttavia  intervenire   contestualmente   sull'importo   delle   pene
pecuniarie,  rimasto  cosi'  fermo  ai  livelli   del   1981.   Nella
circostanza, dunque, il legislatore ha voluto, non  tanto  compensare
la svalutazione della moneta intervenuta  tra  il  1981  e  il  1993,
quanto piuttosto modificare  in  termini  assoluti  il  "rapporto  di
cambio"  tra  la  pena  detentiva  e  la   pena   pecuniaria:   cio',
nell'accresciuta  consapevolezza  dell'altissimo   rango   del   bene
«liberta' personale», che rende tale bene,  in  linea  di  principio,
incommensurabile rispetto al patrimonio e che, comunque,  laddove  un
ragguaglio sia necessario per un qualsiasi effetto giuridico,  impone
che la monetizzazione della liberta' avvenga a un prezzo non "vile". 
    Da ultimo, con la legge n. 94  del  2009,  che  qui  segnatamente
interessa, il criterio di ragguaglio ha subito un ulteriore, energico
incremento, pari a quasi sei volte  e  mezzo,  passando  da  euro  38
(somma risultante, per arrotondamento, dalla conversione dell'importo
di lire 75.000) ad euro 250 (art. 3, comma 62). A siffatto incremento
avrebbe dovuto tornare ad accompagnarsi  un  adeguamento  delle  pene
pecuniarie, da effettuare sulla base di coefficienti differenziati  e
decrescenti  a  seconda  della  data  di  entrata  in  vigore   delle
disposizioni  che  hanno  stabilito  l'ammontare   di   dette   pene:
operazione della quale e' stato,  peraltro,  incaricato  il  Governo,
tramite lo strumento della delega legislativa  (art.  3,  comma  65).
Come rimarca il rimettente,  gia'  in  partenza  tali  moltiplicatori
prefiguravano  un   aumento   percentuale   delle   pene   pecuniarie
notevolmente inferiore, in termini reali, a quello  del  criterio  di
ragguaglio.  La  delega  legislativa  per  l'adeguamento  delle  pene
pecuniarie e' rimasta, in ogni caso, inattuata:  con  la  conseguenza
che la riforma del 2009 e'  venuta,  di  fatto,  a  produrre  effetti
analoghi a quelli della riforma del 1993, vale a dire un innalzamento
"secco" del rapporto di cambio tra pene detentive e pene pecuniarie. 
    Si tratta,  come  e'  evidente,  di  una  modifica  che  torna  a
vantaggio dell'imputato, allorche' sia la  pena  pecuniaria  a  dover
essere ragguagliata alla pena  detentiva  (ad  esempio,  in  sede  di
verifica   della   fruibilita'   dei   benefici   della   sospensione
condizionale della pena e  della  non  menzione  della  condanna  nel
certificato del casellario giudiziale); mentre  va  a  suo  discapito
nell'ipotesi  inversa,  cosi'  come  tipicamente  avviene  quando  si
discuta dell'applicazione dell'istituto  di  cui  all'art.  53  della
legge n. 689 del 1981. 
    4.2.- Con l'odierna questione,  il  rimettente  chiede  a  questa
Corte  di  sostituire  -  con  effetti  limitati  all'istituto  della
sostituzione  delle  pene  detentive  brevi  -  il  coefficiente   di
ragguaglio di 250 euro con quello di 97 euro: importo,  quest'ultimo,
che il giudice a quo individua applicando al precedente  coefficiente
(euro 38) un aumento percentuale pari a quello massimo che -  secondo
i suoi calcoli - avrebbe dovuto essere apportato, in  termini  reali,
alle pene pecuniarie in forza dei criteri di delega di  cui  all'art.
3, comma 65, della legge n. 94 del 2009. 
    In questo modo, il rimettente  invoca,  peraltro,  un  intervento
sostitutivo della disciplina  sottoposta  a  scrutinio  che  comporta
scelte  riservate  al  legislatore,  in  assenza  di  una   soluzione
costituzionalmente obbligata. 
    Secondo quanto dianzi evidenziato, il legislatore, con  la  legge
n. 94 del 2009 - cosi' come con la precedente legge n. 402 del 1993 -
ha inteso modificare il rapporto tra pena detentiva e pena pecuniaria
oltre i limiti  necessari  a  compensare  la  svalutazione  monetaria
intervenuta medio tempore,  fissando  un  "tasso  di  monetizzazione"
oggettivamente piu' elevato  della  pena  limitativa  della  liberta'
personale. Si tratta di una scelta di politica criminale che  rientra
nell'ambito della discrezionalita' legislativa, alla quale il giudice
a quo muove critiche che attengono, nella sostanza,  al  piano  della
mera opportunita'. 
    Il   parametro   cui   agganciare   l'auspicato   intervento   di
"riequilibrio" del sistema non potrebbe essere  costituito,  in  ogni
caso,  dai  coefficienti  di  rivalutazione  delle  pene   pecuniarie
previsti  dall'art.  3,  comma  65,  della  legge  n.  94  del  2009.
Prospettando un simile  intervento,  il  rimettente  contrappone,  in
realta', alla scelta  legislativa  censurata  una  propria  soluzione
personale, ritenuta piu' adeguata, ma  non  certo  costituzionalmente
imposta. L'idea sottesa a tale soluzione - e, cioe', che l'incremento
del coefficiente di ragguaglio debba andare di pari passo a quello di
aumento delle pene pecuniarie -  non  corrisponde,  infatti,  ad  una
esigenza costituzionale: e cio' tanto piu' ove si consideri che,  nel
frangente, l'aumento delle pene pecuniarie - che dovrebbe fornire  il
parametro di raffronto - e' rimasto privo di concreta attuazione. 
    5.- La questione va dichiarata,  pertanto,  inammissibile  (sulla
inammissibilita' delle questioni che richiedono interventi in materie
riservate alla discrezionalita' del legislatore, in  assenza  di  una
soluzione costituzionalmente obbligata, ex plurimis, sentenze n.  134
e n. 36 del 2012).