ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale  dell'art.  1,  commi
774 e 776, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per  la
formazione del bilancio annuale e pluriennale  dello  Stato  -  legge
finanziaria  2007),  promosso  dalla   Corte   dei   conti,   sezione
giurisdizionale d'appello per la Regione siciliana, nel  procedimento
vertente tra C.C.I. e l'INPS  con  ordinanza  del  29  ottobre  2013,
iscritta al n. 272 del  registro  ordinanze  2013,  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  51,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2013. 
    Visti gli atti di costituzione di  C.C.I.  e  dell'INPS,  nonche'
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  dell'8  luglio  2014  il   Giudice
relatore Alessandro Criscuolo; 
    uditi gli avvocati Lelio Placidi per C.C.I.,  Filippo  Mangiapane
per l'INPS e l'avvocato dello Stato Vincenzo Rago per  il  Presidente
del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 29 ottobre 2013 (r.o.  272  del  2013),  la
Corte dei conti, sezione giurisdizionale  d'appello  per  la  Regione
siciliana, ha sollevato - in riferimento all'art. 117,  primo  comma,
della Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in avanti «CEDU»)  e
all'art. 1 del Protocollo addizionale, come interpretati dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo,  in  particolare  con  la  sentenza  7
giugno 2011,  emessa  in  causa  Agrati  ed  altri  contro  Italia  -
questione di legittimita' costituzionale dell'art.  1,  commi  774  e
776, della legge 27  dicembre  2006,  n.  296  (Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale e pluriennale  dello  Stato  -  legge
finanziaria 2007). 
    Il Collegio rimettente riferisce che, con sentenza  n.  2605  del
2012, la Corte dei conti,  sezione  giurisdizionale  per  la  Regione
siciliana, giudice unico delle  pensioni,  ha  respinto  due  ricorsi
riuniti, proposti da  Z.G.  e  finalizzati,  l'uno,  ad  ottenere  la
riliquidazione della pensione di reversibilita' del  defunto  coniuge
C.C.A., deceduto il 9 novembre 2002,  in  pensione  dall'11  novembre
1975, secondo il meccanismo di cui all'art. 15, comma 5, della  legge
23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione  della  finanza
pubblica), e non - come invece accaduto - secondo quello dell'art. 1,
comma 41, della legge 8 agosto 1995,  n.  335  (Riforma  del  sistema
pensionistico obbligatorio e complementare); e l'altro, ad  impugnare
una nota del dicembre 2006, con la quale  la  predetta  pensione  era
stata rideterminata in conformita' a quanto  previsto  dalla  tabella
"F" allegata alla legge n. 335 del 1995. 
    La rimettente prosegue osservando che  la  predetta  sentenza  e'
stata impugnata dalla signora C.C.I., nella qualita' di  procuratrice
genitoriale della  madre  Z.E.,  la  quale  ha  addotto  le  seguenti
censure: 1) con riferimento al ricorso relativo  alla  riliquidazione
secondo il meccanismo di cui all'art. 15, comma 5, della legge n. 724
del 1994, la violazione dell'art. 6 della  CEDU  e  dell'art.  1  del
Protocollo addizionale alla Convenzione; 2) in relazione  al  ricorso
concernente la tabella  "F",  l'omessa  pronuncia  sulla  domanda  di
irripetibilita' delle somme percepite in buona fede. 
    La parte privata ha, dunque, chiesto l'accoglimento dei  ricorsi,
con  riconoscimento  del  suo   diritto   alla   riliquidazione   del
trattamento pensionistico di reversibilita' secondo il meccanismo  di
cui all'art. 15, comma 5, della legge n. 724  del  1994  a  decorrere
dalla data di decesso del coniuge, a vita,  e,  in  via  subordinata,
fino al dicembre 2006, oltre accessori di legge; per quanto  riguarda
il secondo ricorso, ha chiesto  la  declaratoria  di  irripetibilita'
delle somme riscosse in buona fede. 
    Con memoria del 31 dicembre 2013 si  e'  costituito  in  giudizio
l'Istituto  nazionale  della  previdenza  sociale  (d'ora  in  avanti
«INPS»), chiedendo il rigetto dei gravami. 
    Cio' premesso in  fatto,  la  Corte  rimettente  precisa  che  la
questione sottoposta al suo  giudizio  riguarda  la  richiesta  della
vedova di un ex dipendente pubblico, in quiescenza da data  anteriore
al 1° gennaio 1995 e deceduto in  data  successiva,  di  ottenere  la
riliquidazione della pensione di reversibilita'  ai  sensi  dell'art.
15, comma 5, della legge n. 724 del  1994,  nella  misura  piena,  in
applicazione  dell'art.  2  della  legge  27  maggio  1959,  n.   324
(Miglioramenti economici al personale  statale  in  attivita'  ed  in
quiescenza),  giacche'  avente  causa  da  un   trattamento   diretto
liquidato in data anteriore al 1° gennaio 1995, e non, invece,  nella
misura del sessanta per cento del trattamento goduto dal dante causa,
come invece ha provveduto a liquidare l'INPS. 
    Al riguardo, la rimettente riferisce come sia  noto  che,  a  far
data dalla sentenza n. 8/2002/QM delle sezioni  riunite  della  Corte
dei conti, si sia formata una giurisprudenza «pressoche' monolitica»,
nel senso di ritenere che, in  ipotesi  di  decesso  del  pensionato,
titolare di trattamento di quiescenza liquidato prima del 1°  gennaio
1995, il conseguente trattamento di reversibilita' dovesse essere, in
ogni caso, liquidato secondo le norme dettate dal predetto  art.  15,
comma 5, della legge n. 724 del 1994,  indipendentemente  dalla  data
del decesso medesimo. 
    Sennonche', successivamente, con i commi 774 e  776  dell'art.  1
della  legge  n.  296  del  2006,  il  legislatore  ha  disposto  che
«L'estensione della disciplina del trattamento pensionistico a favore
dei superstiti di assicurato e  pensionato  vigente  nell'ambito  del
regime dell'assicurazione generale  obbligatoria  a  tutte  le  forme
esclusive e sostitutive di detto regime prevista dall'art.  1,  comma
42 [recte: 41], della legge 8 agosto 1995, n. 335, si interpreta  nel
senso che  per  le  pensioni  di  reversibilita'  sorte  a  decorrere
dall'entrata  in  vigore  della  legge  8   agosto   1995,   n.   335
indipendentemente dalla data di decorrenza  della  pensione  diretta,
l'indennita' integrativa speciale gia'  in  godimento  da  parte  del
dante   causa,   parte   integrante   del   complessivo   trattamento
pensionistico percepito,  sia  attribuita  nella  misura  percentuale
prevista  per  il  trattamento  di  reversibilita',  stabilendo   nel
contempo che sia abrogato l'art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre
1994, n. 724». 
    La rimettente aggiunge che i giudici di merito non hanno ritenuto
di recepire il nuovo  orientamento  del  legislatore,  sollevando  al
riguardo  questioni  di  legittimita'  costituzionale   della   nuova
disciplina. La Corte costituzionale, pero', con sentenza  n.  74  del
2008  ha  dichiarato  non  fondate  le  questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 774, della legge n. 296  del  2006,
in riferimento all'art. 3 Cost. 
    Nell'attuale atto di appello la parte privata torna  ad  invocare
la violazione dell'art. 6 della CEDU e  dell'art.  1  del  Protocollo
addizionale - gia' prospettata in primo grado e risolta negativamente
dal giudice - e chiede che il ricorso sia deciso  in  conformita'  ai
principi enunciati nella sentenza emessa dalla Corte EDU, nel ricorso
sul caso Agrati ed altri contro Italia, il 7 giugno 2011. 
    Il Collegio osserva come unico strumento per poter valorizzare la
CEDU  sia  quello  di  sollevare   la   questione   di   legittimita'
costituzionale  della  norma  nazionale  che  si  assume  essere   in
contrasto con la Convenzione, per  violazione  dell'art.  117  Cost.,
come affermato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e n.
349 del 2007. 
    Cio' premesso, la rimettente riferisce che nel ricorso Agrati  ed
altri contro  l'Italia,  la  Corte  EDU  ha  constatato  una  duplice
violazione. In primo luogo, l'intervento legislativo, che decideva in
via definitiva e in modo retroattivo sul  merito  della  controversia
pendente davanti ai giudici interni tra i ricorrenti e lo Stato,  non
era giustificato da ragioni imperative di  interesse  generale  e  vi
era, quindi, violazione dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione. 
    In   secondo   luogo,   i   ricorrenti    beneficiavano,    prima
dell'intervento  della  legge  finanziaria  2007,  di  un   interesse
patrimoniale che costituiva, se non un credito  nei  confronti  della
parte avversa, per lo meno  una  «legittima  aspettativa»  di  potere
ottenere il pagamento delle somme controverse. 
    Ai sensi dell'art. 1 del Protocollo addizionale, tale aspettativa
costituiva un «bene». 
    La Corte EDU ha, poi, affermato che l'adozione dell'art. 1  della
legge finanziaria 2007 ha imposto ai ricorrenti un «onere anomalo  ed
esorbitante» e che il pregiudizio arrecato  ai  loro  beni  e'  stato
talmente sproporzionato da  alterare  il  giusto  equilibrio  tra  le
esigenze  dell'interesse  generale  e  la  salvaguardia  dei  diritti
fondamentali degli individui. 
    La  Corte  ha,  inoltre,  osservato  che  il  principio   sotteso
all'attribuzione dell'equa riparazione e' ben consolidato: per quanto
possibile,  e'  necessario  porre  l'interessato  in  una  situazione
corrispondente a quella in cui si troverebbe se la  violazione  della
Convenzione non fosse avvenuta. Sono richiamate alcune sentenze della
Corte europea. 
    Ancora, la stessa Corte europea ha sottolineato come, nel caso in
esame, la giurisprudenza  della  Corte  di  cassazione  fosse,  prima
dell'adozione della legge controversa, favorevole alla posizione  dei
ricorrenti. Se non  si  fosse  verificata  nessuna  violazione  della
Convenzione, la situazione di costoro  sarebbe  stata  verosimilmente
diversa. 
    La  Corte  europea,  quindi,  deduce  che  la  violazione   della
Convenzione e' suscettibile di avere causato un  danno  materiale  ai
ricorrenti. 
    In sintesi, con la sentenza in  esame  e'  stato  affermato  che,
benche' non sia precluso al  legislatore  di  disciplinare,  mediante
nuove disposizioni retroattive, diritti derivanti da leggi in vigore,
il principio di certezza del diritto e la nozione  di  processo  equo
contenuti nell'art. 6 della Convenzione impediscono, tranne  che  per
impellenti motivi di interesse generale, ogni  ingerenza  del  potere
legislativo nell'amministrazione della giustizia, al fine di influire
sulla conclusione giudiziaria di una lite. 
    Nel caso di specie, lo Stato italiano avrebbe violato  l'art.  6,
paragrafo 1, della Convenzione, essendo intervenuto con una norma  ad
hoc al fine di assicurarsi un esito favorevole nei giudizi di cui era
parte. 
    Ad avviso della Corte EDU, l'ingerenza nel  diritto  al  rispetto
dei  beni  deve  garantire  un  giusto  equilibrio  tra  le  esigenze
dell'interesse  generale  della  comunita'  e  gli  imperativi  della
salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo; deve, altresi',
esistere un ragionevole rapporto  di  proporzionalita'  tra  i  mezzi
impiegati e lo scopo perseguito da qualsiasi misura  privativa  della
proprieta'. 
    Nel caso di specie, l'adozione  della  legge  di  interpretazione
autentica, avendo  privato  in  via  definitiva  i  ricorrenti  della
possibilita'  di  ottenere  il  riconoscimento   dell'anzianita'   di
servizio pregressa, costituirebbe un attentato sproporzionato ai loro
beni, spezzando il giusto equilibrio tra  le  esigenze  di  interesse
generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo. 
    Il Collegio rimettente da', poi, atto che alla predetta pronuncia
la Corte europea e' pervenuta  benche',  in  quella  fattispecie,  la
Corte costituzionale avesse gia' esaminato la  vicenda  ritenendo  la
norma sopravvenuta conforme sia alla Costituzione, sia alla CEDU. 
    Tutto cio'  premesso,  il  Collegio  rimettente  ritiene  che  la
questione  sottoposta  al  suo  esame  ripercorra   puntualmente   la
fattispecie gia' esaminata dalla Corte  europea  con  riferimento  ad
altra normativa. 
    Nella specie, si  tratterebbe  del  diritto  alla  riliquidazione
della pensione di reversibilita' che, a far data  dalla  sentenza  n.
8/2002/QM delle sezioni riunite della Corte dei conti, avveniva,  per
le pensioni dirette con decorrenza anteriore al 1° gennaio 1995,  con
le modalita' di cui all'art. 15, comma 5,  della  legge  n.  724  del
1994, indipendentemente dalla data del decesso del dante causa. 
    Una giurisprudenza gia' ampiamente maggioritaria che,  a  seguito
della  citata  pronuncia  delle  sezioni  riunite,  sarebbe  divenuta
«praticamente monolitica». 
    Sennonche', successivamente, «a ben quattro anni di distanza, con
i commi 774 e 776 dell'art.  1  della  legge  n.  296  del  2006,  il
legislatore  ha  disposto  che  l'estensione  della  disciplina   del
trattamento pensionistico a favore dei  superstiti  di  assicurato  e
pensionato vigente nell'ambito del regime dell'assicurazione generale
obbligatoria a tutte  le  forme  esclusive  e  sostitutive  di  detto
regime, prevista dall'art. 1, comma 42 [recte:  41],  della  legge  8
agosto 1995, n. 335, si interpretasse nel senso che per  le  pensioni
di reversibilita' sorte a  decorrere  dall'entrata  in  vigore  della
legge n. 335 del 1995, indipendentemente  dalla  data  di  decorrenza
della pensione diretta, l'indennita'  integrativa  speciale  gia'  in
godimento da parte del dante causa, parte integrante del  complessivo
trattamento pensionistico percepito, fosse  attribuita  nella  misura
percentuale prevista per il trattamento di reversibilita', stabilendo
nel contempo l'abrogazione dell'art. 15,  comma  5,  della  legge  23
dicembre 1994 n. 724». 
    Qualora non ci fosse stato tale intervento  legislativo,  quindi,
tutti coloro che a quella data - come l'odierna appellante -  avevano
in corso  un  contenzioso  sul  punto,  sicuramente  avrebbero  visto
accolto il loro ricorso. 
    La normativa sopravvenuta, invece, avrebbe determinato il rigetto
della domanda, con  un  danno  non  trascurabile  in  relazione  alla
condizione di pensionato di tutti gli interessati. 
    L'intervento del legislatore, peraltro, sarebbe non  idoneo,  nel
caso di specie, a garantire un  giusto  equilibrio  tra  le  esigenze
dell'interesse  generale  della  comunita'  e  gli  imperativi  della
salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo,  limitandosi  a
falcidiare una posizione  giuridica  economica  che,  alla  luce  del
diritto vivente  scaturente  dall'interpretazione  giurisprudenziale,
apparteneva  al  patrimonio  degli  interessati,  senza  che  fossero
evidenziati  gli  ingenti  e   preminenti   interessi   generali   da
salvaguardare, anche alla luce  del  fatto  che,  in  ogni  caso,  la
fattispecie era, fino a quel momento, assai  limitata  dal  punto  di
vista  quantitativo  e,  comunque,  tale  da  non  potere  certamente
attentare agli equilibri finanziari di  bilancio  nazionali,  tant'e'
che  il  legislatore,  nonostante  fosse  consapevole  del   pacifico
orientamento giurisprudenziale in essere dal 2002, ha atteso fino  al
2006 per introdurre l'intervento correttivo. 
    Ad avviso della rimettente, tale intervento non  sarebbe  neppure
assistito da un ragionevole rapporto di proporzionalita' tra i  mezzi
impiegati  e  lo  scopo   perseguito,   restando   indimostrati   gli
apprezzabili effetti contenitivi della  spesa  pubblica  nel  settore
previdenziale che, per altro verso, si  sarebbero  potuti  conseguire
solo  intervenendo   innovativamente   sulle   future   pensioni   di
reversibilita', senza intaccare le limitate prestazioni gia' maturate
a quella data e,  quindi,  senza  ricorrere  ad  una  interpretazione
autentica e ad un correlato effetto retroattivo. 
    La Corte dei conti prosegue osservando come, nel caso di  specie,
e in quello gia' oggetto di esame da parte della Corte europea, sopra
richiamato, l'adozione  della  legge  di  interpretazione  autentica,
avendo privato in via definitiva i ricorrenti della  possibilita'  di
ottenere  il  riconoscimento  del  diritto   alla   piu'   favorevole
liquidazione  della  pensione  di  reversibilita',  costituisca   uno
sproporzionato attentato ai loro beni, spezzando il giusto equilibrio
tra le esigenze di interesse generale e la salvaguardia  dei  diritti
fondamentali dell'individuo. 
    Ad avviso della Corte rimettente,  dunque,  i  commi  774  e  776
dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui  incidono
sui giudizi pendenti alla data  della  loro  entrata  in  vigore,  si
porrebbero in contrasto  con  l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in
relazione  all'art.  6  della  CEDU  e  all'art.  1  del   Protocollo
addizionale. 
    Il Collegio rimettente non ignora che i  detti  commi  sono  gia'
stati scrutinati da questa Corte che, con sentenza n. 74 del 2008, ha
dichiarato  l'insussistenza  del  contrasto   con   i   principi   di
ragionevolezza, di tutela del legittimo  affidamento  e  di  certezza
delle situazioni giuridiche. 
    Del pari il rimettente da' atto  che  questa  stessa  Corte,  con
sentenza n. 1 del 2011, proprio in riferimento alla normativa qui  in
discussione, ha evidenziato, relativamente all'applicazione, da parte
della Corte di Strasburgo, dell'art. 6 della CEDU, in relazione  alle
norme nazionali interpretative concernenti  disposizioni  oggetto  di
procedimenti nei quali e' parte lo Stato, che la legittimita' di tali
interventi e' stata riconosciuta: 1) in presenza di "ragioni storiche
epocali", come nel caso della riunificazione tedesca, unitamente alla
considerazione «della sussistenza effettiva di un sistema  che  aveva
garantito alle parti, che contestavano le  modalita'  del  riassetto,
l'accesso a, e lo svolgimento di, un processo equo e garantito» (caso
Forrer-Niederthal contro Germania, sentenza del 20 febbraio 2003); 2)
per  «ristabilire  un'interpretazione  piu'  aderente  all'originaria
volonta'  del  legislatore»,  al  fine  di  «porre  rimedio  ad   una
imperfezione tecnica  della  legge  interpretata»;  (sono  richiamate
altre sentenze della Corte europea). 
    Alla stregua di quanto evidenziato  nella  sentenza  n.  311  del
2009, i principi in materia  richiamati  dalla  giurisprudenza  della
Corte europea, ricorda il rimettente, «costituiscono  espressione  di
quegli stessi  principi  di  uguaglianza,  in  particolare  sotto  il
profilo della parita' delle armi nel processo, ragionevolezza, tutela
del  legittimo  affidamento  e  della   certezza   delle   situazioni
giuridiche», che questa Corte ha escluso siano stati vulnerati  dalla
norma censurata. 
    In quell'occasione fu anche aggiunto  che  l'identificazione  dei
«motivi  imperativi  d'interesse  generale»,  che   suggeriscono   al
legislatore nazionale interventi interpretativi, e' opportuno che sia
in parte lasciata agli stessi  Stati  contraenti,  «trattandosi,  tra
l'altro, degli interessi che sono alla base dell'esercizio del potere
legislativo»,  considerato  che  «le  decisioni   in   questo   campo
implicano,  infatti,   una   valutazione   sistematica   di   profili
costituzionali, politici, economici, amministrativi e sociali». 
    In tale complessiva cornice - prosegue il  giudice  rimettente  -
questa Corte ritenne che le norme di cui ai  commi  774,  775  e  776
dell'art. 1 della  legge  n.  296  del  2006  fossero  effettivamente
interpretative  e  assumessero   come   referente   un   orientamento
giurisprudenziale presente, seppur minoritario, cosi'  da  scegliere,
«in  definitiva,  uno   dei   possibili   significati   della   norma
interpretata». Inoltre, venendo in rilievo rapporti di durata,  venne
esclusa  la  formazione  di  un  legittimo  affidamento  nella   loro
immutabilita', mentre d'altro canto le innovazioni apportate, che non
avevano trascurato del  tutto  i  diritti  acquisiti,  avrebbero  non
irragionevolmente mirato alla armonizzazione e perequazione di  tutti
i trattamenti pensionistici, pubblici e privati. 
    La legge n. 335 del 1995, infatti, avrebbe costituito  «il  primo
approdo  di  un  progressivo  riavvicinamento  della  pluralita'  dei
sistemi pensionistici, con effetti strutturali sulla spesa pubblica e
sugli equilibri  di  bilancio,  anche  ai  fini  del  rispetto  degli
obblighi  comunitari  in  tema  di  patto  di  stabilita'   economica
finanziaria nelle more del passaggio alla moneta unica europea». 
    Da qui la non fondatezza della  questione,  sotto  i  profili  di
censura che evocano la lesione degli artt.117, primo comma, Cost. e 6
della CEDU. 
    Le argomentazioni  seguite  da  questa  Corte,  ad  avviso  della
rimettente, per un  verso  sembrerebbero  postulare  che  la  riforma
operata con la legge n. 335 del 1995 possa qualificarsi come  dettata
da "ragioni storiche epocali" e, per altro, che il legislatore  abbia
inteso  «porre  rimedio  ad  una  imperfezione  tecnica  della  legge
interpretata». 
    Ne'  l'una,  ne'  l'altra   asserzione,   secondo   il   Collegio
rimettente, darebbero effettiva  contezza  della  realta'  storica  e
giuridica nella quale la norma di interpretazione autentica e' andata
ad incidere. 
    La legge in  esame  sarebbe,  piu'  modestamente,  una  legge  di
armonizzazione del sistema pensionistico che,  pur  nella  innegabile
rilevanza sotto il profilo degli  equilibri  finanziari  del  sistema
medesimo, non potrebbe assurgere a ragione storica epocale. 
    Inoltre,  come  peraltro  gia'  chiarito,  dopo  la  sentenza  n.
8/2002/QM  delle  sezioni  riunite  della   Corte   dei   conti,   la
giurisprudenza non avrebbe avuto piu'  alcun  dubbio  sulla  corretta
interpretazione delle norme che,  quindi,  sono  state  letteralmente
sovvertite (a distanza di ben quattro anni dal 2002)  dall'intervento
del legislatore. 
    Infine, osserva il giudice a quo, la Corte costituzionale,  nella
sentenza  sopra  richiamata,  non   avrebbe   potuto   tenere   conto
dell'ulteriore sviluppo, in tema di art. 6 CEDU, della giurisprudenza
della Corte EDU, nei  termini  sopra  richiamati  e  contenuti  nella
citata sentenza emessa nella causa Agrati e altri contro Italia del 7
giugno  2011,  specialmente  con  riferimento   alla   qualificazione
dell'aspettativa, in rapporti  di  durata,  come  "bene",  dalla  cui
lesione deriva la violazione dell'art. 6 della CEDU e dell'art. 1 del
Protocollo addizionale della Convenzione medesima. 
    Alla luce di tali argomentazioni la  questione  sarebbe,  quindi,
non manifestamente infondata. 
    La questione sarebbe, poi, rilevante perche' dalla  dichiarazione
di incostituzionalita' della norma potrebbe derivare un  accoglimento
del gravame, in linea con la giurisprudenza favorevole all'appellante
formatasi prima della norma di interpretazione autentica. 
    2.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto  depositato  in
data 7 gennaio 2014  e'  intervenuto  nel  giudizio  di  legittimita'
costituzionale,   chiedendo   che   la   questione   sia   dichiarata
inammissibile o non fondata. 
    La difesa statale afferma che la fattispecie in  esame  «concerne
l'individuazione, tramite la disposizione censurata,  della  data  di
decorrenza     dell'estensione     della     disciplina      prevista
dall'assicurazione generale obbligatoria in  materia  di  trattamento
pensionistico di reversibilita' alle altre discipline». 
    Il differente sistema di calcolo delle pensioni  per  il  settore
privato e per quello pubblico si sarebbe ripercosso sul calcolo della
pensione di reversibilita', spettante al coniuge superstite in misura
percentuale rispetto alla pensione diretta del dante causa. 
    Nel settore privato il sessanta per cento in favore  del  coniuge
era calcolato sulla pensione determinata  in  base  al  principio  di
onnicomprensivita'; nel settore pubblico, una  volta  determinata  la
pensione diretta e calcolata su questa la  misura  di  reversibilita'
spettante al pensionato, si aggiungeva, in misura piena, l'indennita'
integrativa speciale. 
    Su tale assetto, con  decorrenza  dal  1°  gennaio  1995,  per  i
dipendenti delle pubbliche amministrazioni, l'art. 15 della legge  n.
724 del 1994, ha  previsto,  al  comma  3,  la  determinazione  della
pensione spettante sulla base degli elementi retributivi assoggettati
a contribuzione, compresa l'indennita' integrativa speciale; al comma
4, ha previsto la reversibilita' della pensione in base  all'aliquota
in vigore nel regime generale; al comma 5, a tutela delle  situazioni
pregresse,  ha  previsto   l'applicazione   del   precedente   regime
(indennita' integrativa speciale in misura piena per le  pensioni  di
reversibilita') alle pensioni dirette liquidate fino al  31  dicembre
1994 ed alle pensioni di reversibilita' ad esse riferite. 
    Successivamente, il legislatore, con l'art. 1,  comma  41,  della
legge n. 335 del 1995, ha esteso la  disciplina  del  trattamento  di
reversibilita' del settore privato al settore pubblico,  a  decorrere
dal 17 agosto 1995. 
    Secondo la  giurisprudenza  della  Corte  dei  conti  tale  nuovo
sistema non si applicherebbe alle pensioni di reversibilita' riferite
a pensioni dirette liquidate entro il 31 dicembre 1994, per le  quali
troverebbe applicazione l'art. 15, comma 5, della legge  n.  724  del
1994  che  prevede  la  corresponsione  dell'indennita'   integrativa
speciale in misura intera, indipendentemente dalla data  della  morte
del dante causa. 
    Tutto cio' premesso, l'Avvocatura generale  dello  Stato  osserva
come, alla luce della giurisprudenza di  questa  Corte,  l'intervento
normativo in esame,  con  funzione  interpretativa,  e,  quindi,  con
efficacia  retroattiva,  sarebbe  pienamente  legittimo,  perche'  il
legislatore avrebbe operato nei limiti fissati con le sentenze n. 170
del 2013 e n. 264 del 2012. 
    Con le citate decisioni e con le altre  sul  medesimo  argomento,
questa  Corte,  ad  avviso  dell'esponente,  avrebbe  dato  contenuto
concreto, rispetto alla normativa di volta  in  volta  sottoposta  al
vaglio di legittimita', al principio sancito dalla  Corte  EDU  nella
sentenza del 31 maggio 2011,  emessa  nella  causa  Maggio  ed  altri
contro Italia, in ordine all'invocato  art.  6,  paragrafo  1,  della
Convenzione,  secondo  cui  «benche'  non  sia  precluso   al   corpo
legislativo di disciplinare, mediante nuove disposizioni retroattive,
diritti derivanti da leggi in vigore, il principio  della  preminenza
del diritto e la nozione di equo processo  contenuti  nel  richiamato
art. 6 precludono, tranne che  per  impellenti  motivi  di  interesse
generale, l'interferenza del corpo  legislativo  nell'amministrazione
della giustizia con il proposito  di  influenzare  la  determinazione
giudiziaria di una controversia». 
    Ad avviso dell'esponente,  secondo  quanto  affermato  da  questa
Corte nella sentenza n. 264 del 2012 (ma in termini sarebbero  anche,
ex plurimis, le sentenze n. 78 e n. 15 del 2012, n. 236 del 2011), il
principio sancito dalla Corte  EDU  nella  citata  sentenza  «risulta
sostanzialmente coincidente con i principi enunciati da questa  Corte
con riguardo al divieto  di  retroattivita'  della  legge,  che,  pur
costituendo valore fondamentale di  civilta'  giuridica,  non  riceve
dall'ordinamento la tutela privilegiata  di  cui  all'art.  25  Cost.
(sentenze n. 15 del 2012, n. 236 del 2011 e  n.  393  del  2006).  Il
legislatore, nel rispetto di tale previsione,  puo'  emanare  -  come
rilevato nelle citate sentenze - disposizioni retroattive,  anche  di
interpretazione autentica, purche' la retroattivita'  trovi  adeguata
giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti  e  beni
di rilievo  costituzionale,  che  costituiscono  altrettanti  "motivi
imperativi di interesse generale" ai sensi della giurisprudenza della
Corte EDU». 
    Al riguardo, la difesa  dello  Stato  riporta  ampi  brani  della
sentenza citata, emessa in materia del tutto  assimilabile  a  quella
oggetto del giudizio a quo, ritenendo che le argomentazioni  in  essa
espresse valgano anche per la decisione della presente questione. 
    Parimenti,  dette  argomentazioni  si   rinvengono,   ad   avviso
dell'esponente, anche nella recente sentenza n. 170 del 2013, ove  la
pronunzia di illegittimita'  costituzionale  si  e'  fondata  proprio
sulla   carenza   di   interessi   costituzionalmente   protetti   da
salvaguardare con preminenza  rispetto  a  quello  evidenziato  dalla
CEDU. Anche di tale decisione sono riportate ampie parti. 
    Alla  luce  dei  detti  principi,  l'esponente  osserva  come  la
normativa  censurata  non  modifichi  irrazionalmente  la  disciplina
preesistente, utilizzando l'interpretazione autentica al di la' della
funzione  che  le  e'  propria,  poiche'  e'   diretta   a   ribadire
l'omogeneizzazione   dei   sistemi   di   calcolo   dei   trattamenti
pensionistici ai superstiti  tra  dipendenti  pubblici  e  dipendenti
privati  di  cui  alla  legge  n.  335  del  1995,  con  effetti  sul
riequilibrio delle risorse di bilancio. 
    L'Avvocatura, ancora, ricorda che  la  questione  e'  gia'  stata
dichiarata non fondata con le sentenze n. 74 del  2008  e  n.  1  del
2011; in particolare di quest'ultima e' riportato un ampio stralcio. 
    Con le disposizioni censurate e gia' scrutinate da  questa  Corte
il legislatore avrebbe inteso realizzare la necessaria  "integrazione
delle tutele" tramite una valutazione "sistemica  e  non  frazionata"
dei  diritti  coinvolti  dalla  norma,  effettuando   il   necessario
bilanciamento in modo da  assicurare  la  "massima  espansione  delle
garanzie" di tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali e
sovranazionali, complessivamente considerati, che sempre  si  trovano
in rapporto di integrazione reciproca. 
    Alle luce delle  esposte  argomentazioni,  l'Avvocatura  afferma,
peraltro, che la questione  oltre  ad  essere  non  fondata  sarebbe,
comunque, inammissibile in quanto  non  adduce  nuovi  argomenti  che
possano  giustificare,  per  la  terza  volta,  la  rimessione  della
questione innanzi alla Corte costituzionale. 
    Ne' elementi di novita'  possono  essere  tratti  dalla  sentenza
della  Corte  EDU  sul  caso  Agrati,  richiamata  nell'ordinanza  di
rimessione, atteso che in questa pronunzia la Corte non fa altro  che
confermare il suo orientamento gia' considerato nella  giurisprudenza
costituzionale sopra menzionata. 
    Infine, a completamento delle osservazioni esposte,  l'Avvocatura
riporta alcuni  brani  di  sentenze  della  Corte  costituzionale  in
relazione alle norme contenute in leggi di interpretazione  autentica
(in particolare, sono evocate le sentenze n. 234 del 2007; n. 274, n.
135 e n. 39 del 2006 e n. 525 del 2000). 
    Al  riguardo,  la  difesa  dello  Stato  osserva  come  il  testo
originario della normativa interpretata dalla disposizione  censurata
appaia congruo rispetto  a  detta  interpretazione  e,  comunque,  la
disciplina che ne deriva  si  presti  a  conciliare  adeguatamente  i
contrapposti interessi rappresentati - da un lato - dall'esigenza  di
certezza del diritto del privato e dal legittimo affidamento  riposto
dal medesimo in un determinato assetto legislativo e -  dall'altro  -
dall'interesse dello Stato alla definitivita' ed alla certezza  delle
erogazioni di spesa pubblica da sostenere. 
    A tale ultimo riguardo, l'Avvocatura pone in  rilievo  gli  oneri
finanziari, al momento non quantificabili, ma sicuramente di  ingente
portata,  che   deriverebbero   da   una   eventuale   pronunzia   di
illegittimita'  della  disposizione  censurata  e   dal   conseguente
ampliamento  della   sfera   dei   soggetti   aventi   diritto   alla
corresponsione del trattamento pensionistico maggiorato,  in  seguito
all'applicazione della disciplina invocata dalla  parte  privata  nel
giudizio a quo, ovvero l'art. 15, comma 5, della  legge  n.  724  del
1994, espressamente abrogato dalla disposizione oggetto di censura. 
    Peraltro, la questione  di  legittimita'  sarebbe  inammissibile,
anche perche' comporterebbe l'applicazione di una  norma  abrogata  e
non piu' applicabile, quanto meno dal momento dell'entrata in  vigore
della legge n. 296 del 2006, con un intervento di portata additiva  e
generalizzata  di  questa  Corte  per  il  quale   non   e'   neppure
quantificabile un'adeguata copertura finanziaria; (in tal senso  sono
evocate le sentenze n. 5 del 2000 e n. 244 del 1995). 
    3.-  Con  atto  depositato  in  data  20  dicembre  2013,  si  e'
costituita in giudizio la parte privata  C.C.I.,  quale  procuratrice
della madre Z.G., al fine di sostenere le argomentazioni del  giudice
rimettente in ordine alla fondatezza della questione di  legittimita'
costituzionale. 
    La parte privata pone in rilievo che in primo ed in secondo grado
era stato rilevato il contrasto delle disposizioni censurate  con  il
consolidato orientamento della Corte dei  conti,  in  quanto  avevano
previsto, a distanza di ben dodici anni dall'entrata in vigore  della
legge n. 335 del 1995, che «per le pensioni di reversibilita' sorte a
decorrere dall'entrata in vigore della legge 8 agosto 1995,  n.  335,
indipendentemente dalla data di decorrenza  della  pensione  diretta,
l'indennita' integrativa speciale gia'  in  godimento  da  parte  del
dante   causa,   parte   integrante   del   complessivo   trattamento
pensionistico, e' attribuita nella misura percentuale prevista per il
trattamento di reversibilita'». 
    Inoltre, la difesa segnala che, nel giudizio di primo grado,  con
memoria del 13 gennaio 2012, aveva rilevato che sulla questione della
portata retroattiva delle norme interpretative, peggiorativa rispetto
alla situazione preesistente, era intervenuta  questa  Corte  con  le
sentenze n. 228 del 2010 e n. 74 del 2008, che hanno  dichiarato  non
fondate le questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1,
comma 774, delle legge finanziaria del 2007. 
    Ancora, la difesa della parte privata rileva che  nella  predetta
memoria era gia' stato evidenziato come,  alla  luce  della  sentenza
emessa dalla Corte EDU, nella causa Agrati  e  altri  contro  Italia,
concernente  l'art.  1  della  legge  23  dicembre   2005,   n.   266
(Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato - legge finanziaria  2006),  il  quadro  debba  ritenersi
mutato. 
    Cio' premesso, l'esponente osserva come, benche' sia  intervenuta
la  sentenza  n.  74  del  2008,   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dei commi 774 e 776 dell'art. 1 della legge n. 296 del
2006,  possa  essere  nuovamente  riproposta  in   riferimento   alla
violazione dell'art. 117 Cost., in relazione all'art. 6  della  CEDU,
dal momento che lo Stato contraente, che sia parte in  giudizio,  non
puo'  legiferare  nella  materia  oggetto  del  processo  in   corso,
ingerendosi cosi' nell'amministrazione della giustizia. 
    Pertanto, sarebbe violato il principio del "giusto processo", dal
momento che non puo' ammettersi che  una  parte  possa  "cambiare  le
carte in tavola" ed i parametri normativi del  giudizio,  travolgendo
le aspettative di controparte che tale  giudizio  ha  promosso  sulla
base di norme e di orientamenti giurisprudenziali diversi. Ad  avviso
dell'esponente, cosi' operando, lo  Stato  cessa  di  essere  giudice
terzo ed imparziale. 
    Nel caso di specie, si osserva, la giurisprudenza della Corte dei
conti, formatasi anteriormente all'emanazione della legge finanziaria
2007, aveva costantemente  ritenuto  non  applicabile  alle  pensioni
dirette decorrenti prima della legge n. 335 del 1995, l'art. 1, comma
41, della legge citata.  A  seguito  dell'intervento  legislativo  il
diritto  della  ricorrente  sarebbe  stato   totalmente   compromesso
nonostante che, alla data dell'entrata in vigore della legge  n.  296
del 2006, la questione fosse ancora sub iudice. 
    Alla luce  di  dette  argomentazioni,  e  riportandosi  a  quanto
affermato dal giudice rimettente, la difesa privata chiede  a  questa
Corte  di   dichiarare   la   illegittimita'   costituzionale   delle
disposizioni censurate, nella  parte  in  cui  incidono  sui  giudizi
pendenti alla data della loro  entrata  in  vigore,  con  riferimento
all'art. 117 Cost. e in relazione all'art. 6 della CEDU e all'art.  1
del Protocollo addizionale alla Convenzione. 
    4.- Con atto del 31 dicembre 2013, si e' costituito  in  giudizio
l'INPS  il  quale  ha  chiesto   a   questa   Corte   di   dichiarare
l'inammissibilita' della questione  o  l'infondatezza  della  stessa,
riservandosi  di  articolare  in  prosieguo  le   proprie   deduzioni
difensive. 
    In data 17 giugno 2014 l'Istituto ha depositato una  memoria  con
la quale ha chiesto alla Corte  di  dichiarare  inammissibile  e,  in
subordine, non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
sollevata dalla Corte dei conti. 
    La  difesa  dell'INPS,  dopo  aver  riepilogato  le  vicende  del
giudizio a quo e le argomentazioni del Collegio rimettente,  premette
che, con le norme denunziate, il legislatore ha regolato una  materia
che aveva provocato notevoli perplessita' circa l'ambito applicativo,
con riferimento alla disciplina della  successione  delle  leggi  nel
tempo, e  che  ha  alimentato  un  notevole  contenzioso  con  grande
varieta' di soluzioni offerte dalla giurisprudenza. 
    Dopo aver passato in rassegna i commi 3 e 5  dell'art.  15  della
legge n. 724 del 1994 ed il comma 41 dell'art. 1 della legge  n.  335
del 1995, l'esponente si sofferma sugli  orientamenti  interpretativi
circa la citata normativa. 
    In particolare -  riferisce  la  difesa  dell'ente  -  l'Istituto
nazionale  di  previdenza  per  i   dipendenti   dell'amministrazione
pubblica (INPDAP), poi l'INPS, ha sempre sostenuto che  il  contenuto
precettivo del citato comma 41 fosse del tutto incompatibile  con  la
norma transitoria di cui al comma 5 dell'art. 15 della legge  n.  724
del 1994 e, pertanto, provvedeva alla liquidazione delle pensioni  di
reversibilita', pur riferite a trattamenti diretti liquidati fino  al
31 dicembre  1994,  ma  il  cui  diritto  era  sorto  successivamente
all'entrata in vigore della legge n. 335 del 1995 (17  agosto  1995),
secondo le norme della riforma. Il rilevante  contenzioso  radicatosi
innanzi al giudice contabile ha visto  contrapposte  due  tesi:  una,
minoritaria, che riconosceva  l'implicita  abrogazione  del  comma  5
dell'art.  15  della  legge  n.  724  del   1994,   con   conseguente
applicazione immediata  della  innovazione  introdotta  dall'art.  1,
comma 41,  della  legge  di  riforma;  l'altra  tesi,  maggioritaria,
propugnava, invece, la piena compatibilita' della norma  dettata  dal
comma 5 dell'art.15 della legge n. 724 del 1994  con  i  principi  di
riforma. 
    La questione, approdata alle  sezioni  riunite  della  Corte  dei
conti, e' stata risolta con la sentenza  n.  8/2002/QM  che,  pur  in
contrasto con l'organo requirente che aveva espresso diverso  avviso,
stabiliva che l'art. 1, comma 41, della legge n.  335  del  1995  non
aveva alcun effetto abrogativo dell'art. 15, comma  5,  della  citata
legge n. 724 del 1994, sicche' il trattamento spettante al superstite
di titolare di pensione liquidata prima del 31 dicembre  1994  doveva
essere liquidato computando l'indennita' integrativa  speciale  nella
misura piena. 
    Inoltre,  dalla  citata  sentenza  delle   sezioni   riunite   si
evincerebbe che il giudice contabile aveva affermato l'esistenza  del
generale principio di affidamento circa l'aspettativa del  superstite
a non vedere pregiudicato, in peggio, il trattamento  gia'  percepito
dal dante causa - l'esponente riporta, altresi', alcuni  passi  della
sentenza di questa Corte n. 446 del 2002, avente ad  oggetto  proprio
l'art. 1, comma 41, della legge 335  del  1995,  ponendo  in  rilievo
come, invece, quest'ultima abbia affermato principi opposti;  in  tal
senso si e' espressa anche la Corte di cassazione secondo  la  quale,
con  riferimento  all'applicazione  delle  novita'  introdotte  dalla
riforma  di  cui  alla  legge  n.  335  del  1995  alle  pensioni  di
reversibilita', si e' ritenuto non sussistente alcun diritto  quesito
e/o  alcuna  tutelabile  legittima  aspettativa  ad  un   trattamento
previdenziale non ancora  sorto  in  capo  al  superstite  (Corte  di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 agosto 2008, n. 21545). 
    In questo quadro, l'esponente afferma che le argomentazioni delle
sezioni riunite non potevano considerarsi risolutive. 
    Pertanto,  e'   intervenuto   il   legislatore   con   la   norma
interpretativa di cui al comma 774 dell'art. 1 della legge n. 296 del
2006 e con il successivo comma  776,  che  ha  abrogato  il  comma  5
dell'art. 15 della legge n.  724  del  1994,  determinando  la  piena
assoggettabilita' anche delle pensioni di reversibilita'  riferite  a
pensioni dirette liquidate fino al 31 dicembre  1994  alla  legge  di
riforma. 
    Ad avviso dell'esponente,  dunque,  le  norme  rappresentano  una
sistemazione organica della materia e costituiscono espressione della
tendenziale reductio ad unum perseguita dal legislatore, iniziata sin
dal 1994, per uniformare  la  disciplina  dei  sistemi  previdenziali
presenti nel nostro ordinamento. 
    Le norme all'esame, quindi, dovrebbero  essere  considerate  alla
stregua di  quelle  autenticamente  interpretative,  ovvero  principi
fondamentali  di  riforma  dell'ordinamento  economico-sociale  della
Repubblica. 
    La difesa prosegue dando atto delle sentenze n. 1 del 2011  e  n.
74 del 2008 e pronunciatesi proprio sui commi in questione, alla luce
delle quali la questione dovrebbe essere dichiarata inammissibile, in
quanto  ripropone  quesiti  gia'  affrontati  da  questa  Corte   (al
riguardo, sono richiamate le ordinanze n. 449 del 1995,  n.  300  del
1989 e n. 198 del 1981). 
    Inoltre, l'inammissibilita'  della  questione  dovrebbe  fondarsi
anche sulle argomentazioni svolte nella sentenza n. 311 del 2009. 
    Ad avviso dell'esponente, la questione  prospettata  dalla  Corte
dei conti sarebbe inammissibile  perche'  prospetterebbe  meri  dubbi
interpretativi, derivanti dal contrasto tra le  argomentazioni  della
Corte  di  Strasburgo  e  quelle  svolte  da  questa  Corte;  quindi,
sussisterebbe il difetto di rilevanza (sono, al riguardo, evocate  le
ordinanze n. 268 del 2008, n. 118 del 2003, n. 89 e n. 1 del 2002, n.
442 del 2001, n. 174 del 1999 e n. 7 del 1998). 
    Nel  merito  la  difesa  dell'INPS  chiede  a  questa  Corte   di
dichiarare non fondata la questione di  legittimita'  costituzionale,
alla luce degli enunciati delle sentenze n. 1 del 2011 e n.  311  del
2009. 
    Con le disposizioni censurate il legislatore si sarebbe,  dunque,
proposto di definire ed armonizzare il quadro normativo  in  tema  di
trattamento di quiescenza  spettante  ai  superstiti,  eliminando  le
precedenti differenze esistenti tra il  comparto  pubblico  e  quello
privato;  avrebbe  inteso   garantire   una   generale   perequazione
dell'importo spettante a titolo di indennita'  integrativa  speciale,
ricomprendendola   all'interno   del   complessivo   trattamento   di
quiescenza. 
    Inoltre,  il  legislatore  non  avrebbe  pregiudicato  i  diritti
acquisiti in modo definitivo, proprio perche' avrebbe inciso soltanto
sulle   questioni   ancora   pendenti,   accogliendo   un   indirizzo
giurisprudenziale in precedenza  elaborato  ed  avrebbe  risolto  una
imperfezione tecnica, raccordando la  normativa  transitoria,  recata
dall'art.  15,  comma  5,  della  legge  n.  724  del  1994,  con  la
sopravvenuta   disciplina   di   ampia   riforma   pensionistica,   e
segnatamente con quanto da essa disposto all'art. l, comma 41. 
    La difesa dell'INPS, poi, osserva come la censura  rivolta  verso
il comma 776 non sia sorretta da alcuna valida argomentazione  e  che
in ogni caso, come gia' osservato nella  sentenza  n.  74  del  2008,
detta  disposizione  risponderebbe  ad  «una   esigenza   di   ordine
sistematico». 
    Per  quanto  concerne  le  altre  argomentazioni  formulate   dal
rimettente, l'esponente osserva  come  nell'ordinanza  di  rimessione
manchi  ogni  indicazione  dei  motivi  in  forza   dei   quali   non
ricorrerebbero  le  pressanti  questioni  di  ordine  generale  o  la
necessita' di riaffermare l'intento  originario  del  legislatore,  o
ancora l'esigenza di correggere la carente  tecnica  legislativa  nel
comporre la norma interpretata, motivi che, soli, consentirebbero  la
violazione mediata dell'art. 117 Cost. 
    Con specifico riferimento alla insussistenza della violazione del
principio dell'equo processo,  l'esponente,  oltre  a  richiamare  la
citata sentenza n. 311 del 2009,  osserva  come  la  norma  censurata
costituisca un tassello del piu'  generale  disegno  di  riforma  del
sistema pensionistico dei  dipendenti  pubblici,  con  previsione  di
progressiva equiparazione del trattamento di reversibilita'  rispetto
a quello previsto per i dipendenti del settore privato. 
    Risulterebbe,   inoltre,   smentito   l'assunto    secondo    cui
l'intervento del legislatore avrebbe  determinato  una  modificazione
peggiorativa   della   situazione   patrimoniale    dei    pensionati
interessati, come dimostra  la  situazione  venutasi  a  creare  dopo
l'intervento delle sezioni riunite della Corte dei conti con la  piu'
volte citata sentenza n. 8/2002/QM. 
    Infatti, sostiene la difesa dell'INPS, non infrequenti  sarebbero
stati  i  casi   nei   quali,   applicando   la   normativa   secondo
l'interpretazione fornita dalla sentenza ora citata,  il  pensionato,
pur vittorioso all'esito del giudizio intrapreso,  si  sarebbe  visto
paradossalmente ridurre il trattamento di quiescenza. 
    L'esponente riferisce, inoltre, che alcune  sezioni  territoriali
della Corte dei conti - al fine di non vanificare  il  riconoscimento
della pretesa, con la stessa sentenza che riconosceva il diritto alla
liquidazione della  indennita'  integrativa  speciale  con  le  norme
previgenti rispetto alla legge n. 724  del  1994,  come  interpretata
dalla sentenza n. 8/2002/QM, affermavano il  diritto  del  ricorrente
alla stessa in forma separata ed in misura intera, oltre  al  diritto
alla liquidazione, ma della sola voce  pensione,  secondo  l'aliquota
del sessanta per cento, introdotta dal comma 4 della legge n. 724 del
1994, e non secondo l'aliquota effettivamente  spettante  secondo  le
norme applicate, ovvero il cinquanta per cento, con cio'  inaugurando
una via interpretativa palesemente contra legem. 
    Altre  sezioni  territoriali,  poi,  avrebbero  riconosciuto   il
conglobamento della indennita' integrativa speciale, secondo la legge
n. 724 del 1994, ma applicandola nella misura intera,  con  cio',  di
fatto, eludendo il disposto del comma 41 dell'art. l della  legge  n.
335 del 1995 (e' richiamata la  sentenza  Corte  della  dei  conti  -
sezione Lazio - n. 2574 del 2005). 
    L'intervento del legislatore  sarebbe  stato,  dunque,  non  solo
opportuno, ma  anche  necessario,  sia  per  consentire  la  compiuta
applicazione dei principi di riforma economico-sociale  dettati  gia'
nel 1995, sia per ristabilire certezza del  diritto  in  una  materia
che, per i delicati rilievi sociali che involge e per gli  importanti
riflessi  sugli  equilibri  di  bilancio,   mal   tollera   soluzioni
disorganiche, tendenzialmente destinate ad aggravarsi  e  in  potenza
atte  a  ripercuotersi  anche  su  altri  istituti   dell'ordinamento
previdenziale di pertinenza, aggravando il  rischio  di  lesione  del
principio di parita' di trattamento che la  pubblica  amministrazione
deve invece garantire (il riferimento e' all'ampia casistica relativa
al conferimento di piu' indennita' integrative  speciali  su  plurimi
trattamenti pensionistici). 
    Pertanto, ad avviso della difesa dell'INPS, non vi sarebbe  alcun
elemento  che   induca   a   ritenere   la   disposizione   nazionale
esclusivamente diretta ad influire sulla soluzione delle controversie
in corso; essa, inoltre, non realizzerebbe una modifica in  pejus  di
una situazione patrimoniale gia' acquisita in precedenza,  visto  che
la legge interpretativa garantirebbe, in ogni  caso,  il  trattamento
economico gia' goduto. 
    Attraverso  le  norme  censurate,  il  legislatore  non   avrebbe
travalicato i limiti previsti dalla Convenzione europea. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale d'appello per  la
Regione siciliana, con ordinanza del 29 ottobre 2013 (r.o. n. 272 del
2013),  ha  sollevato  questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 1, commi 774 e 776, della legge 27 dicembre  2006,  n.  296
(Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato - legge finanziaria 2007), «nella parte in  cui  incidono
sui giudizi pendenti alla data della  loro  entrata  in  vigore,  con
riferimento all'art. 6 della Convenzione europea per la  salvaguardia
dei  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  (CEDU),  e
all'art.  1,  del  protocollo  1,  della  Convenzione  medesima,  per
violazione dell'art. 117 Cost., nei sensi di cui in motivazione». 
    La Corte rimettente ritiene che le norme censurate,  nella  parte
in cui dispongono che «L'estensione della disciplina del  trattamento
pensionistico a favore dei  superstiti  di  assicurato  e  pensionato
vigente   nell'ambito   del   regime   dell'assicurazione    generale
obbligatoria a tutte le forme esclusive e sostitutive di detto regime
prevista dall'articolo 1, comma 41, della legge  8  agosto  1995,  n.
335, si interpreta nel senso che per le  pensioni  di  reversibilita'
sorte a decorrere dall'entrata in vigore della legge 8  agosto  1995,
n. 335, indipendentemente dalla data  di  decorrenza  della  pensione
diretta, l'indennita' integrativa speciale gia' in godimento da parte
del  dante  causa,  parte  integrante  del  complessivo   trattamento
pensionistico  percepito,  e'  attribuita  nella  misura  percentuale
prevista per il trattamento di reversibilita'» (art. 1, comma 774); e
che «E' abrogato l'art. 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n.
724» (art. 1, comma 776), violerebbero l'art. 117, primo comma, della
Costituzione, perche'  dette  disposizioni,  in  assenza  di  «motivi
imperativi d'interesse generale» e di  «un  ragionevole  rapporto  di
proporzionalita'  tra  i  mezzi  impiegati  e  lo  scopo  perseguito,
restando indimostrati  gli  apprezzabili  effetti  contenitivi  della
spesa pubblica nel settore previdenziale», intervengono  sui  giudizi
in corso di cui e'  parte  lo  Stato  ed  assicurano  a  quest'ultimo
l'esito favorevole delle controversie, in quanto privano i ricorrenti
della possibilita'  di  ottenere  il  riconoscimento  -  come  finora
accaduto  secondo  il  consolidato  diritto  vivente  -  della   piu'
favorevole  liquidazione  della  pensione  di  reversibilita',  cosi'
ponendosi in contrasto con il principio di  certezza  del  diritto  e
dell'equo processo, di cui all'art. 6 della Convenzione  europea  per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con
legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in avanti «CEDU») e all'art. 1 del
Protocollo addizionale, come interpretati  dalla  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, in particolare con la sentenza del 7 giugno  2011,
emessa in causa Agrati ed altri contro Italia. 
    2.- La questione e' manifestamente infondata. 
    3.- Essa, come risulta dal petitum formulato dal giudice  a  quo,
concerne  «la  legittimita'  costituzionale  dei  commi  774  e   776
dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui  incidono
sui giudizi pendenti alla data della  loro  entrata  in  vigore,  con
riferimento all'art. 6 della CEDU e all'art. 1 del protocollo 1 della
Convenzione medesima, per violazione dell'art. 117 Cost.,  nei  sensi
di cui in motivazione». 
    Pertanto, la norma impugnata e' l'art. 1, commi 774 e 776,  della
citata legge n. 296 del 2006; il parametro costituzionale  e'  l'art.
117, primo comma, Cost.; la normativa interposta (ex multis, sentenze
n. 78 del 2012; n. 349 e n. 348 del 2007) e' costituita  dall'art.  6
della CEDU e  dall'art.  1  del  Protocollo  addizionale  alla  detta
Convenzione, come interpretati dalla Corte di Strasburgo. 
    Cosi' individuato il thema decidendi, si deve osservare che, come
del resto si evince dalla  stessa  ordinanza  di  rimessione,  questa
Corte e' stata chiamata  piu'  volte  a  scrutinare  la  legittimita'
costituzionale della citata normativa, pervenendo sempre a  pronunzie
di non fondatezza delle questioni (ex multis, n. 1 del 2011;  n.  228
del 2010 e n. 74 del 2008). 
    In particolare, con la sentenza n. 1 del 2011, questa Corte, dopo
aver ricostruito il  quadro  normativo  di  riferimento  anche  sulla
scorta del percorso argomentativo seguito dalla sentenza  n.  74  del
2008,  ha  ribadito,  tra  l'altro,  i  principi  da  tale  pronuncia
affermati e cioe' che: a) l'abrogazione -  ad  opera  del  comma  776
dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006  -  dell'art.  15,  comma  5,
della legge n. 724 del 1994, non  poteva  considerarsi  irragionevole
per contraddittorieta', «giacche' essa  risulta  rispondente  ad  una
esigenza di ordine sistematico  imposta  proprio  dalle  vicende  che
hanno  segnato  la  sua  applicazione»;  b)  inoltre,   «potendo   il
legislatore, in sede di interpretazione autentica, modificare in modo
sfavorevole, in vista del raggiungimento di finalita' perequative, la
disciplina   di   determinati   trattamenti   economici   con   esiti
privilegiati senza per questo violare l'affidamento  nella  sicurezza
giuridica (sent. n. 6 del 1994 e sent. n. 282 del  2005),  la'  dove,
ovviamente l'intervento possa dirsi non irragionevole,  nella  specie
e'  da  escludersi  una  siffatta  irragionevolezza   anche   perche'
l'assetto recato dalla norma denunciata riguarda anche il complessivo
riequilibrio delle risorse e non puo', pertanto, non  essere  attenta
alle esigenze di bilancio». 
    Cio' premesso, la sentenza n. 1 del 2011 cosi' prosegue: «venendo
all'applicazione, da parte della Corte  di  Strasburgo,  dell'art.  6
della  CEDU,  in  relazione  alle  norme   nazionali   interpretative
concernenti disposizioni oggetto di procedimenti nei quali  e'  parte
lo Stato, giova rammentare - come messo gia' in luce  dalla  sentenza
n. 311 del 2009 di questa Corte [...] - che la legittimita'  di  tali
interventi e' stata riconosciuta: 1) in presenza di "ragioni storiche
epocali", come nel caso della riunificazione tedesca, unitamente alla
considerazione della sussistenza effettiva di un  sistema  che  aveva
garantito alle parti, che contestavano le  modalita'  del  riassetto,
l'accesso a, e lo svolgimento  di,  un  processo  equo  e  garantito»
[...];  2)  «per   ristabilire   un'interpretazione   piu'   aderente
all'originaria volonta' del legislatore, al fine di porre rimedio  ad
una imperfezione  tecnica  della  legge  interpretata»  [...].  «Alla
stregua di quanto evidenziato dalla citata sentenza n. 311 del  2009,
nella vicenda da essa scrutinata, i principi  in  materia  richiamati
dalla giurisprudenza della Corte europea costituiscono espressione di
quegli stessi  principi  di  uguaglianza,  in  particolare  sotto  il
profilo della parita' delle armi nel processo, ragionevolezza, tutela
del  legittimo  affidamento  e  della   certezza   delle   situazioni
giuridiche, che questa Corte ha escluso siano stati  vulnerati  dalla
norma  qui  censurata.  Peraltro,  in  quell'occasione  si  e'  anche
soggiunto che l'identificazione dei  "motivi  imperativi  d'interesse
generale",  che  suggeriscono  al  legislatore  nazionale  interventi
interpretativi, e' opportuno che sia in parte  lasciata  agli  stessi
Stati contraenti, trattandosi, tra l'altro, degli interessi che  sono
alla base dell'esercizio del potere legislativo, considerato  che  le
decisioni  in  questo  ambito  implicano,  infatti,  una  valutazione
sistematica   di   profili   costituzionali,   politici,   economici,
amministrativi e sociali». 
    La sentenza n. 1 del 2011 aggiunge che «Nella complessiva cornice
dianzi tratteggiata, deve ritenersi che le denunciate norme di cui ai
commi 774, 775 e 776 dell'art. 1 della legge  29  dicembre  2006,  n.
296, sono effettivamente interpretative e assumono come referente  un
orientamento giurisprudenziale presente, seppur minoritario, cosi' da
scegliere, "in definitiva, uno dei possibili significati della  norma
interpretata". Inoltre, se si tiene presente  che  nella  fattispecie
vengono in evidenza rapporti di  durata,  non  puo'  parlarsi  di  un
legittimo affidamento nella loro immutabilita', mentre d'altro  canto
si deve tenere conto del fatto che  le  innovazioni  che  sono  state
apportate, e che non hanno trascurato del tutto i diritti  acquisiti,
hanno non irragionevolmente mirato alla armonizzazione e perequazione
di tutti i trattamenti pensionistici, pubblici e privati. La legge n.
335  del  1995,  infatti,  ha  costituito  il  primo  approdo  di  un
progressivo   riavvicinamento   della    pluralita'    dei    sistemi
pensionistici, con effetti strutturali sulla spesa pubblica  e  sugli
equilibri di bilancio, anche ai  fini  del  rispetto  degli  obblighi
comunitari in tema di patto di stabilita' economica finanziaria nelle
more  del  passaggio  alla   moneta   unica   europea.   L'intervento
legislativo ha, poi, salvaguardato i trattamenti  di  miglior  favore
gia' definiti in sede di contenzioso, "con cio' garantendo  non  solo
la sfera del giudicato, ma anche il legittimo affidamento che su tali
trattamenti poteva dirsi ingenerato" (sentenza n. 74 del 2008)». 
    Infine, la sentenza n. 1 del 2011 conclude - «in modo particolare
e "determinante" - come posto in risalto anche nella sent. n. 311 del
2009 - il "processo equo" e con esso il "giusto processo" ha  trovato
concretezza   ed   effettivita'   anche   tramite   l'incidente    di
costituzionalita'  in  una  duplice  occasione  "conclusasi  con  una
dichiarazione di infondatezza della questione, rispetto  a  parametri
costituzionali  coerenti  con  la  norma  convenzionale,   pienamente
compatibile,  cosi'  interpretata,  con  il   quadro   costituzionale
italiano"». 
    Come si vede, la sentenza  da  ultimo  citata  ha  scrutinato  la
legittimita'   costituzionale   della   stessa   normativa    oggetto
dell'ordinanza di rimessione,  riscontrandone  la  compatibilita'  in
riferimento al parametro costituzionale evocato. 
    Il Collegio rimettente non ignora la  sentenza  n.  1  del  2011,
della quale riassume le argomentazioni. Sostiene,  pero',  che  esse,
per un verso, «sembrerebbero postulare che la riforma operata con  la
legge n. 335/95 possa qualificarsi come dettata da "ragioni  storiche
epocali" e, per altro verso, che il legislatore abbia  inteso  "porre
rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata"». 
    Ad avviso  del  Collegio,  ne'  l'una  ne'  l'altra  proposizione
darebbero «effettiva contezza della realta' storica e giuridica nella
quale la norma di interpretazione autentica e' andata ad incidere». 
    La legge n. 335 del 1995 sarebbe, molto  piu'  modestamente,  una
norma di armonizzazione del sistema pensionistico che, pur nella  sua
innegabile rilevanza sotto il profilo degli equilibri finanziari  del
sistema medesimo, non potrebbe  certo  assurgere  a  ragione  storica
epocale. 
    In secondo luogo, dopo la sentenza  n.  8/2002/QM  delle  sezioni
riunite della Corte dei conti, la  giurisprudenza  non  avrebbe  piu'
avuto alcun dubbio sulla corretta interpretazione  delle  norme  che,
pertanto, sarebbero state letteralmente sovvertite (a distanza di ben
quattro anni dal 2002) dall'intervento del legislatore. 
    Da ultimo, questa Corte, nella  sentenza  sopra  richiamata,  non
avrebbe potuto tenere conto dell'ulteriore sviluppo, in tema di  art.
6 della CEDU, della  giurisprudenza  della  Corte  EDU,  nei  termini
richiamati e contenuti nella sentenza emessa dalla stessa Corte il  7
giugno 2011 nella causa Agrati ed altri contro l'Italia, specialmente
con riferimento alla qualificazione dell'aspettativa - in rapporti di
durata - come "bene", dalla cui lesione quindi deriva  la  violazione
dell'art. 6 della CEDU e dell'art. 1 del Protocollo addizionale  alla
Convenzione medesima. 
    Queste argomentazioni non possono essere condivise. 
    Invero, non e' esatto affermare che la sentenza di  questa  Corte
n. 1 del 2011 abbia postulato che la riforma realizzata con la  legge
n. 335 del 1995 sia da qualificare come dettata da «ragioni  storiche
epocali» o che il legislatore abbia  inteso  «porre  rimedio  ad  una
imperfezione tecnica della legge interpretata». 
    Senza entrare in valutazioni concernenti la natura della suddetta
riforma - che, peraltro, non sembra collocabile nell'ottica riduttiva
adottata dall'ordinanza di rimessione -  si  deve  osservare  che  la
sentenza di questa Corte da ultimo citata, dopo avere  affermato  che
le norme denunciate sono effettivamente interpretative,  ha  aggiunto
che esse «assumono come referente un  orientamento  giurisprudenziale
presente, seppur minoritario, cosi' da scegliere, "in definitiva, uno
dei possibili significati della norma interpretata"» (sentenza  n.  1
del 2011, punto 7. del Considerato in diritto). Cosi' decidendo, essa
si e' ricollegata  al  costante  orientamento  giurisprudenziale,  in
forza del quale il legislatore puo' adottare norme di interpretazione
autentica, non soltanto in presenza di  incertezze  sull'applicazione
di una  disposizione  o  di  contrasti  giurisprudenziali,  ma  anche
«quando la scelta  imposta  dalla  legge  rientri  tra  le  possibili
varianti di senso  del  testo  originario,  con  cio'  vincolando  un
significato ascrivibile alla norma anteriore» (ex plurimis,  sentenze
n. 209 del 2010, n. 24 del 2009, n. 170 del 2008 e n. 234 del 2007). 
    Infine, il Collegio rimettente sostiene che questa Corte, con  la
sentenza n. 1 del 2011, non  avrebbe  potuto  tenere  conto,  ratione
temporis, dell'ulteriore sviluppo, in tema  di  art.  6  della  CEDU,
della giurisprudenza della Corte EDU,  nei  termini  contenuti  nella
sentenza emessa da tale organo in causa Agrati ed altri contro Italia
del 7 giugno 2011, specialmente con riferimento  alla  qualificazione
dell'aspettativa, nei rapporti di  durata,  come  "bene",  dalla  cui
lesione deriverebbe la violazione dell'art. 6 della CEDU e  dell'art.
1 del Protocollo addizionale alla Convenzione medesima. 
    Tuttavia, il giudice a quo non chiarisce, se non con  un  assunto
meramente  assertivo,  quale  incidenza  avrebbe  il  nuovo  sviluppo
giurisprudenziale rispetto all'assetto  normativo  precedente,  e  la
motivazione sul punto e' essenziale, specialmente  ove  si  consideri
che le normative oggetto della sentenza di questa Corte n. 1 del 2011
e della citata pronunzia della Corte EDU sono differenti. 
    Peraltro, anche a prescindere da quanto da ultimo  affermato,  si
deve osservare che la Corte EDU, con la sentenza emessa  nella  causa
Agrati ed altri contro Italia, ha stabilito  la  seguente  regola  di
diritto: «Se in linea di principio, il legislatore puo' regolamentare
in materia civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti
derivanti da leggi gia' vigenti, il principio  della  preminenza  del
diritto e la nozione di equo processo  sancito  dall'art.  6  ostano,
salvo che per ragioni imperative di interesse generale, all'ingerenza
del legislatore nell'amministrazione della giustizia  allo  scopo  di
influenzare la risoluzione  di  una  controversia.  L'esigenza  della
parita' delle armi comporta l'obbligo di offrire ad  ogni  parte  una
ragionevole possibilita' di presentare il suo caso, in condizioni che
non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte». 
    Detto principio e' gia'  stato  esaminato  da  questa  Corte  con
riferimento a norme interpretative, quindi, con efficacia retroattiva
concernenti, come in questo caso, la materia previdenziale. 
    Nelle sentenze n. 15 del 2012 e n. 257 del 2011, infatti,  questa
Corte - con riferimento a questioni  di  legittimita'  costituzionale
per certi versi analoghe a quella qui in esame  -  ha  affermato,  in
relazione alla enunciata regola di diritto,  che  «Anche  secondo  la
detta regola, dunque,  sussiste  lo  spazio  per  un  intervento  del
legislatore con efficacia retroattiva (fermi i divieti di cui all'art
25  Cost.).  Diversamente  se  ogni  intervento  del   genere   fosse
considerato come indebita ingerenza  allo  scopo  di  influenzare  la
risoluzione di una controversia, la regola stessa sarebbe destinata a
rimanere una mera enunciazione priva di significato concreto». 
    Nel caso in esame, come prima osservato, il  legislatore  con  la
norma censurata ha scelto uno dei possibili significati  della  norma
interpretata,    seppure    ascrivibile    ad     un     orientamento
giurisprudenziale minoritario. 
    Alla stregua delle considerazioni  che  precedono  la  questione,
dunque, va dichiarata nel suo complesso manifestamente infondata,  in
quanto il rimettente non ha addotto nuove argomentazioni  a  sostegno
delle censure gia' esaminate da questa Corte.