ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  4-bis,
comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354  (Norme  sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), promosso dal Tribunale di  sorveglianza  di  Firenze
nel procedimento relativo a M.F. con ordinanza del 31  gennaio  2013,
iscritta al n. 103 del registro ordinanze  2013  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  21,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2014 il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Con  ordinanza  del  31  gennaio  2013   il   Tribunale   di
sorveglianza di Firenze ha sollevato, in riferimento  agli  artt.  3,
29,  30  e  31  della   Costituzione,   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio  1975,
n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della liberta'),  nella  parte  in  cui
estende  il  divieto  di  concessione  dei   benefici   penitenziari,
stabilito nei confronti dei detenuti e  degli  internati  per  taluni
gravi delitti che non collaborino con la giustizia, anche alla misura
della   detenzione   domiciliare   speciale,    prevista    dall'art.
47-quinquies della medesima legge a favore delle condannate madri  di
prole di eta' non superiore a dieci anni. 
    Il giudice a quo premette di  essere  investito  dell'istanza  di
concessione della  detenzione  domiciliare  speciale,  presentata  ai
sensi del citato art. 47-quinquies da una donna di origine nigeriana,
detenuta per l'espiazione della pena di  nove  anni  e  sei  mesi  di
reclusione, risultante dal  cumulo  delle  pene  inflittele  con  tre
sentenze irrevocabili di condanna,  una  delle  quali  relativa,  tra
l'altro, ai delitti di cui agli artt. 600 e  601  del  codice  penale
(riduzione o mantenimento in schiavitu' o in  servitu'  e  tratta  di
persone), compresi tra quelli in relazione ai quali opera il  divieto
sopra indicato. 
    Al riguardo, il rimettente riferisce che l'interessata  e'  madre
di un bambino nato il 9 febbraio 2008 (dunque  di  eta'  inferiore  a
dieci anni) tenuto con se'  dalla  donna  all'atto  dell'ingresso  in
carcere - avvenuto l'11 febbraio 2009 - in quanto minore di tre  anni
a quella data.  Dopo  il  compimento  del  terzo  anno  di  eta',  il
Tribunale per i minorenni di Firenze aveva disposto l'affidamento del
bambino ai servizi sociali, con provvedimento, peraltro,  non  ancora
divenuto definitivo, a seguito del  ricorso  proposto  dalla  cognata
della detenuta. 
    Grazie all'iniziativa degli operatori dell'area  educativa  della
casa circondariale era stata individuata una soluzione per permettere
alla detenuta di occuparsi del figlio fuori del circuito  carcerario,
in una struttura di accoglienza messa a disposizione  dal  Comune  di
Firenze: soluzione che consentirebbe al Tribunale per i minorenni  di
rivedere la propria decisione. 
    Nel rendere le informazioni richieste ai sensi  dell'art.  4-bis,
comma 2, della legge n. 354 del 1975,  il  Comitato  provinciale  per
l'ordine e la sicurezza pubblica di Firenze si  era,  d'altra  parte,
espresso nel  senso  dell'impossibilita'  di  escludere  collegamenti
della condannata con la criminalita'  organizzata,  senza,  peraltro,
offrire alcun elemento da cui desumere l'attualita' e la  concretezza
di detti collegamenti. Si dovrebbe, di conseguenza, ritenere  che  il
periodo di carcerazione subito abbia dissolto ogni eventuale legame o
contatto con organizzazioni criminali dell'interessata (peraltro, non
condannata per delitti di tipo associativo). 
    Ancorche'  la  soluzione  proposta  dagli  operatori  della  casa
circondariale appaia adeguata, soprattutto in rapporto alle  esigenze
del minore - il quale «in pratica sta crescendo  in  carcere  con  la
madre per i reati da costei commessi» - e sebbene non sia ravvisabile
alcun attuale e concreto  pericolo  di  reiterazione  delle  condotte
illecite da parte della condannata, la sua  richiesta  non  potrebbe,
allo stato, essere accolta. Vi  osterebbe,  infatti,  la  preclusione
prevista dall'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354  del  1975,  in
forza del quale le misure alternative alla  detenzione  previste  dal
Capo  VI  del  Titolo  I  di  detta  legge,  esclusa  la  liberazione
anticipata - misure che ricomprendono anche la detenzione domiciliare
speciale - possono essere concesse ai detenuti e agli  internati  per
taluni gravi delitti, ivi elencati, solo ove essi collaborino con  la
giustizia a norma dell'art. 58-ter. Tra i  reati  ostativi  figurano,
infatti, come sopra accennato, anche quelli di cui agli artt.  600  e
601 cod. pen., per i quali l'istante  sta  scontando  la  pena;  ne',
d'altro  canto,  risulta  accertata  dal  competente   Tribunale   di
sorveglianza una collaborazione  della  detenuta  con  la  giustizia,
ovvero l'impossibilita', l'inesigibilita'  o  l'irrilevanza  di  tale
collaborazione, che, consentirebbero di rimuovere la  preclusione  ai
sensi del comma 1-bis dell'art. 4 della legge n. 354 del 1975. 
    Neppure, poi, gioverebbe alla richiedente la scissione delle pene
cumulate, al fine di  verificare  se  quelle  inflitte  per  i  reati
ostativi siano state integralmente  espiate,  con  conseguente  venir
meno   dei   relativi   effetti   preclusivi.   La   pena    irrogata
all'interessata per i delitti di cui agli artt. 600 e 601  cod.  pen.
e' pari,  infatti,  a  sette  anni  di  reclusione,  sicche'  la  sua
integrale espiazione risulta ancora lontana. 
    Cio'  premesso,  il  giudice  a  quo  dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975,
nella parte in cui estende la disciplina da esso dettata  anche  alla
misura prevista dall'art. 47-quinquies. 
    Il rimettente osserva che la norma censurata  preclude  l'accesso
ai benefici penitenziari ai  soggetti  riconosciuti  responsabili  di
gravi delitti, sancendo nei loro confronti «una sorta di  presunzione
di pericolosita'» che prescinde  quasi  del  tutto  dall'esame  della
personalita'  del  condannato   e   dagli   esiti   del   trattamento
penitenziario.  Detta  preclusione   assoluta,   che   esclude   ogni
discrezionalita' della magistratura di sorveglianza nella concessione
del  beneficio,  trova  un  temperamento  solo  in  presenza  di   un
particolare comportamento attivo del condannato, rappresentato  dalla
collaborazione  con  la  giustizia,  accertata   dal   tribunale   di
sorveglianza con procedura camerale  (art.  58-ter,  comma  2,  della
legge  n.  354  del  1975),  ovvero  nel   caso   di   riconoscimento
dell'inesigibilita',   impossibilita'   o   irrilevanza    di    tale
collaborazione. 
    Siffatto regime preclusivo e' sancito  in  rapporto  ai  benefici
penitenziari, e specialmente alle misure alternative alla detenzione,
costituenti uno  dei  principali  strumenti  di  realizzazione  della
finalita' rieducativa  della  pena,  enunciata  dall'art.  27,  terzo
comma, Cost. Peraltro, se puo' apparire «comprensibile e ragionevole»
che il legislatore,  nella  sua  discrezionalita',  individui  per  i
responsabili di alcuni gravi delitti un  percorso  piu'  complesso  e
impegnativo di quello normalmente necessario per accedere ai benefici
penitenziari,  la  conclusione  muterebbe  necessariamente  di  segno
quando il «diritto "ostacolato"» abbia «poco o nulla a che vedere con
la situazione esecutiva di un condannato». 
    Benche' inclusa, ratione materiae, nel Capo VI del Titolo I della
legge  n.  354  del  1975,   la   detenzione   domiciliare   speciale
differirebbe  profondamente  dalle  altre  misure  alternative   alla
detenzione. Essa prescinderebbe,  infatti,  «da  qualsiasi  contenuto
rieducativo   o   trattamentale»,   essendo   volta   unicamente    a
ripristinare, ove possibile, la convivenza tra madre e  figli,  cosi'
da consentire alla prole di fruire delle cure di cui abbisogna per un
corretto sviluppo fisio-psichico. 
    La misura in questione sarebbe finalizzata, dunque,  alla  tutela
di quel «superiore interesse» del minore cui fa riferimento l'art.  3
della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York  il  20
novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio  1991,
n. 176, in forza  del  quale  «In  tutte  le  decisioni  relative  ai
fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di
assistenza sociale, dei tribunali, delle autorita'  amministrative  o
degli organi legislativi, l'interesse superiore  del  fanciullo  deve
essere una considerazione preminente». 
    La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 31  del  2012,
ha posto puntualmente l'accento  sull'importanza  dell'interesse  del
figlio minore  a  vivere  e  a  crescere  nell'ambito  della  propria
famiglia, mantenendo  un  rapporto  equilibrato  e  continuativo  con
ciascuno dei  genitori,  dai  quali  ha  diritto  di  ricevere  cura,
educazione e istruzione, «interesse complesso, articolato in  diverse
situazioni giuridiche, che hanno trovato riconoscimento e tutela  sia
nell'ordinamento internazionale sia in quello interno». 
    In  tale  prospettiva,  risulterebbe  lesivo  del  principio   di
ragionevolezza (art. 3 Cost.) sottoporre indiscriminatamente tutte le
misure alternative alla detenzione ai vincoli e alle  preclusioni  di
cui all'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, trascurando
la diversita'  «quasi  ontologica»  tra  le  misure  che  hanno  come
finalita'  il   reinserimento   sociale   del   condannato,   e   che
costituiscono percio' dei «benefici»,  e  la  detenzione  domiciliare
speciale, che mira invece a proteggere l'infanzia. In questo modo, il
«superiore interesse» del minore, anziche' prevalere, «cedere[bbe] il
passo innanzi alla pretesa punitiva dello Stato ed ai rigori  che  il
Legislatore  ha  inteso   prevedere   per   l'accesso   ai   benefici
penitenziari per i responsabili di gravi delitti».  Non  sarebbe,  in
effetti, ragionevole addossare sulle «fragili spalle» del  minore  le
conseguenze  delle  gravi  responsabilita'  penali  della  madre,   e
tantomeno  quelle  della  sua  scelta  di  non  collaborare  con   la
giustizia, ovvero del fatto che ella non riesca a vedere riconosciuta
l'impossibilita',  l'inesigibilita'  o  l'irrilevanza  della  propria
collaborazione. 
    La norma censurata violerebbe, altresi', gli artt. 29,  30  e  31
Cost., ponendosi in contrasto sia con la direttiva costituzionale  di
tutela  della  famiglia  come   societa'   naturale,   sia   con   il
diritto-dovere dei genitori di educare i figli  e  il  corrispondente
diritto di questi ultimi di essere educati dai  primi,  sia,  infine,
con l'obbligo di protezione dell'infanzia. 
    Ne',  d'altra  parte,  sarebbe  possibile   evitare   i   vulnera
denunciati   tramite    una    interpretazione    «costituzionalmente
orientata»,   la   quale   si    risolverebbe    nella    illegittima
disapplicazione di una disposizione «chiara e cogente» nel suo tenore
letterale. 
    La questione sarebbe, altresi', rilevante, posto che,  alla  luce
di quanto in precedenza evidenziato, solo la  preclusione  contestata
impedirebbe, nella specie, di entrare nel  merito  della  domanda  di
concedere la detenzione domiciliare speciale alla condannata istante,
con conseguente ripristino di una condizione di  vita  piu'  adeguata
per il minore. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata. 
    La difesa dello Stato assume, in via preliminare, che il richiamo
del giudice a quo alla sentenza n. 31 del 2012 di  questa  Corte  non
sarebbe conferente. Nell'occasione, infatti,  la  Corte  ha  ritenuto
contrario al principio di ragionevolezza l'automatismo della  perdita
della potesta'  genitoriale  sancito  dall'art.  569  cod.  pen.  nei
confronti del genitore condannato per il delitto  di  alterazione  di
stato (art. 567 cod. pen.):  cio',  sul  rilievo  che  tale  delitto,
diversamente da altre ipotesi criminose in danno di minori, non  reca
in se' una presunzione assoluta di pregiudizio per i  loro  interessi
morali e materiali,  tale  da  indurre  a  ravvisare  immancabilmente
l'inidoneita' dell'autore  del  fatto  all'esercizio  della  potesta'
genitoriale. 
    Di contro, il divieto delle misure  alternative  alla  detenzione
sancito dall'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 non  e'
assoluto, ma relativo, venendo meno nel caso  in  cui  il  condannato
collabori con la giustizia o non si trovi nelle condizioni  di  poter
collaborare utilmente. In ogni caso, i detenuti per i reati  indicati
dalla norma censurata vedrebbero sempre tutelati  i  rapporti  con  i
figli attraverso i colloqui effettuati in istituto, non  colpiti  dal
divieto in questione. 
    Nell'introdurre la misura della detenzione domiciliare  speciale,
di cui  all'art.  47-quinquies  della  legge  n.  354  del  1975,  il
legislatore avrebbe, d'altro canto, operato un bilanciamento tra  due
valori costituzionalmente protetti: il primo costituito dalla  tutela
della famiglia e del  rapporto  delle  detenute  madri  con  i  figli
minori,  che,  sebbene  compressa,   non   e'   esclusa   nel   corso
dell'esecuzione della pena; il secondo  rappresentato  dall'interesse
dello Stato ad esercitare  la  potesta'  punitiva.  Il  bilanciamento
sarebbe stato assicurato prevedendo, da un lato, che  l'accesso  alla
detenzione domiciliare speciale  resti  precluso  nei  soli  casi  di
condanna  per  delitti  che  assumono  «un  significativo  grado   di
offensivita'  in  relazione  alla  rilevanza  del   bene   protetto»;
dall'altro, escludendo l'effetto  ostativo  allorche'  il  condannato
collabori  con  la  giustizia  o  la   sua   collaborazione   risulti
inesigibile, impossibile o irrilevante. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Tribunale  di  sorveglianza  di  Firenze  dubita   della
legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge  26
luglio 1975, n. 354 (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla
esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), nella
parte  in  cui  estende  il  divieto  di  concessione  dei   benefici
penitenziari, stabilito nei confronti dei detenuti e degli  internati
per taluni gravi delitti che non collaborino con la giustizia,  anche
alla misura della detenzione domiciliare speciale, prevista dall'art.
47-quinquies della medesima legge a favore delle condannate madri  di
prole di eta' non superiore a dieci anni. 
    Ad avviso  del  rimettente,  la  norma  censurata  violerebbe  il
principio   di   ragionevolezza   (art.   3   della    Costituzione),
assoggettando la misura considerata al  medesimo  regime  restrittivo
stabilito per le altre misure alternative  alla  detenzione  previste
dal Capo VI del Titolo I della legge n. 354  del  1975,  senza  tener
conto dei marcati tratti differenziali che  la  separano  da  queste.
Diversamente dalle altre misure, infatti, la  detenzione  domiciliare
speciale non costituirebbe un «beneficio» tendente  al  reinserimento
sociale del condannato, ma tutelerebbe il  preminente  interesse  del
figlio minore a recuperare al piu'  presto  un  normale  rapporto  di
convivenza con la madre al di fuori dell'ambiente carcerario. Facendo
prevalere su tale interesse  la  pretesa  punitiva  dello  Stato,  la
disposizione  denunciata  riverserebbe,   dunque,   irragionevolmente
«sulle  fragili  spalle  del  minore»  le  conseguenze  delle   gravi
responsabilita'  penali  della  madre  e  della  sua  scelta  di  non
collaborare con la giustizia, ovvero del fatto che ella non riesca  a
veder riconosciuta l'inesigibilita', l'impossibilita' o l'irrilevanza
di detta collaborazione. 
    La norma denunciata violerebbe, altresi', gli artt. 29, 30  e  31
Cost., ponendosi in  contrasto  con  l'imperativo  costituzionale  di
tutela della famiglia come societa' naturale, con  il  diritto-dovere
dei genitori di educare i figli e con il  corrispondente  diritto  di
questi  di  essere  educati  dai  primi,  nonche'  con  l'obbligo  di
protezione dell'infanzia. 
    2.- La questione e' fondata, nei termini di seguito specificati. 
    L'art. 4-bis della legge n. 354  del  1975  reca  una  disciplina
speciale, a carattere restrittivo, per la  concessione  dei  benefici
penitenziari a determinate categorie di detenuti o di internati,  che
si presumono socialmente pericolosi in ragione del tipo di reato  per
il  quale  la  detenzione  o  l'internamento  sono  stati   disposti:
disciplina la cui genesi rimonta alla "stagione emergenziale" in tema
di lotta alla criminalita' organizzata risalente al  principio  degli
anni '90 dello scorso secolo. 
    Nella  versione  d'origine   -   introdotta   dall'art.   1   del
decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti  in  tema
di lotta alla  criminalita'  organizzata  e  di  trasparenza  e  buon
andamento    dell'attivita'    amministrativa),    convertito,    con
modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 -  il  citato  art.
4-bis distingueva le figure criminose di riferimento in due  "fasce".
Per i reati "di prima fascia" - comprendenti l'associazione  di  tipo
mafioso, i relativi "delitti-satellite", il sequestro  di  persona  a
scopo di estorsione e l'associazione finalizzata al  narcotraffico  -
l'accesso alle misure era subordinato  all'acquisizione  di  elementi
tali da escludere l'attualita' di collegamenti  con  la  criminalita'
organizzata; per i reati "di  seconda  fascia"  si  richiedeva  -  in
termini inversi, dal punto di vista probatorio -  l'insussistenza  di
elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti. 
    A seguito della riforma operata dal decreto-legge 8 giugno  1992,
n. 306 (Modifiche urgenti al  nuovo  codice  di  procedura  penale  e
provvedimenti di contrasto alla  criminalita'  mafiosa),  convertito,
con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992,  n.  356,  assumeva  un
ruolo centrale nell'economia dell'istituto la collaborazione  con  la
giustizia.  L'utile  collaborazione,  nei  sensi  indicati  dall'art.
58-ter della legge n. 354 del 1975, diveniva, infatti, condicio  sine
qua non per l'accesso ai benefici in rapporto ai  delitti  "di  prima
fascia",  salva  la  possibilita'   di   ritenere   sufficiente   una
collaborazione «oggettivamente irrilevante» ove al condannato fossero
state  concesse  talune  attenuanti,  sintomatiche  di   una   minore
pericolosita'. 
    La ratio del congegno -  agevolmente  individuabile,  anche  alla
luce dei lavori preparatori - era di duplice ordine. 
    Da un lato, il meccanismo poggiava sulla presunzione  legislativa
che la commissione di determinati delitti dimostrasse il collegamento
dell'autore con la criminalita' organizzata e costituisse, quindi, un
indice di pericolosita' sociale incompatibile  con  l'ammissione  del
condannato  ai  benefici  penitenziari  extramurari.  La  scelta   di
collaborare con la giustizia veniva assunta, in  questa  prospettiva,
come la sola idonea ad esprimere con certezza la volonta'  di  emenda
del condannato e, dunque, a  rimuovere  l'ostacolo  alla  concessione
delle misure, in ragione della  sua  valenza  "rescissoria"  di  tale
legame. 
    Si coniugava a cio' - assumendo, in fatto, un rilievo preminente,
nella situazione  del  momento  -  l'obiettivo  di  incentivare,  per
ragioni  investigative  e  di   politica   criminale   generale,   la
collaborazione  con  la  giustizia  dei   soggetti   appartenenti   o
"contigui" ad associazioni criminose,  che  appariva  come  strumento
essenziale per la lotta alla criminalita' organizzata. 
    Pur   registrando   con   preoccupazione   «la   tendenza    alla
configurazione normativa di "tipi di autore"», individuati sulla base
del titolo astratto del reato commesso, «per i quali la  rieducazione
non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» (sentenza  n.
306 del 1993), e pur censurando con dichiarazioni  di  illegittimita'
costituzionale vari aspetti specifici della disciplina, questa  Corte
escludeva comunque che la soluzione adottata dal legislatore  potesse
ritenersi, di per se', in contrasto con l'art. 27, terzo comma, Cost. 
    La Corte rilevava, infatti, come il  regime  speciale  risultasse
collegato all'accertata commissione di delitti  che  «sono  [...],  o
possono ritenersi, espressione tipica di una  criminalita'  connotata
da livelli di pericolosita' particolarmente  elevati,  in  quanto  la
loro  realizzazione  presuppone  di  norma,  ovvero  per  la   comune
esperienza  criminologica,  una  struttura   e   una   organizzazione
criminale tali da comportare tra gli associati o  i  concorrenti  nel
reato vincoli di omerta' e di segretezza  particolarmente  forti».  A
fronte di cio', il legislatore aveva assunto, non  irragionevolmente,
la collaborazione con la giustizia ad indice  legale  «della  rottura
dei collegamenti con la criminalita' organizzata, che a sua volta  e'
condizione necessaria, sia pure  non  sufficiente,  per  valutare  il
venir meno della pericolosita' sociale ed i risultati del percorso di
rieducazione e di recupero del condannato, a cui la  legge  subordina
[...] l'ammissione alle misure alternative  alla  detenzione  e  agli
altri benefici previsti dall'ordinamento penitenziario» (sentenza  n.
273 del 2001). La preclusione sancita dalla norma  non  era,  d'altra
parte, assoluta e definitiva, ma dipendeva da una opzione  volontaria
del condannato, rivedibile in ogni momento: quella, appunto,  di  non
collaborare,  pur  essendo  in  condizione  di  farlo,   avendo   «la
giurisprudenza costituzionale in tema di collaborazione  impossibile,
irrilevante o comunque oggettivamente inesigibile» escluso «qualsiasi
automatismo degli effetti nel caso in cui la  mancata  collaborazione
non [potesse] essere imputata ad una libera  scelta  del  condannato»
(sentenza n. 135 del 2003). 
    Neppure, poi, era ravvisabile una violazione dell'art.  3  Cost.,
posto che, per un  verso,  l'incentivo  alla  collaborazione  con  la
giustizia, perseguito dal legislatore, non poteva  qualificarsi  come
«costrizione» a tale comportamento, che il detenuto era sempre libero
di non adottare, e, per altro verso, «la condizione di condannato per
delitti di criminalita' organizzata non  era  certo  comparabile  con
quella del comune cittadino», tenuto alla denuncia dei  soli  delitti
contro la personalita' dello Stato puniti con  l'ergastolo  (sentenza
n. 39 del 1994). 
    3.- L'assetto delineato dai  provvedimenti  dei  primi  anni  '90
veniva modificato, in prosieguo di tempo, da  una  serie  di  novelle
legislative, che, da un  lato,  mutavano  l'architettura  complessiva
dell'art.  4-bis  e,  dall'altro,  ne   ampliavano   progressivamente
l'ambito di operativita', con l'innesto di numerose altre fattispecie
criminose nella lista dei reati ostativi.  La  stratificazione  degli
interventi normativi sfociava, alfine, nella riformulazione ad  ampio
respiro operata dall'art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11
(Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto  alla
violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori),  convertito,
con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38,  che  conferiva
alla disposizione l'odierna fisionomia (introducendo anche una "terza
fascia" di reati  ostativi,  rappresentata  da  delitti  a  carattere
sessuale, per i quali la concessione dei benefici e' subordinata agli
esiti  dell'osservazione  scientifica  della  personalita',  condotta
collegialmente per almeno un anno). 
    Concentrando  l'attenzione  sulla  disposizione   del   comma   1
dell'art. 4-bis, riguardante attualmente i  soli  delitti  "di  prima
fascia" - cui e' riferita la questione in esame - la norma  censurata
stabilisce che «L'assegnazione  al  lavoro  all'esterno,  i  permessi
premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo  VI,
esclusa  la  liberazione  anticipata,  possono  essere  concessi   ai
detenuti e agli internati» per i delitti ivi elencati «solo nei  casi
in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma
dell'articolo 58-ter». L'interessato deve essersi, cioe',  adoperato,
anche dopo la condanna, «per evitare che l'attivita'  delittuosa  sia
portata  a  conseguenze  ulteriori»,  ovvero   deve   aver   «aiutato
concretamente l'autorita' di polizia o l'autorita' giudiziaria  nella
raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti o per la
individuazione o la cattura degli autori dei reati». 
    Recependo le indicazioni di questa  Corte  (sentenze  n.  68  del
1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), il  comma  1-bis  dell'art.
4-bis estende la possibilita' di accesso ai benefici ai casi  in  cui
un'utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, per  la
limitata partecipazione del condannato al fatto  criminoso  accertata
nella sentenza  di  condanna,  ovvero  impossibile,  per  l'integrale
accertamento dei  fatti  e  delle  responsabilita',  operato  con  la
sentenza irrevocabile; nonche'  ai  casi  in  cui  la  collaborazione
offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante», sempre
che, in questa evenienza, sia stata applicata  al  condannato  taluna
delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6),  114  o
116 del codice penale. In tutte le ipotesi dianzi  indicate  occorre,
peraltro, che «siano  stati  acquisiti  elementi  tali  da  escludere
l'attualita'  di  collegamenti  con  la   criminalita'   organizzata,
terroristica o eversiva». 
    A seguito delle ricordate implementazioni, l'elenco dei reati che
rendono operante il regime speciale abbraccia,  allo  stato,  ipotesi
criminose notevolmente  eterogenee,  comprensive  anche  dei  delitti
contro la personalita' individuale di cui agli artt. 600 e  601  cod.
pen., per i quali la detenuta  istante  nel  procedimento  a  quo  ha
riportato   condanna.   Il    nesso    con    l'originaria    matrice
politico-criminale della norma si coglie, al riguardo, nel fatto  che
la riduzione o il mantenimento in  schiavitu'  o  in  servitu'  e  la
tratta  di  persone,  nell'attuale  momento  storico,   costituiscono
solitamente espressione del crimine organizzato, anche  per  il  loro
frequente collegamento con lo sfruttamento della prostituzione. 
    4.- Il giudice a quo  non  contesta,  peraltro,  la  legittimita'
costituzionale del regime di cui all'art. 4-bis, comma 1, della legge
n. 354 del 1975, in se' considerato: reputando, anzi,  «comprensibile
e  ragionevole»  che  nei  confronti  degli  autori  di  delitti   di
particolare gravita' e  allarme  sociale  il  legislatore  stabilisca
regole di accesso ai benefici  penitenziari  piu'  severe  di  quelle
valevoli per la generalita' degli altri condannati. 
    Il rimettente si duole, per converso, del  fatto  che  il  regime
restrittivo risulti esteso  anche  ad  una  misura  alternativa  alla
detenzione avente finalita' affatto peculiari, che la  porrebbero  su
un piano nettamente distinto rispetto alle altre, rendendo  non  piu'
valida l'indicata conclusione: quale, in particolare,  la  detenzione
domiciliare speciale prevista dall'art. 47-quinquies della  legge  n.
354 del 1975. 
    Si  tratta  di  istituto  la  cui  introduzione  si   colloca   -
rappresentandone una delle tappe salienti - nell'ambito del  processo
di progressivo ampliamento dei presidi  a  tutela  del  rapporto  tra
condannate madri e figli minori. 
    Giova, al  riguardo,  ricordare  come  all'epoca  dell'emanazione
della nuova legge di ordinamento penitenziario le uniche norme intese
a proteggere tale rapporto fossero costituite dagli artt. 146 e  147,
numero 3), cod. pen., che disciplinavano, rispettivamente, il  rinvio
obbligatorio (per la donna incinta o con prole di eta' non  superiore
a sei mesi) e il rinvio facoltativo (per la madre di  prole  di  eta'
non superiore ad un anno) dell'esecuzione della pena. 
    Il nuovo ordinamento penitenziario varato con la legge n. 354 del
1975, sebbene ispirato ai principi  di  umanizzazione  della  pena  e
della rieducazione del condannato, si era limitato  d'altra  parte  a
prevedere, sotto il profilo considerato - oltre alla presenza, presso
ogni istituto  penitenziario  per  donne,  di  servizi  speciali  per
l'assistenza  sanitaria  alle  gestanti  e   alle   puerpere   -   la
possibilita' per le detenute madri di tenere presso di  se'  i  figli
fino   all'eta'   di   tre   anni,   con    il    connesso    obbligo
dell'amministrazione  penitenziaria  di  organizzare  appositi  asili
nido, per la cura e l'assistenza dei bambini (art. 11, ottavo e  nono
comma). Appariva evidente, peraltro, come l'ingresso  del  minore  di
tre  anni   in   carcere   costituisse   una   soluzione   largamente
insoddisfacente del problema, giacche', per un verso, si  limitava  a
differire il distacco dalla  madre,  rendendolo  sovente  ancor  piu'
drammatico; per altro verso, inseriva  il  bambino  in  un  "contesto
punitivo" e povero di stimoli, tutt'altro che idoneo  alla  creazione
di un rapporto affettivo fisiologico con la figura genitoriale. 
    Un netto progresso, su questo versante, era segnato  dalla  legge
10 ottobre  1986,  n.  663  (Modifiche  alla  legge  sull'ordinamento
penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative  e  limitative
della  liberta'),  che  introduceva  nel  sistema  l'istituto   della
detenzione domiciliare (art. 47-ter della legge  n.  354  del  1975),
identificandone  nella  madre  di  prole  in  tenera  eta'  uno   dei
destinatari tipici. Tale misura -  i  cui  presupposti  soggettivi  e
oggettivi di fruibilita' venivano successivamente modificati  a  piu'
riprese dal legislatore, in senso dilatativo - consentiva al  bambino
di  giovarsi  di  un'assistenza  materna  continuativa  in   ambiente
familiare, o comunque extramurario, malgrado lo stato  di  detenzione
della genitrice. 
    Nel testo vigente, il comma 1 del citato art. 47-ter consente, in
particolare, alla madre di prole di eta' inferiore a dieci anni,  con
lei convivente, di espiare in forma  extracarceraria  la  pena  della
reclusione non superiore a quattro anni, anche se  costituente  parte
residua di maggior pena, nonche' la pena  dell'arresto  di  qualsiasi
entita' (lettera a). In accordo con i principi  affermati  da  questa
Corte (sentenza n. 215 del 1990), analoga possibilita'  e'  accordata
al padre, nel caso in cui  la  madre  sia  deceduta  o  assolutamente
impossibilitata ad assistere la prole (lettera b). 
    5.- Un ulteriore passo in avanti - e si giunge cosi' al punto che
qui particolarmente interessa - era  compiuto  dalla  legge  8  marzo
2001, n.  40,  intitolata  specificamente  «Misure  alternative  alla
detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori». 
    A fianco di altri interventi - tra cui l'ampliamento  del  rinvio
dell'esecuzione  della  pena,  che,  nella  sua  forma   facoltativa,
giungeva fino ai  tre  anni  di  eta'  del  bambino  (soglia  massima
consentita per la permanenza in carcere con la madre detenuta:  cio',
nell'ottica di limitare  quanto  piu'  possibile  il  fenomeno  della
"carcerizzazione degli infanti"), e la previsione della  possibilita'
di ammettere le condannate alla cura e all'assistenza all'esterno dei
figli infradecenni (art. 21-bis della legge n. 354  del  1975)  -  la
novella introduceva la misura della detenzione  domiciliare  speciale
(art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975). 
    Come si desume dall'incipit della norma («Quando non ricorrono le
condizioni di cui all'articolo 47-ter»), detto istituto assume natura
"sussidiaria" e "complementare" rispetto alla detenzione  domiciliare
"ordinaria" (e segnatamente a quella prevista dal comma 1, lettere  a
e b, del citato art. 47-ter), trovando applicazione  in  assenza  dei
presupposti che legittimano il ricorso  a  quest'ultima:  laddove  il
riferimento e' soprattutto all'ipotesi in cui la  pena  detentiva  da
scontare superi il limite dei quattro anni di reclusione. 
    In tale evenienza, le condannate con prole di eta' non  superiore
a dieci anni possono essere  comunque  ammesse  ad  espiare  la  pena
«nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero
in luogo di cura, assistenza o accoglienza,  al  fine  di  provvedere
alla cura e alla assistenza dei figli», a condizione che abbiano gia'
espiato almeno un terzo della pena o almeno quindici anni,  nel  caso
di  condanna  all'ergastolo  (comma  1  dell'art.  47-quinquies).  In
aggiunta a cio', occorre che vi sia «la possibilita' di  ripristinare
la convivenza con i figli» e che non sussista «un  concreto  pericolo
di commissione di ulteriori delitti»: condizione,  quest'ultima,  non
esplicitamente enunciata  in  rapporto  alla  detenzione  domiciliare
ordinaria. Come rilevato da questa Corte, «il  senso  dell'estensione
si rinviene nel rilievo preminente dell'interesse  dei  bambini,  che
non devono essere  eccessivamente  penalizzati  dalla  differenza  di
situazione delle rispettive madri in riferimento  alla  gravita'  dei
reati commessi ed alla quantita' di pena gia' espiata»  (sentenza  n.
177 del 2009). 
    Analogamente  a  quanto  avviene   per   detenzione   domiciliare
ordinaria, e' inoltre previsto che, se la madre e' deceduta  o  versa
in condizioni tali da renderle assolutamente  impossibile  provvedere
alla cura dei figli, e non vi e' modo di affidare la prole  ad  altri
che al padre, la misura in esame puo' essere concessa anche al  padre
detenuto (comma 7 dell'art. 47-quinquies). 
    6.-  L'ultima  tappa  dell'evoluzione  normativa  in   esame   e'
costituita dalla legge 21 aprile 2011, n. 62 (Modifiche al codice  di
procedura penale e alla  legge  26  luglio  1975,  n.  354,  e  altre
disposizioni a  tutela  del  rapporto  tra  detenute  madri  e  figli
minori). 
    Unitamente,  anche  qui,  ad  altri  interventi  -  tra  cui   la
previsione del diritto della madre (o  eventualmente  del  padre)  di
visitare all'esterno del  carcere  il  figlio  minore  infermo  (art.
21-ter della legge n. 354 del 1975) -  la  nuova  legge  ha  aggiunto
all'art. 47-quinquies della legge n. 354 del  1975  il  comma  1-bis,
stabilendo che l'espiazione della quota  di  pena  richiesta  per  la
fruizione  della  detenzione  domiciliare  speciale  possa   avvenire
«presso un istituto a custodia attenuata per detenute  madri  ovvero,
se non sussiste un concreto  pericolo  di  commissione  di  ulteriori
delitti o di fuga, nella propria abitazione,  o  in  altro  luogo  di
privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al
fine di provvedere alla cura e all'assistenza  dei  figli».  Qualora,
poi, sia impossibile l'esecuzione nella propria abitazione o in altro
luogo di privata dimora, la quota di pena «puo' essere espiata  nelle
case famiglia protette, ove istituite». 
    In questo modo, dunque, la madre di prole di eta' non superiore a
dieci anni, condannata a pena detentiva di lunga  durata  -  o  anche
all'ergastolo - puo' essere ammessa ad espiare la  frazione  iniziale
di detta  pena  in  speciali  strutture  (gli  «istituti  a  custodia
attenuata per detenute madri»), dotati di sistemi di  sicurezza  "non
invasivi", comunque non riconoscibili dai bambini, cosi' da  ricreare
un'atmosfera prossima a un normale ambiente familiare; o addirittura,
se non vi e' pericolo di commissione di ulteriori delitti o di  fuga,
puo' evitare sin dall'inizio l'ingresso in carcere. 
    7.- Venendo, con cio', all'odierno thema decidendum, va anzitutto
escluso - in accordo con il rimettente - che la  norma  censurata  si
presti ad una interpretazione costituzionalmente orientata,  in  base
alla quale la detenzione domiciliare speciale -  proprio  in  ragione
della peculiarita' della sua ratio - resterebbe gia' adesso  estranea
alla sfera applicativa del divieto in discussione. 
    Una simile  lettura  si  porrebbe  in  oggettivo  e  insuperabile
contrasto non solo con l'inequivoca lettera della legge, ma anche con
convergenti indici di ordine sistematico. 
    La detenzione  domiciliare  speciale  rientra,  infatti,  tra  le
misure alternative alla detenzione previste dal Capo VI del Titolo  I
della  legge  n.  354  del  1975,  cui  il  regime   restrittivo   e'
testualmente  riferito  (con  la  sola  eccezione  della  liberazione
anticipata). 
    Al riguardo, non gioverebbe obiettare che la misura in  questione
e' stata introdotta dalla legge n.  40  del  2001  e  che,  quindi  -
sebbene inserita ratione materiae nella suddetta partizione normativa
- essa esula dal novero delle misure avute di  mira  dal  legislatore
allorche', dieci anni prima, aveva  varato  il  regime  censurato.  A
prescindere da ogni altro rilievo, tale  obiezione  e'  superata  dal
fatto che il comma 1 dell'art. 4-bis della legge n. 354 del  1975  e'
stato integralmente riscritto dapprima dalla legge 23 dicembre  2002,
n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26  luglio
1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario) e, quindi, dal
gia' citato d.l. n. 38 del 2011, entrambi successivi alla legge n. 40
del 2001. E' evidente, dunque, che se il  legislatore  avesse  voluto
realmente  affrancare  dalla  disciplina  preclusiva  la   detenzione
domiciliare speciale - gia' presente nel sistema a quelle date -  non
avrebbe potuto fare a meno di indicarlo nei nuovi testi. 
    A riprova di  cio',  sta  anche  la  circostanza  che  quando  il
legislatore ha inteso sottrarre al divieto  misure  alternative  alla
detenzione ulteriori rispetto  alla  liberazione  anticipata,  lo  ha
sancito  in  modo  esplicito.  Cio'  e'  avvenuto,  in  specie,   con
riferimento alla detenzione domiciliare dei soggetti affetti da  AIDS
conclamata o da grave deficienza immunitaria (art.  47-quater,  comma
9, della legge n. 354 del 1975): misura introdotta anch'essa in epoca
successiva al varo dell'originario regime dell'art. 4-bis. 
    A  sostegno  dell'ipotizzata  interpretazione  "adeguatrice"  non
varrebbe neppure far leva sull'espresso richiamo all'art.  4-bis  che
compare nel comma 1-bis dell'art. 47-quinquies (aggiunto, come detto,
dalla legge n. 62  del  2011).  Tale  ultima  disposizione  nega,  in
effetti, alle condannate per taluno dei  delitti  indicati  nell'art.
4-bis la possibilita'  di  espiare  presso  un  istituto  a  custodia
attenuata per detenute madri, ovvero  in  forma  extracarceraria,  la
quota di pena richiesta per  l'accesso  alla  detenzione  domiciliare
speciale. 
    Da  cio'  non  puo',  tuttavia,  desumersi  -  con  argumentum  a
contrario - che, in assenza di analogo richiamo, l'art. 4-bis non  si
applicherebbe alla concessione della detenzione domiciliare speciale,
disposta ai sensi del comma 1 dello stesso  art.  47-quinquies.  Come
rilevato, infatti, anche dalla giurisprudenza di legittimita'  (Corte
di cassazione, sezione  I,  26  novembre  2003-9  dicembre  2013,  n.
49366), nel comma 1-bis il richiamo in questione svolge una  funzione
autonoma  e  ulteriormente  limitativa:  esso  impedisce,  cioe',  in
assoluto alle condannate per i  delitti  di  cui  all'art.  4-bis  di
espiare la frazione iniziale di pena con modalita' "agevolate", anche
quando si fosse verificata la condizione che rimuove  la  preclusione
all'accesso ai benefici penitenziari (nella specie, la collaborazione
con la giustizia). Per  incidens,  va  segnalato  che  tale  autonoma
limitazione - stabilita da una norma distinta da quella  censurata  -
resta estranea all'odierno scrutinio di legittimita'  costituzionale,
il quale verte sul  solo  divieto  di  concessione  della  detenzione
domiciliare speciale dopo l'espiazione  della  quota  preliminare  di
pena: istanza sulla  quale  il  Tribunale  rimettente  si  trova,  in
concreto, chiamato a decidere. 
    Quale notazione finale  sul  punto,  si  deve  rilevare  come  la
conclusione dianzi prospettata  corrisponda  pienamente  al  "diritto
vivente": registrandosi, allo  stato,  una  generale  convergenza  di
opinioni, tanto in giurisprudenza che in dottrina, riguardo al  fatto
che la detenzione domiciliare speciale ricada anch'essa nel perimetro
di operativita' della norma censurata. 
    8.- Scendendo, quindi, all'esame del merito  delle  censure,  non
puo' essere condiviso, nella sua assolutezza, l'assunto  del  giudice
rimettente, secondo  il  quale  la  detenzione  domiciliare  speciale
prescinderebbe «da qualsiasi contenuto rieducativo o  trattamentale».
Come rilevato tanto da questa Corte (sentenza n. 177  del  2009)  che
dalla giurisprudenza di legittimita' (Corte di cassazione, sezione I,
7 marzo 2013-19  settembre  2013,  n.  38731;  Corte  di  cassazione,
sezione I, 20 ottobre 2006-14 dicembre 2006, n. 40736), la misura  in
questione  partecipa,  in  realta',  anch'essa  della  finalita'   di
reinserimento sociale del condannato, costituente l'obiettivo  comune
di tutte le misure alternative alla detenzione: il che e'  comprovato
tanto dal requisito  negativo  di  fruibilita',  rappresentato  dalla
insussistenza del  pericolo  di  commissione  di  ulteriori  delitti,
quanto dalla disciplina delle modalita' di svolgimento della misura e
delle ipotesi di revoca (art. 47-quinquies, commi  3  e  seguenti,  e
47-sexies della legge n. 354 del 1975). 
    Cio'  nondimeno,  e'  indubbio  che  nell'economia  dell'istituto
assuma un rilievo del tutto prioritario l'interesse  di  un  soggetto
debole, distinto  dal  condannato  e  particolarmente  meritevole  di
protezione, quale quello del minore in tenera eta' ad  instaurare  un
rapporto  quanto  piu'  possibile  "normale"   con   la   madre   (o,
eventualmente, con il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo.
Interesse che - oltre a chiamare in gioco l'art. 3 Cost., in rapporto
all'esigenza di un trattamento differenziato -  evoca  gli  ulteriori
parametri costituzionali  richiamati  dal  rimettente  (tutela  della
famiglia,  diritto-dovere  di  educazione   dei   figli,   protezione
dell'infanzia: artt. 29, 30 e 31 Cost.). 
    Pronunciando su una questione strutturalmente diversa  da  quella
in esame, ma che vedeva anch'essa contrapposta  la  pretesa  punitiva
statale all'esigenza di tutela del minore, questa Corte ha gia' avuto
modo di porre in evidenza la speciale rilevanza  dell'«interesse  del
figlio minore  a  vivere  e  a  crescere  nell'ambito  della  propria
famiglia, mantenendo  un  rapporto  equilibrato  e  continuativo  con
ciascuno dei  genitori,  dai  quali  ha  diritto  di  ricevere  cura,
educazione  ed  istruzione»:  «interesse  complesso,  articolato   in
diverse situazioni giuridiche, che  hanno  trovato  riconoscimento  e
tutela sia nell'ordinamento internazionale  sia  in  quello  interno»
(sentenza n. 31 del 2012; in senso analogo, sentenza n. 7 del  2013).
A  fianco  dei  richiamati  imperativi  costituzionali  -  tra   cui,
anzitutto,  quello  che  demanda  alla   Repubblica   di   proteggere
l'infanzia, «favorendo gli istituti necessari a tale scopo» (art. 31,
secondo comma, Cost.) - vengono in  particolare  considerazione,  sul
piano internazionale, le previsioni dell'art. 3, primo  comma,  della
Convenzione sui diritti  del  fanciullo,  fatta  a  New  York  il  20
novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in  Italia  con  legge  27
maggio 1991, n. 176, e dell'art. 24, secondo comma, della  Carta  dei
diritti  fondamentali  dell'Unione  europea  del  7  dicembre   2000,
adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo. Entrambe  le  disposizioni
qualificano,  infatti,  come  «superiore»  l'interesse  del   minore,
stabilendo che in tutte le decisioni relative ai minori, adottate  da
autorita' pubbliche  o  istituzioni  private,  detto  interesse  deve
essere considerato «preminente»: precetto  che  assume  evidentemente
una  pregnanza  particolare  quando  si  discuta  dell'interesse  del
bambino in tenera eta' a godere dell'affetto e delle cure materne. 
    9.- Assoggettando anche la  detenzione  domiciliare  speciale  al
regime "di rigore" sancito dall'art. 4-bis, comma 1, della  legge  n.
354 del 1975 il legislatore ha, dunque,  accomunato  fattispecie  tra
loro profondamente diversificate. 
    Tale omologazione di trattamento  appare  senz'altro  lesiva  dei
parametri costituzionali evocati ove si  guardi  alla  ratio  storica
primaria del regime in questione, rappresentata dalla  incentivazione
alla collaborazione, quale strategia di contrasto della  criminalita'
organizzata.  Un  conto,  infatti,  e'  che  tale   strategia   venga
perseguita tramite l'introduzione di uno sbarramento  alla  fruizione
di benefici penitenziari costruiti - com'e' di norma - unicamente  in
chiave  di  progresso  trattamentale  del   condannato,   sbarramento
rimuovibile tramite la condotta collaborativa; altro conto e' che  la
preclusione investa una misura finalizzata in  modo  preminente  alla
tutela dell'interesse di un soggetto distinto e, al tempo stesso,  di
particolarissimo rilievo, quale quello del minore in  tenera  eta'  a
fruire delle condizioni per un migliore e piu'  equilibrato  sviluppo
fisio-psichico. In questo modo, il "costo" della strategia  di  lotta
al crimine organizzato viene traslato su un soggetto terzo,  estraneo
tanto alle attivita' delittuose che hanno dato luogo  alla  condanna,
quanto alla scelta del condannato di non collaborare. 
    La conclusione non muta, peraltro, neppure se si guarda all'altra
e concorrente ratio del regime considerato, scrutinata in  precedenza
con esito positivo da questa Corte e legata  piu'  direttamente  alla
funzione rieducativa della pena. La subordinazione dell'accesso  alle
misure  alternative  ad  un  indice  legale  del  "ravvedimento"  del
condannato - la condotta collaborativa, in  quanto  espressiva  della
rottura del "nesso" tra il soggetto  e  la  criminalita'  organizzata
(nesso, peraltro, a sua volta presuntivamente  desunto  dal  tipo  di
reato che fonda il titolo detentivo) - puo' risultare  giustificabile
quando si discuta di misure che hanno di mira, in via  esclusiva,  la
risocializzazione dell'autore della condotta illecita. Cessa, invece,
di esserlo quando al centro della tutela  si  collochi  un  interesse
"esterno" ed eterogeneo, del genere di quello che al  presente  viene
in rilievo. 
    E' ben vero che nemmeno l'interesse del minore a fruire  in  modo
continuativo dell'affetto e  delle  cure  materne,  malgrado  il  suo
elevato  rango,  forma  oggetto  di  protezione  assoluta,  tale   da
sottrarlo ad ogni possibile bilanciamento con esigenze  contrapposte,
pure di rilievo  costituzionale,  quali  quelle  di  difesa  sociale,
sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in
seguito alla commissione di un reato. Come gia'  rilevato  da  questa
Corte (sentenza n. 177 del 2009), proprio ad  una  simile  logica  di
bilanciamento risponde, in effetti, la disciplina delle condizioni di
accesso alla  detenzione  domiciliare  speciale  stabilite  dall'art.
47-quinquies, comma 1, della legge n. 354 del 1975: condizioni tra le
quali figura anche quella, piu' volte ricordata, della  insussistenza
di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti da  parte
della condannata. 
    Ma affinche' l'interesse del minore possa  restare  recessivo  di
fronte alle esigenze di protezione della societa' dal crimine occorre
che  la  sussistenza  e  la  consistenza  di  queste   ultime   venga
verificata, per l'appunto, in  concreto  -  cosi'  come  richiede  la
citata disposizione - e non gia' collegata  ad  indici  presuntivi  -
quali quelli prefigurati dalla norma censurata -  che  precludono  al
giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni. 
    10.- L'art. 4-bis, comma 1,  della  legge  n.  354  del  1975  va
dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella  parte  in
cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari,
da esso stabilito, la misura della  detenzione  domiciliare  speciale
prevista dall'art. 47-quinquies della medesima legge. 
    La dichiarazione di illegittimita' costituzionale va  estesa,  in
via consequenziale, anche alla misura  della  detenzione  domiciliare
ordinaria prevista dall'art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b),  della
legge n. 354 del 1975:  cio',  per  evitare  che  una  misura  avente
finalita'  identiche  alla  detenzione   domiciliare   speciale,   ma
riservata a soggetti che debbono espiare  pene  meno  elevate,  resti
irragionevolmente soggetta ad un trattamento deteriore in parte  qua.
In  tale  ipotesi,  la  concessione  della  misura  rimane   comunque
subordinata alla verifica della insussistenza di un concreto pericolo
di commissione di ulteriori  delitti:  condizione,  come  detto,  non
enunciata in modo esplicito dal  citato  art.  47-ter,  ma  che  deve
comunque ricorrere, secondo la giurisprudenza,  stante  l'evidenziata
ratio comune delle misure alternative alla  detenzione  (sentenza  n.
177 del 2009). 
    Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953,  n.  87,  l'art.
4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 va dichiarato,  pertanto,
costituzionalmente illegittimo nella parte in  cui  non  esclude  dal
divieto di concessione dei  benefici  penitenziari  la  misura  della
detenzione domiciliare prevista dall'art. 47-ter, comma 1, lettere a)
e  b),  della  medesima   legge,   ferma   restando   la   condizione
dell'insussistenza  di  un  concreto  pericolo  di   commissione   di
ulteriori delitti.