ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  464-bis,
comma 2, del codice di procedura penale, aggiunto dall'art. 4,  comma
1, lettera a), della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al  Governo
in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del  sistema
sanzionatorio.   Disposizioni   in   materia   di   sospensione   del
procedimento  con  messa   alla   prova   e   nei   confronti   degli
irreperibili),  promosso  dal  Tribunale  ordinario  di  Torino   nel
procedimento penale a carico di V.G., con ordinanza  del  28  ottobre
2014, iscritta al n. 260 del registro  ordinanze  2014  e  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale,
dell'anno 2015. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 7  ottobre  2015  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Il  Tribunale   ordinario   di   Torino,   in   composizione
monocratica, con ordinanza del 28  ottobre  2014  (r.o.  n.  260  del
2014), ha sollevato, in riferimento agli artt.  3,  24,  111  e  117,
primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali, firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora
in avanti «CEDU»), questioni di legittimita' costituzionale dell'art.
464-bis, comma 2, del codice di procedura  penale,  «nella  parte  in
cui, in assenza di una disciplina transitoria, analoga  a  quella  di
cui all'art. 15-bis co.  1  della  legge  11  agosto  2014,  n.  118,
preclude l'ammissione all'istituto della sospensione del procedimento
con messa alla prova degli imputati di  processi  pendenti  in  primo
grado, nei quali la dichiarazione di apertura  del  dibattimento  sia
stata effettuata prima dell'entrata in vigore della legge 67/2014». 
    Il giudice a quo premette che l'imputato  e'  stato  «rinviato  a
giudizio» dinanzi al suo ufficio per  rispondere  del  reato  di  cui
all'art. 483 del codice penale, perche' aveva dichiarato  falsamente,
quale amministratore di  una  societa'  a  responsabilita'  limitata,
innanzi al notaio, nel corso di un'assemblea straordinaria,  che  era
«presente o  validamente  rappresentato  l'intero  capitale  sociale,
mentre al contrario il socio di maggioranza [...]  ne'  era  presente
all'assemblea ne' aveva rilasciato mandato ad essere rappresentato». 
    Riferisce  il  Tribunale  rimettente  che  nella  prima  udienza,
tenutasi il 16 maggio 2014, era stato aperto il dibattimento ed erano
state ammesse le prove richieste dalle parti, mentre nella successiva
udienza del 26 maggio 2014 l'imputato aveva richiesto la «sospensione
del procedimento con messa alla prova». Nell'udienza del 18 settembre
2014 la difesa aveva insistito per l'accoglimento della richiesta  di
sospensione con messa alla prova, prospettando, in  via  subordinata,
la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4  della  legge
28 aprile 2014,  n.  67  (Deleghe  al  Governo  in  materia  di  pene
detentive non carcerarie e  di  riforma  del  sistema  sanzionatorio.
Disposizioni in materia di sospensione  del  procedimento  con  messa
alla prova e nei confronti degli irreperibili), nella  parte  in  cui
non  prevede  l'applicabilita'  della  messa  alla  prova  anche   ai
procedimenti pendenti alla data di  entrata  in  vigore  della  nuova
legge nei quali era stato gia' aperto il dibattimento. 
    In punto di rilevanza, il Tribunale ordinario di  Torino  osserva
che ricorrono nel caso di specie  tutti  i  presupposti  oggettivi  e
soggettivi per «l'ammissione dell'imputato alla messa alla prova». Il
reato contestato sarebbe infatti punito con pena massima inferiore ai
limiti di  cui  all'art.  168-bis,  primo  comma,  cod.  pen.  e  non
sussisterebbero le condizioni ostative  previste  dall'art.  168-bis,
quarto e quinto comma, cod. pen., non avendo mai l'imputato fruito in
precedenza della sospensione del procedimento con messa alla prova  e
non ricorrendo alcuna delle ipotesi previste dagli  artt.  102,  103,
104, 105 e 108 cod.  pen.  Il  «caso  concreto»  sarebbe  di  modesta
gravita', in quanto relativo ad una dichiarazione resa  in  occasione
di un'assemblea straordinaria della societa' nella  quale  l'imputato
era amministratore ed  esclusivo  proprietario  delle  quote  sociali
fiduciariamente intestate alla persona offesa. Inoltre l'imputato  ha
formulato un'offerta  risarcitoria  e  ha  presentato  «richiesta  di
elaborazione   all'UEPE   del   programma   con   dichiarazione    di
disponibilita' a sottoporsi alle prescrizioni imposte e  svolgere  un
lavoro di pubblica utilita'». Il giudice a quo  ritiene  che,  tenuto
conto dell'epoca  del  fatto  e  dei  non  gravi  precedenti  penali,
l'imputato si sarebbe attenuto al programma,  astenendosi  in  futuro
dal commettere  ulteriori  reati.  Non  ricorrerebbero,  inoltre,  le
condizioni per la pronuncia di una sentenza ex art.  129  cod.  proc.
pen. 
    L'unico ostacolo sarebbe dunque rappresentato  dalla  preclusione
processuale stabilita dall'art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., in
quanto la richiesta di sospensione del procedimento  con  messa  alla
prova  e'  stata  formulata  successivamente  alla  dichiarazione  di
apertura del dibattimento di primo grado e pertanto oltre il  termine
stabilito dalla legge. Infatti, al  momento  dell'entrata  in  vigore
della legge n. 67 del 2014 (17 maggio 2014), era gia' intervenuta  la
dichiarazione di  apertura  del  dibattimento,  mentre  la  richiesta
dell'imputato era  stata  formulata  alla  prima  udienza  successiva
all'introduzione del nuovo istituto. 
    L'art. 464-bis, comma 2, cod.  proc.  pen.  fissa  i  limiti  per
l'accesso alla sospensione del procedimento con messa alla  prova  in
modo unitario per tutti i processi (gia'  pendenti  o  successivi  al
momento dell'entrata in vigore della nuova legge). Tale  limite,  per
la fase  dibattimentale,  e'  rappresentato  dalla  dichiarazione  di
apertura del dibattimento e, come ricorda il giudice  rimettente,  la
legge n. 67 del 2014 non  contiene  alcuna  norma  transitoria,  come
quella che e' stata introdotta dalla legge 11  agosto  2014,  n.  118
(Introduzione dell'articolo 15-bis della legge 28 aprile 2014, n. 67,
concernente norme transitorie  per  l'applicazione  della  disciplina
della  sospensione  del  procedimento  penale  nei  confronti   degli
irreperibili)  per  l'applicazione  della   sola   disciplina   della
sospensione del procedimento penale nei confronti degli irreperibili. 
    La preclusione derivante dal  termine  posto  dall'art.  464-bis,
comma 2, cod. proc. pen. non sarebbe superabile mediante una  diretta
applicazione dei principi  generali  dell'art.  2  cod.  pen.  Palese
sembrerebbe inoltre la volonta' del legislatore, il quale non avrebbe
predisposto, per le norme di cui al Capo II della  legge  n.  67  del
2014,   una   disciplina   transitoria,    neppure    contestualmente
all'approvazione della citata legge n. 118 del 2014. 
    Il   Tribunale   rimettente   ricorda   che   una   parte   della
giurisprudenza di merito ha ammesso la possibilita' di  formulare  la
richiesta di sospensione del procedimento con messa alla  prova  alla
prima occasione utile successiva all'entrata in vigore della legge n.
67 del 2014, anche in caso di  avvenuta  apertura  del  dibattimento,
applicando l'istituto della restituzione nel termine di cui  all'art.
175 cod. proc. pen, ma dichiara di non poterla condividere, in quanto
determinerebbe l'introduzione «in via giurisprudenziale» di un regime
transitorio non voluto dal  legislatore.  Neanche  sarebbe  possibile
applicare direttamente l'art. 2 cod. pen. o l'art. 7 della  CEDU,  in
quanto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 236 del 2011,  non
ha escluso  la  possibilita'  di  introdurre  deroghe  o  limitazioni
all'operativita' del principio di retroattivita'  della  lex  mitior,
«quando siano sorrette da una valida giustificazione». 
    Il  nuovo  istituto  della  sospensione  con  messa  alla   prova
cumulerebbe connotazioni  di  carattere  processuale  e  sostanziale,
perche' sarebbe al contempo una causa di estinzione del  reato  e  un
modulo di definizione alternativa  al  giudizio.  Tale  natura  mista
imporrebbe una verifica  di  ragionevolezza,  ai  sensi  dell'art.  3
Cost., del differente trattamento di persone che, pur versando  nelle
medesime condizioni sostanziali, si trovino, al momento  dell'entrata
in vigore della nuova legge, in diverse fasi del  processo  di  primo
grado. Il legislatore, infatti,  individuando  un  discrimine  unico,
valido tanto per i processi nuovi  quanto  per  i  processi  gia'  in
corso, avrebbe disciplinato in modo  identico  situazioni  nettamente
difformi, consentendo solo agli imputati dei primi di aver accesso al
nuovo,  piu'  favorevole,  istituto.   Tale   soluzione   sembrerebbe
contrastare, inoltre, con l'art. 117, primo comma, Cost.,  attraverso
il parametro interposto  dell'art.  7  della  CEDU,  che  secondo  la
giurisprudenza della Corte europea  dei  diritti  dell'uomo  pone  il
principio della retroattivita' della lex mitior. Infatti il «momento»
prescelto dal legislatore, mentre risulterebbe pienamente coerente  e
razionale per tutti i processi nuovi, non lo sarebbe per  i  processi
pendenti in primo grado nei quali la preclusione sia gia' maturata al
momento dell'entrata in vigore  della  nuova  legge.  Tale  soluzione
legislativa  violerebbe  anche  l'art.  24  Cost.,   in   quanto   si
risolverebbe «in una lesione  del  pieno  esercizio  del  diritto  di
difesa  (nel  quale  va  inclusa  anche  la  facolta'  di  richiedere
l'accesso a riti alternativi)».  Sussisterebbe  anche  la  violazione
dell'art. 111 Cost., essendo pregiudicato il  diritto  a  un  «giusto
processo (inteso come diritto  ad  una  scelta  del  rito  pienamente
consapevole, assunta in base alla previsione ed alla ponderazione  di
rischi connessi alla possibilita' di previamente valutare le  opzioni
offerte e ad una ordinata, corretta e fisiologica successione di atti
processuali)». 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, e ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili e
comunque non fondate. 
    La  difesa  dello  Stato   sottolinea   la   natura   ambivalente
dell'istituto,   che,   riflettendosi   nella   duplice   disciplina,
sostanziale  e  processuale,  aveva  creato  incertezze   sulla   sua
applicabilita' ai processi pendenti nei quali fosse stato gia'  stato
dichiarato aperto il dibattimento,  inducendo  la  giurisprudenza  di
merito ad adottare soluzioni opposte. 
    L'Avvocatura generale ritiene che  entrambe  le  soluzioni  siano
plausibili. In particolare, quella  che,  in  base  al  principio  di
diritto processuale "tempus regit actum", esclude l'applicazione  del
nuovo istituto ai procedimenti pendenti nei quali sia  gia'  avvenuta
l'apertura del dibattimento, sarebbe costituzionalmente  legittima  e
costituirebbe il frutto di una scelta riservata  al  legislatore  nel
ragionevole  esercizio  della   sua   discrezionalita'   in   materia
processuale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 28 ottobre 2014 (r.o. n. 260 del 2014),  il
Tribunale  ordinario  di  Torino,  in  composizione  monocratica,  ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117,  primo  comma,
della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  7  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in  avanti
«CEDU»), questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  464-bis,
comma 2, del codice di procedura penale,  «nella  parte  in  cui,  in
assenza di una  disciplina  transitoria,  analoga  a  quella  di  cui
all'art. 15-bis, co. 1 della legge 11 agosto 2014, n.  118,  preclude
l'ammissione all'istituto  della  sospensione  del  procedimento  con
messa alla prova degli imputati di processi pendenti in primo  grado,
nei quali la dichiarazione di apertura  del  dibattimento  sia  stata
effettuata prima dell'entrata in vigore della legge 67/2014». 
    Ad avviso del giudice a quo, sarebbe violato l'art. 3  Cost.,  in
quanto la norma impugnata, individuando un «discrimine unico», valido
tanto  per  i  processi  nuovi  quanto  per  quelli  gia'  in  corso,
disciplina  in  modo   identico   situazioni   nettamente   difformi,
consentendo solo agli imputati dei primi di aver  accesso  al  nuovo,
piu' favorevole, istituto. 
    Sarebbe  violato  anche  l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,   in
relazione all'art. 7 della CEDU,  in  quanto,  rispetto  ai  processi
pendenti in primo grado per i quali la preclusione era gia'  maturata
al momento dell'entrata in vigore della nuova  legge,  la  deroga  al
principio della retroattivita' della lex mitior non sarebbe  sorretta
da una sufficiente ragione giustificativa. 
    Inoltre, la norma impugnata contrasterebbe con l'art.  24  Cost.,
risolvendosi «in una lesione  del  pieno  esercizio  del  diritto  di
difesa  (nel  quale  va  inclusa  anche  la  facolta'  di  richiedere
l'accesso a riti alternativi)». 
    Si  configurerebbe,  infine,  la  lesione  dell'art.  111  Cost.,
venendo pregiudicato «il diritto ad essere sottoposto  ad  un  giusto
processo (inteso come diritto  ad  una  scelta  del  rito  pienamente
consapevole, assunta in base alla previsione ed alla ponderazione  di
rischi connessi alla possibilita' di previamente valutare le  opzioni
offerte e ad una ordinata, corretta e fisiologica successione di atti
processuali)». 
    2.- Le questioni non sono fondate. 
    2.1.- L'istituto della sospensione  del  procedimento  con  messa
alla prova degli adulti e' stato introdotto con la  legge  28  aprile
2014, n. 67 (Deleghe al Governo in  materia  di  pene  detentive  non
carcerarie e di riforma del sistema  sanzionatorio.  Disposizioni  in
materia di sospensione del procedimento con messa alla  prova  e  nei
confronti degli irreperibili). La messa alla  prova  comporta,  oltre
alla tenuta da parte dell'imputato di condotte volte all'eliminazione
delle conseguenze dannose o pericolose derivanti  dal  reato  e,  ove
possibile, al  risarcimento  del  danno,  l'affidamento  al  servizio
sociale con un particolare programma. La concessione della messa alla
prova e' inoltre subordinata alla prestazione di lavoro  di  pubblica
utilita' (art. 168-bis del codice  penale).  L'esito  positivo  della
prova «estingue il reato per  cui  si  procede»  (art.  168-ter  cod.
pen.). 
    Il nuovo istituto  ha  effetti  sostanziali,  perche'  da'  luogo
all'estinzione del reato, ma e' connotato da un'intrinseca dimensione
processuale, in quanto consiste in un  nuovo  procedimento  speciale,
alternativo al giudizio, nel corso del quale il  giudice  decide  con
ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento  con  messa
alla prova. 
    La norma impugnata stabilisce i termini entro i quali, a pena  di
decadenza, l'imputato  puo'  formulare  la  richiesta:  sono  termini
diversi, articolati secondo le sequenze procedimentali dei vari riti.
Nel procedimento con citazione diretta, oggetto del giudizio  a  quo,
la richiesta puo' essere proposta fino alla dichiarazione di apertura
del dibattimento. 
    2.2.- Il giudice rimettente  ha  denunciato  in  primo  luogo  la
violazione dell'art. 3 Cost., a causa «del differente trattamento  di
soggetti che - versando nelle medesime condizioni  sostanziali  -  si
trovino al momento  dell'entrata  in  vigore  della  nuova  legge  in
diverse fasi del processo di primo grado.  Infatti,  il  legislatore,
individuando un discrimine unico valido tanto per  i  processi  nuovi
quanto per i processi gia' in corso, ha disciplinato in modo identico
situazioni nettamente difformi, consentendo unicamente agli  imputati
dei primi di aver accesso al nuovo, piu' favorevole, istituto». 
    Con il riferimento  alle  «medesime  condizioni  sostanziali»  il
giudice  rimettente  vuole  inferire,  da  queste  e  dagli   effetti
sostanziali del nuovo istituto, l'illegittimita' della sua disciplina
processuale, per la mancanza di una norma transitoria che ne consenta
l'applicazione in base a una richiesta  formulata,  nei  processi  in
corso, anche dopo l'apertura del dibattimento. 
    In una prospettiva processuale pero' ben si giustifica la  scelta
legislativa di parificare la disciplina del termine per la richiesta,
senza distinguere tra processi in corso e  processi  nuovi.  E'  allo
stato del processo che il legislatore ha inteso  fare  riferimento  e
sotto questo aspetto ben puo' dirsi che ha trattato  in  modo  uguale
situazioni processuali uguali. 
    Il  termine  entro  il  quale  l'imputato  puo'   richiedere   la
sospensione del processo con  messa  alla  prova  e'  collegato  alle
caratteristiche e alla funzione dell'istituto, che e' alternativo  al
giudizio ed e' destinato ad avere un  rilevante  effetto  deflattivo.
Consentire, sia pure in via transitoria, la richiesta nel  corso  del
dibattimento, anche dopo che il giudizio si e' protratto  nel  tempo,
eventualmente con la partecipazione della parte civile  (che  avrebbe
maturato una legittima aspettativa alla  decisione),  significherebbe
alterare in modo rilevante il procedimento, e il non averlo fatto non
giustifica alcuna censura riferibile all'art. 3 Cost. 
    La preclusione lamentata dal giudice rimettente dipende solo  dal
diverso stato dei processi che la subiscono e questa  Corte  ha  gia'
avuto occasione  di  affermare  che  il  legislatore  gode  di  ampia
discrezionalita' nello stabilire la  disciplina  temporale  di  nuovi
istituti processuali o delle  modificazioni  introdotte  in  istituti
gia'  esistenti,  sicche'  le  relative   scelte,   ove   non   siano
manifestamente   irragionevoli,   si   sottraggono   a   censure   di
illegittimita' costituzionale (ordinanze n. 455 del 2006 e n. 91  del
2005). 
    Una questione analoga si  e'  posta  in  passato  per  il  regime
transitorio del giudizio abbreviato,  regolato  dall'art.  247  delle
norme di attuazione, di coordinamento e  transitorie  del  codice  di
procedura penale, approvate con decreto legislativo 28  luglio  1989,
n.  271,  e  questa  Corte  in  quell'occasione,  tra   l'altro,   ha
considerato che «poiche'  lo  scopo  dell'istituto  del  procedimento
abbreviato e' quello  di  consentire  la  sollecita  definizione  del
giudizio, escludendo la fase dibattimentale, e' del  tutto  razionale
che, per i reati pregressi  e  per  i  procedimenti  in  corso,  tale
istituto sia stato reso applicabile  soltanto  quando  il  suo  scopo
possa essere ugualmente perseguito, e cioe' quando non si sia  ancora
giunti al dibattimento». La Corte ha  aggiunto:  «Non  e',  pertanto,
producente il confronto fra imputati per i quali il dibattimento  sia
stato o non sia stato ancora aperto  proprio  perche'  si  tratta  di
situazioni oggettivamente diverse; l'apertura del dibattimento  rende
irrazionale l'applicabilita' del giudizio  abbreviato»  (sentenza  n.
277 del 1990). 
    Uguali  considerazioni  possono   farsi   rispetto   alla   norma
impugnata, sicche' risulta esclusa qualsiasi violazione  dell'art.  3
Cost. 
    2.3.- Secondo il giudice  rimettente,  la  mancanza  della  norma
transitoria   di   cui   si   vorrebbe   l'introduzione,    impedendo
l'applicazione retroattiva di una norma  penale  di  favore,  sarebbe
pure in  contrasto  «con  il  principio  di  rango  costituzionale  -
attraverso il parametro interposto di cui all'art. 117 Cost., sancito
dall'art. 7 C.E.D.U. (cfr. sentenza  della  Corte  EDU  17  settembre
2009, Scoppola c. Italia resa dalla  Grande  Camera  della  Corte  di
Strasburgo) - della retroattivita' della lex mitior». 
    Il giudice rimettente pero' non considera che la  preclusione  di
cui  lamenta  gli  effetti  e'  conseguenza  non  della  mancanza  di
retroattivita' della norma penale ma  del  normale  regime  temporale
della norma processuale, rispetto alla quale il riferimento  all'art.
7 della CEDU risulta fuori luogo. 
    Il principio di retroattivita' si riferisce al  rapporto  tra  un
fatto  e  una  norma  sopravvenuta,  di  cui   viene   in   questione
l'applicabilita',  e   nel   caso   in   oggetto,   a   ben   vedere,
l'applicabilita' e dunque la  retroattivita'  della  sospensione  del
procedimento con messa alla prova non e' esclusa, dato che  la  nuova
normativa si applica anche ai reati commessi prima della sua  entrata
in vigore. 
    L'art. 464-bis cod. proc. pen., nella parte  impugnata,  riguarda
esclusivamente il processo ed e' espressione  del  principio  "tempus
regit actum". Il principio potrebbe essere derogato  da  una  diversa
disciplina transitoria,  ma  la  mancanza  di  questa  non  e'  certo
censurabile in forza dell'art. 7 della CEDU. 
    E' da aggiungere che, come questa Corte ha gia'  avuto  occasione
di affermare, la Corte europea dei diritti dell'uomo,  ritenendo  che
il principio di retroattivita' della  legge  penale  piu'  favorevole
«sia un corollario di quello di  legalita',  consacrato  dall'art.  7
della CEDU, ha fissato dei limiti  al  suo  ambito  di  applicazione,
desumendoli  dalla  stessa  norma  convenzionale.  Il  principio   di
retroattivita' della lex  mitior,  come  in  generale  "le  norme  in
materia di retroattivita' contenute nell'art. 7  della  Convenzione",
concerne secondo la Corte le sole  "disposizioni  che  definiscono  i
reati e le pene che li reprimono" (decisione 27 aprile 2010, Morabito
contro Italia;  nello  stesso  senso,  sentenza  17  settembre  2009,
Scoppola contro Italia)». Percio' «e' da ritenere che il principio di
retroattivita'  della  lex  mitior  riconosciuto   dalla   Corte   di
Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la
pena,  mentre  sono  estranee  all'ambito  di  operativita'  di  tale
principio, cosi' delineato, le ipotesi in  cui  non  si  verifica  un
mutamento, favorevole al reo, nella valutazione  sociale  del  fatto,
che  porti  a  ritenerlo  penalmente  lecito  o  comunque  di  minore
gravita'» (sentenza n. 236 del 2011). 
    In un caso in cui era contestato il  termine  per  richiedere  il
giudizio abbreviato previsto  dall'art.  4-ter  del  decreto-legge  7
aprile 2000, n. 82 (Modificazioni  alla  disciplina  dei  termini  di
custodia cautelare nella fase del giudizio  abbreviato),  convertito,
con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 5  giugno  2000,
n. 144, la Corte di Strasburgo ha distinto le  norme  sostanziali  da
quelle processuali che disciplinano tale giudizio e  ha  escluso  che
queste ultime potessero comportare la violazione degli artt.  6  e  7
della CEDU. Secondo la Corte, «Poiche' la  modificazione  legislativa
denunciata dal ricorrente [aveva] riguardato una norma di  procedura,
salvo il caso di arbitrarieta', niente nella Convenzione impediva  al
legislatore italiano di regolamentare la sua applicazione ai processi
in  corso  al  momento  della  sua  entrata  in  vigore».   Piu'   in
particolare, «poiche' il giudizio abbreviato ha come scopo di evitare
il dibattimento e di decidere sulla fondatezza delle accuse in  esito
a una udienza in camera di consiglio, non  si  [poteva]  rimproverare
alle autorita' di avere limitato l'applicazione delle nuove modalita'
di accesso a questa procedura semplificata ai soli  casi  in  cui  il
dibattimento pubblico non avesse avuto ancora luogo»  (Corte  europea
dei diritti dell'uomo,  sentenza  27  aprile  2010,  Morabito  contro
Italia). 
    Il caso oggetto della ricordata decisione e' analogo a quello cui
si riferisce la questione  di  legittimita'  costituzionale  e  dalla
stessa giurisprudenza della Corte  europea  emerge  in  modo  limpido
l'insostenibilita' dell'asserita violazione dell'art. 7 della CEDU. 
    2.4.-  Le  ragioni  precedentemente  indicate  a  conferma  della
legittimita' costituzionale  della  norma  impugnata  fanno  apparire
prive di fondamento anche le questioni relative alla violazione degli
artt. 24 e 111 Cost.,  sollevate  nell'erroneo  presupposto  che  nei
processi in corso al  momento  dell'entrata  in  vigore  della  norma
impugnata dovrebbe riconoscersi all'imputato,  come  espressione  del
diritto di difesa e del diritto a un giusto processo, la facolta'  di
scegliere il nuovo procedimento speciale, del quale, invece, come  si
e' visto, e' stata legittimamente esclusa l'applicabilita'. 
    Deve  quindi  concludersi  che  le  questioni   di   legittimita'
costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Torino sono prive
di fondamento.