ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  96,  comma
3, del codice di procedura civile, promosso dal  Tribunale  ordinario
di Firenze nel procedimento vertente tra G.A.L.A. di Massimo Lari sas
e la Banca Sai spa Capogruppo bancario Banca Sai, con  ordinanza  del
16 dicembre 2014, iscritta al n. 331 del registro  ordinanze  2015  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  1,  prima
serie speciale, dell'anno 2016. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 1°  giugno  2016  il  Giudice
relatore Mario Rosario Morelli. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo,
l'adito Tribunale ordinario di Firenze -  premesso  che,  in  ragione
della manifesta infondatezza e dello  scopo  puramente  dilatorio  di
quella  opposizione,  ricorrevano  i  presupposti  per  la   condanna
dell'opponente al pagamento, oltre che delle  spese  di  lite,  della
ulteriore «somma equitativamente determinata»  di  cui  all'art.  96,
terzo comma, del  codice  di  procedura  civile  -  ha  ritenuto,  di
conseguenza, rilevante, ed ha per cio' sollevato, con l'ordinanza  in
epigrafe, questione di  legittimita'  costituzionale  della  predetta
disposizione, «per contrasto con gli  articoli  3,  24  e  111  della
Costituzione nella parte  in  cui  dispone:  "In  ogni  caso,  quando
pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91,  il  giudice,  anche
d'ufficio,  puo'  altresi'  condannare  la   parte   soccombente   al
pagamento, a favore della controparte, di una  somma  equitativamente
determinata", anziche' a favore dell'Erario». 
    Secondo il rimettente, il censurato art. 96,  terzo  comma,  cod.
proc. civ. avrebbe,  infatti,  introdotto  nel  processo  civile  una
fattispecie a carattere sanzionatorio,  che  si  discosterebbe  dalla
struttura tipica dell'illecito civile, propria della  responsabilita'
aggravata  di  cui  ai  primi  due  commi  del  medesimo  art.  96  e
confluirebbe, invece, in quella, del tutto diversa, delle  cosiddette
"condanne  afflittive",  avendo  come  scopo  quello  di  scoraggiare
l'abuso del  processo,  a  tutela  dell'interesse  pubblico  al  buon
andamento della giurisdizione civile e  al  giusto  processo  di  cui
all'art. 111 Cost. Per cui, ne inferisce lo stesso Tribunale, sarebbe
ragionevole - ed in tal senso auspica  che  questa  Corte  emendi  la
disposizione impugnata - «che della condanna derivante dalla  lesione
dell'interesse dello Stato al giusto processo, che  danneggia  tutti,
si avvantaggi lo stesso Stato  e  la  comunita'  nazionale  che  Esso
rappresenta e garantisce con la giurisdizione», invece che  la  parte
privata che ha gia' altri strumenti a sua  disposizione  per  reagire
all'abuso della  controparte  che  diriga  l'offesa  anche  nei  suoi
confronti. 
    2.-  E'  intervenuto,  in  questo  giudizio,  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri, per il tramite dell'Avvocatura generale dello
Stato, che, in via preliminare, ha eccepito l'inammissibilita'  della
questione, per carente specificazione dei profili di contrasto  della
disposizione censurata con i parametri evocati; e, in  subordine,  ne
ha contestato la fondatezza. 
    Secondo la difesa dello Stato, l'art. 96, terzo comma, cod. proc.
civ.  sanzionerebbe,  infatti,  un  comportamento   che   «lede   sia
l'interesse all'efficienza della giustizia  civile,  sia  quello  del
privato a non essere coinvolto in una lite  temeraria».  Per  cui  il
fatto che il pagamento della somma in questione non  sia  disposto  a
favore dell'Erario non costituirebbe «una irragionevole estensione  a
favore della  parte  privata  di  una  misura  ristoratoria  posta  a
presidio del solo interesse  pubblico,  quanto  piuttosto  una  delle
possibili scelte del legislatore,  non  costituzionalmente  vincolato
nella sua discrezionalita', nell'individuare la parte beneficiaria di
una misura che sanziona un comportamento processuale  abusivo  e  che
funge da deterrente al ripetersi di siffatte condotte». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Viene all'esame di questa Corte la questione,  sollevata  dal
Tribunale  ordinario  di  Firenze,  di  legittimita'   costituzionale
dell'art. 96, terzo  comma,  del  codice  di  procedura  civile  «per
contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione nella parte
in cui dispone "In ogni caso, quando pronuncia sulle spese  ai  sensi
dell'articolo  91,  il  giudice,  anche  d'ufficio,   puo'   altresi'
condannare  la  parte  soccombente  al  pagamento,  a  favore   della
controparte, di una somma equitativamente  determinata",  anziche'  a
favore dell'Erario». 
    2.- Il rimettente richiama in premessa l'orientamento della Corte
di cassazione (ordinanza 11 febbraio  2014,  n.  3003),  per  cui  la
condanna,  introdotta  dalla  disposizione   censurata   «ha   natura
sanzionatoria e officiosa, sicche' essa presuppone  la  mala  fede  o
colpa grave della parte soccombente, ma non corrisponde a un  diritto
di azione della parte vittoriosa». 
    Ne desume che la correlativa funzione non sia,  pertanto,  quella
risarcitoria  -  del  danno  subito  (e   comprovato)   dalla   parte
vittoriosa, (funzione questa) assolta dalle disposizioni  di  cui  ai
primi due commi dello stesso art. 96 cod. proc. civ.- bensi'  quella,
ulteriore, di «presidiare il  processo  civile  dal  possibile  abuso
processuale [e] di soddisfare l'interesse pubblico al buon  andamento
della giurisdizione». Atteso che  non  potrebbe  contestarsi  che  il
«promuovere  azioni  (o   resistervi   con   difese)   manifestamente
emulative,  vada  a  costituire  una  massa  di  giudizi  del   tutto
evitabili, addirittura indebiti se riguardati nell'ottica del  giusto
processo e della sua ragionevole durata,  che  costituiscono  a  loro
volta un potente fattore di rallentamento  delle  altre  controversie
non altrettanto banalmente caratterizzate». 
    Il rimettente trae da cio', quindi, argomento per  sostenere  che
«Se,  mediante  lo  strumento  della  sanzione  officiosa  dell'abuso
processuale, tale e di tale rango e' l'interesse presidiato dall'art.
96, comma 3, [...] non si vede perche' la  medesima  disposizione  di
legge preveda la condanna ad una  somma  equitativamente  determinata
della  parte  soccombente  a  favore  della  controparte   vittoriosa
anziche' all'Erario, dal momento che la parte  privata  risulta  gia'
munita di adeguata protezione per il risarcimento del  danno  che  la
condotta abusiva del  contraddittore  abbia  ad  essa  arrecato,  cui
corrisponde uno specifico diritto di azione». 
    La disposizione impugnata evidenzierebbe, dunque, un  profilo  di
«intrinseca  irragionevolezza  ed  arbitrarieta'  nella   modulazione
dell'istituto processuale», al quale potrebbe, appunto, porsi rimedio
solo con la richiesta pronuncia  (che  il  giudice  a  quo  definisce
"additiva", ma che sarebbe in realta') "sostitutiva", che ne dichiari
l'illegittimita' costituzionale nella parte in cui la condanna di che
trattasi  e'  disposta  «a  favore  della  controparte»  (vittoriosa)
«anziche' a favore dell'Erario». 
    3.- Alla stregua  di  quanto  precede  (e  per  quanto  anche  in
narrativa riferito) e' innegabile che l'ordinanza di rimessione abbia
adeguatamente  argomentato  il  vulnus  che  sospetta  arrecato,  dal
denunciato art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., agli artt. 3 e 111,
in connessione  all'art.  24  Cost.,  in  ragione  della  prospettata
irragionevolezza della scelta legislativa  che,  seppur  direttamente
pertinente   al   parametro   dell'art.    3    Cost.,    inciderebbe
indirettamente, a  suo  avviso,  anche  sugli  obiettivi  del  giusto
processo di cui agli artt. 111 e 24 Cost. 
    L'eccezione di inammissibilita' della questione, formulata  dalla
difesa  dello  Stato  adducendo  un  difetto  di  motivazione  a  tal
riguardo, non e', percio', suscettibile di accoglimento. 
    4.- Nel merito la questione non e' fondata. 
    4.1.- L'impugnato terzo comma e' stato, come  e'  noto,  aggiunto
all'art. 96  cod.  proc.  civ.  (sotto  la  rubrica  «Responsabilita'
aggravata») dall'art. 45, comma 12, della legge 18 giugno 2009, n. 69
(Disposizioni per  lo  sviluppo  economico,  la  semplificazione,  la
competitivita' nonche' in materia di processo civile). 
    Nel disegno di legge presentato nella precedente legislatura,  la
condanna della parte soccombente era stata, appunto,  correlata  alle
fattispecie di responsabilita' aggravata con l'espresso richiamo alle
ipotesi previste dai primi due commi dell'art. 96 cod. proc. civ. Nel
progetto poi tradottosi nella legge n. 69 del 2009  e'  stato  invece
soppresso  il  collegamento  con  i  primi  due  commi  della  norma,
prevedendosi, inoltre, che la condanna  (raccordata  alla  «pronuncia
sulle spese ai sensi dell'articolo 91») possa essere emessa «in  ogni
caso» e «anche d'ufficio». 
    L'intervento legislativo muove dalla constatazione che l'istituto
della responsabilita' aggravata, pur rappresentando  in  astratto  un
serio deterrente nei confronti delle liti temerarie  e,  quindi,  uno
strumento  efficace  di  deflazione  del  contenzioso,  nella  prassi
applicativa risultava scarsamente utilizzato a causa della  oggettiva
difficolta' della parte vittoriosa di provare il danno - segnatamente
in ordine al quantum -  derivante  dall'illecito  processuale.  Preso
atto di siffatta situazione, il legislatore, nell'intento di  frenare
l'eccesso di litigiosita'  che  affligge  il  nostro  ordinamento  ed
evitare l'instaurazione di  giudizi  meramente  dilatori,  ha  quindi
introdotto questo peculiare strumento sanzionatorio, che consente  al
giudice  di  liquidare  a  carico  della  parte  soccombente,   anche
d'ufficio, una somma ulteriore rispetto alle spese del giudizio. 
    Contestualmente all'introduzione  della  norma  in  discorso,  e'
stato abrogato il quarto comma dell'art. 385 del codice di  procedura
civile (in precedenza aggiunto dall'art. 13 del decreto legislativo 2
febbraio 2006, n. 40 recante «Modifiche al codice di procedura civile
in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica  e  di
arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della L. 14 maggio 2005,
n. 80») che - al fine di «disincentivare il ricorso  per  cassazione»
(cosi' Corte cost., ordinanza n. 435 del 2008) -  stabiliva  che  «la
Corte, anche d'ufficio, condanna, altresi', la parte  soccombente  al
pagamento, a favore della controparte, di una somma,  equitativamente
determinata non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene
che essa ha proposto il ricorso o vi  ha  resistito  anche  solo  con
colpa grave». Cio' che induce a ritenere  che  la  legge  di  riforma
abbia in tal modo voluto elevare (sia  pur  con  talune  varianti)  a
principio generale  il  meccanismo  processuale  predisposto  per  il
procedimento di cassazione,  facendolo  rifluire  in  una  disciplina
valevole per tutti i gradi di giudizio. 
    4.2.- La nuova disposizione, probabilmente anche a seguito  delle
ricordate modifiche apportate nell'iter legislativo, non e' risultata
di agevole lettura. 
    Oltre che  sui  (non  compiutamente)  definiti  suoi  presupposti
applicativi, la dottrina  e  la  giurisprudenza  di  merito  si  sono
soprattutto divise sul punto se la condanna della  parte  soccombente
contemplata  dal  comma  terzo  dell'art.  96  cod.  proc.  civ.  sia
riconducibile allo schema della  responsabilita'  aquiliana  ex  art.
2043  del  codice  civile  -  e  quindi  abbia  valenza,   anch'essa,
risarcitoria   del   danno   cagionato,   alla   controparte,   dalla
proposizione di una lite temeraria - ovvero risponda ad una  funzione
(esclusivamente o prevalentemente) sanzionatoria  delle  condotte  di
quanti, abusando del proprio  diritto  di  azione  e  di  difesa,  si
servano dello strumento processuale  a  fini  dilatori,  contribuendo
cosi' ad aggravare il volume (gia' di per se' notoriamente eccessivo)
del contenzioso e, conseguentemente,  ad  ostacolare  la  ragionevole
durata dei processi pendenti. 
    4.3.- Al riguardo, questa Corte concorda  con  la  prospettazione
del Tribunale rimettente - che  rimanda,  a  sua  volta,  all'esegesi
della Corte regolatrice - sulla natura non risarcitoria (o, comunque,
non esclusivamente tale) e,  piu'  propriamente,  sanzionatoria,  con
finalita' deflattive, della disposizione scrutinata. 
    Depongono in questo senso, oltre ai richiamati lavori preparatori
della novella, significativi elementi lessicali. 
    La norma fa, infatti, riferimento alla condanna al «pagamento  di
una  somma»,  segnando  cosi'  una  netta  differenza   terminologica
rispetto al «risarcimento dei danni», oggetto della condanna  di  cui
ai primi due commi dell'art. 96 cod. proc.  civ.  Ancorche'  inserita
all'interno del predetto art. 96, la condanna di cui all'aggiunto suo
terzo comma e' testualmente (e sistematicamente), inoltre,  collegata
al contenuto della «pronuncia sulle spese di cui all'articolo 91»;  e
la sua adottabilita' «anche  d'ufficio»  la  sottrae  all'impulso  di
parte e ne conferma, ulteriormente, la finalizzazione alla tutela  di
un interesse che  trascende  (o  non  e',  comunque,  esclusivamente)
quello della parte stessa, e si colora  di  connotati  innegabilmente
pubblicistici. 
    Puo', quindi, convenirsi con il giudice  a  quo  anche  la'  dove
conclusivamente  egli  considera   che   «la   condanna   di   natura
sanzionatoria e officiosa prevista dall'art. 96 comma  3  c.p.c.  per
l'offesa  arrecata  alla  giurisdizione,  che  deve   manifestare   e
garantire la ragionevole durata di un giusto processo, in  attuazione
di un  interesse  di  rango  costituzionale  intestato  allo  Stato»,
potrebbe "ragionevolmente" essere disposta a favore di quest'ultimo. 
    4.4.- La ragionevolezza della soluzione auspicata dal  rimettente
non comporta, pero',  la  irragionevolezza  della  diversa  soluzione
adottata dal legislatore del 2009,  e  tantomeno  ne  evidenzia  quel
livello di manifesta irragionevolezza od arbitrarieta' che unicamente
consente  il  sindacato  di  legittimita'  costituzionale  in  ordine
all'esercizio  della  discrezionalita'   legislativa   in   tema   di
disciplina di istituti processuali (ex plurimis, ordinanze n. 138 del
2012, n. 141 del 2011). 
    La motivazione, che ha indotto i redattori della novella a  porre
«a favore della  controparte»  l'introdotta  previsione  di  condanna
della parte soccombente al «pagamento della somma» in questione,  e',
infatti,  plausibilmente  ricollegabile  -  e  non  e'  mancato,   in
dottrina, chi l'ha cosi' ricollegata -  all'obiettivo  di  assicurare
una maggiore effettivita', ed una piu' incisiva efficacia deterrente,
allo  strumento  deflattivo  apprestato  da  quella   condanna,   sul
presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere
alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in  tempi  e  con
oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su di un  soggetto
pubblico. 
    L'istituto  cosi'  modulato  e'   suscettibile   di   rispondere,
peraltro,  anche  ad  una  concorrente  finalita'  indennitaria   nei
confronti della  parte  vittoriosa  (pregiudicata  anch'essa  da  una
temeraria, o comunque ingiustificata, chiamata  in  giudizio)  nelle,
non infrequenti, ipotesi in cui sia per essa difficile provare l'an o
il quantum del danno subito,  suscettibile  di  formare  oggetto  del
risarcimento di cui ai primi due commi dell'art. 96 cod. proc. civ. 
    Analoga    funzione    sanzionatoria    (e,     concorrentemente,
indennitaria)  era,  del  resto,  attribuibile  alla   condanna   del
ricorrente (o resistente) in cassazione, con  colpa  grave,  prevista
dall'abrogato art. 385  cod.  proc.  civ.  (sullo  schema  del  quale
risulta modellato il comma terzo dell'art. 96 cod. proc. civ.). E non
e' privo di rilievo che anche quella norma  riflettesse  una  opzione
del legislatore  identicamente  volta  a  porre  a  disposizione  del
giudice - id est della Corte di cassazione  -  lo  strumento  di  una
condanna   «anche   d'ufficio»   della   parte    soccombente    (che
temerariamente avesse proposto il ricorso o vi avesse  resistito)  al
pagamento di una somma, equitativamente determinata, «in favore»  pur
sempre «della controparte», e non gia' dell'Erario. 
    4.5.- La novella del 2009 - che ha, come detto, esteso,  sia  pur
con marginali varianti, a tutti i  gradi  di  giudizio  lo  strumento
deflattivo prima riferito  alla  sola  fase  di  legittimita'  -  non
presenta,  dunque,  connotati  di   irragionevolezza,   ma   -   come
correttamente osservato dalla difesa dello Stato - riflette una delle
possibili scelte del legislatore,  non  costituzionalmente  vincolato
nella sua discrezionalita', nell'individuare la parte beneficiaria di
una misura che sanziona un comportamento processuale  abusivo  e  che
funga da deterrente al ripetersi di una siffatta condotta. 
    Da qui, appunto, la non fondatezza della questione sollevata  dal
Tribunale a quo.