ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 275,  comma
4, del codice di procedura penale promosso dal Tribunale ordinario di
Roma nei procedimenti penali riuniti (n. 12621/15 e  n.  15385/15)  a
carico di C.M. e altri con ordinanza dell'11 novembre 2015,  iscritta
al n. 64 del registro ordinanze  2016  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 14,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2016. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 7 dicembre  2016  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Il  Tribunale  ordinario  di  Roma,  con  ordinanza  dell'11
novembre 2015, iscritta al n. 64  del  registro  ordinanze  2016,  ha
sollevato, in riferimento agli artt.  3,  13,  24,  31  e  111  della
Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 275,
comma 4, del codice di procedura penale, «nella parte in cui  prevede
che non possa essere disposta o mantenuta la  custodia  cautelare  in
carcere nei confronti di imputati,  detenuti  per  gravi  reati,  che
siano genitori di prole solo di eta' non superiore a sei anni». 
    1.1.- Le questioni  di  legittimita'  costituzionale  sono  state
sollevate nell'ambito di due giudizi penali  riuniti,  nei  quali  si
procede nei confronti anche di G.A., madre di  una  minore,  detenuta
agli arresti domiciliari per il reato, tra gli altri, di cui all'art.
416-bis del codice penale. Il giudice a quo riferisce altresi' che il
padre della minore si trova anch'egli detenuto in custodia  cautelare
in carcere per il medesimo reato. 
    1.2.- In punto di rilevanza, il rimettente  ha  evidenziato  che,
nei confronti di G.A., l'originaria misura della  custodia  cautelare
in carcere (applicata in uno dei due processi,  laddove  nel  secondo
era stata applicata ab origine la misura degli  arresti  domiciliari)
era stata sostituita con quella degli arresti domiciliari, in ragione
della presenza di una figlia minore che, all'epoca  dell'applicazione
di tale misura piu' favorevole, non aveva ancora compiuto i sei anni. 
    L'ufficio del pubblico ministero, in data 6  novembre  2015,  sul
presupposto del compimento dei  sei  anni  di  eta'  da  parte  della
minore, ha chiesto per G.A. il ripristino della custodia cautelare in
carcere  (mentre  l'altro  genitore  rimane  detenuto   in   custodia
cautelare in carcere). 
    Secondo il giudice a quo, permangono a carico di G.A. le esigenze
che hanno  determinato  l'applicazione  della  misura  cautelare;  la
soluzione  delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale  appare
percio' pregiudiziale  all'adozione  di  una  decisione  sull'istanza
presentata dal pubblico ministero per l'inevitabile ripristino, a suo
carico, della misura della custodia cautelare in carcere. 
    1.3.-  In  punto  di  non  manifesta  infondatezza,  il   giudice
rimettente rileva che l'art. 275, comma 3, cod. proc.  pen.  prevede,
per reati di particolare gravita' (quale quello contestato  a  G.A.),
«l'obbligo della custodia cautelare in carcere», mentre  al  comma  4
sono previste le deroghe (di carattere tassativo) a tale regime e, in
particolare, quella connessa alla  presenza  di  prole  di  eta'  non
superiore ai sei anni. 
    Sulla base di tale formulazione normativa, a parere del giudice a
quo, sussisterebbe l'obbligo di ripristinare la custodia cautelare in
carcere  per  G.A.,  senza  alcuna  possibilita'  di  apprezzare   la
particolare condizione della minore, che verrebbe a trovarsi  privata
di entrambi  i  genitori,  detenuti  per  gravi  reati  nei  medesimi
procedimenti. 
    Tale   «automatismo»   non   sarebbe    conforme    al    dettato
costituzionale, in quanto contrasterebbe, in primo luogo, con  l'art.
3 Cost., stante l'ingiustificata differenziazione tra minori  di  sei
anni di eta' e soggetti di  poco  maggiori,  anche  considerando  che
l'ordinamento penitenziario assicura comunque tutela ai minori, figli
di soggetti gia' condannati in via definitiva, sino al compimento dei
dieci anni (ai sensi degli artt. 21-bis, 47-ter,  47-quinquies  della
legge  26  luglio  1975,  n.  354,  recante  «Norme  sull'ordinamento
penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative  e  limitative
della liberta'»). 
    In  secondo  luogo,  sarebbe  violato  l'art.  31   Cost.,   che,
garantendo specifica protezione all'infanzia,  intenderebbe  impedire
che la formazione del minore sia gravemente pregiudicata dall'assenza
dei genitori (assenza che, nella specie,  riguarderebbe  entrambe  le
figure genitoriali). 
    A sostegno dell'argomentazione, il giudice rimettente richiama la
Convenzione sui diritti  del  fanciullo,  fatta  a  New  York  il  20
novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in  Italia  con  legge  27
maggio 1991, n. 176, e vincolante ai sensi  dell'art.  10  Cost.,  la
quale, all'art. 3, prevede che, in tutte  le  decisioni  relative  ai
fanciulli, di competenza delle istituzioni  pubbliche  o  private  di
assistenza sociale, dei tribunali, delle autorita'  amministrative  o
degli organi legislativi, l'interesse superiore  del  fanciullo  deve
avere una considerazione preminente. 
    Ancora,  secondo  il  giudice  a  quo,  situazioni   di   «rigido
automatismo», che determinano presunzioni di carattere assoluto, sono
state  valutate  negativamente  dalla  stessa  Corte  costituzionale,
poiche' non  consentono  -  irragionevolmente  -  al  giudice  alcuna
valutazione  di  merito  in  relazione  alle  specificita'  del  caso
concreto: e' richiamata, in proposito, la sentenza n. 185 del 2015 in
tema di recidiva obbligatoria. 
    Infine, per il  giudice  rimettente,  «sembrerebbe  inoltre  lesa
l'effettivita'  dell'obbligo   di   motivazione   dei   provvedimenti
giurisdizionali previsto in via generale dall'art. 111  Cost.  e,  in
via particolare, dall'art. 13 Cost.  in  materia  de  libertate,  con
conseguenti riflessi anche sul diritto di difesa  tutelato  dall'art.
24 Cost.». 
    2.- Con atto depositato il  26  aprile  2016  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per  la  non
fondatezza delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate. 
    2.1.-  L'Avvocatura  generale  dello  Stato  evidenzia   che   la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della  custodia
cautelare in carcere a soddisfare  le  esigenze  cautelari,  prevista
dall'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., con particolare  riferimento
al delitto  di  associazione  di  tipo  mafioso,  e'  stata  ritenuta
conforme a Costituzione, in quanto, sulla base di dati di  esperienza
generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod   plerumque
accidit, la misura custodiale  carceraria  appare  l'unica  idonea  a
soddisfare le esigenze cautelari (viene richiamata la sentenza  della
Corte costituzionale n. 48 del 2015): e il  legislatore,  proprio  in
base ai dettami della giurisprudenza  costituzionale,  con  l'art.  4
della legge 16 aprile 2015, n. 47 (Modifiche al codice  di  procedura
penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge
26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita  a  persone  affette  da
handicap in situazione di gravita'), ha modificato il testo dell'art.
275, comma 3, cod. proc. pen., limitando ai reati di cui  agli  artt.
270, 270-bis e 416-bis cod.  pen.  l'operativita'  della  presunzione
assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia cautelare in
carcere. Pertanto, il dubbio di legittimita' costituzionale sollevato
in relazione agli artt. 13, 24 e 111 Cost. non sarebbe fondato. 
    Quanto all'eta' di sei anni, considerata dalla  norma  censurata,
l'Avvocatura generale dello Stato rileva che il  riferimento  a  tale
limite e' giustificato dalla circostanza che, normalmente, tale  eta'
coincide con l'assunzione, da parte dei minori, dei primi obblighi di
scolarizzazione e, conseguentemente, con l'inizio di una  progressiva
acquisizione di autonomia degli stessi. 
    La norma sospettata di incostituzionalita', dunque,  risulterebbe
essere il frutto di una scelta discrezionale del legislatore,  esente
da irragionevolezza, connotata da un non arbitrario bilanciamento tra
l'esigenza di tutela dell'interesse  del  minore  a  fruire  in  modo
continuativo dell'affetto  e  delle  cure  materne,  da  un  lato,  e
l'esigenza, pur  costituzionalmente  rilevante,  di  difesa  sociale,
dall'altro,  nell'esercizio  di  una  discrezionalita'   riconosciuta
espressamente dalla Corte costituzionale con la sentenza n.  239  del
2014. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Tribunale  ordinario  di  Roma  solleva   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma  4,  del  codice  di
procedura penale, «nella parte in cui prevede che  non  possa  essere
disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere  nei  confronti
di imputati, detenuti per gravi reati, che siano  genitori  di  prole
solo di eta' non superiore a sei anni», per violazione degli artt. 3,
13, 24, 31 e 111 della Costituzione. 
    Secondo il rimettente, la disposizione  censurata,  imponendo  il
ripristino della misura  della  custodia  cautelare  in  carcere  nei
confronti di madre di prole di eta' superiore a  sei  anni,  imputata
per uno dei reati di cui al comma 3 dell'art. 275  cod.  proc.  pen.,
impedirebbe al giudice di apprezzare la particolare condizione  della
minore, la quale, nel caso di specie, verrebbe privata di entrambi  i
genitori, detenuti per gravi reati nei medesimi procedimenti. 
    Tale  «situazione  di  automatismo»  si  porrebbe  anzitutto   in
contrasto con il  principio  di  eguaglianza  garantito  dall'art.  3
Cost., stante l'ingiustificato diverso trattamento dei minori di  sei
anni, da una parte, e dei  soggetti  di  poco  maggiori,  dall'altra,
considerando che l'ordinamento penitenziario assicura comunque tutela
ai minori, figli di soggetti gia' condannati in via definitiva,  sino
al compimento dei dieci anni. 
    Sarebbe, inoltre,  violato  l'art.  31  Cost.,  che,  assicurando
specifica  protezione  all'infanzia,  intenderebbe  impedire  che  la
formazione del minore sia gravemente  pregiudicata  dall'assenza  dei
genitori,  anche  alla  luce  della  Convenzione  sui   diritti   del
fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989,  ratificata  e  resa
esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e vincolante ai
sensi dell'art. 10 Cost. 
    Secondo il  rimettente,  vi  sarebbe  anche  una  violazione  del
principio  di   ragionevolezza,   in   considerazione   del   «rigido
automatismo» determinato da presunzioni di  carattere  assoluto,  che
non consentirebbero al giudice alcuna valutazione in  relazione  alle
specificita' del caso concreto. 
    La disposizione censurata si porrebbe, infine, in  contrasto  con
gli  artt.  13,  24  e  111  Cost.,  apparendo  «lesa  l'effettivita'
dell'obbligo  di  motivazione   dei   provvedimenti   giurisdizionali
previsto in via generale dall'art. 111 Cost. e, in  via  particolare,
dall'art. 13 Cost. in materia de libertate, con conseguenti  riflessi
anche sul diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost.». 
    2.- Le questioni non sono fondate. 
    2.1.- L'art. 275, comma  3,  secondo  periodo,  cod.  proc.  pen.
prevede che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza a  carico
dell'imputato del delitto di cui all'art. 416-bis del codice  penale,
le esigenze cautelari  siano  soddisfatte  attraverso  l'applicazione
della misura della custodia cautelare in  carcere  (e  non  di  altra
misura). Tuttavia, nel giudizio a quo,  la  presenza  di  una  figlia
infraseienne, convivente con  la  madre  imputata,  aveva  comportato
l'adozione, a favore di  quest'ultima,  della  misura  degli  arresti
domiciliari, ai sensi dell'art. 275, comma 4, cod. proc.  pen.,  che,
per la parte qui rilevante, stabilisce che non puo'  essere  disposta
ne' mantenuta la custodia  cautelare  in  carcere  (salvo  sussistano
esigenze cautelari di eccezionale rilevanza)  quando  l'imputata  sia
«madre di prole di eta' non superiore a sei anni con lei convivente». 
    Lamenta, dunque, il giudice a quo che  il  compimento  del  sesto
anno d'eta' da parte della minore richiederebbe il rispristino  della
misura custodiale in carcere e pertanto censura, evocando i parametri
costituzionali ricordati, l'irragionevole «situazione di automatismo»
derivante dall'applicazione dell'art. 275, comma 4, cod. proc.  pen.,
che impedirebbe al giudice di apprezzare  le  peculiarita'  del  caso
concreto,  caratterizzato  dalla  contemporanea  assenza   dell'altro
genitore, pure ristretto in custodia cautelare in carcere. 
    2.2.- Ragionando, a proposito della norma  censurata  (art.  275,
comma 4, cod. proc. pen.), di una «presunzione  assoluta»  ovvero  di
una «situazione di automatismo», il giudice  rimettente  ne  trae  la
conseguenza dell'impossibilita', derivante - a suo dire - dal  tenore
letterale della  disposizione,  di  compiere  una  valutazione  sulle
specificita'   del    caso    concreto,    con    asserita    lesione
dell'effettivita'  dell'obbligo  di  motivazione  dei   provvedimenti
giurisdizionali (artt. 3, 13, 24 e 111 Cost.). 
    Cosi' posta, la questione non e' fondata. 
    Infatti, l'individuazione normativa del limite dei  sei  anni  di
eta' del minore per l'applicazione del divieto di custodia  cautelare
in carcere non puo' essere accostata alle presunzioni legali assolute
che comportano l'applicazione di determinate misure o pene sulla base
di un titolo di reato, con l'effetto di impedire al giudice di tenere
conto delle situazioni concrete  o  delle  condizioni  personali  del
destinatario della misura o della pena. 
    L'automatismo  che  il  rimettente  lamenta  e',  semmai,  quello
contenuto nell'art. 275, comma  3,  cod.  proc.  pen.,  che,  laddove
sussistano esigenze cautelari, prevede - per gli imputati  di  alcuni
gravi reati, fra i quali quello di cui all'art. 416-bis cod.  pen.  -
che esse siano soddisfatte solo attraverso la custodia in carcere. E'
questa presunzione, in realta', ad impedire al giudice di valutare la
specifica idoneita' di ciascuna misura in relazione alla natura e  al
grado  delle  esigenze  cautelari.  Ma  tale  presunzione  e'   stata
considerata non irragionevole  da  questa  Corte,  poiche'  i  tratti
tipici della criminalita' mafiosa (qualificata da  forte  radicamento
territoriale, fitta rete di collegamenti personali, alta capacita' di
intimidazione) forniscono un fondamento  razionale  alla  valutazione
legislativa - basata su dati di esperienza  generalizzata,  riassunti
nella formula dell'id quod plerumque accidit - di  adeguatezza  della
sola misura custodiale carceraria (sentenze n. 48 del 2015, n. 57 del
2013 e n. 265 del 2010; ordinanza n. 450 del 1995). 
    La disposizione  espressamente  censurata,  cioe'  il  successivo
comma 4 dell'art. 275 cod. proc. pen., invece, contiene un divieto di
applicazione della custodia cautelare in carcere, riferito ad  alcune
categorie  di  imputati  (tra  i  quali  la  madre  di  figli  minori
infraseienni  con  lei  conviventi);  un  divieto,  si  osservi,   di
carattere generale, che prescinde, cioe', dal titolo di reato  e  non
e' riferibile, pertanto, alle sole ipotesi considerate all'art.  275,
comma 3, cod. proc. pen. Soprattutto, non si e' in  presenza  di  una
«situazione di automatismo», ma, al contrario, di una deroga (sia pur
soggetta a condizioni e limiti) ai criteri che i commi precedenti del
medesimo articolo  dettano  in  tema  di  applicazione  delle  misure
cautelari e, quindi, anche alla presunzione legale stabilita al comma
precedente (in questo senso e'  la  giurisprudenza  di  legittimita':
Corte di cassazione, sezione sesta penale, 30 aprile-4  luglio  2014,
n. 29355; Corte di cassazione, sezione seconda  penale,  16-28  marzo
2012, n.  11714;  Corte  di  cassazione,  sezione  prima  penale,  16
gennaio-6 febbraio 2008, n. 5840). 
    3.-  Il  rimettente  non  appunta,  in  ogni  caso,  le   proprie
considerazioni critiche sul comma 3 dell'art. 275  cod.  proc.  pen.:
cio'  che  contesta,  in   realta',   e'   proprio   l'individuazione
legislativa del limite dei sei  anni  di  eta',  oltre  il  quale  e'
impedita l'applicazione di misure diverse dalla custodia cautelare in
carcere e non sarebbe consentita una valutazione del caso concreto. 
    Da questo punto di vista, e' posta esplicitamente in discussione,
alla luce degli artt. 3 e 31 Cost., la valutazione che il legislatore
ha compiuto in astratto, bilanciando le esigenze di  difesa  sociale,
da un lato, e l'interesse del minore, dall'altro. 
    3.1.- Secondo la giurisprudenza di  legittimita',  la  ratio  del
divieto  legislativo   di   applicazione   della   misura   cautelare
carceraria, in presenza di minori di  eta'  inferiore  ai  sei  anni,
risiede  nella  necessita'  di  salvaguardare  la   loro   integrita'
psicofisica, dando prevalenza alle esigenze genitoriali ed  educative
su quelle cautelari (entro i limiti precisati), garantendo  cosi'  ai
figli  l'assistenza  della  madre,  in  un  momento   particolarmente
significativo e qualificante della loro crescita e formazione  (Corte
di cassazione, sezione sesta penale, 23 giugno-1° settembre 2015,  n.
35806; Corte di cassazione, sezione sesta penale, 30 aprile-4  luglio
2014, n.  29355;  Corte  di  cassazione,  sezione  prima  penale,  12
dicembre 2013-31 gennaio 2014, n. 4748; Corte di cassazione,  sezione
quinta penale, 15-27 febbraio 2008, n. 8636). 
    Il divieto in questione e' dunque frutto del giudizio  di  valore
operato dal legislatore, il quale stabilisce che, nei termini  e  nei
limiti  ricordati,  sulla  esigenza  processuale  e   sociale   della
coercizione  intramuraria  deve  prevalere  la  tutela  di  un  altro
interesse di rango costituzionale, quello correlato  alla  protezione
costituzionale dell'infanzia, garantita dall'art. 31 Cost.  (sentenze
n. 239 del 2014 e n. 177 del 2009; ordinanza n. 145 del 2009). 
    Il bilanciamento compiuto dal  legislatore  tra  le  esigenze  di
difesa sociale e l'interesse del minore  ha  conosciuto,  nel  tempo,
varie modulazioni, caratterizzate dal progressivo  ampliamento  della
tutela accordata a quest'ultimo. 
    Originariamente, per la parte che qui rileva, l'art.  275,  comma
4, cod. proc.  pen.,  prevedeva  non  potersi  disporre  la  custodia
cautelare in carcere, salva la sussistenza di esigenze  cautelari  di
eccezionale rilevanza, quando imputata fosse «una persona  incinta  o
che allatta la propria prole». Gia' con  l'art.  5,  comma  2,  della
legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura  penale
in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di
diritto di difesa), il confine dell'interesse del  minore  in  tenera
eta' al mantenimento di  un  rapporto  continuativo  con  una  figura
genitoriale fu spostato in avanti, e  il  comma  4  dell'articolo  in
esame venne modificato nel senso che, fatte sempre salve le  esigenze
cautelari di eccezionale rilevanza, non potesse disporsi la  custodia
cautelare in carcere quando imputati  fossero  una  donna  incinta  o
madre di prole di eta' inferiore  a  tre  anni  con  lei  convivente,
ovvero  padre,  qualora  la  madre  fosse  deceduta  o  assolutamente
impossibilitata a dare assistenza alla prole. 
    Da ultimo, e' stata la legge 21 aprile 2011, n. 62 (Modifiche  al
codice di procedura penale e alla legge 26 luglio  1975,  n.  354,  e
altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri  e  figli
minori), all'art.  1,  comma  1,  ad  aver  riformulato  il  comma  4
dell'art. 275 cod. proc.  pen.,  ampliando  ulteriormente  la  tutela
dell'interesse del minore:  attualmente,  la  custodia  cautelare  in
carcere non puo' essere ne' disposta, ne' mantenuta, quando  imputati
siano una donna incinta o madre di prole di eta' non superiore a  sei
anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia  deceduta
o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole. 
    3.2.- Questa Corte ha  gia'  avuto  modo  di  porre  in  evidenza
(sentenze n. 239 del 2014, n. 7  del  2013  e  n.  31  del  2012)  la
speciale rilevanza dell'interesse del figlio  minore  a  vivere  e  a
crescere nell'ambito della propria famiglia, mantenendo  un  rapporto
equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori,  dai  quali  ha
diritto di ricevere cura, educazione e istruzione, ed ha riconosciuto
che tale interesse e' complesso ed articolato in  diverse  situazioni
giuridiche.  Queste  ultime  trovano  riconoscimento  e  tutela   sia
nell'ordinamento costituzionale interno - che demanda alla Repubblica
di proteggere l'infanzia, favorendo gli  istituti  necessari  a  tale
scopo  (art.  31,  secondo  comma,  Cost.)  -  sia   nell'ordinamento
internazionale,  ove  vengono  in   particolare   considerazione   le
previsioni dell'art. 3, comma 1, della gia'  citata  Convenzione  sui
diritti del fanciullo e  dell'art.  24,  comma  2,  della  Carta  dei
diritti  fondamentali  dell'Unione  europea  del  7  dicembre   2000,
adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo. 
    Queste  due  ultime  disposizioni  qualificano  come  «superiore»
l'interesse del minore, stabilendo che in tutte le decisioni relative
ad esso, adottate da autorita' pubbliche o istituzioni private,  tale
interesse «deve essere considerato "preminente": precetto che  assume
evidentemente   una   pregnanza   particolare   quando   si   discuta
dell'interesse del bambino in tenera eta'  a  godere  dell'affetto  e
delle cure materne» (cosi',  in  particolare,  sentenza  n.  239  del
2014). 
    L'elevato rango  dell'interesse  del  minore  a  fruire  in  modo
continuativo dell'affetto e delle  cure  materne,  tuttavia,  non  lo
sottrae in assoluto  ad  un  possibile  bilanciamento  con  interessi
contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali  sono  certamente
quelli di difesa sociale, sottesi alle esigenze cautelari, laddove la
madre sia imputata di gravi delitti (in senso analogo, si veda ancora
la sentenza n. 239 del 2014).  Lo  dimostra,  del  resto,  la  stessa
disposizione censurata, che fa comunque salve le  esigenze  cautelari
di eccezionale rilevanza anche in presenza di un figlio minore di sei
anni. 
    In tale contesto, la disposizione non preclude in  assoluto  alla
madre, imputata per gravi reati, l'accesso alla misura cautelare piu'
idonea a garantire il suo rapporto col figlio minore in tenera  eta',
ma stabilisce che questo accesso trova un limite, laddove  il  minore
abbia  compiuto  il  sesto  anno  d'eta'.  Sulla  base  di  dati   di
esperienza, tenuti in conto nei lavori preparatori della legge n.  62
del 2011 (Senato della  Repubblica  -  Commissione  II  -  giustizia,
seduta n. 226 del 22 marzo 2011), la scelta  legislativa  appare  non
irragionevolmente giustificata dalla  considerazione  che  tale  eta'
coincide con l'assunzione, da parte del minore, dei primi obblighi di
scolarizzazione e, dunque, con l'inizio di un processo di  (relativa)
autonomizzazione rispetto alla madre. 
    3.3.- Se la descritta opera  di  bilanciamento  tra  esigenze  di
difesa sociale e interesse del minore,  compiuta  necessariamente  in
astratto dal legislatore, non appare manifestamente irragionevole  ai
sensi degli artt. 3 e 31 Cost., non puo' accogliersi la richiesta del
giudice  a  quo,  che  domanda  una  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale dell'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., «nella  parte
in cui prevede che non possa essere disposta o mantenuta la  custodia
cautelare in carcere nei confronti di imputati,  detenuti  per  gravi
reati, che siano genitori di prole solo di eta' non superiore ai  sei
anni». Con tale  addizione,  infatti,  si  vorrebbe  dare  prevalenza
assoluta all'interesse del minore, a prescindere dalla  sua  eta',  a
mantenere un rapporto  continuativo  con  la  madre,  cancellando  il
bilanciamento compiuto dal legislatore. 
    Non minori incongruita', del resto,  produrrebbe  una  soluzione,
pure suggerita  nelle  pieghe  della  motivazione  dell'ordinanza  di
rimessione, che affidasse alla discrezionalita'  del  giudice  penale
l'apprezzamento, caso per  caso,  della  particolare  condizione  del
minore. Questa soluzione - a sua volta da adottarsi al cospetto di un
minore di qualsiasi eta' - restituirebbe l'incoerente  condizione  di
un giudice penale chiamato ad applicare una misura nei  confronti  di
un  imputato,  sulla  base  di  valutazioni  relative  non   gia'   a
quest'ultimo, ma a un soggetto  terzo  -  il  minore  -  estraneo  al
processo. 
    Tutte le misure che  i  codici  penale  e  di  procedura  penale,
nonche'  la  legge  26  luglio   1975,   n.   354,   recante   «Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e   sull'esecuzione   delle   misure
privative e  limitative  della  liberta'»,  prevedono  a  tutela  dei
minori, in relazione alla condizione detentiva dei genitori, indicano
al giudice un criterio  oggettivo,  calibrato  sull'eta'  del  minore
(oltre alla disposizione oggetto del presente giudizio e a quella, ad
essa collegata,  contenuta  all'art.  285-bis  cod.  proc.  pen.,  si
ricordino gli artt. 146 e 147 cod. pen. e gli artt.  21-bis,  21-ter,
47-ter e 47-quinquies della legge  n.  354  del  1975).  E  non  puo'
trascurarsi che tali criteri oggettivi -  posti  dal  legislatore  in
riferimento alla condizione di un soggetto, il  minore,  estraneo  al
processo  e  non  coinvolto  nelle  valutazioni  sulla  pericolosita'
dell'imputato  -  costituiscono  anche  un  efficace  usbergo   della
serenita' del giudice, chiamato a delicate decisioni, in special modo
nei casi relativi a gravi delitti di criminalita' organizzata. 
    Nei casi in cui questa Corte,  attraverso  proprie  pronunce,  ha
consentito al giudice di derogare caso per caso a limiti o differenze
di eta' fissati dal legislatore - ad esempio, nel ben  diverso  campo
delle adozioni, al cospetto di previsioni legislative richiedenti una
necessaria differenza d'eta',  stabilita  in  maniera  "rigida",  fra
adottante e minore adottato - cio' ha fatto perche'  tale  differenza
d'eta' e' univocamente fissata  a  tutela  del  minore,  affinche'  i
genitori  d'adozione  non  risultino  troppo  anziani.   Sicche'   la
valutazione piu' flessibile, consentita  in  determinate  ipotesi  al
giudice, e' condotta secondo modalita' tutte  interne  al  preminente
interesse  del  minore,  senza  confliggere  con  altri,  e  opposti,
interessi di rango costituzionale (sentenze n. 283 del 1999,  n.  303
del 1996, n. 148 del 1992, n. 44 del 1990, n. 183 del 1988). 
    4.- Nella motivazione dell'ordinanza, ma non nel dispositivo,  il
Tribunale  rimettente  adombra  una  violazione  del   principio   di
eguaglianza,  rilevando  che  varie   disposizioni   dell'ordinamento
penitenziario assicurano tutela al preminente interesse  dei  minori,
figli  di  soggetti  gia'  condannati  in  via  definitiva,  sino  al
compimento dei dieci anni, e non gia' solo  fino  al  compimento  del
sesto anno d'eta', come invece prevede  l'art.  275,  comma  4,  cod.
proc. pen. 
    Anche tale questione non e' fondata. 
    Se riguardato dal solo punto di vista  del  preminente  interesse
del minore a mantenere un rapporto costante  ed  equilibrato  con  le
figure genitoriali, potrebbe suscitare perplessita' il diverso  esito
del bilanciamento compiuto dal legislatore, a seconda del titolo  che
legittima  la  restrizione  della  liberta'  personale  del  genitore
(cautelare o esecutivo). Tale preminente  interesse  del  minore,  in
effetti, resta  il  medesimo  in  entrambi  i  casi,  e  si  mantiene
egualmente inalterata la necessita' di evitare che il  "costo"  della
strategia di lotta  al  crimine  venga  traslato,  secondo  modalita'
irragionevoli,  su  un  soggetto  terzo,  estraneo   alle   attivita'
delittuose delle quali un genitore sia  imputato,  o  in  conseguenza
delle quali sia stato condannato in via definitiva (con riferimento a
condanne definitive, sentenza n. 239 del 2014). 
    Tuttavia, quello che il giudice a quo chiede e' un intervento  di
parificazione  omogeneizzante,  all'interno   di   un   bilanciamento
legislativo nel quale, se l'interesse del minore resta sempre  uguale
a se' stesso, mutano invece profondamente, a seconda  del  titolo  di
detenzione, le esigenze di difesa sociale. 
    Questa Corte, al cospetto di fattispecie analoghe a quella ora in
discussione, ha invero sempre  considerato  che  le  disposizioni  in
materia cautelare finalizzate alla tutela dell'interesse  dei  minori
figli  di  genitori  imputati   non   costituiscono   idonei   tertia
comparationis rispetto a  quelle  analoghe  dettate  dall'ordinamento
penitenziario  per  i  genitori  ristretti  a  seguito  di   condanna
(ordinanza n. 260 del 2009).  Essa  ha  anzi  sottolineato,  piu'  in
generale, la  non  assimilabilita',  ai  fini  di  uno  scrutinio  di
eguaglianza, di status  fra  loro  eterogenei,  quello  dell'imputato
sottoposto ad una misura cautelare personale, da una parte, e  quello
del condannato in fase di esecuzione della pena, dall'altra.  E,  con
riferimento alle ben diverse funzioni della  pena  e  della  custodia
cautelare in carcere (sentenza n. 25 del 1979 e ordinanza n. 145  del
2009), ha rilevato come le misure cautelari, a differenza della pena,
siano volte a presidiare i pericula libertatis, cioe' ad  evitare  la
fuga, l'inquinamento delle prove e la commissione di reati (ordinanza
n. 532 del 2002). 
    Se le rispettive  esigenze  di  difesa  sociale  sono  di  natura
profondamente diversa, ne consegue  che  il  principio  da  porre  in
bilanciamento  con  l'interesse  del  minore  e',   nei   due   casi,
differente.   E   non   raggiunge,   pertanto,   il   livello   della
irragionevolezza manifesta la circostanza che  il  bilanciamento  tra
tali distinte esigenze e l'interesse del minore  fornisca  esiti  non
coincidenti. 
    5.- Non sfugge, infine, a questa Corte la  circostanza  che,  nel
caso dal quale originano le questioni di legittimita'  costituzionale
in esame, anche il padre, oltre alla madre, risulta assente,  perche'
imputato dello stesso delitto (art. 416-bis cod. pen.) e ristretto in
custodia  cautelare  in  carcere.  Questo  elemento,   peraltro,   e'
semplicemente addotto dal giudice a  quo,  che  non  offre  ulteriori
informazioni sulla concreta condizione della minore  e,  soprattutto,
non ne trae conseguenze in ordine al tipo di pronuncia richiesta. 
    Del resto, anche a prescindere dalla mancanza  di  una  specifica
domanda calibrata sulle peculiarita' del caso,  l'assenza  del  padre
non potrebbe comunque giustificare una pronuncia che affermi, in casi
del genere, il divieto  di  disporre  o  mantenere  la  misura  della
custodia cautelare in carcere nei confronti della madre  del  minore,
pur oltre il sesto anno d'eta'. Solo in apparenza, infatti, una  tale
soluzione gioverebbe alla continuita' del rapporto tra madri imputate
e figli minori. A ben vedere, invece, e con  conseguenze  sull'intero
sistema dei benefici previsti a tutela dell'interesse del minore, una
soluzione  di  questo  tipo  risulterebbe   ispirata   al   principio
dell'indispensabile presenza di uno dei due  genitori,  giustificando
persino la custodia in carcere della madre se il padre  e'  presente,
secondo una ratio del tutto eccentrica rispetto al contesto normativo
desumibile dalle  disposizioni  del  codice  di  procedura  penale  e
dell'ordinamento penitenziario, attualmente orientate  nel  senso  di
assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre.