ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 187-sexies
del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58  (Testo  unico  delle
disposizioni in materia  di  intermediazione  finanziaria,  ai  sensi
degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), e 9, comma
6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per  l'adempimento
di obblighi derivanti dall'appartenenza  dell'Italia  alle  Comunita'
europee. Legge comunitaria 2004), promossi dalla Corte di cassazione,
con sei ordinanze del 14 settembre 2015, rispettivamente iscritte  ai
nn. 303, 304, 305, 306, 307 e  308  del  registro  ordinanze  2015  e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  51,  prima
serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visti gli atti di costituzione di A.C., E.B., O.P.,  R.L.,  M.G.,
O.S. e della Consob; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  7  febbraio  2017  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi; 
    uditi gli avvocati Giovanni Arieta e Achille Chiappetti per A.C.,
E.B., O.P., R.L., M.G., O.S., e gli avvocati Rocco Vampa e  Salvatore
Providenti per la Consob. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con sei ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 303, 304,  305,
306, 307 e 308 del 2015), la Corte  di  cassazione,  seconda  sezione
civile, ha sollevato questioni di legittimita'  costituzionale  degli
artt. 187-sexies del decreto legislativo  24  febbraio  1998,  n.  58
(Testo  unico  delle  disposizioni  in  materia  di   intermediazione
finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della  legge  6  febbraio
1996, n. 52), e 9, comma  6,  della  legge  18  aprile  2005,  n.  62
(Disposizioni    per    l'adempimento    di    obblighi     derivanti
dall'appartenenza   dell'Italia   alle   Comunita'   europee.   Legge
comunitaria 2004), in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma,  e
117, primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  7  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (d'ora  in  avanti:  CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la
legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    L'art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 e l'art. 9, comma  6,
della legge n.  62  del  2005  sono  impugnati  nella  parte  in  cui
prevedono che la confisca  per  equivalente  si  applica  anche  alle
violazioni commesse anteriormente alla  data  di  entrata  in  vigore
della legge n. 62 del 2005, che le ha depenalizzate. 
    L'art. 187-sexies del d.lgs. n.  58  del  1998,  come  introdotto
dalla legge n. 62 del 2005, prevede che, in caso di condanna  per  un
illecito amministrativo previsto dalla parte  V,  titolo  I-bis,  del
medesimo  testo  normativo,  ove  non  sia  possibile  confiscare  il
prodotto  o  il  profitto  dell'illecito  e  i  beni  utilizzati  per
commetterlo, sia disposta la confisca di  somme  di  denaro,  beni  o
altre utilita' di valore equivalente. 
    L'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 aggiunge  che  tale
regime  si  applica  anche  alle  violazioni  commesse  anteriormente
all'entrata in vigore di tale legge, con cui sono state depenalizzate
alcune  figure  di  reato  e  sono  stati  introdotti  corrispondenti
illeciti amministrativi, salvo che il  relativo  procedimento  penale
non sia gia' stato definito. 
    Il rimettente conosce di ricorsi proposti contro alcune  sentenze
con cui la Corte d'appello di Brescia ha  rigettato  l'opposizione  a
provvedimenti sanzionatori adottati dalla Commissione  nazionale  per
le societa' e la borsa (Consob).  Con  tali  provvedimenti  e'  stata
applicata la confisca per equivalente alla parte sanzionata per avere
commesso illeciti previsti dalla parte V, titolo I-bis, del d.lgs. n.
58 del 1998.  Tra  i  motivi  di  ricorso  vi  e'  la  illegittimita'
dell'applicazione di questa misura, introdotta dalla legge n. 62  del
2005, perche'  i  fatti  erano  stati  commessi  in  epoca  anteriore
all'entrata in vigore di tale legge. 
    Il giudice a quo esclude  anzitutto  di  poter  giungere  in  via
interpretativa a dichiarare tale illegittimita', dato che  l'art.  9,
comma 6, prevede espressamente la retroattivita' della  confisca  per
equivalente, salvo che nell'ipotesi in cui il procedimento penale sia
stato gia' definito, circostanza che nella specie non ricorre. 
    Cio' detto, il rimettente precisa che la misura in  questione  ha
«un contenuto sostanzialmente afflittivo», che eccede la finalita' di
prevenire la commissione di illeciti, perche' si applica «a beni  del
tutto privi di collegamento con l'illecito». Tale  conclusione,  gia'
formulata dalla giurisprudenza di legittimita' e avallata  da  questa
stessa  Corte  con  riguardo  ad  altre  figure   di   confisca   per
equivalente,  comporta  l'applicazione  dello  statuto  legale  della
sanzione penale, presidiata dall'art.  25,  secondo  comma,  Cost.  e
dall'art.  7  della  CEDU.  In  particolare,  vige,  a   parere   del
rimettente, il divieto di retroattivita',  che  l'art.  9,  comma  6,
della legge n. 62 del 2005  espressamente  infrange.  Difatti,  prima
dell'entrata in vigore di tale legge, la condanna per il reato,  oggi
depenalizzato, comportava la confisca dei  mezzi,  anche  finanziari,
utilizzati per commettere l'illecito e dei beni che  ne  costituivano
il profitto, ma non anche la confisca  per  equivalente,  ove  quella
diretta non fosse possibile. Deve  pertanto  ritenersi,  conclude  il
giudice a quo, che vi sia stata  l'applicazione  retroattiva  di  una
nuova sanzione penale e che la confisca per  equivalente  relativa  a
fatti commessi anteriormente alla legge n.  62  del  2005,  che  l'ha
introdotta, leda gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117,  primo  comma
Cost., quest'ultimo in riferimento all'art. 7 della CEDU. 
    2.- Si e' costituita  in  giudizio  la  Consob,  gia'  parte  del
processo  principale,  chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata
inammissibile, e, nel merito, non fondata. 
    Sussisterebbe un difetto di rilevanza, perche' il rimettente  non
avrebbe indicato il rapporto tra le norme impugnate e  i  motivi  del
ricorso per cassazione. 
    Nel merito la Consob contesta che  la  confisca  per  equivalente
prevista dall'impugnato art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 sia
una sanzione penale, anziche' una misura  di  sicurezza  soggetta  al
principio tempus regit  actum  enunciato  dall'art.  200  del  codice
penale. 
    Ne' il carattere sanzionatorio  della  confisca  per  equivalente
potrebbe desumersi  dalla  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, richiamata dallo stesso rimettente,  dato  che  la
sentenza  4  marzo  2014,  Grande  Stevens  contro  Italia,   avrebbe
affermato la natura penale delle sanzioni amministrative,  pecuniarie
e interdittive, previste dal d.lgs. n. 58  del  1998,  ma  non  della
confisca. 
    Del resto, prosegue la Consob, la giurisprudenza della Corte EDU,
applicando a misure estranee al sistema penale nazionale le  garanzie
proprie della pena, amplierebbe l'area del diritto penale  e  sarebbe
percio' difficilmente conciliabile con il principio costituzionale di
stretta legalita'. 
    La Consob  inoltre  sostiene  che  neppure  se  la  confisca  per
equivalente avesse natura penale sarebbe stato violato il divieto  di
retroattivita', perche' vi sarebbe stato un fenomeno  di  successione
di leggi nel tempo, con l'applicazione di quella piu' favorevole.  In
particolare  la  confisca   per   equivalente   andrebbe   apprezzata
unitamente alla depenalizzazione del reato, con la conseguenza che in
ogni caso la legge n. 62 del 2005, che l'ha introdotta, avrebbe  dato
luogo a un trattamento sanzionatorio piu' favorevole del  precedente,
che prevedeva la pena detentiva. 
    In altri termini, secondo la Consob, «la valutazione della natura
"sfavorevole" della "nuova" legge repressiva implica un raffronto del
complessivo trattamento punitivo discendente dalle leggi  succedutesi
nel  tempo,  e  non  certo  di  singole  misure».  Ne   conseguirebbe
l'irrilevanza della circostanza che la confisca per  equivalente  non
fosse prevista al tempo della commissione del fatto, posto che  essa,
quale legge piu' favorevole, subentrerebbe a un regime  sanzionatorio
piu' gravoso. 
    3.- Nell'imminenza dell'udienza pubblica, la Consob ha depositato
in ciascun giudizio memorie di  analogo  contenuto  insistendo  sulle
conclusioni gia' formulate. 
    In  particolare  osserva  che  l'accoglimento   della   questione
realizzerebbe «un regime di diritto transitorio che si discosterebbe,
in modo irragionevole, sia dal regime precedente  (sanzioni  penali),
sia da quello successivo  (misure  amministrative  comprensive  della
cosiddetta "confisca per equivalente")». 
    4.- Si sono costituite in giudizio e hanno depositato memorie  di
analogo contenuto le parti ricorrenti nei giudizi a quibus, chiedendo
l'accoglimento della questione. 
    Dopo   aver   svolto   ampi   riferimenti   alla   giurisprudenza
costituzionale ed europea, le parti osservano  che  la  confisca  per
equivalente non puo' ritenersi  una  misura  di  sicurezza,  «se  non
avvallando  la  tecnica  normativa  nota   come   la   "frode   delle
etichette"». Difatti  questa  confisca  sarebbe  priva  di  finalita'
preventiva. 
    Inoltre non sarebbe neppure possibile confrontare  i  trattamenti
sanzionatori previsti prima e dopo la depenalizzazione,  giungendo  a
ritenere  meno  afflittivo  il  secondo  di  essi,  «in   quanto   la
depenalizzazione  trae  origine  dalla  valutazione  da   parte   del
legislatore della minore gravita'  degli  illeciti  che  e'  tale  da
escludere l'applicazione di sanzioni penali. Pretendere  di  fare  un
raffronto tra i due trattamenti e' del tutto irragionevole perche' in
sostanza  finisce  per  negare   la   differenziazione   voluta   dal
legislatore». La questione dunque non consisterebbe nel paragonare  i
trattamenti sanzionatori ma nel riconoscere la natura punitiva  della
confisca  per  equivalente,  introdotta  dalla  normativa  impugnata,
impedendone l'applicazione retroattiva. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte di  cassazione,  seconda  sezione  civile,  con  sei
ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 303, 304, 305, 306, 307  e  308
del 2015), ha  sollevato  questioni  di  legittimita'  costituzionale
degli artt. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio  1998,  n.
58 (Testo unico delle  disposizioni  in  materia  di  intermediazione
finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della  legge  6  febbraio
1996, n. 52), e 9, comma  6,  della  legge  18  aprile  2005,  n.  62
(Disposizioni    per    l'adempimento    di    obblighi     derivanti
dall'appartenenza   dell'Italia   alle   Comunita'   europee.   Legge
comunitaria 2004), in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma,  e
117, primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  7  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (d'ora  in  avanti:  CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la
legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    L'art. 187-sexies del d.lgs n. 58 del 1998 e l'art. 9,  comma  6,
della legge n.  62  del  2005  sono  impugnati  nella  parte  in  cui
prevedono che la confisca  per  equivalente  si  applica  anche  alle
violazioni commesse anteriormente alla  data  di  entrata  in  vigore
della legge n. 62 del 2005, che le ha depenalizzate. 
    Considerata l'identita' delle questioni  i  giudizi  meritano  di
essere riuniti per una decisione congiunta. 
    2.- Davanti al giudice a quo sono impugnate  delle  sentenze  con
cui una corte d'appello ha rigettato le opposizioni  proposte  contro
l'applicazione, da parte della Commissione nazionale per le  societa'
e la borsa (Consob), delle sanzioni amministrative  di  cui  all'art.
187-bis,  comma  4,  del  d.lgs.  n.  58  del  1998  per  l'abuso  di
informazioni privilegiate. 
    I fatti sono stati commessi quando  erano  previsti  dalla  legge
come reato, e a tale titolo erano sanzionati dall'art. 180, comma  2,
del d.lgs. n. 58 del 1998 con la pena della  reclusione  fino  a  due
anni e della multa da venti a seicento milioni di lire,  nonche'  con
la confisca diretta dei mezzi utilizzati per commettere  il  reato  e
dei beni che ne costituivano il profitto. 
    In seguito la condotta e' stata depenalizzata dall'art. 9,  comma
2, lettera a), della legge  n.  62  del  2005,  che  contestualmente,
riformulando l'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, ne ha previsto
la punizione con una sanzione amministrativa pecuniaria da  ventimila
a tre milioni di euro, poi quintuplicata dall'art. 39, comma 3, della
legge 28 dicembre 2005,  n.  262  (Disposizioni  per  la  tutela  del
risparmio e la disciplina dei mercati finanziari). 
    L'art. 187-sexies impugnato ha inoltre stabilito che  sia  sempre
disposta la confisca del prodotto o del profitto dell'illecito e  dei
beni  utilizzati  per  commetterlo,  e  che,  qualora  cio'  non  sia
possibile, la confisca abbia ad oggetto somme di denaro, beni o altre
utilita' di valore equivalente. 
    Con quest'ultima previsione  il  legislatore  ha  introdotto  una
nuova ipotesi di confisca per equivalente, posto  che  in  precedenza
l'art. 180 del d.lgs. n. 58  del  1998  prevedeva  la  sola  confisca
diretta. 
    L'art. 9, comma 6, impugnato ha aggiunto che, limitatamente  agli
illeciti depenalizzati, la confisca per equivalente si applica  anche
alle violazioni commesse anteriormente all'entrata  in  vigore  della
legge n. 62 del 2005, purche' il procedimento penale  non  sia  stato
definito. Un'analoga retroattivita' non e'  stata  invece  introdotta
per i fatti di abuso di informazioni privilegiate e di  manipolazione
del mercato che continuano a  costituire  reato  e  per  i  quali  la
confisca per equivalente, prevista dall'art. 187 del d.lgs. n. 58 del
1998, come modificato dall'art. 9, comma 2, lettera a),  della  legge
n. 62 del  2005,  trova  applicazione  solo  rispetto  alle  condotte
realizzate nella vigenza della normativa sopravvenuta. 
    In virtu' dell'innovazione normativa i  ricorrenti  nel  giudizio
principale sono stati sanzionati dalla Consob in via  amministrativa,
e,  in  applicazione  delle  disposizioni  impugnate,  alla  sanzione
pecuniaria e' stata aggiunta la confisca per equivalente  di  ingenti
somme di denaro. 
    Il giudice  a  quo  premette  che  la  confisca  per  equivalente
regolata dall'art.  187-sexies,  comma  2,  impugnato  ha  natura  di
sanzione penale ai sensi dell'art. 7 della CEDU, al pari delle  altre
ipotesi di confisca di valore gia' conosciute dal nostro  ordinamento
e sulle quali la Corte di cassazione, e in  talune  occasioni,  anche
questa Corte, si sono gia' pronunciate in  tal  senso.  Detta  misura
infatti non raggiunge beni  pertinenti  al  reato  e  tali  da  poter
giustificare la presunzione che, posti nella disponibilita' del  reo,
possano indurlo a delinquere nuovamente. Essa colpisce invece beni di
altra natura e del tutto svincolati dall'illecito, cosi' da rivestire
una funzione  punitiva,  anziche'  preventiva.  Ne  dovrebbe  seguire
l'applicazione dello statuto  costituzionale  della  pena,  tracciato
dagli  artt.  25,  secondo  comma,  e  117,   primo   comma,   Cost.,
quest'ultimo in relazione all'art.  7  della  CEDU,  con  conseguente
divieto assoluto di retroattivita'. 
    Le  disposizioni  impugnate  sarebbero  percio'  lesive  di  tali
parametri costituzionali, oltre che dell'art. 3 Cost., nella parte in
cui prevedono che la confisca per equivalente si applica  anche  alle
violazioni commesse anteriormente all'entrata in vigore  della  legge
n. 62 del 2005, che l'ha introdotta. 
    3.- Le questioni che fanno  riferimento  all'art.  3  Cost.  sono
inammissibili, perche' prive di motivazione. 
    4.- Inammissibili sono anche le questioni che hanno  per  oggetto
l'art.  187-sexies  del  d.lgs.  n.  58  del   1998,   perche'   tale
disposizione  non  ha  la  portata  lesiva  che  il   rimettente   le
attribuisce. La norma  in  questione  si  limita  a  disciplinare  la
confisca per equivalente, mentre e' soltanto  all'art.  9,  comma  6,
della  legge  n.  62  del  2005  che  va  attribuita  la  scelta  del
legislatore di rendere questo istituto di  applicazione  retroattiva,
dando cosi' luogo al dubbio di costituzionalita' che  ha  animato  il
giudice a  quo.  Il  giudizio  incidentale  ha  percio'  per  oggetto
ammissibile soltanto  quest'ultima  previsione  legislativa,  la  cui
chiarezza non lascia all'interprete alcun margine di  interpretazione
correttiva,  idonea  a  far  escludere  per  tale   via   l'efficacia
retroattiva della misura in discussione (da ultimo,  sentenza  n.  42
del 2017). 
    5.-  La  Consob,  gia'  parte  dei   processi   principali,   nel
costituirsi innanzi a questa  Corte  ha  eccepito  l'inammissibilita'
delle questioni per difetto di rilevanza, perche', nell'ambito di  un
giudizio di legittimita' che sarebbe circoscritto all'esame dei  soli
motivi di ricorso, la Corte  di  cassazione  rimettente  non  sarebbe
stata investita del problema concernente  l'applicazione  retroattiva
della confisca per equivalente e non avrebbe percio' dovuto applicare
l'art. 9, comma 6, impugnato. 
    L'eccezione, a prescindere da ogni altro rilievo, non e'  fondata
perche' il giudice a quo da' analiticamente conto, in ciascuna  delle
ordinanze  di  rimessione,  del   motivo   di   ricorso   concernente
l'applicazione retroattiva della confisca  per  equivalente,  la  cui
legittimita' e' stata contestata dalle parti ricorrenti nei  relativi
giudizi. 
    Tuttavia  le  questioni  relative  all'art.  9,  comma  6,   sono
inammissibili per una ragione diversa. 
    6.- Questa Corte non ha  motivo  di  discostarsi  dalla  premessa
argomentativa da cui muove il rimettente,  sulla  natura  penale,  ai
sensi dell'art. 7 della CEDU, della  confisca  per  equivalente.  Con
quest'ultima  espressione  si  indica  una  particolare   misura   di
carattere ablativo che il legislatore appronta per il  caso  in  cui,
dopo una condanna penale, non  sia  possibile  eseguire  la  confisca
diretta dei  beni  che  abbiano  un  «rapporto  di  pertinenzialita'»
(ordinanze n. 301 e n. 97 del 2009) con il reato. Mentre quest'ultimo
strumento,  reagendo  alla  pericolosita'  indotta  nel   reo   dalla
disponibilita' di tali beni, assolve a  una  funzione  essenzialmente
preventiva, la confisca per equivalente, che raggiunge beni di  altra
natura, «palesa una connotazione prevalentemente  afflittiva  ed  ha,
dunque, una natura "eminentemente sanzionatoria"» (ordinanza  n.  301
del 2009). E' infatti noto che  il  mero  effetto  ablativo  connesso
all'istituto della confisca non vale di per se' a segnare  la  natura
giuridica della misura, perche' «la confisca non si  presenta  sempre
di eguale natura e in unica configurazione, ma assume, in  dipendenza
delle  diverse  finalita'  che  la  legge  le  attribuisce,   diverso
carattere, che puo' essere di pena come anche di misura  non  penale»
(sentenza n. 46 del 1964). 
    La  confisca  per  equivalente  prevista   dall'art.   187-sexies
impugnato condivide il tratto essenziale proprio delle altre  ipotesi
di  confisca  di  valore  finora  vagliate  dalla  giurisprudenza  di
legittimita' e anche da questa Corte (ordinanze n. 301 e  n.  97  del
2009), con specifico riferimento al caso regolato  dall'art.  322-ter
del codice penale. Essa si applica a beni che non sono  collegati  al
reato da un  nesso  diretto,  attuale  e  strumentale,  cosicche'  la
privazione imposta al reo  risponde  a  una  finalita'  di  carattere
punitivo, e non preventivo. Del resto lo stesso legislatore si mostra
consapevole del tratto afflittivo e punitivo proprio  della  confisca
per equivalente, al punto da non prevederne la retroattivita'  per  i
fatti che continuano a costituire reato (art. 187 del  d.lgs.  n.  58
del 1998). A fronte di tale dirimente considerazione, recedono  tutti
gli argomenti contrari dedotti dalla difesa della Consob. 
    7.- Una  volta  acclarata  la  funzione  punitiva  propria  della
confisca prevista  dall'art.  187-sexies  impugnato,  e'  conseguente
l'applicabilita' dell'art. 25,  secondo  comma,  Cost.  in  punto  di
divieto di retroattivita'. 
    Questa  Corte  ha  ritenuto  che  tale  garanzia   costituzionale
concerne non soltanto le pene qualificate come tali  dall'ordinamento
nazionale, ma anche quelle cosi' qualificabili per effetto  dell'art.
7  della  CEDU  (sentenza  n.  196  del  2010),  perche'   punire   a
qualsivoglia titolo la persona per un fatto privo di antigiuridicita'
quando e' stato commesso significa violare il cuore  dell'affidamento
che l'individuo e' legittimato a riporre nello Stato (sentenza n. 364
del 1988) quanto all'esercizio della potesta' pubblica in forme prive
di arbitrarieta' e irrazionalita'. 
    Nel caso  di  specie,  pertanto,  la  confisca  per  equivalente,
nonostante sia prevista dalla legge come conseguente  a  un  illecito
amministrativo, va considerata una "pena",  come  tale  assistita  da
tutte le garanzie prescritte al riguardo dall'art. 7 della CEDU. Essa
infatti, svolgendo con  tratti  di  significativa  afflittivita'  una
funzione punitiva, risponde positivamente ai criteri enunciati a  tal
fine dalla consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo (sentenza 9 febbraio 1995, Welch contro Gran Bretagna). 
    A questo proposito non colgono nel segno le  obiezioni  sollevate
dalla difesa della Consob. In primo luogo, e' improprio affermare che
l'estensione dello statuto costituzionale della  pena  alle  sanzioni
che l'ordinamento nazionale qualifica  come  amministrative  ingenera
una espansione del diritto penale, da reputare contraria ai  principi
di legalita' dei reati e di sussidiarieta'. 
    Questa  asserzione  si  basa   sull'erroneo   convincimento   che
l'attribuzione  di  una  garanzia   propria   della   pena   implichi
l'assegnazione di una certa misura sanzionatoria al campo del diritto
penale, con riferimento non soltanto a tale forma di tutela ma  anche
a qualsiasi altro effetto. Se cosi' fosse, vi  sarebbe  indubbiamente
una frizione con il principio costituzionale  di  sussidiarieta',  il
quale  continua  invece  ad  assicurare  «l'autonomia   dell'illecito
amministrativo dal diritto penale» (sentenza  n.  49  del  2015).  Al
contrario, il recepimento della CEDU  nell'ordinamento  giuridico  si
muove nel segno dell'incremento delle liberta' individuali, e mai del
loro detrimento (sentenza n. 317  del  2009),  come  potrebbe  invece
accadere  nel  caso  di  un  definitivo  assorbimento   dell'illecito
amministrativo nell'area di cio' che e' penalmente  rilevante.  Fermo
restando l'obbligo, discendente dall'art. 117, primo comma, Cost., di
estendere alla "pena", ai sensi dell'art.  7  della  CEDU,  tutte  le
tutele previste dalla Convenzione, e quelle soltanto (sentenza n.  43
del 2017), l'illecito continua a rivestire  per  ogni  altro  aspetto
carattere amministrativo (sentenza n. 49 del 2015). 
    In  secondo  luogo,  e'  parimenti  da  respingere   l'idea   che
l'interprete non possa applicare la CEDU, se non con  riferimento  ai
casi che siano gia' stati oggetto di puntuali pronunce da parte della
Corte   di   Strasburgo.   Al    contrario,    «[l]'applicazione    e
l'interpretazione del sistema di norme  e'  attribuito  beninteso  in
prima battuta ai giudici degli Stati membri» (sentenze n. 49 del 2015
e n. 349 del 2007). Il dovere di questi ultimi di evitare  violazioni
della CEDU li obbliga ad applicarne le norme, sulla base dei principi
di diritto espressi dalla  Corte  EDU,  specie  quando  il  caso  sia
riconducibile a precedenti della giurisprudenza del  giudice  europeo
(sentenze n. 276 e n. 36 del 2016). 
    In   tale   attivita'    interpretativa,    che    gli    compete
istituzionalmente ai sensi dell'art. 101, secondo  comma,  Cost.,  il
giudice comune incontra il solo limite costituito dalla  presenza  di
una normativa nazionale di contenuto contrario  alla  CEDU.  In  tale
caso, la disposizione interna va impugnata innanzi a questa Corte per
violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., ove non  sia  in  alcun
modo interpretabile in senso convenzionalmente orientato (sentenza n.
239 del 2009). 
    Nel caso di specie, pertanto, non e'  risolutiva  la  circostanza
che la Corte di Strasburgo, con la  sentenza  4  marzo  2014,  Grande
Stevens e altri contro Italia, abbia applicato l'art.  7  della  CEDU
alle sanzioni amministrative pecuniarie e  interdittive  previste  in
materia di abuso di informazioni privilegiate, senza occuparsi  della
confisca per equivalente, che non era oggetto  di  quel  contenzioso.
L'interprete nazionale e' infatti  tenuto  a  sviluppare  i  principi
enunciati sulla base dell'art. 7 della CEDU per decidere  se  valgano
anche con riferimento alla confisca di valore, e, come si  e'  visto,
la risposta al quesito deve essere affermativa. 
    Posta la natura di "pena", ai sensi dell'art. 7  della  CEDU,  da
riconoscere nella specie  alla  confisca  per  equivalente,  si  pone
ineludibilmente la  questione  relativa  all'asserita  illegittimita'
costituzionale dell'art. 9, comma 6,  censurato,  che  ne  stabilisce
espressamente l'applicazione retroattiva. 
    8.-  Cio'  chiarito,  deve  ritenersi   che   le   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 6, della legge  n.  62
del 2005, sollevate, in relazione agli artt.  25,  secondo  comma,  e
117,  primo  comma,  Cost.,  dalla   Corte   di   cassazione,   siano
inammissibili,   perche'   basate   su   un    erroneo    presupposto
interpretativo. 
    E' fuori di dubbio che sia vietato al legislatore sanzionare  con
effetto retroattivo un fatto che non era illecito quando fu commesso,
e parimenti introdurre anche per  il  passato  una  sanzione  che  si
aggiunge al trattamento sanzionatorio gia' previsto dalla legge. 
    Quest'ultimo  era  appunto  il  fenomeno  paventato  in   seguito
all'estensione ai reati tributari dell'art.  322-ter  cod.  pen.,  il
quale per taluni reati aveva dato vita a una ipotesi di  confisca  di
valore che si aggiungeva alla pena  gia'  stabilita  dalla  legge,  e
questa  Corte,  preceduta  dalla  giurisprudenza   di   legittimita',
riconosciutane la natura punitiva,  aveva  escluso  che  l'interprete
potesse applicare tale confisca  ai  fatti  commessi  precedentemente
(ordinanze n. 301 e n. 97 del 2009). 
    Il giudice a quo  imposta  l'odierna  questione  di  legittimita'
costituzionale secondo la medesima traccia logica, postulando che una
nuova pena retroattiva sia stata introdotta nell'ordinamento,  e  non
considera che la vicenda normativa di cui si tratta ha dato  luogo  a
un fenomeno giuridico di piu' ampia portata, che muta i termini della
questione. 
    Il fatto addebitato ai ricorrenti nel processo principale  quando
fu commesso costituiva reato, ai sensi dell'art. 180 del d.lgs. n. 58
del 1998, nel testo  originario.  A  seguito  della  depenalizzazione
disposta dall'art. 9, comma 2, lettera a),  della  legge  n.  62  del
2005, esso e' stato espunto dall'area di cio' che  rileva  penalmente
ma ha conservato la sua antigiuridicita', perche'  la  condotta  gia'
prevista  come  reato  integra   oggi   gli   estremi   dell'illecito
amministrativo disciplinato dall'art. 187-bis, comma 4, del d.lgs. n.
58 del 1998. 
    Il passaggio dal reato all'illecito amministrativo e' vicenda non
infrequente nell'ordinamento, che talora il legislatore  governa  con
un'apposita norma transitoria,  per  disciplinare  i  fatti  commessi
nella vigenza della norma  penale,  e  successivamente  riconducibili
alla normativa amministrativa sopravvenuta. 
    La disposizione transitoria, sul  modello  offerto  dall'art.  40
della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al  sistema  penale),
di regola provvede a stabilire l'applicabilita' del nuovo trattamento
sanzionatorio ai fatti pregressi, salvo che  il  procedimento  penale
sia gia' stato definito, ed  e'  dubbio  che  una  soluzione  analoga
potrebbe essere tratta  dall'interprete  in  difetto  di  un'espressa
indicazione legislativa. 
    Con riguardo alla confisca per  equivalente  originata  dall'art.
187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 una norma transitoria di  questo
tenore e' stata adottata appunto con l'art. 9, comma 6, impugnato. 
    Il legislatore non ha privato il fatto di antigiuridicita', e  ha
continuato a riprovarlo  per  mezzo  della  sanzione  amministrativa,
considerando quest'ultima in se'  piu'  favorevole  della  precedente
pena, benche' connotata dalla confisca di valore.  Ed  e'  in  questa
prospettiva  che  ha  sottoposto  al  nuovo  e  ritenuto  piu'   mite
trattamento sanzionatorio l'autore della violazione  commessa  quando
era punita come reato. 
    Il presupposto di questa vicenda normativa  e'  costituito  dalla
presunzione,  da  cui  muove  il   legislatore,   che   la   sanzione
amministrativa sia in ogni caso piu' favorevole di quella penale. 
    L'art. 9,  comma  6,  impugnato  riflette  una  tale  presunzione
legislativa, posto che rende obbligatoria, per i  fatti  antecedenti,
l'imposizione del nuovo regime sanzionatorio, basato  sulla  sanzione
amministrativa pecuniaria da centomila a quindici milioni di  euro  e
sulla confisca diretta o per equivalente, in luogo della  pena  della
reclusione fino a due anni, della multa da venti a  seicento  milioni
di lire e della sola confisca diretta. 
    Ora, quand'anche si dovesse condividere la tradizionale posizione
della giurisprudenza comune in ordine alla natura piu' favorevole  di
qualunque sanzione amministrativa rispetto alla pena, ugualmente essa
non sarebbe di alcuna utilita' nella  odierna  vicenda.  Infatti,  ai
sensi dell'art. 7 della  CEDU,  il  nuovo  trattamento  sanzionatorio
introdotto in sede di  depenalizzazione  continua  a  costituire  una
"pena", con la conseguenza che un giudizio di maggior favore non puo'
certamente basarsi solo sulla qualificazione giuridica della sanzione
come amministrativa e sull'astratta preferibilita'  di  una  risposta
punitiva di tale natura rispetto  a  quella  penale.  Esso  deve,  al
contrario,  fondarsi  sull'individuazione  in  concreto  del   regime
complessivamente piu' favorevole per la  persona,  avuto  riguardo  a
tutte le caratteristiche del caso specifico. 
    L'art. 7 della CEDU, nell'interpretazione  della  Corte  europea,
conosce difatti il fenomeno della successione  di  leggi  penali  nel
tempo e lo risolve nel senso della necessaria applicazione della  lex
mitior (salvo le deroghe che questa Corte ha reputato  conformi  alla
CEDU, ma che  certamente  non  concernono  il  regime  sanzionatorio:
sentenza n. 236 del  2011),  sicche',  ai  fini  del  rispetto  delle
garanzie accordate dalla CEDU, il passaggio  dal  reato  all'illecito
amministrativo, quando quest'ultimo conserva natura penale  ai  sensi
dell'art. 7 della Convenzione,  permette  l'applicazione  retroattiva
del nuovo  regime  punitivo  soltanto  se  e'  piu'  mite  di  quello
precedente.  In  tal   caso,   infatti,   e   solo   in   tal   caso,
nell'applicazione di una  pena  sopravvenuta,  ma  in  concreto  piu'
favorevole,  non  si  annida  alcuna  violazione   del   divieto   di
retroattivita', ma all'opposto una scelta in favore del reo. 
    Cio' significa che erroneamente il giudice a quo ritiene che  sia
in ogni caso costituzionalmente vietato applicare retroattivamente la
confisca per equivalente. Infatti, qualora il complessivo trattamento
sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione, nonostante  la
previsione di tale confisca, fosse in  concreto  piu'  favorevole  di
quello applicabile in base alla pena precedentemente  comminata,  non
vi sarebbero ostacoli costituzionali a  che  esso  sia  integralmente
disposto. 
    9.- In conclusione, il giudice a quo ha formulato le questioni di
legittimita' costituzionale sulla base di una considerazione parziale
della complessa vicenda normativa verificatasi nel caso di specie. Ha
cosi' omesso di tenere conto del fatto che la natura penale, ai sensi
dell'art. 7 della  CEDU,  del  nuovo  regime  punitivo  previsto  per
l'illecito amministrativo comporta un inquadramento della fattispecie
nell'ambito della successione delle leggi  nel  tempo  e  demanda  al
rimettente il compito di verificare in concreto  se  il  sopraggiunto
trattamento  sanzionatorio,  assunto  nel  suo  complesso  e   dunque
comprensivo della confisca per equivalente, si renda,  in  quanto  di
maggior favore, applicabile al fatto pregresso,  ovvero  se  esso  in
concreto denunci un carattere maggiormente  afflittivo.  Soltanto  in
quest'ultimo caso, la cui  verificazione  spetta  al  giudice  a  quo
accertare e adeguatamente motivare, potrebbe venire in considerazione
un dubbio sulla legittimita' costituzionale  dell'art.  9,  comma  6,
della legge n. 62 del 2005, nella  parte  in  cui  tale  disposizione
prescrive  l'applicazione  della  confisca  di  valore  e  assoggetta
pertanto il reo a una sanzione penale, ai  sensi  dell'art.  7  della
CEDU, in concreto piu' gravosa di quella che sarebbe  applicabile  in
base alla legge vigente all'epoca della commissione del fatto. 
    Il mancato scioglimento di questo preliminare nodo interpretativo
rende le questioni inammissibili.