ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 1,  comma
12, 4, commi 24, 25, 26 e 27,  e  8,  comma  13,  della  legge  della
Regione autonoma Sardegna 11 aprile 2016, n. 5, recante «Disposizioni
per la formazione del bilancio di previsione per l'anno  2016  e  per
gli  anni  2016-2018  (legge  di  stabilita'  2016)»,  promosso   dal
Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 13-16
giugno 2016, depositato in cancelleria il 21 giugno 2016 ed  iscritto
al n. 34 del registro ricorsi 2016. 
    Udito nell'udienza pubblica  del  21  febbraio  2017  il  Giudice
relatore Aldo Carosi; 
    udito l'avvocato dello Stato Gianni De Bellis per  il  Presidente
del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ricorso notificato il 13-16 giugno 2016 (iscritto  al  n.
34 del Reg. ric. dell'anno 2016)  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, ha impugnato gli artt. 1, comma 12, 4, commi 24, 25, 26 e  27,
e 8, comma 13, della legge della Regione autonoma Sardegna 11  aprile
2016, n. 5, recante «Disposizioni per la formazione del  bilancio  di
previsione per l'anno 2016 e per gli  anni  2016  -  2018  (legge  di
stabilita' 2016)» - pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione
autonoma Sardegna del 13 aprile 2016, n. 18  -  in  riferimento  agli
artt. 117, secondo comma, lettere  l)  e  s),  e  terzo  comma  -  in
relazione agli artt. 135,  142  e  143  del  decreto  legislativo  22
gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e  del  paesaggio,  ai
sensi dell'articolo 10  della  legge  6  luglio  2002,  n.  137),  ed
all'art. 31, comma 26, della legge 12 novembre 2011, n. 183,  recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato (Legge di stabilita' 2012)» - e 118 della Costituzione. 
    1.1.- Anzitutto, il ricorrente censura l'art. 1, comma 12,  della
legge  reg.  Sardegna  n.  5  del   2016,   in   quanto,   disponendo
l'applicazione dell'art. 159, commi 1, 3 e 4, del decreto legislativo
18 agosto 2000, n. 267  (Testo  unico  delle  leggi  sull'ordinamento
degli enti locali), agli enti strumentali della Regione, alle  unioni
di comuni, ai consorzi industriali  provinciali  ed  ai  consorzi  di
bonifica relativamente ai fondi messi a disposizione da  parte  dello
Stato, della Regione e dell'Unione europea, estenderebbe  la  portata
soggettiva ed oggettiva del regime di limitazione delle procedure  di
esecuzione e quindi di soddisfacimento patrimoniale delle ragioni dei
creditori.  In  tal  modo  la  norma  eccederebbe  dalla   competenza
regionale, incidendo in materie - «norme processuali» ed «ordinamento
civile» - riservate al legislatore  statale  dall'art.  117,  secondo
comma, lettera l), Cost., cosi' come questa Corte avrebbe gia'  avuto
modo di affermare (si cita la sentenza n. 273 del 2012). 
    1.2.- In secondo luogo, il Presidente del Consiglio dei  ministri
impugna l'art. 4, commi 24, 25, 26 e 27, della legge reg. Sardegna n.
5 del 2016. In particolare, il ricorrente sostiene che  il  comma  24
prevederebbe  una  riapertura  dei  termini  per  la   richiesta   di
sclassificazione dei beni di uso  civico;  il  comma  25  inserirebbe
un'ulteriore  ipotesi  in  cui  consentirla  ed  i  commi  26  e   27
provvederebbero direttamente alla sclassificazione di alcuni beni  di
uso  civico,  sottraendoli  al  relativo  regime.  Tali  disposizioni
contrasterebbero con l'art. 117, secondo comma, lettera s),  Cost.  e
con gli artt. 135, 142 e 143 del decreto legislativo 22 gennaio 2004,
n.  42  (Codice  dei  beni  culturali  e  del  paesaggio,  ai   sensi
dell'articolo 10 della legge 6 luglio  2002,  n.  137),  con  cui  il
legislatore  statale  avrebbe  esercitato   la   propria   competenza
esclusiva in materia. In particolare, l'art. 143 del d.lgs. n. 42 del
2004 - che disciplina il piano paesaggistico la cui  elaborazione  e'
affidata, dall'art. 135 del medesimo decreto, congiuntamente a  Stato
e  Regione  -  prevede  al  comma  1,  lettera  c),  che  esso  debba
comprendere  la  «ricognizione  delle  aree  di  cui   al   comma   1
dell'articolo 142, loro delimitazione  e  rappresentazione  in  scala
idonea alla identificazione, nonche' determinazione  di  prescrizioni
d'uso intese ad assicurare la conservazione dei caratteri  distintivi
di dette aree e, compatibilmente con essi, la valorizzazione». Tra le
aree interessate dal richiamato art. 142, comma 1, del d.lgs.  n.  42
del 2004 rientrano quelle «assegnate alle universita'  agrarie  e  le
zone gravate da usi civici» (lettera h). Con le  norme  censurate  la
Regione  autonoma  Sardegna   sarebbe   intervenuta   unilateralmente
anziche'  attraverso  la  pianificazione  condivisa,  senza  che   al
riguardo possa soccorrere  la  competenza  legislativa  regionale  in
materia - si tratterebbe di  quella  sugli  usi  civici  riconosciuta
dall'art. 3, primo comma, lettera n), della legge  costituzionale  26
febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna) -  atteso  che
essa incontra  il  limite  delle  norme  fondamentali  delle  riforme
economico-sociali della Repubblica quali le evocate disposizioni  del
codice dei beni culturali e del paesaggio, cosi' come gia'  affermato
da questa Corte (si cita la sentenza n. 210  del  2014).  Di  qui  la
violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera s),  Cost.,  nonche'
dell'art. 118 Cost. per il mancato rispetto del  principio  di  leale
collaborazione, stante la «connessione indissolubile tra  materie  di
diversa attribuzione». 
    1.3.- Infine, il Presidente del Consiglio  dei  ministri  impugna
l'art. 8, comma 13, della legge reg.  Sardegna  n.  5  del  2016,  in
quanto la norma prevederebbe, per i piccoli Comuni sardi, l'esenzione
dal regime sanzionatorio correlato al mancato rispetto del  patto  di
stabilita' interno per il 2015. La disposizione  esorbiterebbe  dalla
competenza prevista dall'art.  3,  lettera  b),  dello  statuto  reg.
Sardegna in  materia  di  «ordinamento  degli  enti  locali  e  delle
relative circoscrizioni» e si porrebbe in contrasto  con  l'art.  31,
comma 26, della legge n. 183 del 2011, espressione  di  un  principio
riconducibile alla materia «coordinamento della  finanza  pubblica  e
del sistema tributario», di cui all'art. 117, terzo comma, Cost. 
    2.-  La  Regione  autonoma  Sardegna  non  si  e'  costituita  in
giudizio. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Presidente del Consiglio dei  ministri  ha  impugnato  gli
artt. 1, comma 12, 4, commi 24, 25, 26 e 27, e  8,  comma  13,  della
legge della Regione autonoma Sardegna 11 aprile 2016, n.  5,  recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione per l'anno
2016 e per gli anni 2016 -  2018  (legge  si  stabilita'  2016)»,  in
riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettere  l)  e  s),  terzo
comma  -  in  relazione  agli  artt.  135,  142  e  143  del  decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali  e  del
paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6  luglio  2002,  n.
137), ed all'art. 31, comma 26, della legge 12 novembre 2011, n. 183,
recante «Disposizioni  per  la  formazione  del  bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato (Legge di stabilita' 2012)»  -  e  118  della
Costituzione. 
    Anzitutto, il ricorrente censura l'art. 1, comma 12, della  legge
reg. Sardegna n. 5 del  2016  in  quanto,  disponendo  l'applicazione
dell'art. 159, commi 1, 3 e 4,  del  decreto  legislativo  18  agosto
2000, n. 267 (Testo unico delle  leggi  sull'ordinamento  degli  enti
locali), agli enti strumentali della regione, alle unioni di  comuni,
ai consorzi  industriali  provinciali  ed  ai  consorzi  di  bonifica
relativamente ai fondi messi a disposizione  da  parte  dello  Stato,
della  regione  e  dell'Unione  europea,  estenderebbe   la   portata
soggettiva ed oggettiva del regime di limitazione delle procedure  di
esecuzione e quindi di soddisfacimento patrimoniale delle ragioni dei
creditori previsto dalla normativa statale, incidendo  in  materie  -
«norme  processuali»  ed  «ordinamento   civile»   -   riservate   al
legislatore statale dall'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. 
    In secondo  luogo,  il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri
impugna l'art.  4,  commi  24,  25,  26  e  27,  della  citata  legge
regionale. In particolare, il ricorrente sostiene  che  il  comma  24
prevederebbe  una  riapertura  dei  termini  per  la   richiesta   di
sclassificazione dei beni di uso  civico  prevista  dall'art.  18-bis
della legge della Regione autonoma Sardegna  14  marzo  1994,  n.  12
(Norme in materia di usi civici. Modifica  della  legge  regionale  7
gennaio 1977, n. 1 concernente l'organizzazione amministrativa  della
Regione sarda); il comma 25 inserirebbe un'ulteriore ipotesi  in  cui
consentirla ed i commi 26  e  27  provvederebbero  direttamente  alla
sclassificazione di  alcuni  beni  di  uso  civico,  sottraendoli  al
relativo regime. Tali disposizioni contrasterebbero con  l'art.  117,
secondo comma, lettera s), Cost. e con gli artt. 135, 142 e  143  del
d.lgs. n. 42 del 2004, che  prevedono  l'elaborazione  congiunta  tra
Stato e  regione  del  piano  paesaggistico  e  dispongono  che  esso
comprenda anche «le aree assegnate alle universita' agrarie e le zone
gravate da usi civici». Con le norme censurate  la  Regione  autonoma
Sardegna sarebbe intervenuta unilateralmente anziche'  attraverso  la
pianificazione condivisa, senza che al riguardo possa  soccorrere  la
competenza legislativa regionale in materia di usi civici, atteso che
essa incontra  il  limite  delle  norme  fondamentali  delle  riforme
economico-sociali  della  Repubblica,  quali  sarebbero  le   evocate
disposizioni legislative statali. Di qui la violazione dell'art. 117,
secondo comma, lettera s), Cost., nonche' dell'art. 118 Cost., per il
mancato rispetto del principio di leale collaborazione. 
    I commi 26 e 27 dell'art. 4, individuando  -  attraverso  i  dati
catastali - alcuni  terreni  di  cui  disporre  la  sclassificazione,
sarebbero inficiati  dal  medesimo  vizio  dei  commi  precedenti  ed
inoltre, per effetto del loro  carattere  di  norme  provvedimentali,
sottrarrebbero «risorse alla collettivita' che ne  e'  proprietaria»,
interferendo contemporaneamente sulla tutela del paesaggio,  «materia
assegnata alla potesta' legislativa esclusiva dello Stato». 
    Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri  censura  l'art.
8, comma 13, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2016,  in  quanto  la
norma prevederebbe, per  i  piccoli  comuni  sardi,  l'esenzione  dal
regime sanzionatorio correlato  al  mancato  rispetto  del  patto  di
stabilita' interno per l'anno  2015.  La  disposizione  esorbiterebbe
dalla competenza statutaria in materia  di  «ordinamento  degli  enti
locali e delle relative circoscrizioni» e si  porrebbe  in  contrasto
con l'art. 31, comma 26, della legge n. 183 del 2011, espressione  di
un principio riconducibile alla materia «coordinamento della  finanza
pubblica e del sistema tributario», di cui all'art. 117, terzo comma,
Cost. 
    2.- L'art. 1, comma 12, della legge reg. Sardegna n. 5  del  2016
viene denunciato per contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera
l), Cost. e non per violazione di un parametro statutario. 
    Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «nel caso in cui venga
impugnata in via principale la legge  di  un  soggetto  ad  autonomia
speciale, la compiuta definizione dell'oggetto del giudizio, onere di
cui e' gravato il ricorrente, non puo'  prescindere  dall'indicazione
delle competenze legislative assegnate dallo statuto»  (ex  plurimis,
sentenza n. 252 del 2016). 
    Tuttavia, questa Corte ha altresi' chiarito  che  «il  ricorrente
ben puo' dedurre la violazione dell'art. 117 Cost. e postulare che la
normativa regionale o provinciale impugnata eccede  dalle  competenze
statutarie quando  a  queste  ultime  essa  non  sia  in  alcun  modo
riferibile (sentenza n. 16 del 2012)» (sentenza n. 151 del 2015). 
    Nella  fattispecie,  il  contenuto  della   norma   censurata   -
eminentemente privatistico e processuale, come meglio  risultera'  in
prosieguo - nonche' la natura del parametro  evocato  -  «ordinamento
civile» e «norme processuali» - escludono in maniera evidente di  per
se'  l'utilita'  di  uno  scrutinio  alla  luce  delle   disposizioni
statutarie (similmente, sentenza n. 391 del 2006). 
    2.1- Tanto premesso, nel  merito  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 12, della legge reg. Sardegna n.  5
del 2016 e' fondata. 
    La disposizione, nel prevedere  che  siano  applicate  agli  enti
strumentali della  regione,  alle  unioni  dei  comuni,  ai  consorzi
industriali provinciali e ai consorzi di bonifica le disposizioni dei
commi 1, 3 e 4 dell'art. 159 del d.lgs. n. 267 del 2000, e successive
modifiche e integrazioni, amplia la fattispecie normativa  richiamata
con riguardo ad una serie di enti pubblici e di situazioni  oggettive
in essa non ricompresi. 
    In sostanza, la norma censurata opera un'estensione  oggettiva  e
soggettiva  della  disciplina  dettata   dal   legislatore   statale,
consentendo   di   escludere   dall'esecuzione   forzata   i    fondi
specificatamente destinati  alla  realizzazione  di  opere  pubbliche
delegate dalla regione messi a disposizione  da  parte  dello  Stato,
della regione stessa o dell'Unione europea ad una serie  di  enti  la
cui elencazione eccede quella alla quale si riferisce l'art. 159  del
d.lgs. n. 267 del 2000. 
    Introducendo  una  limitazione  al  soddisfacimento  patrimoniale
delle ragioni dei creditori dei  suddetti  enti  ed  assegnando  alle
situazioni soggettive di coloro che hanno avuto rapporti con essi  un
regime  sostanziale  e  processuale  peculiare  rispetto   a   quello
ordinario altrimenti applicabile, l'art. 1,  comma  12,  della  legge
reg.  Sardegna  n.  5  del  2016  incide,   dunque,   nelle   materie
«ordinamento civile» e «norme processuali»  di  competenza  esclusiva
dello Stato ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera l),  Cost.
(sentenza n. 273  del  2012),  onde  la  fondatezza  della  questione
proposta. 
    3.-  Il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  ha  impugnato
altresi' l'art. 4, commi 24, 25, 26 e 27, della medesima  legge  reg.
Sardegna n. 5 del 2016 in riferimento agli artt. 117, secondo  comma,
lettera s), e 118 Cost., sotto il profilo della leale collaborazione. 
    Secondo il ricorrente, il comma 24, disponendo una riapertura dei
termini per la richiesta di sclassificazione dei beni di  uso  civico
prevista dall'art. 18-bis della legge reg. Sardegna n. 12  del  1994,
ed il comma 25, inserendo un'ulteriore ipotesi  di  sclassificazione,
contrasterebbero con l'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.,  e
con gli artt. 135, 142 e 143 del d.lgs. n. 42 del 2004, i quali  sono
espressione  della  competenza  esclusiva  dello  Stato  in   materia
ambientale. Tale competenza, ricomprendendo la  pianificazione  e  la
tutela delle aree «assegnate  alle  universita'  agrarie  e  le  zone
gravate da usi civici» (art. 142, comma 1, lettera h, del  d.lgs.  n.
42 del 2004),  sarebbe  invasa  dalla  Regione  autonoma  Sardegna  e
violata in relazione ai  «principi  fondamentali  che  sorreggono  la
materia della tutela del  paesaggio».  Cio'  anche  in  relazione  al
profilo  della  pianificazione  paesaggistica  (viene  in  tal  senso
richiamato l'art. 143 del Codice dei beni culturali e del  paesaggio,
il quale sarebbe norma di grande riforma economico-sociale). 
    I commi 26 e 27 dell'art. 4, individuando  -  attraverso  i  dati
catastali - alcuni  terreni  di  cui  disporre  la  sclassificazione,
sarebbero inficiati  dal  medesimo  vizio  dei  commi  precedenti  ed
inoltre, per effetto del loro  carattere  di  norme  provvedimentali,
sottrarrebbero «risorse alla collettivita' che ne  e'  proprietaria»,
interferendo contemporaneamente sulla tutela del paesaggio,  «materia
assegnata alla potesta' legislativa esclusiva dello Stato». 
    Le  norme  impugnate  sarebbero  altresi'  in  contrasto  con  il
principio di leale collaborazione, anche alla luce della sentenza  n.
210 del 2014, perche' il legislatore regionale avrebbe proceduto  con
modalita' unilaterali preclusive della considerazione degli interessi
sottesi alla competenza legislativa di cui lo Stato e' titolare. 
    3.1.-  Per  la   disamina   della   questione   di   legittimita'
costituzionale  oggetto  del  giudizio   e'   utile   una   sintetica
ricostruzione dell'evoluzione storico-normativa che  caratterizza  la
materia degli "usi civici  e  delle  universita'  agrarie".  Come  si
chiarira' in prosieguo,  queste  espressioni  individuano,  sotto  il
profilo oggettivo e soggettivo, fattispecie diverse di beni civici. 
    Le fonti  legislative  di  riferimento  per  la  definizione  del
presente giudizio sono essenzialmente: la legge 16  giugno  1927,  n.
1766  (Conversione  in  legge  del  R.D.  22  maggio  1924,  n.  751,
riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.D.  28
agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R.D. 22 maggio 1924,
n. 751, e del R.D. 16 maggio 1926, n.  895,  che  proroga  i  termini
assegnati dall'art. 2 del R.D.L. 22 maggio 1924, n. 751), ed il regio
decreto 26 febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del regolamento per la
esecuzione della legge 16 giugno 1927,  n.  1766,  sul  riordinamento
degli usi civici del Regno), inerenti al regime  giuridico  dei  beni
civici; il d.lgs. n. 42 del 2004, afferente alla tutela paesaggistica
ed ambientale;  la  legge  costituzionale  26  febbraio  1948,  n.  3
(Statuto speciale per la Sardegna), la quale attribuisce alla Regione
stessa, «in armonia con la Costituzione e i principi dell'ordinamento
giuridico della Repubblica  e  col  rispetto  [...]  degli  interessi
nazionali,   nonche'   delle   norme   fondamentali   delle   riforme
economico-sociali della Repubblica  [...]  potesta'  legislativa  [in
materia di] usi civici» (art. 3, lettera n). 
    Nella richiamata normativa il sintagma "usi civici" e' utilizzato
in modo polisenso, onnicomprensivo  dei  fenomeni  di  titolarita'  e
gestione di beni comuni da parte di una collettivita'  organizzata  e
dei suoi componenti. Carattere comune di  questi  istituti  giuridici
(differenziati sul territorio nazionale: domini  collettivi,  regole,
cussorge, ademprivi, etc.) e' la gestione di alcuni  beni  in  comune
per finalita'  prevalentemente  agro-silvo-pastorali,  finalita'  che
ebbero particolare rilevanza in passato  nelle  collettivita'  rurali
caratterizzate da un'ampia diffusione dell'economia di sussistenza. 
    Nel contesto storico contemporaneo la  rilevanza  socio-economica
delle antiche utilizzazioni si e' notevolmente ridotta, ma  le  leggi
piu'  recenti  (decreto-legge  27  giugno  1985,  n.   312,   recante
«Disposizioni  urgenti  per  la  tutela  delle  zone  di  particolare
interesse ambientale», convertito, con  modificazioni,  dall'art.  1,
comma 1, della legge 8 agosto 1985, n. 431, ed art. 142 del d.lgs. n.
42  del  2004)  hanno  stabilito  che  i  caratteri  morfologici,  le
peculiari tipologie d'utilizzo dei beni d'uso civico ed  il  relativo
regime giuridico sono meritevoli di tutela per  la  realizzazione  di
interessi generali, ulteriori e diversi rispetto a quelli che avevano
favorito la conservazione integra e incontaminata di questi patrimoni
collettivi. 
    Il riconoscimento normativo della  valenza  ambientale  dei  beni
civici ha determinato, da un lato, l'introduzione di vincoli  diversi
e piu' penetranti  e,  dall'altro,  la  sopravvivenza  del  principio
tradizionale, secondo cui eventuali mutamenti di destinazione - salvo
i  casi  eccezionali  di  legittimazione  delle  occupazioni   e   di
alienazione dei beni silvo-pastorali - devono essere compatibili  con
l'interesse generale  della  comunita'  che  ne  e'  titolare.  Detto
principio si rinviene nell'art. 41 del r.d. n. 332 del 1928, il quale
stabilisce «[...] che a tutte  o  parte  delle  terre  sia  data  una
diversa destinazione, quando essa rappresenti un reale beneficio  per
la generalita' degli abitanti  [...].  In  tal  caso  il  decreto  di
autorizzazione conterra' la clausola  del  ritorno  delle  terre,  in
quanto possibile, all'antica destinazione quando venisse a cessare lo
scopo per il quale l'autorizzazione era stata accordata. Qualora  non
sia  possibile  ridare  a  queste  terre  l'antica  destinazione,  il
Ministro  per  l'economia  nazionale  potra'   stabilire   la   nuova
destinazione delle terre medesime». 
    La linea di congiunzione tra le norme  risalenti  e  quelle  piu'
recenti, che hanno incluso gli usi civici nella materia paesaggistica
ed ambientale, va rintracciata proprio nella pianificazione: ai piani
economici di sviluppo per i patrimoni silvo-pastorali di cui all'art.
12 della legge n. 1766 del 1927 vengono  oggi  ad  aggiungersi  ed  a
sovrapporsi i piani paesaggistici di cui all'art. 143 del d.lgs. n 42
del 2004. La pianificazione prevista da questi ultimi - a  differenza
del passato - riguarda l'intero patrimonio dei beni civici e non piu'
solo i terreni identificati dall'art. 11 della legge n. 1766 del 1927
con la categoria a («terreni convenientemente utilizzabili come bosco
o come pascolo permanente»). 
    Caratteristico dei beni d'uso civico e' stato, ed e' tuttora,  il
particolare regime di indisponibilita' (art. 12, secondo comma, della
legge n. 1766 del 1927), che la giurisprudenza ha sempre  considerato
con il  massimo  rigore  ermeneutico  (ex  plurimis,  Cass.,  sezione
seconda, 24 luglio 1963, n. 2062). 
    Mentre la legge n. 1766 del 1927  differenziava  la  destinazione
delle terre d'uso civico prevedendo  che  le  terre  di  categoria  a
fossero adibite a boschi e pascoli (artt. 12,  secondo  comma,  della
legge n. 1766 del 1927) e che  quelle  ascritte  dall'art.  11  della
medesima  legge   alla   categoria   b   («terreni   convenientemente
utilizzabili per la coltura agraria») fossero oggetto di ripartizione
e cessione in enfiteusi (artt. 13 e seguenti della legge n. 1766  del
1927)  a  membri  della  comunita'  per  l'esercizio   dell'attivita'
agricola, i profondi mutamenti economici e  sociali  intervenuti  nel
secondo dopoguerra hanno modificato  l'orientamento  del  legislatore
nel senso di  una  conservazione  unitaria  dei  patrimoni  nel  loro
complesso. In sostanza, sono venuti in evidenza  diversi  profili  di
interesse generale, in particolare quelli paesaggistici ed ambientali
che hanno coinvolto l'intero patrimonio d'uso civico. 
    Questa evoluzione normativa si e' manifestata prima con l'art.  1
del  d.l.  n.  312  del  1985,  il  quale  ha  sottoposto  a  vincolo
paesaggistico, tra  l'altro,  «le  aree  assegnate  alle  universita'
agrarie e le zone gravate da usi  civici»  (art.  82,  quinto  comma,
lettera h, del d.lgs. n. 616 del 1977) e, poi, con l'art. 142,  comma
1, lettera h) del d.lgs. n. 42 del 2004 che ha  inserito  detti  beni
nel codice dei beni culturali e del paesaggio. 
    Questa Corte ha  qualificato  tali  disposizioni  come  norme  di
grande riforma economico-sociale (ex plurimis, sentenze  n.  210  del
2014, n. 207 e n. 66 del 2012, n. 226 e n. 164 del 2009). 
    3.2.- La richiamata evoluzione normativa consente di  focalizzare
l'attenzione sulla disciplina delle  trasformazioni  d'uso  dei  beni
civici, con particolare riguardo agli istituti traslativi  attraverso
i quali tali trasformazioni divengono possibili. 
    Da un  lato,  l'alienazione  e  la  legittimazione  servono  alla
conversione del demanio in allodio, comportante la sottoposizione del
bene  trasformato  alla  disciplina  civilistica   della   proprieta'
privata; dall'altro, il mutamento di  destinazione  ha  lo  scopo  di
mantenere,  pur  nel  cambiamento  d'uso,  un  impiego   utile   alla
collettivita' che ne rimane intestataria. Gia' prima  dell'emanazione
del Codice dei beni culturali e  del  paesaggio  questa  Corte  aveva
affermato che nell'ordinamento costituzionale vigente prevale  -  nel
caso dei beni civici - l'interesse  «di  conservazione  dell'ambiente
naturale in vista di una [loro] utilizzazione, come  beni  ecologici,
tutelato dall'articolo 9, secondo comma, Cost.» (sentenza n. 391  del
1989). 
    Pur nel mutato quadro normativo, la destinazione di  beni  civici
puo' essere variata solo nel rispetto  della  vocazione  dei  beni  e
dell'interesse  generale  della  collettivita',   all'esito   di   un
procedimento tecnico-amministrativo, rispettoso dell'art. 41 del r.d.
n. 332 del 1928. 
    In tale prospettiva, il mutamento di destinazione  non  contrasta
con il regime di indisponibilita' del bene civico: infatti i  decreti
di autorizzazione al mutamento prevedono, salvo casi eccezionali,  la
clausola risolutiva ricavata dal citato art. 41, secondo cui, ove  la
nuova   destinazione   venga   a   cessare,   sara'   automaticamente
ripristinata la precedente  oppure  conferita  una  nuova,  anch'essa
compatibile con la vocazione  dei  beni,  attraverso  la  valutazione
delle   autorita'   competenti.   Queste   ultime   -   per    quanto
precedentemente argomentato -  devono  essere  oggi  individuate  nel
Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e  del  mare  e
nella regione (in tal senso, sentenza n. 210 del 2014). 
    Se il mutamento  di  destinazione  e'  compatibile  -  sotto  gli
enunciati profili - col regime di indisponibilita' dei  beni  civici,
altrettanto non puo' dirsi degli istituti  dell'alienazione  e  della
legittimazione, i quali - rispettivamente per i beni di categoria a e
di categoria b (art. 11 della legge n. 1766 del 1927) - prevedono  la
trasformazione del demanio in allodio con  conseguente  trasferimento
del bene in proprieta' all'acquirente o al legittimatario, attraverso
la previa sclassificazione  dello  stesso.  Detti  procedimenti  sono
stati interpretati con rigorosi criteri restrittivi dal giudice della
nomofilachia, che ne ha sovente equiparato i caratteri e gli  effetti
alla sdemanializzazione vera e propria (in tal senso, Cass.,  sezione
seconda, 12 dicembre 1953, n. 3690). 
    Ed e' proprio la differenza tra sclassificazione vera e propria e
mutamento  di  destinazione   ad   assumere   particolare   rilevanza
nell'ambito del presente giudizio.  Infatti,  tutte  le  disposizioni
impugnate  dal  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri   producono
l'effetto di sottrarre al patrimonio collettivo vasti appezzamenti di
territorio, individuati od individuabili secondo la  diversa  tecnica
normativa impiegata. 
    3.3.- Con particolare riguardo  alla  Regione  autonoma  Sardegna
occorre anche ricordare come l'art.  3,  lettera  n),  dello  statuto
speciale attribuisca alla stessa «[i]n armonia con la Costituzione  e
i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico della Repubblica e
col  rispetto  degli  obblighi  internazionali  e   degli   interessi
nazionali,   nonche'   delle   norme   fondamentali   delle   riforme
economico-sociali  della  Repubblica»,  la  potesta'  legislativa  in
materia di usi civici. 
    Le norme di attuazione dello statuto regolano, poi,  le  funzioni
della Regione relative ai beni culturali e ambientali, nonche' quelle
relative alla redazione e all'approvazione dei  piani  paesaggistici,
nell'ambito  dei  quali  e'   contenuta   la   disciplina   afferente
all'utilizzazione dei beni d'uso civico, a sua  volta  funzionalmente
collegata ai caratteri fisici e alla  disciplina  giuridica  di  tali
beni. 
    Con la legge reg. n. 12 del 1994, la Regione autonoma Sardegna ha
disciplinato in modo generale l'esercizio delle proprie  funzioni  in
tema di usi civici. E' significativa la formulazione dell'art.  1  di
detta legge, il quale prevede che «Le  disposizioni  contenute  nella
presente legge sono  intese  a:  a)  disciplinare  l'esercizio  delle
funzioni attribuite alla Regione sarda ai  sensi  degli  articoli  3,
lett. n), e 6 dello Statuto speciale per la  Sardegna;  b)  garantire
l'esistenza  dell'uso  civico,  conservandone   e   recuperandone   i
caratteri specifici e  salvaguardando  la  destinazione  a  vantaggio
della  collettivita'  delle  terre  soggette  agli  usi  civici;   c)
assicurare la partecipazione diretta dei Comuni  alla  programmazione
ed al controllo dell'uso del territorio, tutelando le esigenze e  gli
interessi comuni delle  popolazioni;  d)  tutelare  la  potenzialita'
produttiva dei suoli, prevedendo anche nuove forme di  godimento  del
territorio purche' vantaggiose per la collettivita' sotto il  profilo
economico e  sociale;  e)  precisare  le  attribuzioni  degli  organi
dell'Amministrazione regionale in materia di usi civici». 
    3.4.- Nelle disposizioni statutarie e di  attuazione  nonche'  in
quelle introduttive della legge reg.  Sardegna  n.  12  del  1994  si
rinviene un coerente collegamento (che  -  per  quanto  si  dira'  in
prosieguo -  viene  inciso  dalle  norme  impugnate)  tra  il  regime
giuridico dei beni civici, gli interessi territoriali  della  Regione
stessa e la tutela paesistico-ambientale  affidata  alla  cura  dello
Stato. 
    Questa Corte ha  affermato  in  proposito  che  la  conservazione
ambientale e paesaggistica spetta, in base all'articolo 117,  secondo
comma,  lettera  s),  Cost.,  alla  cura   esclusiva   dello   Stato,
aggiungendo che tale titolo di competenza statale «riverbera  i  suoi
effetti anche quando si tratta di  Regioni  speciali  o  di  Province
autonome, con l'ulteriore precisazione, pero', che qui occorre  tener
conto degli statuti speciali  di  autonomia»  (sentenza  n.  378  del
2007). 
    Dunque, le disposizioni del  Codice  dei  beni  culturali  e  del
paesaggio si impongono al  rispetto  del  legislatore  della  Regione
autonoma Sardegna, anche in considerazione della loro natura di norme
di grande riforma economico-sociale e dei limiti posti  dallo  stesso
statuto sardo alla potesta' legislativa regionale  (sentenze  n.  210
del 2014 e n. 51 del 2006). 
    Detto rispetto comporta, tra l'altro,  che  la  Regione  autonoma
Sardegna non possa assumere, unilateralmente, decisioni che  liberano
dal vincolo ambientale porzioni del territorio. Oltre alle ipotesi di
mutamento di destinazione, che sostanzialmente rimodellano il vincolo
ambientale verso una nuova finalita' comunque conforme agli interessi
della collettivita', devono assolutamente  soggiacere  al  meccanismo
concertativo le ipotesi di sclassificazione, che sottraggono  in  via
definitiva il bene alla collettivita' ed al patrimonio tutelato. 
    Il principio di  favor  della  conservazione  della  destinazione
pubblica e' strettamente legato alla «connessione  inestricabile  dei
profili economici, sociali e ambientali, che configurano uno dei casi
in cui i principi  combinati  dello  sviluppo  della  persona,  della
tutela del  paesaggio  e  della  funzione  sociale  della  proprieta'
trovano specifica attuazione, dando origine ad una concezione di bene
pubblico [...] quale  strumento  finalizzato  alla  realizzazione  di
valori costituzionali [...]. E' la  logica  che  ha  ispirato  questa
Corte quando ha affermato che  "la  sovrapposizione  fra  tutela  del
paesaggio  e  tutela  dell'ambiente  si  riflette  in  uno  specifico
interesse unitario della comunita' nazionale alla conservazione degli
usi civici, in quanto e nella misura in cui concorrono a  determinare
la forma del territorio su cui si esercitano, intesa  quale  prodotto
di 'una integrazione tra uomo e ambiente naturale'  (sentenza  n.  46
del 1995)"» (sentenza n. 210 del 2014). 
    In  definitiva,  il  modello  procedimentale  che   permette   la
conciliazione degli interessi in  gioco  e  la  coesistenza  dei  due
ambiti di competenza legislativa statale e regionale  e'  quello  che
prevede la previa istruttoria e il previo coinvolgimento dello  Stato
nella  decisione  di  sottrarre  eventualmente  alla   pianificazione
ambientale beni che, almeno  in  astratto,  ne  fanno  "naturalmente"
parte. 
    In tale prospettiva,  «deve  concludersi  che  per  una  efficace
tutela del paesaggio e dell'ambiente non e' sufficiente un intervento
successivo  alla  [sclassificazione  dei  beni  civici]:  occorre  al
contrario garantire che lo Stato possa far valere gli  interessi  [al
mantenimento del bene] concorrendo a verificare se sussistano o  meno
le condizioni per la loro stessa  conservazione,  ferme  restando  le
regole nazionali inerenti al loro regime giuridico  e  alle  relative
forme di tutela» (ancora sentenza n. 210 del 2014). 
    4.- Alla luce di quanto precede,  le  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 4, commi 24, 25, 26 e 27, della  legge  reg.
Sardegna n. 5 del 2016 sono fondate, sia in riferimento all'art. 117,
secondo comma, lettera s), Cost., sia in riferimento al principio  di
leale collaborazione. 
    Tutte le disposizioni impugnate violano,  infatti,  il  principio
della copianificazione previsto dall'art. 143 del d.lgs.  n.  42  del
2004,  norma  di  grande  riforma  economico-sociale  (ex   plurimis,
sentenza n.  210  del  2014).  Al  riguardo,  deve  essere  condiviso
l'assunto  dell'Avvocatura   generale   dello   Stato   secondo   cui
l'attivita' di ricognizione e delimitazione delle aree  d'uso  civico
vincolate ai sensi dell'art. 142 del citato Codice  «costituisce  uno
dei contenuti minimi del piano  paesaggistico  (art.  143,  comma  1,
lett. c, del codice) e deve essere svolta congiuntamente dallo  Stato
e dalla Regione (art. 135 del codice)». 
    Peraltro, le disposizioni impugnate non si limitano ad  esprimere
determinazioni unilaterali, ma  sono  tutte  dirette,  sia  pure  con
diversa  tecnica  normativa,   a   ridurre,   attraverso   la   piena
sclassificazione, il patrimonio vincolato. 
    Certamente  la  sclassificazione   non   puo',   salvo   i   casi
suscettibili di alienazione e legittimazione previsti dalla legge  n.
1766 del  1927,  servire  a  sanare  indiscriminatamente  occupazioni
abusive. Ne' si  puo'  fare  riferimento  alla  pregressa  cessazione
dell'uso per giustificarla. Come  e'  noto,  regola  generale  e'  la
imprescrittibilita' del diritto di uso civico  (artt.  2  e  9  della
legge n. 1766 del 1927) ed e' consolidato  orientamento  del  giudice
della nomofilachia quello della presunzione di preesistenza  dell'uso
(ex plurimis, Cass., sezioni unite, 24 febbraio 1982, n. 1150, Cass.,
sezione seconda, 6 maggio 1980, n. 2986, e Cass., sezione seconda, 20
ottobre 1976, n. 3660). Pertanto, il  mancato  esercizio  dell'uso  -
magari causato "vi vel clam  vel  precario"  -  non  puo'  certamente
giustificare l'adozione di una  sclassificazione  indiscriminata  ma,
nei casi tassativamente previsti, puo' giustificare  una  conversione
al regime di diritto privato necessariamente onerosa. 
    Oltre che con la legge n. 1766 del 1927 in materia di usi civici,
le disposizioni impugnate appaiono incoerenti anche  con  i  principi
espressi dal richiamato art. 1 della legge reg. Sardegna  n.  12  del
1994, ispirati alla  salvaguardia  del  patrimonio  «conservandone  e
recuperandone i caratteri specifici e salvaguardando la  destinazione
a  vantaggio  della  collettivita'  delle  terre  soggette  agli  usi
civici». 
    Le norme impugnate sono altresi' lesive del  principio  di  leale
collaborazione perche'  sottraggono  preventivamente  una  parte  del
patrimonio che dovrebbe essere sottoposto alla  copianificazione  tra
Stato e Regione. Dopo la funzionalizzazione di tali  beni  alla  cura
del paesaggio e dell'ambiente, il  carattere  "sclassificante"  delle
norme regionali - anziche' assumere un profilo di marginale riduzione
del  patrimonio  tutelato  -   viene   a   costituire   un   elemento
pregiudizievole e condizionante gli indirizzi ed  i  contenuti  della
pianificazione. 
    4.1.- In particolare, per quel che concerne il comma 24 dell'art.
4 della legge reg. Sardegna n. 5 del  2016  -  il  quale  dispone  la
riapertura dei termini per la richiesta di sclassificazione dei  beni
da parte dei comuni - e' da  sottolineare  come  vi  sia  una  chiara
incoerenza  tra  la  sua  formulazione  e  la  natura   del   vincolo
paesistico-ambientale,  il  quale  comporta,   salvo   le   tassative
eccezioni di legge, la conservazione del bene civico e del suo regime
giuridico.  Detta  incoerenza  emerge  soprattutto  in  relazione  al
carattere generalizzato di una tale procedura ed alla  fissazione  di
termini   perentori   per   la   presentazione   delle   istanze   di
sclassificazione. 
    Infatti, i beni d'uso civico sono inalienabili, inusucapibili  ed
imprescrittibili e la loro sclassificazione,  che  e'  finalizzata  a
sottrarre in via definitiva  alla  collettivita'  di  riferimento  il
bene, e' un evento eccezionale subordinato alle specifiche condizioni
di legge, tra le quali mette conto ricordare che le zone  oggetto  di
legittimazione o di alienazione non interrompano la  continuita'  del
patrimonio  collettivo,  pregiudicandone  la  fruibilita'   nel   suo
complesso. 
    4.2.- Per quanto riguarda il comma 25  dell'art.  4  della  legge
reg. Sardegna n. 5 del 2016 - il quale prevede che siano  oggetto  di
sclassificazione terreni che «siano stati gia' adibiti, alla data  di
entrata in  vigore  della  presente  legge,  alla  localizzazione  di
insediamenti produttivi nelle aree a cio' destinate all'interno delle
delimitazioni dei consorzi industriali» - occorre  sottolineare  come
detta    norma,    riguardando    terreni    soggetti    a    vincolo
paesistico-ambientale, costituisca di fatto un allargamento dell'area
delle sanatorie edilizie, riservata alle leggi dello Stato. 
    Pertanto non compete al legislatore regionale estendere  il  loro
campo  di  applicazione  (sull'impossibilita'  per   il   legislatore
regionale di esercitare tale prerogativa, ex  plurimis,  sentenze  n.
117 del 2015 e n. 196 del  2004).  Tra  l'altro,  questa  sostanziale
invasione  della  competenza   statale   assimila   fattispecie   che
potrebbero essere riconducibili ad  ipotesi  di  condono  di  diversa
natura e di differenziati presupposti (per i caratteri  differenziali
dei diversi condoni, sentenza n. 117 del 2015). 
    4.3.- Infine, quanto ai censurati commi 26 e 27 dell'art. 4 della
legge reg. Sardegna n. 5  del  2016,  l'individuazione  normativa  di
specifiche particelle catastali comportante  la  sclassificazione  ex
lege  assume  ulteriori   connotati   di   illegittimita'   collegati
all'evidente  caratterizzazione  delle  due  fattispecie  come  leggi
provvedimento. 
    Fermo restando che questa Corte ritiene di per se' non  contraria
a Costituzione (ex plurimis sentenze n. 346 del 1991  e  n.  143  del
1989) la legificazione, anche a livello regionale, di scelte che,  di
regola, sono compiute dall'amministrazione attiva, e' da sottolineare
come «[l]a legittimita' di questo tipo di leggi, quindi, va accertata
[...]  non  tanto  riguardo  ai  motivi  della  scelta  della   forma
legislativa per un'attivita' di amministrazione, quanto piuttosto  in
relazione al suo specifico contenuto» (sentenza n. 492 del 1995). 
    Le suddette disposizioni incorporano e rendono prive di qualsiasi
dialettica l'istruttoria relativa alla valutazione delle  fattispecie
concrete sulle quali incide la legge sclassificante. Esse infatti  si
basano,  rispettivamente,  su  un  verbale  dell'Argea   -   Servizio
territoriale  del  nuorese  -  del  15  aprile  2008   (che   avrebbe
riconosciuto «la perdita della destinazione funzionale originaria  di
terreni   boschivi   o   pascolativi»)   e   sull'asserita    perdita
dell'«originaria  destinazione  d'uso  civico».   L'assenza   di   un
contraddittorio circa le situazioni in questione finisce per incidere
sulle prerogative dello Stato in ordine alla copianificazione,  e  le
pregiudica  anche  per  la  sottrazione  al  contraddittorio  con  le
collettivita' (ed i relativi  membri)  intestatarie  dei  beni  d'uso
civico.  Queste   ultime   ben   avrebbero   potuto   avere   accesso
all'istruttoria   amministrativa   finalizzata   all'emissione    del
provvedimento sclassificante e contribuire alla  sua  definizione  se
essa non fosse stata cosi' incorporata nel testo legislativo. 
    Il comma 27 dell'art. 4 della legge reg. Sardegna n. 5 del  2016,
nel prescrivere che le cessazioni degli usi civici  «hanno  efficacia
dalla data degli atti o provvedimenti ovvero,  se  precedenti,  dalle
date indicate negli atti o provvedimenti dalla data in cui e'  venuta
meno  la   destinazione   funzionale   degli   usi   civici»,   viene
concettualmente a collidere con il principio  di  imprescrittibilita'
del bene d'uso civico, secondo quanto precedentemente argomentato. 
    4.4.- In definitiva, le norme censurate  sono  accomunate  da  un
medesimo  errore  concettuale  di  impostazione.  Esso  consiste  nel
concepire la sclassificazione dei beni d'uso civico alla stregua  del
mutamento di destinazione degli stessi che persegue finalita' diverse
da quelle originarie ma  parimenti  caratterizzate  dalla  permanenza
dell'interesse generale alla loro nuova destinazione. 
    Al  contrario,  la  sclassificazione  -  in  quanto   finalizzata
all'alienazione  ed  alla  legittimazione  dei  beni  civici  -   non
costituisce una  scelta  pianificatoria  del  legislatore  regionale,
bensi'   un   istituto   condizionato   dalla   preesistenza    degli
indefettibili requisiti di legge in presenza dei quali  e'  possibile
l'estinzione della natura pubblica del  bene  e  il  suo  conseguente
assoggettamento ad un pieno regime di diritto privato. Eventi, questi
ultimi, che precludono, in radice, la permanenza  della  destinazione
ambientale e - quindi - anche la possibilita' della copianificazione. 
    5.- Anche la questione,  sollevata  nei  confronti  dell'art.  8,
comma 13, della legge reg. Sardegna n.  5  del  2016  in  riferimento
all'art.  117,  terzo  comma,  Cost.,  riconducibile   alla   materia
«coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» ed in
relazione all'art. 31, comma 26, della legge  n.  183  del  2011,  e'
fondata. 
    La  norma  regionale  prevede  per  i  «piccoli   comuni   sardi»
l'esenzione dal regime sanzionatorio correlato  al  mancato  rispetto
del patto di stabilita'  interno  per  il  2015:  «Nel  rispetto  dei
principi di finanza pubblica ed esclusivamente nei casi di violazioni
riguardanti il mancato rispetto del patto di stabilita'  interno  per
il 2015, ai piccoli comuni sardi non si applicano le sanzioni di  cui
all'articolo 31, comma 26, della  legge  12  novembre  2011,  n.  183
(legge di stabilita' 2012), qualora i comuni dimostrino di  rientrare
dallo sforamento entro l'anno 2016, anche al netto  dei  ritardi  dei
trasferimenti regionali, causa ovvero concausa della  violazione.  La
presente disposizione si applica nel territorio  regionale  in  forza
della  capacita'  legislativa  di  cui  all'articolo  3  della  legge
costituzionale n. 3 del 1948 e successive modifiche ed integrazioni». 
    La richiamata  norma  interposta,  nel  prevedere  un  articolato
regime sanzionatorio, non contempla affatto l'eccezione disposta  dal
legislatore regionale. 
    Dal confronto tra le due disposizioni risulta che la disposizione
regionale impugnata consente invece ad una parte dei «piccoli  comuni
sardi» di  non  essere  soggetti  al  relativo  regime  sanzionatorio
derivante dal mancato rispetto del patto di stabilita' interno. 
    Questa Corte  ha  piu'  volte  affermato  che  la  previsione  di
sanzioni in caso  di  violazione  del  patto  di  stabilita'  interno
afferisce alla materia del coordinamento  della  finanza  pubblica  e
trova applicazione  anche  nei  confronti  delle  autonomie  speciali
(sentenze n. 46 del 2015, n. 54 del 2014, n. 229 del 2011, n.  169  e
n. 82 del 2007, n. 417 del 2005, n. 353 e n. 36 del 2004). 
    Il potere di esonerare i suddetti enti  locali  dalle  richiamate
sanzioni non e', al contrario di quanto affermato nella  disposizione
impugnata, ricompreso nella competenza legislativa prevista dall'art.
3, lettera b), dello  statuto  della  Regione  autonoma  Sardegna  in
materia  di  «ordinamento  degli  enti  locali   e   delle   relative
circoscrizioni»,  poiche'  la  corretta  applicazione  del  patto  di
stabilita' consegue ai vincoli  europei  e  nazionali  dei  quali  e'
titolare lo Stato in qualita'  di  «custode  della  finanza  pubblica
allargata» (ex plurimis, sentenza n. 107  del  2016)  ed,  in  quanto
tale, titolare del potere di prevedere sanzioni nei  confronti  degli
enti territoriali che, attraverso il mancato rispetto  dello  stesso,
pongono in pericolo gli obiettivi di carattere macroeconomico. 
    La norma impugnata, non riconducibile  a  competenza  legislativa
prevista dallo Statuto, e' dunque in contrasto con l'art. 117,  terzo
comma, Cost. in relazione all'evocata norma interposta, la quale  non
contempla, a livello nazionale, alcun esonero  per  la  tipologia  di
enti individuata dal legislatore regionale.