ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 309, comma
8, e 127, comma 6, del  codice  di  procedura  penale,  promossi  dal
Tribunale ordinario di Lecce, con una ordinanza del 19 giugno  e  due
ordinanze del 29 agosto 2015, rispettivamente iscritte  ai  nn.  341,
342 e 343 del registro ordinanze 2015  e  pubblicate  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n.  2,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2016. 
    Visti l'atto di costituzione  di  D.  V.,  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica e nella camera di  consiglio  del  24
ottobre 2017 il giudice relatore Franco Modugno; 
    uditi l'avvocato Ladislao Massari per D. V.  e  l'avvocato  dello
Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con tre ordinanze di analogo tenore, emesse il 19 giugno 2015
(r.o. n. 341 del 2015) e il 29 agosto 2015 (r.o. n. 342 e n. 343  del
2015), il Tribunale ordinario  di  Lecce,  sezione  per  il  riesame,
solleva questioni di legittimita'  costituzionale  degli  artt.  309,
comma 8, e 127, comma 6, del codice di procedura penale, «nella parte
in cui non consentono che il procedimento per il riesame delle misure
cautelari si svolga, su richiesta  dell'indagato  o  del  ricorrente,
nelle forme della pubblica udienza», denunciando la violazione  degli
artt. 3, 111, primo comma, e 117, primo  comma,  della  Costituzione,
quest'ultimo in relazione all'art. 6, paragrafo 1, della  Convenzione
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.
848 (d'ora in avanti, CEDU). 
    Il giudice a quo premette di essere investito delle richieste  di
riesame delle ordinanze con le quali e' stata applicata ai ricorrenti
la misura della custodia cautelare in carcere per i reati di furto  e
ricettazione aggravata in concorso (nel  caso  di  cui  all'ordinanza
r.o. n. 341 del 2015), di associazione di stampo mafioso (nel caso di
cui all'ordinanza r.o. n. 342 del 2015) e  di  cessione  illecita  di
sostanze stupefacenti (nel caso di cui all'ordinanza r.o. n. 343  del
2015). 
    Riferisce, altresi',  che  in  ciascuno  dei  casi  il  difensore
dell'interessato ha chiesto preliminarmente che il  procedimento  sia
trattato nelle forme dell'udienza pubblica. 
    L'istanza - ad  avviso  del  rimettente  -  non  potrebbe  essere
accolta, ostandovi l'univoco disposto dell'art. 309,  comma  8,  cod.
proc. pen., a mente del quale il procedimento  davanti  al  tribunale
del riesame si svolge in camera di  consiglio  nelle  forme  previste
dall'art. 127 cod. proc. pen., e dunque - in forza  del  comma  6  di
tale articolo - senza la presenza del pubblico. 
    Il  giudice  a   quo   dubita,   tuttavia,   della   legittimita'
costituzionale di tale disciplina. 
    Essa violerebbe, anzitutto, l'art. 117, primo comma,  Cost.,  per
contrasto  con  il  principio   di   pubblicita'   dei   procedimenti
giudiziari, sancito  dall'art.  6,  paragrafo  1,  della  CEDU,  come
interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    Quest'ultima ha ritenuto, infatti, incompatibili  con  l'indicata
garanzia convenzionale taluni procedimenti giurisdizionali dei  quali
la legge italiana prevedeva la trattazione in forma  camerale,  senza
consentire la partecipazione del pubblico, e in specie i procedimenti
per l'applicazione di misure di  prevenzione  (sentenza  13  novembre
2007, Bocellari e Rizza contro Italia). A tale conclusione  la  Corte
europea e' pervenuta richiamando la propria costante  giurisprudenza,
secondo la quale la pubblicita' delle procedure giudiziarie tutela le
persone soggette a giurisdizione contro una  giustizia  segreta,  che
sfugge al controllo del pubblico, e costituisce  uno  dei  mezzi  per
preservare la fiducia nei giudici, contribuendo cosi' a realizzare lo
scopo dell'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, ossia l'equo processo. La
Corte ha escluso, altresi', che nel caso esaminato ricorresse  alcuna
circostanza eccezionale atta a giustificare  una  deroga  generale  e
assoluta al principio di pubblicita' dei giudizi. In particolare,  ha
osservato che - pur a fronte dell'elevato grado di tecnicismo che  le
procedure di prevenzione  possono  presentare  e  delle  esigenze  di
protezione della vita  privata  di  terze  persone,  in  esse  spesso
riscontrabili - l'entita' della «posta in gioco» e gli effetti che le
procedure  stesse  possono  produrre  sulle  persone  coinvolte   non
consentono di affermare che il controllo del pubblico non rappresenti
una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell'interessato.
Di conseguenza, ha giudicato «essenziale», ai fini del  rispetto  del
citato art. 6, paragrafo 1, della  CEDU,  che  i  soggetti  coinvolti
nelle  procedure  in  questione  «si   vedano   almeno   offrire   la
possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni
specializzate dei tribunali e delle corti d'appello». 
    Alla luce  di  tali  affermazioni,  la  Corte  costituzionale  ha
dichiarato quindi illegittime, per violazione  dell'art.  117,  primo
comma, Cost., le norme regolative  del  procedimento  di  prevenzione
nella  parte  in  cui  non  consentivano  che,   su   istanza   degli
interessati, la  procedura  si  svolgesse  nelle  forme  dell'udienza
pubblica, quanto ai gradi  di  merito  (sentenza  n.  93  del  2010).
Nell'occasione, la Corte  costituzionale  ha  escluso  che  la  norma
convenzionale, come interpretata dalla Corte europea,  contrasti  con
le conferenti  tutele  offerte  dalla  nostra  Costituzione.  Pur  in
assenza  di  un'espressa  menzione  nella  Carta  costituzionale,  il
principio di pubblicita' delle udienze - specie per quanto attiene al
giudizio  penale  -  deve  ritenersi,  infatti,  connaturato  ad   un
ordinamento democratico fondato sulla sovranita' popolare,  cui  deve
conformarsi l'amministrazione della giustizia, la quale  -  in  forza
dell'art. 101, primo comma, Cost. - trova  in  quella  sovranita'  la
propria legittimazione. 
    Alle medesime conclusioni la Corte e'  successivamente  pervenuta
anche in rapporto al procedimento per l'applicazione delle misure  di
sicurezza (sentenza n. 135 del  2014),  al  procedimento  davanti  al
tribunale di sorveglianza (sentenza n. 97 del 2015) e al procedimento
di opposizione contro l'ordinanza in materia  di  applicazione  della
confisca in sede esecutiva (sentenza n. 109 del 2015). 
    Secondo il giudice a quo, analoga declaratoria di  illegittimita'
costituzionale si imporrebbe anche con riguardo  al  procedimento  di
riesame  delle  ordinanze  che  dispongono  una  misura   coercitiva,
disciplinato dall'art. 309 cod. proc. pen.  Tale  procedimento  -  al
pari di quello di appello ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen. e di
quello di riesame delle misure cautelari reali (art. 324  cod.  proc.
pen.) - non presenterebbe, infatti, almeno di regola,  un  «rilevante
tasso  di  tecnicismo  giuridico»,  attenendo  ad  un  fatto  storico
concreto. La valutazione affidata al giudice non  differirebbe  -  se
non per una minore ampiezza - da quella insita in  ogni  giudizio  di
merito, dovendosi verificare la fondatezza dell'addebito cautelare  -
sotto il profilo della sussistenza di gravi indizi  di  colpevolezza,
quanto alle misure personali, e della giuridica plausibilita', quanto
a quelle reali - nella prospettiva di applicare, in caso di  positiva
delibazione  e  di  accertata  sussistenza  di  esigenze   cautelari,
provvedimenti che possono avere effetti  sostanzialmente  coincidenti
con quelli della pena irrogata con la sentenza definitiva. La  «posta
in gioco» sarebbe  inoltre  altissima,  trattandosi  di  procedimento
idoneo ad  incidere  in  modo  rilevante  sulla  liberta'  personale,
sull'onorabilita' e (nel caso delle misure reali) sul patrimonio  del
soggetto in esso coinvolto. 
    «Sotto l'aspetto  mediatico»,  d'altronde,  l'esecuzione  di  una
misura cautelare rappresenterebbe, per comune esperienza, il «momento
[...]  traumatico  di  emersione  del  procedimento»   penale.   Tale
circostanza  solleciterebbe   l'attenzione   dell'opinione   pubblica
sull'esito del procedimento di riesame, che offre al sottoposto  alla
misura la prima possibilita' di confrontarsi in  contraddittorio  con
il materiale indiziario raccolto nei suoi confronti,  rendendo  cosi'
«quanto mai opportuna»  la  pubblicita'  delle  udienze  al  fine  di
assicurare la trasparenza dell'attivita' giudiziaria. 
    Alla partecipazione del pubblico alla trattazione del ricorso  di
cui all'art. 309 cod. proc. pen.  non  osterebbe,  per  altro  verso,
alcuna delle circostanze indicate nel secondo periodo del paragrafo 1
dell'art. 6 della  CEDU  (secondo  il  quale  «l'accesso  nella  sala
d'udienza puo' essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto
o  parte  del  processo  nell'interesse  della  morale,   dell'ordine
pubblico o della sicurezza nazionale  in  una  societa'  democratica,
quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita
privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata  strettamente
necessaria  dal  tribunale,  quando  in   circostanze   speciali   la
pubblicita'  possa   portare   pregiudizio   agli   interessi   della
giustizia»). Nei giudizi a quibus, si discute dell'applicazione della
misura cautelare carceraria nei confronti di  soggetti  indagati  per
reati che non coinvolgono ne' l'interesse  alla  morale,  ne'  quello
all'ordine pubblico o alla sicurezza nazionale, ne' gli interessi dei
minori o la protezione della vita privata delle parti in causa. 
    Neppure potrebbe venire in  rilievo  l'esigenza  di  evitare  una
lesione degli interessi della giustizia, in considerazione del  fatto
che la misura cautelare viene applicata, di regola, in una  fase  del
procedimento - quella delle  indagini  preliminari  -  governata  dal
principio di segretezza per non compromettere la genuina acquisizione
delle prove e quindi il compiuto accertamento dei fatti. Di  la'  dal
fatto che non sempre la misura cautelare e' disposta in  detta  fase,
varrebbe osservare che proprio la  proposizione  della  richiesta  di
riesame  fa  cadere  il  segreto  sugli  atti  di  indagine,  dovendo
l'autorita' procedente trasmettere gli atti presentati  dal  pubblico
ministero a sostegno della richiesta  della  misura,  nonche'  quelli
successivi favorevoli  alla  persona  sottoposta  alle  indagini.  Il
segreto cadrebbe, anzi, ancor prima, con la consegna all'indagato  di
copia del provvedimento in sede di esecuzione della misura (art.  293
cod. proc. pen.),  posto  che  gli  atti  di  indagine  compiuti  dal
pubblico ministero e  dalla  polizia  giudiziaria  sono  coperti  dal
segreto fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza  (art.
329 cod. proc. pen.). 
    Quello di riesame e' certamente un giudizio di natura sommaria  e
provvisoria, che si inserisce nel  procedimento  principale  solo  al
fine di verificare la legittimita' dell'applicazione  di  una  misura
cautelare e che  e'  destinato  ad  essere  superato  dalla  sentenza
dibattimentale.  Il  carattere  incidentale  del   procedimento   non
basterebbe, tuttavia, a renderlo compatibile, in parte  qua,  con  il
dettato convenzionale. La Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  ha
escluso, bensi', l'applicabilita' dell'art.  6,  paragrafo  1,  della
CEDU al procedimento in materia di ricusazione, sul rilievo che  esso
costituisce  una  procedura  incidentale  non  finalizzata   ad   una
«decisione» sulla «fondatezza» di una «accusa penale» - come richiede
la citata norma convenzionale - ma  solo  a  determinare  l'autorita'
competente a trattare la causa  ratione  loci  (sentenza  9  febbraio
2006, Celot  contro  Italia).  Tale  conclusione  non  riguarderebbe,
tuttavia, il procedimento di riesame, nel quale  il  tribunale  -  in
sede di verifica della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza -
esprime un giudizio che costituisce una sorta di anticipazione  della
sentenza dibattimentale,  rappresentato  dalla  elevata  probabilita'
che, sulla scorta degli elementi offerti, la  responsabilita'  penale
dell'indagato sara' poi affermata nel processo. Quel che rileverebbe,
ai fini dell'applicazione dell'art. 6, paragrafo 1,  della  CEDU,  e'
che si e' a fronte  di  un  giudizio  sull'accusa  penale  -  ipotesi
senz'altro  riscontrabile  nel  caso  in  esame  -  e  non  anche  la
circostanza che  tale  decisione  vale  a  definire  la  «causa».  Il
giudizio del tribunale del riesame,  d'altro  canto,  inciderebbe  in
modo definitivo - salve circostanze  sopravvenute  -  sulla  liberta'
personale e sul diritto di proprieta' dell'interessato, sia  pure  ai
soli fini cautelari. 
    La disciplina censurata violerebbe anche l'art. 111, primo comma,
Cost., per contrasto con i principi del «giusto processo», ai  quali,
per quanto gia' detto, non  potrebbe  ritenersi  estraneo  -  pur  in
difetto di enunciazione espressa - il principio di pubblicita'  delle
udienze giudiziarie. 
    Risulterebbe violato, infine, l'art. 3 Cost.,  sotto  il  profilo
della ingiustificata disparita' di trattamento dei soggetti coinvolti
nel procedimento di riesame sia rispetto ai  soggetti  coinvolti  nei
procedimenti per l'applicazione di misure di prevenzione e di  misure
di sicurezza - ai quali, per effetto dei ricordati  interventi  della
Corte costituzionale, e' ora riconosciuto il diritto di  chiedere  la
trattazione in udienza pubblica della procedura  -  sia  rispetto  ai
soggetti coinvolti nel giudizio abbreviato e nel giudizio ordinario. 
    2.- E' intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano  dichiarate  inammissibili  o
infondate. 
    L'interveniente  rileva  preliminarmente  che,   secondo   quanto
riferito dal giudice a quo,  nei  casi  di  specie  la  richiesta  di
trattazione del procedimento in udienza pubblica e'  stata  formulata
dal difensore. Trattandosi di far valere un  diritto  personalissimo,
non afferente  alla  sfera  della  difesa  tecnica  e  potenzialmente
confliggente  con  il  diritto  alla  riservatezza,   proprio   della
condizione dell'indagato detenuto  in  base  a  titolo  precario,  la
richiesta avrebbe dovuto essere avanzata, per  contro,  personalmente
da quest'ultimo o a mezzo di difensore munito di procura speciale, il
che non si evince dall'ordinanza di rimessione. Di  conseguenza,  non
essendo possibile  verificare  se  la  richiesta  di  trattazione  in
udienza  pubblica  corrisponda   effettivamente   alla   volonta'   e
all'interesse  dell'indagato,  resterebbe   inibito   il   necessario
scrutinio circa la rilevanza delle questioni. 
    Nel merito, le questioni sarebbero in ogni caso infondate. 
    La procedura incidentale di riesame  non  e'  volta,  infatti,  a
decidere sul merito della responsabilita' penale e la  pronuncia  che
la  conclude  non  e'  destinata  ad  assumere  il  connotato   della
irrevocabilita'. La decisione ha luogo allo stato degli atti, e anche
quello che  la  giurisprudenza  definisce  come  giudicato  cautelare
presenta «una stabilita' piuttosto  effimera».  Conseguentemente,  la
procedura non ricadrebbe  nell'ambito  di  applicazione  dell'art.  6
della CEDU, che attiene  unicamente  ai  procedimenti  finalizzati  a
verificare la fondatezza sostanziale dell'accusa. 
    Neppure, d'altro canto, potrebbe ritenersi conculcato il  diritto
di difesa,  risultando  in  ogni  caso  garantita  la  partecipazione
dell'interessato e non essendo previsti  meccanismi  di  acquisizione
delle prove connotati dal regime della pubblicita'. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Lecce, con tre ordinanze di analogo
tenore, dubita della legittimita'  costituzionale  degli  artt.  309,
comma 8, e 127, comma 6, del codice di procedura penale, «nella parte
in cui non consentono che il procedimento per il riesame delle misure
cautelari si svolga, su richiesta  dell'indagato  o  del  ricorrente,
nelle forme della pubblica udienza». 
    Ad avviso del rimettente, le norme censurate violerebbero  l'art.
117, primo comma, della Costituzione, in quanto  non  rispettose  del
principio  di  pubblicita'  dei  procedimenti   giudiziari,   sancito
dall'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora  in  avanti,  CEDU),
cosi' come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    Risulterebbe violato, altresi', l'art. 111, primo  comma,  Cost.,
per contrasto con il principio del «giusto processo»,  al  quale  non
potrebbe ritenersi estraneo, pure in difetto  di  espressa  menzione,
quello di pubblicita' delle udienze giudiziarie. 
    Le disposizioni censurate lederebbero, infine,  l'art.  3  Cost.,
per l'irragionevole disparita' di trattamento dei soggetti  coinvolti
nel procedimento di riesame sia rispetto ai  soggetti  coinvolti  nei
procedimenti per l'applicazione di misure di prevenzione e di  misure
di sicurezza - ai quali, per effetto delle sentenze n. 93 del 2010  e
n. 135 del 2014 di  questa  Corte,  e'  riconosciuto  il  diritto  di
chiedere la trattazione in udienza pubblica  della  procedura  -  sia
rispetto ai soggetti coinvolti nel giudizio abbreviato e nel giudizio
ordinario. 
    2.- Le tre ordinanze di rimessione sollevano identiche questioni,
sicche' i relativi giudizi vanno  riuniti  per  essere  definiti  con
unica decisione. 
    3.- In via preliminare, va rilevato che  -  malgrado  i  ripetuti
riferimenti al procedimento di appello in materia cautelare (art. 310
cod. proc. pen.) e a quello di riesame delle misure  cautelari  reali
(art. 324  cod.  proc.  pen.)  rinvenibili  nella  motivazione  delle
ordinanze  di  rimessione  -  il  dispositivo  e  le  premesse  delle
ordinanze stesse rendono palese come  le  questioni  sottoposte  alla
Corte  attengano  al  solo  procedimento  di  riesame  delle   misure
cautelari  coercitive,  regolato  dall'art.  309  cod.   proc.   pen.
(strumento di  impugnazione  sui  generis,  inteso  a  realizzare  un
controllo, anche di  merito,  in  tempi  ristretti  e  perentori  sui
provvedimenti  "genetici"  delle  predette  misure).   Le   doglianze
investono segnatamente la previsione del comma 8 del citato art. 309,
secondo la quale detto procedimento «si svolge in camera di consiglio
nelle forme previste dall'articolo  127»,  e  dunque,  ai  sensi  del
parimente censurato comma 6 della disposizione richiamata, «senza  la
presenza del pubblico». 
    4.-  Cio'  premesso,  l'eccezione   di   inammissibilita'   delle
questioni formulata dal Presidente del Consiglio dei ministri non  e'
fondata. 
    L'interveniente rileva che, per quanto riferito  dal  rimettente,
la richiesta di trattazione in udienza pubblica  dei  procedimenti  a
quibus -  richiesta  che  condiziona  la  rilevanza  delle  questioni
(sentenza n. 214 del 2013) - e' stata  formulata  dal  difensore  del
ricorrente e, dunque, da un soggetto - in assunto - non  legittimato.
Trattandosi  dell'esercizio  di  un   diritto   personalissimo,   non
afferente alla difesa tecnica e potenzialmente  confliggente  con  il
diritto alla riservatezza del soggetto in vinculis, l'istanza avrebbe
dovuto essere, infatti, proposta  personalmente  dall'indagato  o  da
difensore munito di procura speciale. 
    In senso contrario, va osservato che l'art.  99,  comma  1,  cod.
proc. pen. stabilisce, come  regola  generale,  che  «[a]l  difensore
competono  le  facolta'  e  i  diritti   che   la   legge   riconosce
all'imputato,  a  meno  che  essi  siano  riservati  personalmente  a
quest'ultimo». In  assenza  di  una  disposizione  che  configuri  la
richiesta di udienza pubblica come atto personale  dell'imputato,  la
tesi per cui essa puo' promanare anche dal difensore appare,  dunque,
quantomeno  non  implausibile.  E'  questa,  del  resto,   l'opinione
corrente con riguardo  alla  richiesta  di  svolgimento  in  pubblica
udienza  del  giudizio  abbreviato  (altrimenti  trattato  in   forma
camerale), prevista dall'art. 441, comma 3, cod. proc. pen. 
    5.- Nel merito, le questioni sono, tuttavia, non fondate. 
    5.1.- Un rilievo  preminente  assume,  nella  prospettazione  del
rimettente, la censura di violazione della garanzia della pubblicita'
dei procedimenti giudiziari,  stabilita  dall'art.  6,  paragrafo  1,
della CEDU, cosi' come interpretato dalla Corte europea  dei  diritti
dell'uomo: violazione cui consegue,  di  riflesso,  quella  dell'art.
117, primo comma, Cost. Cio', alla  luce  del  noto  indirizzo  della
giurisprudenza di questa Corte - inaugurato dalle sentenze n.  348  e
n. 349 del  2007  -  secondo  il  quale  le  norme  della  CEDU,  nel
significato loro attribuito (con giurisprudenza consolidata: sentenza
n. 49 del 2015) dalla Corte di Strasburgo,  specificamente  istituita
per dare ad esse interpretazione  e  applicazione,  integrano,  quali
«norme interposte», il citato parametro costituzionale,  nella  parte
in cui impone la conformazione della legislazione interna ai  vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali. 
    A sostegno della censura, il rimettente evoca, in particolare, la
sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro  Italia,  con  la
quale la Corte di Strasburgo ha ritenuto incompatibile con l'indicata
garanzia  convenzionale  il  procedimento  per  l'applicazione  delle
misure di prevenzione, del quale la legge italiana all'epoca  vigente
prevedeva la trattazione in forma camerale. 
    La Corte europea e' pervenuta a tale conclusione  richiamando  la
propria costante giurisprudenza,  secondo  la  quale  la  pubblicita'
delle  procedure  giudiziarie  tutela  le   persone   soggette   alla
giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge  al  controllo
del pubblico, e costituisce anche uno  strumento  per  preservare  la
fiducia  nei  giudici,  contribuendo  cosi'  a  realizzare  lo  scopo
dell'art. 6, paragrafo 1, della CEDU: ossia l'equo processo. 
    Come attestano le eccezioni previste dalla  seconda  parte  della
norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorita'  giudiziarie
di derogare al principio di  pubblicita'  delle  udienze.  La  stessa
Corte europea ha,  d'altra  parte,  ritenuto  che  alcune  situazioni
eccezionali, attinenti alla natura  delle  questioni  da  trattare  -
quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso -
possano giustificare che si faccia a meno di un'udienza pubblica.  In
ogni caso, pero', l'udienza a porte chiuse, per tutta o  parte  della
durata, deve essere «strettamente  imposta  dalle  circostanze  della
causa». 
    Con particolare riguardo al procedimento per l'applicazione delle
misure di prevenzione, la Corte di Strasburgo non ha negato che detta
procedura possa presentare «un elevato grado  di  tecnicita'»  e  far
emergere, altresi', esigenze di  protezione  della  vita  privata  di
terze persone. Ma ha rilevato che l'entita' della «posta in gioco»  -
rappresentata (nel caso delle misure patrimoniali) dalla confisca  di
«beni e capitali» - e  gli  effetti  che  la  procedura  stessa  puo'
produrre sulle persone non consentono di affermare «che il  controllo
del pubblico» - almeno su sollecitazione  del  soggetto  coinvolto  -
«non  sia  una  condizione  necessaria  alla  garanzia  dei   diritti
dell'interessato». Di conseguenza, ha ritenuto «essenziale», ai  fini
della  realizzazione   della   garanzia   prefigurata   dalla   norma
convenzionale, «che le persone [...] coinvolte in un procedimento per
l'applicazione delle misure di prevenzione si vedano  almeno  offrire
la possibilita' di sollecitare  una  pubblica  udienza  davanti  alle
sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d'appello». 
    Tali  principi,  enunciati  avendo  specificamente  di  mira   il
procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione reali,  sono
stati ribaditi dai giudici europei in plurime pronunce successive  ed
estesi recentemente  anche  al  procedimento  per  l'applicazione  di
misure di prevenzione personali (Corte europea dei diritti dell'uomo,
Grande camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia). 
    Il giudice a quo ricorda, per altro verso, come gli arresti della
giurisprudenza europea -  ritenuti  pienamente  compatibili  «con  le
conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione»  -  siano  stati
posti da questa  Corte  a  base  di  declaratorie  di  illegittimita'
costituzionale   attinenti   non   soltanto   al   procedimento   per
l'applicazione di misure di prevenzione (sentenza n. 93 del 2010), ma
anche a procedimenti ulteriori e distinti rispetto a quelli presi  in
esame in sede europea: procedimenti ai quali le conclusioni raggiunte
dalla Corte di Strasburgo sono apparse estensibili,  in  ragione  del
carattere  non  prettamente  «tecnico»  delle   questioni   in   essi
affrontate e della rilevanza della «posta in gioco» (sentenza n.  135
del 2014, con riguardo al procedimento per l'applicazione  di  misure
di sicurezza; sentenza n. 97 del 2015, in relazione  al  procedimento
davanti  al  tribunale  di  sorveglianza,  nelle   materie   di   sua
competenza; sentenza n. 109 del 2015, in ordine  al  procedimento  di
opposizione contro  l'ordinanza  in  materia  di  applicazione  della
confisca in sede esecutiva). In ognuna di tali circostanze, le  norme
censurate sono state dichiarate costituzionalmente illegittime  -  in
linea con le indicazioni della Corte di Strasburgo - «nella parte  in
cui non consentono che, su istanza degli interessati», i procedimenti
considerati si svolgano «nelle forme dell'udienza  pubblica»,  quanto
ai gradi di merito. 
    Secondo  il  Tribunale  leccese,  una   pronuncia   similare   si
imporrebbe anche in rapporto al procedimento di riesame delle  misure
cautelari personali. Anche in questo caso, non si sarebbe di fronte a
un  procedimento  connotato  da  un  elevato  tasso  di   tecnicismo,
trattandosi  di  giudizio   volto   a   verificare   «la   fondatezza
dell'addebito cautelare», sotto  il  profilo  della  sussistenza  dei
gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari. La «posta in
gioco» sarebbe, inoltre, altissima, discutendosi dell'applicazione di
provvedimenti restrittivi della liberta' personale che possono  avere
effetti coincidenti con quelli della pena irrogata  con  la  sentenza
definitiva e che incidono, altresi', sull'«onorabilita'» del soggetto
attinto.  L'esclusione  assoluta   del   pubblico   dall'udienza   di
trattazione del ricorso non sarebbe,  d'altra  parte,  giustificabile
con alcuna delle esigenze indicate nella seconda parte  dell'art.  6,
paragrafo 1, della CEDU  (ivi  compresa  quella  della  tutela  degli
interessi della giustizia, connessa  alla  salvaguardia  del  segreto
sugli atti di indagine, il quale cadrebbe, a norma dell'art. 329 cod.
proc.  pen.,  gia'  con  la  consegna  dell'indagato  di  copia   del
provvedimento cautelare in  sede  di  esecuzione  della  misura).  Da
ultimo,  l'opinione  pubblica  avrebbe  un  particolare  interesse  a
seguire  lo  svolgimento  della  procedura  di  riesame,  posto   che
l'applicazione della misura  cautelare  rappresenta,  di  solito,  il
momento «traumatico» di emersione del procedimento penale. 
    5.2.- Nel formulare la doglianza, il  giudice  a  quo  non  tiene
conto, tuttavia,  della  giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo
attinente, in modo  specifico,  al  procedimento  di  verifica  della
legittimita' della detenzione ante iudicium della  persona  indiziata
di un reato: giurisprudenza  secondo  la  quale  la  Convenzione  non
richiede, in via di principio, che le relative udienze  siano  aperte
al pubblico. 
    Tale indirizzo trova il suo caposaldo nella sentenza 15  novembre
2005, Reinprecht contro Austria. Con  tale  pronuncia,  la  Corte  ha
anzitutto escluso che l'esigenza  della  pubblicita'  sia  desumibile
dalla norma  della  Convenzione  che  si  occupa  specificamente  del
procedimento considerato: vale a dire l'art. 5, paragrafo 4,  secondo
il quale «[o]gni persona privata della liberta' con un arresto o  una
detenzione ha il diritto di  presentare  un  ricorso  davanti  ad  un
tribunale, affinche' decida in breve tempo sulla  legittimita'  della
sua detenzione e ordini  la  sua  liberazione  se  la  detenzione  e'
illegittima». 
    Richiamando  la  propria  precedente  giurisprudenza,  la   Corte
europea ha osservato che  detto  procedimento  deve  avere  carattere
giudiziale, assicurando il rispetto dei principi del  contraddittorio
e della «parita' delle armi», in  quanto  «fondamentali  garanzie  di
procedura». Nel caso in cui la  detenzione  ricada  nella  previsione
dell'art. 5, paragrafo 1, lettera c) -  ossia  quando  si  tratti  di
detenzione preventiva della  persona  indiziata  di  un  reato  -  e'
inoltre necessario che si tenga un'udienza. 
    Nessun supporto trova, tuttavia, la tesi in base alla quale detta
udienza dovrebbe essere pubblica. In particolare, tale requisito  non
puo'  essere  ritenuto  implicito  nella  previsione   dell'art.   5,
paragrafo 4, in quanto finalizzata alla protezione contro l'arbitrio,
ovvero desunto dallo stretto collegamento esistente, nella sfera  dei
procedimenti penali, tra tale previsione e  l'art.  6,  paragrafo  1,
della  Convenzione.  L'applicabilita'  di  quest'ultima  disposizione
nella fase  anteriore  al  giudizio  resta,  infatti,  limitata  alle
garanzie che, se non applicate  in  questa  fase,  pregiudicherebbero
l'«equita'» dei processi «nella loro interezza»: pregiudizio  che  il
difetto di pubblicita' dell'udienza di riesame della legalita'  della
detenzione, durante la quale l'interessato sia stato assistito da  un
difensore, non appare invece idoneo a produrre. 
    Occorre considerare, altresi', che le disposizioni degli artt. 5,
paragrafo  4,  e  6,  paragrafo  1,  della  CEDU,  malgrado  la  loro
connessione, perseguono diverse finalita'. La prima mira a proteggere
l'individuo contro  l'arbitraria  detenzione,  garantendo  un  rapido
riesame della legalita' di ogni forma di  privazione  della  liberta'
personale. L'art. 6, paragrafo 1, si  occupa  invece  della  verifica
della fondatezza di un'accusa penale ed e' volto a garantire  che  il
merito della causa - ossia  la  questione  se  l'accusato  sia  o  no
colpevole dei fatti contestatigli - fruisca di una «equa  e  pubblica
udienza». Tale diversita'  di  obiettivi  spiega  perche'  l'art.  5,
paragrafo 4, preveda requisiti procedurali piu' flessibili di  quelli
dell'art. 6, mentre sia  molto  piu'  stringente  con  riguardo  alla
rapidita' della decisione: esigenza con la quale la pubblicita' delle
udienze potrebbe collidere. 
    Di qui la conclusione che l'art. 5, paragrafo 4, della CEDU, «pur
richiedendo  un'udienza  per  il  riesame  della  legittimita'  della
detenzione anteriore al giudizio, non richiede come  regola  generale
che detta udienza sia pubblica». 
    La Corte di Strasburgo si e' anche chiesta, peraltro,  se  l'art.
6, paragrafo 1, della CEDU possa essere applicato ai procedimenti  in
discorso sotto il profilo civile, ossia nella parte in cui  riferisce
le garanzie ivi enunciate - compresa quella della pubblicita' -  alle
controversie sui diritti e  sulle  obbligazioni  «di  natura  civile»
(cosi'  come  e'  poi  avvenuto  in  rapporto  al   procedimento   di
prevenzione, ritenuto dalla Corte europea di natura non  penale  agli
effetti della Convenzione): cio', sul  presupposto  che  la  liberta'
personale costituisce essa stessa, comunque sia, un «diritto civile».
La risposta e' stata, tuttavia, negativa. 
    La Corte ha, infatti, osservato che le  norme  della  Convenzione
debbono essere interpretate  in  modo  armonico.  Con  riguardo  alla
carcerazione preventiva, contrasterebbe con tale  principio  derivare
dal profilo civile dell'art. 6 requisiti piu'  stringenti  di  quelli
imposti  dallo  specifico   sistema   di   protezione   relativo   ai
procedimenti penali prefigurato  dall'art.  5,  paragrafo  4,  e  dal
profilo penale dello stesso art. 6.  In  tale  prospettiva,  si  deve
quindi riconoscere che la prima di  dette  norme  si  pone  come  lex
specialis  rispetto  alla  seconda,  prevedendo  specifiche  garanzie
procedurali per le questioni in materia di privazione della  liberta'
distinte da quelle dell'art. 6. 
    5.3.- Le conclusioni ora ricordate sono  state  confermate  dalla
giurisprudenza successiva, cosi' da potersi ritenere consolidate. 
    I giudici europei hanno ribadito, infatti, in piu' occasioni  che
l'art. 5, paragrafo 4, della CEDU, mentre esige che il ricorso  a  un
tribunale avverso una detenzione presenti  le  garanzie  fondamentali
inerenti ad una istanza di carattere giudiziario, dando luogo  ad  un
procedimento in contraddittorio che assicuri la «parita' delle  armi»
tra  le  parti,  non  richiede  invece,  come  regola  generale,  che
l'udienza di riesame della legalita'  della  carcerazione  preventiva
sia pubblica, pur non potendosi  escludere  che  la  pubblicita'  sia
richiesta in  determinate  circostanze  (Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, 23 ottobre 2012, Pichugin contro Russia; 21  giugno  2011,
Fruni contro Slovacchia; 16 dicembre 2010, Trepashkin contro Russia).
Cio', in quanto il requisito in  parola  non  rientra  nel  "nocciolo
duro" delle  garanzie  inerenti  alla  nozione  di  «equita'»,  nello
specifico contesto dei procedimenti in materia di  detenzione  (Corte
europea dei diritti dell'uomo, 31 maggio 2011,  Khodorkovskiy  contro
Russia). 
    Costante, per altro verso, e' l'affermazione per cui, in rapporto
agli  anzidetti  procedimenti,  il  citato  art.  5,   paragrafo   4,
costituisce lex specialis rispetto all'art.  6  (ex  plurimis,  Corte
europea dei diritti dell'uomo, 12 febbraio 2013, Amie e altri  contro
Bulgaria; 10 gennaio 2013, Claes contro Belgio);  come  pure  l'altra
che la procedura prevista dall'art. 5, paragrafo 4, non  deve  sempre
accompagnarsi a garanzie identiche  a  quelle  pretese  dall'art.  6,
posto che le due disposizioni perseguono obiettivi differenti (tra le
ultime, Corte europea dei diritti dell'uomo, 23 maggio 2017,  Mustafa
Avci contro Turchia; 13 dicembre 2016, Kolomenskiy contro Russia). 
    A fronte di cio',  in  fattispecie  nelle  quali  il  difetto  di
pubblicita' delle udienze dei procedimenti  in  questione  era  stata
censurata in rapporto tanto all'art. 5 quanto all'art. 6 della  CEDU,
la Corte ha rigettato la censura ai sensi dell'art. 35, paragrafi 3 e
4, della Convenzione,  reputandola  manifestamente  infondata  (Corte
europea dei diritti dell'uomo, 6 dicembre 2011, Rafig  Aliyev  contro
Azerbaigian; 9 novembre 2010, Farhad Aliyev contro Azerbaigian). 
    5.4.- Alla luce di quanto precede, la questione  di  legittimita'
costituzionale  sollevata  dall'odierno  rimettente  in   riferimento
all'art. 117, primo comma, Cost. si rivela dunque non fondata, per la
dirimente ragione che la «norma interposta»  ricavabile  dalla  CEDU,
come interpretata  dalla  "sua"  Corte,  destinata  ad  integrare  il
parametro costituzionale evocato, risulta essere di segno diverso  da
quello ipotizzato dal giudice a quo. 
    6.- Egualmente infondata e' la censura  di  violazione  dell'art.
111, primo comma, Cost., per contrasto con  i  principi  del  «giusto
processo». 
    6.1.- Al riguardo, giova ricordare come, anteriormente alla legge
costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei  principi  del
giusto   processo   nell'articolo   111   della   Costituzione),   la
giurisprudenza di questa Corte fosse costante nel ritenere  che,  pur
in assenza di un esplicito richiamo in Costituzione, il principio  di
pubblicita' delle udienze giudiziarie assumesse una indubbia  valenza
costituzionale, in  particolare  quale  corollario  della  previsione
dell'art. 101, primo comma, Cost. (secondo la quale  «[l]a  giustizia
e' amministrata in nome del popolo»). La regola della pubblicita' del
giudizio - si era osservato - risulta,  infatti,  connaturata  ad  un
ordinamento democratico fondato sulla sovranita' popolare,  cui  deve
conformarsi l'amministrazione della giustizia, la quale, in forza del
citato art. 101, primo comma, Cost., trova in  quella  sovranita'  la
sua legittimazione (sentenze n. 235 del 1993, n. 373 del 1992, n.  50
del 1989, n. 212 del 1986 e n. 12 del 1971). E  cio'  particolarmente
in rapporto ai giudizi penali,  tenuto  conto  della  qualita'  degli
interessi da proteggere e dei riflessi sociali della violazione delle
norme penali (sentenza n. 69 del 1991). 
    Al tempo stesso, tuttavia, si era precisato  come  quella  regola
non avesse valore assoluto, potendo il legislatore introdurre deroghe
al principio  di  pubblicita'  in  presenza  di  particolari  ragioni
giustificative, purche' obiettive e razionali (n. 50 del  1989  e  n.
212 del 1986), e, nel caso  del  dibattimento  penale,  collegate  ad
esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale (sentenza n. 12
del 1971). Entro tali limiti, il bilanciamento dei vari interessi  in
gioco  rimaneva,  comunque  sia,   affidato   alla   discrezionalita'
legislativa (sentenze n. 235 del 1993 e n. 373 del 1992). 
    6.2.-  Alla  costituzionalizzazione  espressa  del  principio  di
pubblicita' non si e' pervenuti neppure in occasione dell'inserimento
in Costituzione dei principi del «giusto  processo»  ad  opera  della
legge cost. n. 2 del 1999: cio', quantunque il nuovo testo  dell'art.
111 Cost. ricalchi, in parte qua, le corrispondenti previsioni  della
CEDU. 
    Nondimeno, proprio nel pronunciarsi sulla tematica oggi in  esame
- quella del diritto alla pubblicita' delle udienze nei  procedimenti
camerali  -  questa  Corte  ha  ritenuto  di  poter  ravvisare  nella
previsione del novellato primo comma dell'art. 111 Cost. (secondo  la
quale «[l]a  giurisdizione  si  attua  mediante  il  giusto  processo
regolato  dalla  legge»)  il  referente  primario   cui   agganciare,
nell'attuale panorama  normativo,  la  rilevanza  costituzionale  del
principio di pubblicita'.  Cio',  sull'implicito  presupposto  che  -
anche alla luce di quanto disposto dall'art. 6  della  CEDU  -  detto
principio  rappresenti,  comunque  sia,  una  componente  naturale  e
coessenziale del processo «equo». La dichiarazione di  illegittimita'
costituzionale delle disposizioni di  volta  in  volta  censurate  e'
stata, infatti, pronunciata non solo per  la  riscontrata  violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., conseguente al loro contrasto  con
la disciplina convenzionale, ma anche per quella dell'art. 111, primo
comma, Cost. (sentenze n. 109 e n. 97 del 2015, n. 135 del 2014). 
    6.3.- Nel caso odierno, peraltro - escluso, per quanto detto, che
l'esigenza di estendere il meccanismo della "pubblicita' a richiesta"
al  procedimento  di  riesame  possa  essere  desunta  dall'art.   6,
paragrafo 1, della CEDU - deve parimente escludersi che  l'intervento
auspicato dal giudice a  quo  possa  ritenersi  imposto  dalla  norma
costituzionale interna sul «giusto processo». 
    La presenza di una ulteriore base normativa  atta  a  fondare  la
rilevanza   costituzionale   del   principio   di   pubblicita'   dei
procedimenti giudiziari si  presta  a  conferire  a  quest'ultimo  un
maggior risalto, accrescendone la "forza di resistenza" nei confronti
di sollecitazioni di segno contrastante. Essa non intacca,  tuttavia,
la conclusione cui era  gia'  pervenuta  questa  Corte,  riguardo  al
carattere non assoluto  del  principio  e  alla  configurabilita'  di
legittime eccezioni, dovendosi tuttora escludere che la  Costituzione
imponga  in  modo  indefettibile  la  pubblicita'  di  ogni  tipo  di
procedimento giudiziario e di ogni fase di esso. 
    Nella specie, non si puo' non considerare il fatto che il riesame
costituisce un procedimento incidentale, innestato sul tronco  di  un
piu' ampio procedimento penale e non inerente al merito della pretesa
punitiva (non diretto, cioe', a stabilire se l'imputato sia colpevole
o innocente), ma finalizzato esclusivamente a  verificare,  in  tempi
ristrettissimi e perentori,  la  sussistenza  dei  presupposti  della
misura cautelare applicata. 
    Non si tratta, inoltre, di una  sedes  deputata  all'acquisizione
della prova (e, in particolare, della  prova  orale-rappresentativa):
attivita' in rapporto alla quale, come posto in  evidenza  da  questa
Corte, soprattutto si apprezza l'esigenza di un controllo diretto del
pubblico  sullo  svolgimento  delle   attivita'   processuali,   reso
possibile dal libero  accesso  di  chiunque  nella  sala  di  udienza
(sentenza n. 80 del 2011). Il perimetro cognitivo del  tribunale  del
riesame e', infatti, segnato dagli atti  trasmessigli  dall'autorita'
giudiziaria procedente ai sensi dell'art. 309, comma  5,  cod.  proc.
pen.,  nonche'  dagli  «elementi  addotti  dalle  parti   nel   corso
dell'udienza» (art. 309, comma 9, primo periodo, cod. proc. pen.). Si
tratta, quindi, di un giudizio  preminentemente  cartolare,  condotto
sulla  base  di  dati  raccolti  fuori   dal   contraddittorio.   Per
giurisprudenza unanime, il tribunale del riesame e' privo  di  poteri
istruttori,  incompatibili  con  la   speditezza   del   procedimento
incidentale de libertate, ne' la disciplina dell'art. 127 cod.  proc.
pen., richiamata per regolamentare lo  svolgimento  della  procedura,
autorizza - incentrata, com'e', sulla mera "audizione" delle parti  -
a ritenere ammissibile un'attivita' di  elaborazione  probatoria  nel
corso dell'udienza, con  particolare  riferimento  all'assunzione  in
forma orale dei contenuti informativi. 
    Ancora,  la   decisione   assunta   in   sede   di   riesame   e'
intrinsecamente provvisoria, essendo destinata  a  rimanere  superata
dagli  esiti  del  successivo  giudizio.  Il   cosiddetto   giudicato
cautelare, suscettibile di formarsi  all'esito  della  decisione  del
tribunale del riesame - figura elaborata dalla  giurisprudenza  nella
prospettiva di evitare una defatigante  reiterazione  delle  medesime
istanze  -  non  e',  notoriamente,  un  giudicato  vero  e  proprio,
esaurendosi nel  mero  impedimento  alla  riproposizione,  rebus  sic
stantibus, di richieste al 'giudice della cautela' basate  su  motivi
gia' dedotti. Di contro, questa Corte, nelle citate sentenze  n.  135
del 2014 e n. 93 del 2010, ha identificato proprio nella idoneita' ad
incidere in modo definitivo su beni dell'individuo costituzionalmente
tutelati  uno  degli  elementi  che   valgono   a   differenziare   i
procedimenti per l'applicazione delle  misure  di  prevenzione  e  di
sicurezza «da un complesso di altre procedure  camerali»,  conferendo
«specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il  principio
di pubblicita' delle udienze e' preordinato». 
    A cio' si aggiunga che il procedimento di riesame - ove  esperito
nel corso della fase delle indagini preliminari, come avviene il piu'
delle volte (e anche nei casi oggetto dei giudizi a  quibus)  -  pone
anche problemi di tutela della segretezza  cosiddetta  esterna  degli
atti di indagine. E' ben vero che, come afferma  il  giudice  a  quo,
l'ostensione all'imputato degli  atti  di  indagine  nell'ambito  del
procedimento di riesame determina la caduta del segreto sugli stessi,
a mente  dell'art.  329,  comma  1,  cod.  proc.  pen.  Resta  fermo,
tuttavia, il divieto di pubblicazione,  anche  parziale,  degli  atti
fino alla conclusione delle  indagini  preliminari  (ovvero  fino  al
termine dell'udienza preliminare) sancito  dall'art.  114,  comma  2,
cod. proc. pen. (essendo possibile  unicamente  la  divulgazione  del
loro contenuto, ossia delle informazioni che se  ne  possono  trarre:
comma 7 dell'art. 114). Divieto che rischierebbe di  essere  travolto
ove il pubblico fosse ammesso ad assistere  direttamente  all'udienza
di riesame. 
    Tali considerazioni inducono a concludere che, malgrado l'entita'
della «posta in gioco», la scelta di escludere la  pubblicita'  delle
udienze di riesame costituisce frutto  di  un  ragionevole  esercizio
della discrezionalita' che al legislatore compete in materia. Si  e',
infatti, di fronte ad un incidente che si inserisce  in  un  impianto
processuale piu' ampio, entro il quale il  principio  di  pubblicita'
trova il suo "naturale" sbocco, satisfattivo della relativa  esigenza
costituzionale, nella fase dibattimentale. 
    7.-  Nelle  considerazioni   che   precedono   e'   gia'   insita
l'infondatezza della restante censura del Tribunale salentino: quella
di violazione dell'art. 3 Cost., connessa all'asserita  irragionevole
disparita' di trattamento dei soggetti coinvolti nel procedimento  di
riesame  rispetto   a   quelli   coinvolti   nei   procedimenti   per
l'applicazione di misure di prevenzione e di misure di  sicurezza  (i
quali, grazie all'intervento di  questa  Corte  -  recepito  poi  dal
legislatore, quanto al procedimento di prevenzione - sono abilitati a
chiedere l'udienza  pubblica),  nonche'  ai  soggetti  coinvolti  nel
giudizio abbreviato e nel giudizio ordinario. 
    I tertia comparationis appaiono, infatti, disomogenei. 
    Diversamente dal procedimento  di  riesame,  i  procedimenti  per
l'applicazione di misure di prevenzione e di misure di sicurezza sono
procedimenti autonomi, nei quali il giudice di merito e' chiamato  ad
esprimere - all'esito di un'attivita' di  acquisizione  probatoria  -
giudizi definitivi in ordine al  thema  decidendum.  Con  riguardo  a
quest'ultimo, non vi e', dunque, altra sede nella quale il  controllo
diretto  del  pubblico  sull'amministrazione  della  giustizia   puo'
trovare attuazione. In detti procedimenti non si pongono, d'altronde,
esigenze  di  speditezza  paragonabili  a  quelle  che  connotano  il
riesame. 
    Ancora  piu'  evidente  e'  la  non   omologabilita'   -   quanto
all'esigenza  di  rispetto  del  principio  di  pubblicita'   -   del
procedimento  di  riesame  al  giudizio  abbreviato  e  al   giudizio
ordinario.  Posto  che  il  rimettente  intende   evidentemente   far
riferimento,  rispettivamente,  alla  facolta'   di   richiedere   la
trattazione in udienza pubblica  del  giudizio  abbreviato,  prevista
dall'art.  441,  comma  3,  cod.  proc.  pen.,  e  alla   pubblicita'
istituzionalmente propria dell'udienza dibattimentale (art. 471  cod.
proc. pen.), e' agevole osservare che in questi casi si discute della
sede  elettiva  di  esplicazione  del   principio   di   pubblicita',
rappresentata dalla decisione sul merito dell'accusa penale. 
    8.- In rapporto a ognuno  dei  parametri  evocati,  le  questioni
vanno dichiarate, pertanto, non fondate.