ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 649,  primo
comma, del codice penale,  come  modificato  dall'art.  1,  comma  1,
lettera c), del decreto legislativo 19 gennaio 2017,  n.  6,  recante
«Modificazioni ed integrazioni normative in  materia  penale  per  il
necessario coordinamento con la disciplina delle  unioni  civili,  ai
sensi dell'articolo 1, comma 28, lettera c), della  legge  20  maggio
2016, n.  76»,  promosso  dal  Tribunale  ordinario  di  Matera,  nel
procedimento penale a carico di N. D., con ordinanza  del  21  aprile
2017, iscritta al n. 105 del registro  ordinanze  2017  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  34,  prima   serie
speciale, dell'anno 2017. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2018  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon. 
    Ritenuto che, con ordinanza del 21 aprile 2017 (r.o. n.  105  del
2017), il Tribunale ordinario di Matera, in composizione monocratica,
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e  24  della  Costituzione,
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 649, primo  comma,
del codice penale, nella parte in cui non prevede «la non punibilita'
anche dei fatti criminosi previsti dal titolo XIII del libro  II  del
Codice Penale commessi in danno di un convivente more uxorio»; 
    che le questioni di legittimita' costituzionale vengono sollevate
nell'ambito di un procedimento penale a carico di soggetto  «imputato
del reato previsto e punito dall'art. 646 c.p. "perche'  al  fine  di
procurarsi un profitto, avendo  il  possesso  di  indumenti,  effetti
personali e documenti dell'ex convivente  [...]  e  del  loro  figlio
[...], se ne appropriava rifiutandone la restituzione"»; 
    che il giudice rimettente riferisce che l'applicazione  dell'art.
649  cod.  pen.  era  stata  espressamente  invocata   dalla   difesa
dell'imputato, che ne aveva eccepito l'illegittimita'  costituzionale
nella parte in cui non prevede la non punibilita' anche per  i  fatti
commessi in danno del convivente more uxorio,  considerando  che  nel
caso di specie tale qualifica soggettiva si  sarebbe  configurata  in
capo alla «persona offesa dal reato costituitasi parte civile,  avuto
riguardo  all'accertata  sua  intercorsa   relazione   personale   di
convivenza di fatto con l'imputato [...] e dalla cui unione  e'  nato
il loro figlio minore»; 
    che il Tribunale ordinario di Matera - dopo  aver  ricordato  che
l'art. 649 cod. pen. riconosce la non punibilita' in  riferimento  ai
delitti contro il patrimonio di cui al Titolo XIII del Libro  II  del
codice penale (con alcune deroghe relative agli artt. 628, 629 e  630
cod. pen. e di ogni altro delitto contro il patrimonio  commesso  con
violenza alla persona) posti in essere nei confronti del coniuge  non
legalmente separato, dell'ascendente, del discendente, dell'affine in
linea retta, dell'adottante, dell'adottato e  del  fratello  o  della
sorella conviventi - sottolinea che il decreto legislativo 19 gennaio
2017, n. 6,  recante  «Modificazioni  ed  integrazioni  normative  in
materia penale per il  necessario  coordinamento  con  la  disciplina
delle unioni civili, ai sensi dell'articolo 1, comma 28, lettera  c),
della legge 20 maggio 2016, n. 76»,  ha  aggiunto  in  quell'articolo
anche il riferimento alla parte dell'unione civile fra persone  dello
stesso sesso (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.); 
    che, secondo il giudice rimettente,  la  ratio  originaria  della
previsione della causa di non punibilita' risiederebbe «nell'esigenza
di evitare turbamenti  nelle  relazioni  familiari  sull'assunto  che
l'applicazione di una  sanzione  penale  renderebbe  irreparabilmente
compromessi  i  rapporti   intrafamiliari,   cosi'   vanificando   la
riconciliazione del nucleo familiare, inteso e concepito nel rispetto
di quanto statuito dall'art. 29 della nostra  Carta  fondamentale  in
guisa di "societa' naturale fondata sul matrimonio"»; 
    che,  pur  definendo   la   legge   20   maggio   2016,   n.   76
(Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso  sesso
e disciplina delle convivenze) quale «complesso portato  ed  agognato
punto di approdo della presa d'atto di un mutato  costume  sociale  e
dell'esistenza di nuclei familiari ontologicamente  differenti  dalla
classica  famiglia  fondata  sul  vincolo  matrimoniale  con  effetti
civili», il giudice a quo ritiene che il legislatore con  tale  legge
abbia   inteso   «irrazionalmente   e/o    comunque    riduttivamente
regolamentare le sole unioni civili tra persone dello stesso  sesso»,
provvedendo a coordinarne la disciplina attraverso le modificazioni e
le integrazioni introdotte con il citato d.lgs. n. 6 del 2017, che ha
aggiunto, all'art. 649, primo comma, cod. pen., il  riferimento  alla
parte dell'unione civile, ma non al convivente more uxorio; 
    che il giudice  rimettente  ritiene  che  alla  luce  della  «sua
esegesi letterale e nel perimetro rigoroso del precipuo rispetto  del
principio  di  legalita',  inteso  anche  quale  tassativita'   della
fattispecie  penale»,  non  sia  percio'   possibile   applicare   la
disposizione censurata ai fatti commessi in danno del convivente more
uxorio,  escludendo  quindi  di  poter  pervenire   a   un'estensione
analogica   della   disposizione,   pure   invocata   dalla    difesa
dell'imputato; 
    che il Tribunale ordinario di Matera riferisce  di  non  ignorare
che la Corte costituzionale, in diverse occasioni, ha  dichiarato  la
non fondatezza di analoga questione,  ritenendo  la  convivenza  more
uxorio non assimilabile al rapporto di coniugio  (vengono  citate  le
sentenze n. 352 del 2000,  n.  8  del  1996  e  n.  423  del  1988  e
l'ordinanza n. 1122 del 1988); 
    che,  ciononostante,  il  giudice  rimettente  ritiene   che   la
«valutazione della disposizione codicistica [...] deve, ad ogni  buon
conto, essere attuata  alla  stregua  dell'attuale  realta'  sociale,
senza alcun dubbio profondamente mutata rispetto a  quella  esistente
ed esaminata dal Legislatore storico, nell'ottica  di  un'esegesi  in
sintonia ed al passo con i tempi dello stesso concetto costituzionale
di famiglia concepita in guisa di un luogo di sviluppo armonico della
persona, fondato ed ispirato da uno stretto  e  stabile  rapporto  di
solidarieta' reciproca»; 
    che, in  particolare,  il  giudice  rimettente  concede  che,  in
ragione del «tempo ormai remoto in cui e' stata concepita ed emanata»
la disposizione censurata, non potevano essere considerati istituti o
situazioni di fatto emersi solo successivamente, ma ritiene  che  sia
irragionevole e discriminatorio non ricomprendere fra i soggetti  che
beneficiano  della  causa  di  non  punibilita'  in  esame  «anche  i
partecipi di una convivenza more  uxorio,  ovvero  persone  di  sesso
diverso»; 
    che, a sostegno delle proprie argomentazioni, il  giudice  a  quo
richiama l'art. 199, comma 3, lettera a),  del  codice  di  procedura
penale, che equipara il coniuge a chi conviva o abbia convissuto  con
l'imputato in relazione  alla  facolta'  di  astenersi  dal  deporre,
affinche' «vada, re melius perpensa, nuovamente considerato anche  il
segnalato parallelismo della  ratio  legis  posta  a  base»  di  tale
disposizione e  di  quella  censurata,  che  mirerebbero  entrambe  a
salvaguardare la prevalenza dell'unita' della famiglia rispetto  alle
esigenze di giustizia della collettivita'; 
    che il giudice  rimettente  ritiene  che,  anche  alla  luce  del
rilievo assegnato alla convivenza di fatto  dalla  legge  n.  76  del
2016, il mancato riconoscimento della causa di non punibilita' per il
convivente more uxorio violi il  principio  di  uguaglianza  (art.  3
Cost.), nonche' il diritto di difesa  (art.  24  Cost.),  poiche'  si
precluderebbe «la fruizione, nelle ipotesi di cui alla medesima norma
di  diritto  penale  sostanziale,  della  speciale   causa   di   non
punibilita'», risultando «irrazionale il disallineamento della  sfera
soggettiva e di operativita' della norma  [...],  non  derivando,  di
converso,    dall'accoglimento    del    sollevato    incidente    di
costituzionalita' alcun vulnus  alla  protezione  della  "istituzione
familiare"  tutelata  in  via  primaria  dall'art.  29  della   Carta
costituzionale»; 
    che, in questa prospettiva, non si terrebbe conto del  fatto  che
la fisionomia  dell'originaria  istituzione  famigliare  fondata  sul
matrimonio tutelata dall'art. 29 Cost. e' «mutata sul piano sociale e
culturale e dei costumi al  punto  da  essersi  dovuta  disciplinare,
persino, l'unione civile di persone del medesimo  sesso  e  tanto  da
sembrare a fortiori meritevole di pari dignita' e tutela la posizione
di un convivente di fatto more uxorio, anche  di  sesso  diverso  dal
proprio partner»; 
    che, da ultimo, nel caso oggetto  del  giudizio  emergerebbe  «il
dato fattuale di una convivenza  more  uxorio  tra  l'imputato  e  la
persona offesa, dalla cui unione  e'  nato,  persino,  un  figlio,  a
comprova di una pregressa stabilita' di rapporti e di  una  comunanza
di  vita  ed  interessi,  non  suscettibile  di   affievolimento   od
inesistenza di tutela, neppure parziale, anche a preservazione di una
possibile riconciliazione delle parti»; 
    che, di conseguenza, sussisterebbe la rilevanza delle  questioni,
poiche'  l'art.  649  cod.   pen.   costituirebbe   disposizione   di
applicazione necessaria,  almeno  con  riguardo  alla  posizione  del
figlio  dell'imputato,  influendo  altresi'  sulla  definizione   del
giudizio, poiche' l'eventuale sentenza  di  accoglimento  inciderebbe
sulle formule di proscioglimento o  quanto  meno  sulla  formula  del
dispositivo della decisione; 
    che, con atto depositato il 12 settembre 2017, e' intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   le
questioni   di   legittimita'   costituzionale   vengano   dichiarate
inammissibili e comunque infondate; 
    che,    secondo    l'Avvocatura     generale     dello     Stato,
l'inammissibilita' delle questioni deriverebbe dalla circostanza  che
il rimettente invoca un intervento della Corte costituzionale in  una
materia (quella  delle  cause  di  non  punibilita')  riservata  alla
discrezionalita'  del  legislatore,  in  assenza  di  una   soluzione
costituzionalmente obbligata (al riguardo vengono citate le  sentenze
n. 214 del 2014, n. 134 e n. 36 del 2012, n. 352 del 2000); 
    che,  in  questa  prospettiva,  il  legislatore   in   modo   non
irragionevole o arbitrario avrebbe espresso una  «precisa  scelta  di
politica criminale  che  ha  attribuito  prevalenza  all'interesse  a
favorire la riconciliazione rispetto  a  quello  alla  punizione  del
colpevole», con riferimento a soggetti che siano o siano stati legati
da determinati vincoli familiari  caratterizzati  da  una  convivenza
tendenzialmente duratura e fondata sulla reciproca assistenza,  oltre
che su comuni ideali e stili di vita (sono richiamate le sentenze  n.
352 del 2000 e n. 423 del 1988, oltre che  l'ordinanza  n.  1122  del
1988); 
    che, secondo l'Avvocatura  generale  dello  Stato,  le  questioni
sarebbero inammissibili anche alla luce delle  censure  in  punto  di
irragionevolezza  e  di  violazione  del  principio  di   uguaglianza
riferite alla previsione di un trattamento sfavorevole per coloro che
commettono reati contro il patrimonio  in  danno  dei  conviventi  di
fatto, rispetto a quanti pongono in essere le medesime  condotte  nei
confronti delle parti dell'unione civile ai sensi della legge  n.  76
del 2016; 
    che, a questo proposito, viene citata la sentenza n. 223 del 2015
della Corte costituzionale, con cui -  nel  dichiarare  inammissibile
una diversa questione di legittimita'  costituzionale  sollevata,  in
riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 24,  primo  comma,
Cost., sullo stesso art. 649, primo comma, cod. pen., nella parte  in
cui esclude la punibilita' dei congiunti  della  persona  offesa  dal
reato - pur riconoscendosi «l'obsolescenza  che  la  disposizione  in
esame ormai sconta», si sarebbe affermato che spetta  al  legislatore
l'indispensabile aggiornamento della disciplina dei reati  contro  il
patrimonio commessi in ambito  familiare,  con  cio'  ribadendosi  il
dovere   di   rigorosa   osservanza   dei   limiti   del    sindacato
costituzionale; 
    che,  secondo  l'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il  recente
intervento del legislatore operato con il decreto  legislativo  n.  6
del 2017, che «il remittente giudica  apoditticamente  irrazionale  e
comunque riduttivo», manifesterebbe la volonta' di estendere la causa
di non punibilita' di cui all'art. 649  cod.  pen.  alla  sola  parte
dell'unione civile e non anche al convivente more uxorio, rivelandosi
scelta frutto di valutazioni non censurabili; 
    che la questione sollevata rispetto  all'art.  24  Cost.  sarebbe
inammissibile, perche' priva di motivazione e  costituente  «un  mero
riflesso della denuncia della norma sospettata sul piano del  mancato
rispetto del principio di eguaglianza»; 
    che  le  questioni  di  legittimita'   costituzionale   sarebbero
comunque non  fondate,  non  potendosi  ravvisare  alcuna  violazione
dell'art. 3, primo  comma,  Cost.,  poiche'  il  diverso  trattamento
riservato a coloro che non siano legati  dai  rapporti  di  parentela
previsti dalla disposizione censurata non sarebbe  irragionevole  ne'
ingiustificato; 
    che  l'Avvocatura  generale  dello  Stato  ricorda  che   analoga
questione di legittimita' costituzionale e' gia' stata dichiarata  in
diverse  occasioni  non  fondata  dalla  Corte  costituzionale  (sono
richiamate le sentenze n. 8 del 1996 e n. 423 del 1988 e  l'ordinanza
n. 1122 del 1988); 
    che, da ultimo,  con  la  sentenza  n.  352  del  2000  la  Corte
costituzionale avrebbe ribadito che la convivenza di fatto e' diversa
dal vincolo coniugale e, pertanto, non  vi  sarebbe  alcuna  esigenza
costituzionale di parificarne il trattamento; 
    che, ancora, secondo l'Avvocatura generale  dello  Stato  sarebbe
arbitrario sostenere «la piena equiparazione del convivente che abbia
comunque interrotto il rapporto, instaurato in  via  di  mero  fatto,
come nel caso sottoposto all'esame del  rimettente,  al  coniuge  non
legalmente  separato»,  alla  luce  della  procedibilita'  a  querela
prevista in caso di separazione fra  i  coniugi  dall'art.  649  cod.
pen.; 
    che, rispetto all'accostamento operato dal giudice rimettente fra
la disposizione censurata e l'art. 199, comma  3,  lettera  a),  cod.
proc. pen., l'Avvocatura generale  dello  Stato  richiama  la  citata
sentenza n. 352 del 2000, che non avrebbe ritenuto  sufficiente  tale
riferimento per accogliere analoga questione; 
    che,  infine,  manifestamente  infondata  risulterebbe  anche  la
censura sollevata rispetto all'art. 24  Cost.,  poiche'  non  sarebbe
individuabile alcuna violazione del diritto di difesa del  convivente
di fatto, derivante dalla  mancata  estensione  della  causa  di  non
punibilita'. 
    Considerato che il Tribunale ordinario  di  Matera  ha  sollevato
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 649, primo  comma,
del  codice  penale,  in  riferimento  agli  artt.  3  e   24   della
Costituzione, nella parte in cui non prevede  che  la  causa  di  non
punibilita' ivi prevista operi anche a beneficio del convivente  more
uxorio; 
    che, in particolare, il  rimettente  sottolinea  che  il  decreto
legislativo  19  gennaio  2017,  n.  6,  recante  «Modificazioni   ed
integrazioni  normative  in  materia   penale   per   il   necessario
coordinamento  con  la  disciplina  delle  unioni  civili,  ai  sensi
dell'articolo 1, comma 28, lettera c), della legge 20 maggio 2016, n.
76», ha aggiunto, tra i soggetti che beneficiano della causa  di  non
punibilita' in esame, la parte dell'unione civile fra  persone  dello
stesso sesso (art. 649, primo comma, numero 1-bis, cod. pen.), ma non
ha invece ricompreso tra tali soggetti il convivente more uxorio; 
    che tale  omissione,  alla  luce  dell'attuale  realta'  sociale,
risulterebbe anacronistica ed irragionevole, determinando la  lesione
degli artt. 3 e 24 Cost.; 
    che le questioni sollevate risultano manifestamente inammissibili
per difetto di rilevanza; 
    che, infatti, nella stessa ordinanza  di  rimessione  -  peraltro
assai succinta in punto di descrizione della fattispecie  concreta  -
il soggetto nei cui confronti  si  procede  nel  processo  a  quo  e'
definito  esplicitamente  «ex  convivente»,  e   si   ragiona   della
convivenza in questione come «pregressa» o «intercorsa» relazione; 
    che, a mera conferma delle affermazioni contenute  nell'ordinanza
di rimessione, la circostanza risulta anche dagli atti  del  giudizio
principale (sentenza n. 58 del 2009), dai quali emerge che,  in  ogni
caso, la condotta per la quale si  procede  sarebbe  stata  posta  in
essere in epoca successiva alla cessazione della convivenza; 
    che da tale circostanza - laddove venisse accertata nel  processo
a quo la responsabilita' dell'imputato in riferimento  alle  condotte
poste  in  essere  nei  confronti  della  ex  convivente  -  consegue
inequivocabilmente l'inapplicabilita' della disposizione censurata e,
percio', la manifesta inammissibilita' delle questioni sollevate  (ex
multis, ordinanze n. 93 e n. 92 del 2016 e n. 264 del 2015). 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale.