ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  41-bis,
comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della liberta'), come modificato dall'art.  2,
comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio  2009,  n.  94
(Disposizioni  in  materia  di  sicurezza  pubblica),  promosso   dal
Magistrato di sorveglianza di Spoleto, nel procedimento su reclamo di
C. V., con ordinanza del 10 maggio  2017,  iscritta  al  n.  120  del
registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visto  l'atto  d'intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 26 settembre 2018 il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 10 maggio 2017,  iscritta  al  n.  120  del
registro ordinanze 2017, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto  ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27 e 32  della  Costituzione,
questioni di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  41-bis,  comma
2-quater, lettera f), della legge  26  luglio  1975,  n.  354  (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della liberta'), come modificato dall'art.  2,
comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio  2009,  n.  94
(Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte  in  cui
«impone che siano adottate tutte le necessarie  misure  di  sicurezza
volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilita' per i
detenuti in regime differenziato di cuocere cibi». 
    1.1.- Il giudice a quo riferisce di essere investito del  reclamo
proposto da un detenuto sottoposto al regime ex  art.  41-bis  ordin.
penit., con il quale l'interessato si duole dei  divieti,  impostigli
dall'amministrazione penitenziaria, di acquistare cibi che richiedono
cottura,  nonche'  di  cucinare  quelli  di  cui  gli  e'  consentito
l'acquisto  (poiche'  consumabili  anche   crudi),   a   pena   della
sottoposizione, in caso di violazione, ad una sanzione disciplinare. 
    Il rimettente chiarisce, in via preliminare, che  il  reclamo  e'
stato proposto dall'interessato ai sensi degli  artt.  35-bis  e  69,
comma 6, lettera b), ordin. penit., lamentando un pregiudizio grave e
perdurante al proprio diritto a subire una pena non disumana ai sensi
dell'art.  27  Cost.,  da  scontare  in  condizioni  di  parita'   di
trattamento, ai sensi dell'art. 3 Cost., rispetto alle altre  persone
detenute   presso   il   medesimo   istituto   penitenziario    (casa
circondariale di Terni), seppur in sezioni diverse da quella a regime
differenziato in cui si trova. Riferisce, altresi', che il reclamante
ha allegato la violazione del proprio diritto alla  salute,  «dovendo
accontentarsi del vitto somministratogli dall'amministrazione  e  non
potendo invece acquistare cibi da cuocere o comunque cucinare  quelli
di cui gli e' autorizzato l'acquisto»: al  detenuto  sarebbe  percio'
impedito di seguire la dieta alimentare di cui avrebbe bisogno per le
proprie patologie, poi specificate nel corso dell'udienza fissata per
la discussione del reclamo, mediante il  deposito  di  certificazione
medica   attestante   «gastrite   cronica,   malattia   da   reflusso
gastroesofageo e tendenza  alla  ipercolesterolemia».  Il  reclamante
avrebbe, altresi', avanzato anche la richiesta di «mangiare cibi piu'
sani», per «ovviare cosi' ai  deficit  igienici  che  ha  riscontrato
nella  distribuzione  del  vitto»,  che  avverrebbe  «con   modalita'
gravemente carenti, a suo modo di vedere, a causa del lungo percorso,
senza le opportune cautele, che le pietanze preparate compiono  dalle
cucine alle stanze detentive». 
    1.2.- In ordine alle fonti normative dei contestati  divieti,  il
giudice a quo espone che quello di cucinare cibo  e'  previsto,  come
risulta da una nota fatta  pervenire  dalla  direzione  dell'istituto
penitenziario,  dal  punto  M)  della  circolare   del   Dipartimento
dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della  giustizia  n.
286202 del 4 agosto 2009, a sua volta emanata in  diretta  attuazione
dell'art. 41-bis, comma 2-quater,  lettera  f),  ordin.  penit.,  che
espressamente vieterebbe la cottura di cibi, sicche' ai  detenuti  in
regime differenziato sarebbe consentito l'uso di fornelli  personali,
ma per il solo riscaldamento di liquidi e cibi  gia'  cotti,  nonche'
per la preparazione di bevande. 
    Il rimettente espone che, in base  alle  istruzioni  ministeriali
vigenti,  i  detenuti  ristretti  in  regime  differenziato   possono
acquistare  al  cosiddetto  «mod.  72»  anche  i  generi   alimentari
precotti, tra cui, ad esempio, alcune tipologie di cibi  surgelati  o
legumi cotti in confezioni di tetrapak, partitamente indicati. 
    Ricorda, inoltre, che i detenuti che contravvengano al divieto di
cottura dei cibi, anche se rientranti tra quelli di cui  e'  comunque
consentito l'acquisto, vengono sanzionati disciplinarmente. 
    Il giudice a quo evidenzia che  agli  altri  detenuti,  ristretti
presso le sezioni «comuni» e «alta sicurezza», e'  invece  consentito
acquistare al cosiddetto  «sopravvitto»  un'ampia  serie  di  «generi
vittuari» da cucinare; e' altresi' loro concessa la cottura di  tutti
i cibi consumabili  anche  crudi:  gli  unici  limiti  da  rispettare
sarebbero quelli settimanali  e  mensili  sulle  spese  di  acquisto,
previsti in  via  generale,  e  il  divieto  di  effettuare  acquisti
eccedenti, in quantita', il fabbisogno individuale,  fissato  in  via
generale dall'art. 14, comma 8, del d.P.R. 30  giugno  2000,  n.  230
(Regolamento recante norme  sull'ordinamento  penitenziario  e  sulle
misure privative e limitative della liberta'). 
    Il giudice rimettente opera, poi, un confronto  tra  l'elenco  di
generi alimentari di  cui  e'  consentito  l'acquisto  al  cosiddetto
«sopravvitto» presso una sezione «media sicurezza» o «alta sicurezza»
della casa circondariale di Terni e il medesimo elenco redatto per la
sezione  a  regime  speciale  in  cui  e'  ristretto  il  reclamante,
evidenziando come il secondo non contempli, a titolo esemplificativo,
tutte le tipologie di  carne  (come  pollo,  agnello  e  maiale),  le
verdure e i legumi che richiedono cottura, nonche' tutte le paste, il
riso e i relativi condimenti. 
    2.- In punto di rilevanza, il rimettente espone che l'oggetto del
reclamo e' costituito dalla richiesta di eliminare i divieti  imposti
dall'amministrazione penitenziaria con ordini di servizio in  materia
di cottura dei cibi. 
    I divieti illustrati, secondo il giudice a quo,  si  fondano  sul
punto M) -  «sopravvitto  e  uso  dei  fornelli  personali»  -  della
circolare n. 286202  del  2009,  emanata  a  seguito  della  modifica
normativa del testo dell'art. 41-bis ordin.  penit.,  nel  cui  comma
2-quater, lettera f),  e'  stato  inserito  il  riferimento  espresso
all'obbligo per l'amministrazione di  adottare  tutte  le  misure  di
sicurezza   necessarie,   tra   l'altro,   a   garantire   l'assoluta
impossibilita', per i detenuti in regime  differenziato,  di  cuocere
cibi. 
    Solo la declaratoria d'illegittimita' costituzionale della  norma
contenuta nel comma 2-quater, lettera  f),  dell'art.  41-bis  ordin.
penit., in definitiva, consentirebbe al giudice a quo di disapplicare
i provvedimenti amministrativi impositivi  dei  divieti  oggetto  del
reclamo sottoposto alla sua cognizione. 
    3.- Quanto alla valutazione di non manifesta  infondatezza  delle
questioni sollevate,  secondo  il  giudice  a  quo  tre  sarebbero  i
parametri costituzionali violati. 
    3.1.- In  primo  luogo,  risulterebbe  violato  l'art.  3  Cost.,
poiche'    la    disposizione    sospettata     d'incostituzionalita'
determinerebbe  una  disparita'  di  trattamento  tra  detenuti   non
giustificata dalle esigenze poste a base dell'imposizione del  regime
differenziato. 
    Dopo aver ricostruito il quadro normativo, di  fonte  primaria  e
regolamentare, che disciplina, in generale,  il  vitto  somministrato
alla  popolazione  carceraria,  il  giudice  a  quo   evidenzia   che
l'adozione  del  regime  detentivo  ex  art.  41-bis  ordin.   penit.
determina  la   sospensione   dell'applicazione   delle   regole   di
trattamento e degli istituti  previsti  dalla  legge  di  ordinamento
penitenziario che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze
di ordine e di sicurezza. 
    Ricorda, tuttavia, il rimettente che,  per  espressa  indicazione
normativa,  la  sospensione  comporta   unicamente   le   limitazioni
necessarie per il  soddisfacimento  delle  predette  esigenze  e  per
impedire   i   collegamenti   «con   l'associazione   criminale    di
riferimento». 
    Cio' posto, il giudice a quo evidenzia che, dopo la  novella  del
2009, il comma 2-quater del medesimo art.  41-bis  ordin.  penit.  si
compone di una elencazione di  limitazioni  ritenute  necessarie  per
raggiungere gli obbiettivi perseguiti dalla norma e, in  particolare,
prescrive alla lettera f), tra l'altro, che siano adottate  tutte  le
necessarie misure di sicurezza volte a garantire che  sia  assicurata
la assoluta impossibilita' per i detenuti in regime differenziato  di
cuocere cibi. 
    Proprio l'assolutezza del divieto di cuocere cibi  determinerebbe
una disparita' di trattamento, rispetto al  resto  della  popolazione
ristretta,  che  intanto  potrebbe  ritenersi  ragionevole  ai  sensi
dell'art. 3 Cost., «in quanto giustificata da  ragioni  di  sicurezza
pretermesse ove fosse consentito al detenuto in 41bis di cucinare». 
    Il giudice a quo ricostruisce la ratio  del  divieto  di  cuocere
cibi nello scopo di evitare il pericolo che il detenuto, di  spessore
criminale tale da essere sottoposto al  regime  differenziato,  possa
acquistare presso il carcere quantita' e qualita'  di  cibi  che  gli
consentano di mostrare o imporre il suo carisma criminale. 
    Una simile finalita', tuttavia, appare al rimettente «inidonea  a
giustificare effettivamente  il  divieto  imposto»,  sia  perche'  il
divieto  sarebbe  del  tutto  incongruo   rispetto   alla   finalita'
descritta, sia perche' l'ordinamento penitenziario prevederebbe altri
strumenti - quali le limitazioni, valevoli per la  generalita'  della
popolazione  detenuta,  alla  quantita'  e  alla  qualita'  di   cibi
ricevibili o acquistabili  dall'esterno  (siano  essi  da  consumarsi
crudi o da cucinarsi) - volti ad evitare  efficacemente  l'affermarsi
di situazioni come quelle temute. 
    Alla  luce   della   giurisprudenza   costituzionale   ampiamente
richiamata nell'ordinanza di rimessione, in definitiva, il divieto di
cuocere  cibi  contenuto  nella  norma  censurata  acquisterebbe   un
carattere  puramente  afflittivo  «non  riconducibile  alla  funzione
attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale». 
    3.2.-  Ancora,  a  giudizio  del  rimettente,  sussisterebbe   un
contrasto tra la norma censurata e l'art. 27 Cost. 
    Il rimettente ricorda le numerose limitazioni cui  e'  sottoposto
il reclamante, in quanto recluso ai  sensi  dell'art.  41-bis  ordin.
penit., evidenziando che, tra queste, quella  relativa  alla  cottura
del cibo non sembrerebbe apportare «alcun  concreto  contributo  alla
fondamentale necessita' di inibire pericolosi contatti criminali  del
detenuto con l'esterno ne' di  limitarne  l'esibizione  di  potere  e
carisma all'interno, a fronte dei vincoli di spesa comunque imposti a
tutti i ristretti». 
    Tale ulteriore limitazione, dunque, finirebbe  per  rivestire  un
carattere meramente vessatorio, come tale lesivo dell'art. 27  Cost.,
sia perche' contrario al senso  d'umanita'  che  deve  caratterizzare
l'esecuzione  della  pena,  sia  perche'  d'ostacolo  alla   funzione
rieducativa della pena. 
    3.3.- Infine, per il rimettente sussisterebbe un contrasto tra la
disposizione censurata e l'art. 32 Cost. 
    Il giudice a quo espone che al reclamante sono state  riscontrate
alcune  patologie   gastriche   (gastrite   cronica   e   tendenziale
ipercolesterolemia) che, al di la' delle terapie farmacologiche  pure
prescrittegli, potrebbero essere «tenute  sotto  controllo»  mediante
l'approntamento quotidiano di cibi particolari e cotti con modalita',
anche semplici, «di  cui  non  si  evince  dagli  atti  che  la  Casa
Circondariale si faccia carico». 
    Secondo  il  rimettente,  soltanto  la  liberta'  di   prepararsi
autonomamente anche i cibi che richiedono  cottura  consentirebbe  al
detenuto interessato di prescegliere e variare  la  dieta  alimentare
che  ritenga  piu'  congrua  per  le  proprie  condizioni  di  salute
psico-fisica. 
    4.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha  chiesto  che  le  questioni  siano  dichiarate  inammissibili  o,
comunque, infondate. 
    In   relazione   al   profilo   dell'asserito   contrasto   della
disposizione in esame con l'art.  3  Cost.,  la  difesa  dello  Stato
evidenzia come il divieto di cuocere cibi costituisca una restrizione
che assume  rilievo  nella  vita  interna  all'istituto,  rispondendo
all'esigenza di affermare la supremazia delle regole dello  Stato  di
diritto  nei  confronti  di  chi  utilizza  le  stesse   regole   del
trattamento  penitenziario  per  mantenere,  anche  all'interno   del
carcere, il proprio prestigio criminale e  di  conseguenza  aggregare
consenso traducibile in termini di potenzialita' offensive criminali. 
    Si tratterebbe della medesima ratio che ispira l'analogo divieto,
imposto da circolari ministeriali, di ricevere  e  detenere  capi  di
abbigliamento ed accessori particolarmente costosi e di tipo lussuoso
(divieto considerato ragionevole dal giudice di legittimita': vengono
riportati ampi stralci della  sentenza  della  Corte  di  cassazione,
sezione prima penale, 16 ottobre 2013, n. 42605). 
    Con riferimento alla prospettata violazione dell'art.  27,  terzo
comma, Cost., l'interveniente sostiene che la cottura  dei  cibi  non
costituisca  affatto  espressione  di  un  diritto  fondamentale  del
detenuto, atteso che l'art. 9 ordin.  penit.  prevede  che  il  vitto
venga somministrato «di  regola»  in  specifici  locali  destinati  a
contenere un numero non elevato di detenuti o internati. Aggiunge,  a
tale proposito, che l'art. 13 del d.P.R. n. 230 del 2000 prevede  che
ogni istituto sia dotato di una cucina ove venga preparato  il  pasto
per non piu' di duecento persone, con la necessaria  presenza  di  un
adeguato numero di cucine per gli istituti di maggiore capienza: solo
per le carenze strutturali registrate  negli  istituti  di  pena  per
adulti, dunque, i detenuti scaldano e consumano i pasti nelle  camere
di pernottamento, benche' l'utilizzo del fornello sia stato concepito
«in via eccezionale e soltanto per esigenze  marginali».  La  mancata
realizzazione  di  ambienti  comuni  ove  consumare  i  pasti  e   la
conseguente possibilita' attribuita ai detenuti  di  cuocere  i  cibi
nelle proprie camere di pernottamento, non si tradurrebbe,  tuttavia,
nel riconoscimento di un diritto del detenuto a cuocere i cibi  nella
propria cella. Di qui la conclusione che la limitazione della cottura
dei cibi non possa affatto costituire trattamento contrario al  senso
di umanita'. 
    Infine, in ordine ai prospettati profili  di  contrarieta'  della
norma all'art. 32  Cost.,  viene  evidenziata  l'omissione  di  «ogni
descrizione della patologia e delle esigenze di salute del detenuto»,
circostanza preclusiva dello scrutinio nel merito circa la  rilevanza
della questione di legittimita' costituzionale sollevata dal  giudice
a quo. 
    In  ogni  caso,  secondo  l'interveniente,  in  riferimento  alle
esigenze di salute del reclamante, le prescrizioni  ministeriali  sul
divieto di cottura dei cibi nella propria camera di pernottamento non
sarebbero comunque in grado di pregiudicare il  diritto  alla  salute
del detenuto,  «potendo  e  dovendo  l'Amministrazione  penitenziaria
assicurare  il  vitto  compatibile  con  le  patologie   di   ciascun
detenuto»:  viene  richiamata,  in  proposito,   la   circolare   del
Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del  Ministero  della
giustizia n. 686040 del  7  aprile  1988,  che  avrebbe  previsto  la
possibilita' di modificare il vitto,  adeguandolo,  su  proposta  del
sanitario, alle esigenze specifiche di salute del singolo detenuto. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con  l'ordinanza  di  rimessione  indicata  in  epigrafe,  il
Magistrato di sorveglianza di Spoleto solleva,  in  riferimento  agli
artt. 3, 27  e  32  della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-quater,  lettera  f),  della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario  e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),
come modificato dall'art. 2, comma 25, lettera f), numero  3),  della
legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni  in  materia  di  sicurezza
pubblica), nella parte in cui «impone che  siano  adottate  tutte  le
necessarie misure di sicurezza volte a garantire che  sia  assicurata
la assoluta impossibilita' per i detenuti in regime differenziato  di
cuocere cibi». 
    2.- Il giudice a quo e' investito del reclamo di un  detenuto  in
regime differenziato, il  quale  si  duole  dei  divieti,  impostigli
dall'amministrazione penitenziaria, di acquistare cibi che richiedono
cottura  nonche'  di  cucinare  quelli  di  cui  gli  e'   consentito
l'acquisto. 
    In punto di rilevanza delle questioni  sollevate,  il  rimettente
espone che, a causa del tenore della disposizione di legge censurata,
non gli e' possibile accogliere  il  reclamo  ai  sensi  degli  artt.
35-bis, comma 3, e 69, comma 6, lettera b),  ordin.  penit.  -  nella
versione risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 3, comma  1,
lettere b) e i), numero 2), del decreto-legge 23  dicembre  2013,  n.
146 (Misure urgenti in tema di tutela dei  diritti  fondamentali  dei
detenuti e di riduzione controllata  della  popolazione  carceraria),
convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 10 -  in
virtu' dei  quali  il  magistrato  di  sorveglianza,  se  accerta  la
sussistenza    e     l'attualita'     del     pregiudizio,     ordina
all'amministrazione di porre rimedio entro  un  determinato  termine.
Solo la  declaratoria  d'illegittimita'  costituzionale  della  norma
sospettata   d'incostituzionalita',   conclude    correttamente    il
rimettente,  gli  consentirebbe  di  disapplicare   i   provvedimenti
amministrativi contenenti i divieti oggetto del reclamo. 
    Non sussistono, dunque, le  ragioni  d'inammissibilita'  rilevate
con l'ordinanza n. 56 del 2011, con la quale  questa  Corte  ha  gia'
scrutinato la stessa disposizione oggi nuovamente censurata. 
    3.- Riconosciuto dunque che  i  provvedimenti  reclamati  trovano
fondamento ultimo nel citato art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f),
della legge n. 354 del  1975,  il  rimettente  dubita,  innanzitutto,
della conformita' di tale disposizione all'art. 3 Cost., in quanto il
divieto  di  cuocere  cibi  in  essa  contenuto  determinerebbe   una
disparita' di trattamento  tra  i  detenuti  "comuni",  ai  quali  il
divieto in  esame  non  si  applica,  e  quelli  soggetti  al  regime
carcerario  differenziato:  una   disparita'   di   trattamento   non
giustificata dalle finalita' poste a base dell'imposizione del regime
di cui all'art. 41-bis ordin. penit., il quale tollererebbe  soltanto
le limitazioni necessarie a garantire le esigenze di ordine  pubblico
e sicurezza, e quelle finalizzate  ad  impedire  i  collegamenti  del
detenuto con l'associazione criminale di riferimento. 
    In questa prospettiva, osserva  il  rimettente,  le  esigenze  di
sicurezza sarebbero gia' sufficientemente presidiate  dalla  rigorosa
ed imparziale applicazione  delle  ordinarie  regole  di  trattamento
intramurario, mentre il divieto di cuocere cibi non aggiungerebbe  ad
esse alcun apprezzabile giovamento. 
    A parere del rimettente, sussisterebbe altresi' un contrasto  tra
la disposizione censurata e l'art. 27 Cost., e in particolare il  suo
comma terzo, nella parte in cui  dispone  che  le  pene  non  possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanita'. 
    Considerando che il reclamante,  in  quanto  detenuto  in  regime
differenziato, e' gia' sottoposto a limitazioni ulteriori rispetto  a
quelle previste dal trattamento carcerario ordinario, il  divieto  di
cuocere cibi non potrebbe fondarsi, in primo luogo, sulla  necessita'
di evitare che egli continui  a  mantenere  contatti  con  il  gruppo
criminale  di  appartenenza  e  ad  impartire  direttive  ed   ordini
all'esterno dell'istituto. A questo  scopo,  infatti,  risulterebbero
serventi le altre restrizioni tipiche del regime  di  cui  al  citato
art. 41-bis ordin. penit. In secondo luogo, il divieto in  esame  non
sarebbe funzionale  alla  limitazione  dell'esibizione  di  potere  e
carisma all'interno del carcere, perche' tale obiettivo e' perseguito
attraverso l'imposizione a tutti i detenuti di  generali  vincoli  di
spesa, relativi anche all'acquisto del cibo. 
    Proprio  in  un  contesto  di  fortissime,  sia  pur   legittime,
compressioni dei diritti, il divieto di cuocere cibi, in  definitiva,
finirebbe  per  rivestire  un  carattere  meramente  vessatorio,   in
contrasto con il parametro costituzionale ricordato. 
    Infine, la disposizione censurata risulterebbe in contrasto anche
con l'art. 32 Cost. 
    Il rimettente ricorda che il reclamante soffre di  patologie  che
potrebbero  esser  tenute  sotto  controllo  anche   attraverso   una
particolare gestione della dieta, consistente  nell'approntamento  di
cibi cotti con modalita' di cui la casa circondariale non si  farebbe
carico. 
    Considerando che solo la  liberta'  di  prepararsi  autonomamente
anche i cibi che richiedono  cottura  permetterebbe  al  detenuto  di
variare la dieta alimentare in funzione delle proprie condizioni,  il
divieto in questione - costringendolo  per  anni  a  sottoporsi  alla
dieta impostagli dall'amministrazione penitenziaria -  finirebbe,  al
contrario, per incidere negativamente sul suo diritto alla salute. 
    4.- Le questioni sono fondate, poiche' la disposizione  censurata
viola gli artt. 3 e 27 Cost. 
    4.1.- La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito  che
il regime differenziato previsto dall'art. 41-bis,  comma  2,  ordin.
penit.  mira  a  contenere  la  pericolosita'  di  singoli  detenuti,
proiettata anche all'esterno del carcere, in particolare impedendo  i
collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni  criminali
tra loro e con i  membri  di  queste  che  si  trovino  in  liberta':
collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con  il
mondo esterno che lo  stesso  ordinamento  penitenziario  normalmente
favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (sentenza n.  376
del 1997; ordinanze n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998). 
    Cio'  che  l'applicazione  del   regime   differenziato   intende
soprattutto evitare e' che gli esponenti dell'organizzazione in stato
di detenzione, sfruttando il regime  penitenziario  normale,  possano
continuare  ad  impartire  direttive  agli  affiliati  in  stato   di
liberta', e cosi'  mantenere,  anche  dall'interno  del  carcere,  il
controllo  sulle  attivita'  delittuose  dell'organizzazione   stessa
(sentenza n. 143 del 2013). 
    In questa prospettiva, il comma 2-quater dell'art. 41-bis  ordin.
penit. - nel testo da ultimo novellato dalla legge n.  94  del  2009,
che ha introdotto significativi inasprimenti al regime in questione -
dopo aver previsto che il regime  speciale  comporta  «l'adozione  di
misure  di  elevata  sicurezza  interna   ed   esterna»   finalizzate
principalmente a «prevenire contatti con  l'organizzazione  criminale
di  appartenenza  o  di   attuale   riferimento»   del   detenuto   o
dell'internato, oltre che «contrasti con elementi  di  organizzazioni
contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti
alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate», elenca
una serie di misure specifiche, costituenti  il  contenuto  tipico  e
necessario del regime stesso (sentenza n. 122 del 2017). 
    Tra queste misure, alla lettera f) del comma  2-quater  dell'art.
41-bis ordin. penit. figura, per la parte qui rilevante, quella sulla
quale si appuntano le censure del giudice rimettente:  l'adozione  di
accorgimenti di natura logistica sui locali  di  detenzione  volti  a
garantire che  sia  assicurata  la  assoluta  impossibilita',  per  i
detenuti, di cuocere cibi. 
    4.2.- Originariamente contenuto in alcuni dei primi provvedimenti
applicativi della disciplina del "carcere duro" introdotta nel  1992,
il divieto di cottura dei cibi da parte dei detenuti considerati piu'
pericolosi trova in seguito stabile collocazione in  varie  circolari
dell'amministrazione carceraria, approvate lungo tutto il corso degli
anni '90. Esso non  viene  tuttavia  inserito  in  fonti  di  livello
primario, e non compare neppure nella legge 23 dicembre 2002, n.  279
(Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26  luglio  1975,
n. 354, in  materia  di  trattamento  penitenziario),  la  quale  pur
disciplino' in modo analitico il regime  di  detenzione  speciale  ex
art. 41-bis ordin. penit., tipizzando le limitazioni che in  concreto
il Ministro della giustizia poteva imporre allo scopo di contenere la
pericolosita' dei singoli destinatari della misura. 
    Come si e' visto, solo con la legge n. 94 del  2009,  indirizzata
ad irrigidire significativamente il  regime  speciale  in  esame,  al
divieto  di  cottura  dei  cibi  da  parte  dei  detenuti  in  regime
differenziato e' assegnata veste legislativa. Cio' avviene attraverso
l'inserimento del divieto all'interno di una  lettera  f)  del  comma
2-quater  dell'art.  41-bis  ordin.  penit.,  che   contiene   misure
complessivamente volte ad incidere, limitandole drasticamente,  sulle
potenzialita'   di   relazione   dei   detenuti:   il   divieto   qui
specificamente censurato si accompagna cosi' alla  restrizione  della
loro  permanenza  all'aperto,  che  non  puo'  svolgersi  in   gruppi
superiori a quattro persone e per una durata superiore alle  due  ore
al   giorno,   dovendo   altresi'   essere   assicurata   «l'assoluta
impossibilita'» di comunicare con  detenuti  appartenenti  a  diversi
gruppi di socialita' e di scambiare oggetti. 
    Al nuovo contenuto  della  fonte  primaria  si  sono  prontamente
adeguate le  fonti  secondarie  (in  particolare,  la  circolare  del
Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del  Ministero  della
giustizia n. 286202 del 4 agosto 2009) introducendo, per  i  detenuti
in questione e per la parte che ora qui interessa, anche  il  divieto
di ricevere dall'esterno e di acquistare al cosiddetto  "sopravvitto"
(lo spaccio interno al carcere) generi alimentari  che  per  il  loro
utilizzo richiedano cottura, e precisando che l'utilizzo dei fornelli
personali, all'interno delle  camere  di  detenzione,  e'  consentito
esclusivamente per riscaldare liquidi e cibi gia' cotti, nonche'  per
la preparazione di bevande. 
    A tale specifico regime,  riservato  ai  detenuti  soggetti  alla
disciplina differenziata dell'art. 41-bis ordin. penit., si affianca,
peraltro, il diverso e meno restrittivo regime applicato  agli  altri
detenuti. 
    Questi ultimi possono acquistare al sopravvitto, nonche' ricevere
dall'esterno,  anche  generi  alimentari   di   consumo   comune   ed
eventualmente da consumarsi previa cottura, ai sensi dell'art. 14 del
d.P.R.  30  giugno  2000,   n.   230   (Regolamento   recante   norme
sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e  limitative
della liberta'). 
    Inoltre, in virtu' della disciplina contenuta nel d.P.R.  n.  230
del 2000,  a  causa  della  mancata  predisposizione  -  nella  quasi
totalita' degli istituti di detenzione -  di  locali  attrezzati  per
cucinare, ai detenuti comuni e' permesso utilizzare nelle  camere  di
detenzione i fornelli personali, non solo - come e'  previsto  per  i
detenuti in regime differenziato - per riscaldare liquidi e cibi gia'
cotti oppure per preparare bevande, ma anche per la  preparazione  di
cibi di facile e rapido approntamento (art. 13, comma  4,  d.P.R.  n.
230 del 2000). 
    Inoltre, con regola  non  applicabile  ai  detenuti  soggetti  al
regime di cui all'art. 41-bis  ordin.  penit.  proprio  a  causa  del
divieto legislativo del quale si duole il giudice a quo, il  comma  7
dell'art.  13  del  citato  d.P.R.  n.  230  del  2000  autorizza  il
regolamento interno di ciascun carcere a prevedere che, sia pur senza
carattere di  continuita',  sia  consentita  ai  detenuti  comuni  la
cottura di generi alimentari, stabilendo i generi ammessi nonche'  le
modalita' da osservare. 
    Sulla base di quest'ultima disposizione - e a  causa  della  gia'
rilevata assenza, nella quasi  totalita'  delle  carceri,  di  locali
attrezzati per cucinare - i detenuti comuni  utilizzano  abitualmente
all'interno delle camere di  detenzione  il  fornello  personale  per
cuocere cibi, e non  solo  per  riscaldare  cibi  gia'  cotti  o  per
preparare cibi di facile e rapido  approntamento  (secondo  i  limiti
testualmente posti dall'art. 13, comma  4,  del  d.P.R.  n.  230  del
2000). 
    4.3.- La giurisprudenza costituzionale ha  puntualmente  definito
non solo gli obbiettivi cui tende il regime  detentivo  differenziato
previsto dall'art. 41-bis, comma 2, ordin. penit., ma anche i  limiti
cui e' soggetta la sua applicazione. 
    Affermando che, in base alla citata  disposizione,  e'  possibile
sospendere solo l'applicazione di regole ed istituti dell'ordinamento
penitenziario che risultino in concreto contrasto con le esigenze  di
ordine e sicurezza, questa Corte ha chiarito,  correlativamente,  non
potersi disporre misure che, a causa del  loro  contenuto,  a  quelle
concrete esigenze  non  siano  riconducibili  poiche'  risulterebbero
palesemente  inidonee  o  incongrue  rispetto  alle   finalita'   del
provvedimento  che  assegna  il  detenuto  al  regime  differenziato:
«[m]ancando tale congruita', infatti,  le  misure  in  questione  non
risponderebbero piu' al fine per il quale la legge consente che  esse
siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso,  divenendo
ingiustificate  deroghe  all'ordinario  regime  carcerario,  con  una
portata  puramente  afflittiva  non   riconducibile   alla   funzione
attribuita dalla legge al provvedimento  ministeriale»  (sentenza  n.
351 del 1996). 
    La stessa giurisprudenza  costituzionale  (sentenze  n.  376  del
1997, n. 351  del  1996  e  n.  349  del  1993)  ha  conseguentemente
sottolineato che le misure,  considerate  singolarmente  e  nel  loro
complesso,  non  devono  essere  tali  da  vanificare  del  tutto  la
necessaria finalita' rieducativa della  pena  (sentenza  n.  149  del
2018) e da violare il divieto di trattamenti  contrari  al  senso  di
umanita', «verifica quest'ultima tanto piu' delicata  trattandosi  di
misure che derogano  al  trattamento  carcerario  ordinario»  (ancora
sentenza n. 351 del 1996). 
    4.4.- Nel silenzio dei lavori preparatori della legge n.  94  del
2009 circa la ratio dell'introduzione del divieto di cottura dei cibi
per i detenuti assegnati al  regime  differenziato  di  cui  all'art.
41-bis ordin. penit., si e' comunemente ritenuto, come accenna  anche
il giudice rimettente, che  tale  ratio  possa  essere  scorta  nella
necessita'  di  contrastare  l'eventuale  crescita  di   "potere"   e
prestigio criminale del detenuto all'interno del carcere,  misurabile
anche attraverso la disponibilita' di generi alimentari "di lusso". 
    Sotto questo profilo, non erra l'Avvocatura generale dello  Stato
quando ricorda che  e'  necessario  «affermare  la  supremazia  delle
regole  dello  Stato  di  diritto»  nei  confronti  di  chi  potrebbe
sfruttare  le  stesse  regole  del  trattamento   penitenziario   per
mantenere,  anche  all'interno  del  carcere,  il  proprio  prestigio
criminale e di  conseguenza  aggregare  un  consenso  traducibile  in
termini di potenzialita' offensive criminali. 
    Ma, in primo luogo, questa Corte ebbe gia' ad affermare che «[s]e
e' vero  [...]  che  va  combattuto  in  ogni  modo  il  manifestarsi
all'interno del carcere di forme di "potere" dei detenuti piu'  forti
o piu' facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le  organizzazioni
criminali, e' anche vero che  cio'  deve  perseguirsi  attraverso  la
definizione e l'applicazione rigorosa e imparziale delle  regole  del
trattamento   carcerario   [...].   Non   potrebbe,   per   converso,
considerarsi legittimo, a questo  scopo,  l'impiego  di  misure  piu'
restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice
discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto  alle
regole e ai diritti valevoli per tutti» (sentenza n. 351 del 1996). 
    In secondo luogo, il riferimento alla necessita'  di  contrastare
attraverso regole dal sapore dimostrativo forme di "potere reale" dei
detenuti rivela  ulteriormente  la  propria  palese  incongruita'  se
concretamente riferito al particolare divieto in esame, che  consiste
nell'impossibilita' di cuocere cibi. 
    Intanto, la crescita di "potere" e di prestigio  all'interno  del
carcere  potrebbe  derivare  anche  dalla  disponibilita'  di  generi
alimentari "di lusso" da consumare crudi. Ma,  anche  al  di  la'  di
questo ovvio rilievo,  e'  la  stessa  ordinaria  applicazione  delle
regole di disciplina specificamente  previste  a  rendere  pressoche'
impossibile qualunque abusiva posizione di privilegio o  di  "potere"
all'interno del carcere collegata alla cottura del cibo. 
    Le regole carcerarie  ordinarie  prevedono  precisi  limiti  alla
ricezione, all'acquisto e al possesso di oggetti e generi  alimentari
da parte di tutti i detenuti (art. 14 del d.P.R. n.  230  del  2000).
Anche  il  detenuto  in  regime  differenziato  puo'  acquistare   al
sopravvitto generi  alimentari  (con  l'esclusione,  attualmente,  di
quelli che richiedono cottura), ma puo' farlo nei limiti di quantita'
e valore comunemente previsti (come ribadito nella recente  circolare
del Dipartimento  dell'amministrazione  penitenziaria  del  Ministero
della giustizia n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017). Inoltre, lo  stesso
regime differenziato di cui all'art. 41-bis ordin. penit. rende assai
improbabile il possesso, da parte del detenuto, di generi  alimentari
pregiati, che risultino motivo  di  discriminazione  fra  detenuti  o
mezzo improprio di scambio, o tali comunque  da  distinguere  la  sua
posizione, pur all'interno del limitatissimo "gruppo  di  socialita'"
entro il quale al detenuto e' concesso di convivere.  L'art.  41-bis,
comma 2-quater, lettera c), infatti, prevede che la sospensione delle
ordinarie regole di trattamento debba necessariamente tradursi  anche
nella ulteriore limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che
egli puo' ricevere dall'esterno. 
    Caduta questa prima ed abituale giustificazione, non potrebbe poi
ritenersi che siano peculiari e differenziate esigenze  di  ordine  e
sicurezza (esterne o interne al carcere) ad  imporre  l'adozione  del
divieto in questione, con particolare riferimento, da un  lato,  alla
necessita' che il detenuto sottoposto al regime  speciale  non  abbia
contatti con le imprese  esterne  presso  le  quali  acquista  generi
alimentari   al   sopravvitto   e,   dall'altro,   alla    potenziale
pericolosita' degli utensili (arnesi da cucina e fornello  personale)
necessari alla cottura dei cibi. 
    In primo luogo, posto che, come si e' detto, anche i detenuti  in
regime differenziato possono svolgere (limitati) acquisti  di  generi
alimentari al sopravvitto, non e' certo il  divieto  di  cottura  dei
cibi a risultare congruo e funzionale all'obbiettivo  di  recidere  i
possibili  contatti  con  l'esterno  che  tali  acquisti   potrebbero
comportare. 
    Inoltre, i detenuti in regime  differenziato,  come  pure  si  e'
visto, dispongono comunque del fornello personale, anche  se  possono
allo stato utilizzarlo, a differenza degli altri, solo per riscaldare
liquidi e cibi gia' cotti, oppure per preparare bevande. E poiche' le
esigenze di sicurezza personale dei detenuti  trovano  protezione  in
varie altre regole del complessivo regime carcerario, il  divieto  di
cottura dei cibi non e' ovviamente idoneo ad  aggiungere  nulla  alla
pur indispensabile opera di prevenzione degli  utilizzi  impropri  di
tale strumento, che risultino pericolosi per il detenuto stesso o per
gli altri. 
    4.5.- Risulta da tutto quanto detto che il divieto di cottura dei
cibi, in quanto previsto in via generale ed astratta  in  riferimento
ai detenuti soggetti al regime  carcerario  di  cui  all'art.  41-bis
ordin. penit., e' privo di ragionevole giustificazione. 
    In quanto incongruo e inutile  alla  luce  degli  obbiettivi  cui
tendono le  misure  restrittive  autorizzate  dalla  disposizione  in
questione, esso si pone in contrasto con gli  artt.  3  e  27  Cost.,
configurandosi come  un'ingiustificata  deroga  all'ordinario  regime
carcerario, dotato di valenza meramente e ulteriormente afflittiva. 
    Riferendosi al regime carcerario differenziato  di  cui  all'art.
41-bis ordin. penit., piu' duro e restrittivo di quello ordinario, il
giudice rimettente osserva che il potersi  esercitare  nella  cottura
dei cibi, secondo  le  ritualita'  cui  si  era  abituati  prima  del
carcere,  costituirebbe  una  modalita',  «umile  e  dignitosa»,  per
tenersi in contatto con le usanze del mondo esterno e  con  il  ritmo
dei giorni e delle stagioni, nel fluire di un tempo della  detenzione
che trascorre altrimenti in un'aspra solitudine. 
    Non  erra,  lo  stesso  rimettente,  quando  conclude   che,   al
contrario, la negazione dell'accesso a questa abitudine  finisce  per
configurarsi come  una  lesione  all'art.  27,  terzo  comma,  Cost.,
presentandosi come un'inutile e ulteriore limitazione,  contraria  al
senso di umanita'. 
    In definitiva, non si tratta di affermare,  ne'  per  i  detenuti
comuni, ne' per quelli assegnati al regime differenziato, l'esistenza
di un "diritto fondamentale a cuocere i cibi  nella  propria  cella",
come  del   resto   osserva   l'Avvocatura   generale   dello   Stato
interveniente: si tratta piuttosto di riconoscere che  anche  chi  si
trova ristretto secondo le modalita' dell'art. 41-bis  ordin.  penit.
deve conservare la  possibilita'  di  accedere  a  piccoli  gesti  di
normalita' quotidiana, tanto piu' preziosi in quanto costituenti  gli
ultimi residui in cui puo' espandersi  la  sua  liberta'  individuale
(analogamente, sentenze n. 122 e n. 20 del 2017, n. 349 del 1993). 
    L'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge n. 354 del
1975   va   percio'   dichiarato    costituzionalmente    illegittimo
limitatamente alle parole «e cuocere cibi». 
    5.- E' assorbita la censura sollevata in  relazione  all'asserita
violazione dell'art. 32 Cost.