ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  degli  artt.  3,
lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19  gennaio  2017,
n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell'ordinamento  dello
stato civile in materia di iscrizioni,  trascrizioni  e  annotazioni,
nonche'   modificazioni   ed   integrazioni    normative    per    la
regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell'articolo 1, comma
28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016,  n.  76)»,  promosso
dal Tribunale ordinario di Ravenna con  ordinanza  depositata  il  22
novembre 2017, iscritta al  n.  32  del  registro  ordinanze  2018  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  8,  prima
serie speciale, dell'anno 2018. 
    Visto l'atto di costituzione di G. Z.G. e G. G.,  nonche'  l'atto
di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nella udienza  pubblica  del  9  ottobre  2018  il  Giudice
relatore Giuliano Amato; 
    udito  l'avvocato  Stefano  Chinotti  per  G.  Z.G.  e  G.  G.  e
l'avvocato dello Stato  Gabriella  Palmieri  per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 22 novembre 2017, il Tribunale ordinario di
Ravenna ha sollevato questioni di legittimita'  costituzionale  degli
artt. 3, lettera c), numero  2),  e  8  del  decreto  legislativo  19
gennaio  2017,  n.  5,  recante   «Adeguamento   delle   disposizioni
dell'ordinamento  dello  stato  civile  in  materia  di   iscrizioni,
trascrizioni e annotazioni,  nonche'  modificazioni  ed  integrazioni
normative per la  regolamentazione  delle  unioni  civili,  ai  sensi
dell'articolo 1, comma 28, lettere a) e c),  della  legge  20  maggio
2016, n. 76», in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo
comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 8 della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848,  e  agli
artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione  europea
(CDFUE),  proclamata  a  Nizza  il  7  dicembre  2000  e  adattata  a
Strasburgo il 12 dicembre 2007. 
    1.1.- In particolare, l'art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs.
n. 5 del 2017 inserisce nell'art. 20 del d.P.R. 30  maggio  1989,  n.
223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della  popolazione
residente), il comma 3-bis, il quale  prevede  che  «[p]er  le  parti
dell'unione civile le  schede  devono  essere  intestate  al  cognome
posseduto prima dell'unione civile». 
    L'art. 8 dello stesso  decreto  legislativo  dispone  che  «[...]
l'ufficiale dello stato civile, con la procedura di correzione di cui
all'articolo 98, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica
3 novembre 2000, n. 396, annulla l'annotazione relativa  alla  scelta
del cognome effettuata a norma dell'articolo 4, comma 2, del  decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144». 
    1.2.- Ad avviso del  giudice  a  quo,  entrambe  le  disposizioni
censurate violerebbero, in primo luogo, l'art. 2  Cost.,  poiche'  la
parte  dell'unione  civile  verrebbe  privata,  d'ufficio   e   senza
contraddittorio,  del  cognome  comune  legittimamente  acquisito   e
utilizzato, cosi'  determinando  la  lesione  dei  diritti  al  nome,
all'identita' e alla dignita' personale. 
    Sarebbe violato anche  il  principio  di  ragionevolezza  di  cui
all'art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione  del
potere  statale  d'intervenire  d'imperio,  con  la  procedura  senza
contraddittorio prevista per la correzione di  errori  materiali,  al
fine di mutare l'identita' personale di un soggetto. 
    Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con
l'art. 22 Cost., poiche', con l'eliminazione della valenza anagrafica
del cognome comune, la parte dell'unione civile verrebbe  privata  di
un cognome gia' acquisito. 
    Esse sarebbero altresi' in contrasto con l'art. 76 Cost., poiche'
il legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca
o annullamento delle iscrizioni e annotazioni gia' effettuate. 
    Infine, e' denunciata la violazione degli artt. 11 e  117,  primo
comma, Cost., poiche' sarebbe pregiudicato il diritto al  nome  e  al
rispetto della vita privata e familiare, garantito dall'art. 8  della
CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE. 
    2.- Il Tribunale ordinario di Ravenna e' chiamato a  decidere  in
ordine al ricorso proposto da due persone unite civilmente al fine di
ottenere, ai sensi dell'art. 98 del d.P.R. 3 novembre  2000,  n.  396
(Regolamento per la revisione e la  semplificazione  dell'ordinamento
dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15
maggio  1997,  n.  127),  l'annullamento   della   variazione   delle
generalita' anagrafiche di una  di  esse,  eseguite  in  applicazione
delle disposizioni censurate. 
    Il giudice a quo riferisce che,  al  momento  della  costituzione
dell'unione civile, in base all'art. 1,  comma  10,  della  legge  20
maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra  persone
dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), i ricorrenti hanno
scelto quale cognome comune quello di uno di essi, mentre l'altro  ha
dichiarato di voler  aggiungere  al  proprio  il  cognome  comune.  A
seguito di tale scelta, e' stata modificata la sua scheda  anagrafica
e sono state conseguentemente  rinnovate  la  carta  d'identita',  la
tessera sanitaria e altri documenti personali. 
    Il giudice rimettente riferisce che, a  seguito  dell'entrata  in
vigore del d.lgs. n. 5 del 2017, l'ufficiale d'anagrafe ha provveduto
alla variazione  delle  generalita'  anagrafiche  e  all'annullamento
dell'annotazione relativa alla scelta del cognome  eseguita  in  base
all'art. 4, comma 2, del decreto del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri 23 luglio 2016, n.  144  (Regolamento  recante  disposizioni
transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell'archivio dello
stato civile, ai sensi dell'articolo 1,  comma  34,  della  legge  20
maggio 2016, n. 76), nonche' dell'annotazione  nell'atto  di  nascita
presso i  registri  dello  stato  civile,  ripristinando  il  cognome
originario. 
    Ad avviso del giudice a quo, le censurate disposizioni del d.lgs.
n. 5  del  2017  avrebbero  determinato  la  sostanziale  abrogazione
dell'art. l, comma 10, della legge n. 76  del  2016  e  ne  avrebbero
negato l'originario contenuto  precettivo,  volto  a  riconoscere  il
diritto delle parti  dell'unione  civile  di  assumere  a  tutti  gli
effetti un cognome comune, consentendo ad una di esse  di  modificare
il cognome originario. Da cio' discenderebbe la violazione di diritti
fondamentali della persona, tutelati anche a livello  sovranazionale,
ed in particolare dagli artt. l e 7 della CDFUE, nonche' dall'art.  8
della CEDU. 
    Ad avviso del rimettente, l'art. 8 del  d.lgs.  n.  5  del  2017,
nella parte in cui priva la persona di un cognome  gia'  acquisito  e
utilizzato, disponendo retroattivamente la modifica di una situazione
anagrafica legittimamente costituita prima dell'entrata in vigore del
medesimo decreto, violerebbe il  diritto  al  nome,  all'identita'  e
dignita' personale, nonche' il diritto al rispetto della vita privata
e familiare. 
    Il giudice a quo fa rilevare che  gli  artt.  6  e  seguenti  del
codice civile sanciscono il diritto al nome, prevedendo  il  generale
divieto  di  mutamento  dello  stesso.  Infatti,  non  sono   ammessi
cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con  le
formalita'  previste  dall'art.  89  del  d.P.R.  n.  396  del  2000.
Ancorche' previsto da una legge ordinaria,  sarebbe  indubitabile  il
rilievo costituzionale del  diritto  al  nome  (composto  da  nome  e
cognome),  quale  elemento  costitutivo  del  diritto   all'identita'
personale, tutelato dall'art. 2 Cost., anche nelle formazioni sociali
nelle quali si esplica la personalita' dell'individuo. Il  rimettente
osserva che il nome  e'  stato  ritenuto  meritevole  di  un'espressa
tutela anche da parte dell'art. 22 Cost. che, sia pure  per  il  solo
caso in cui cio' avvenga per motivi politici,  prevede  che  «nessuno
puo' essere privato del nome». 
    Inoltre, la norma  delegata  si  porrebbe  in  contrasto  con  il
principio di ragionevolezza  (art.  3  Cost.),  poiche'  non  sarebbe
rinvenibile alcuna giustificazione del potere  statale  d'intervenire
d'imperio e con la procedura senza contraddittorio  prevista  per  la
correzione di errori materiali (art. 98 del d.P.R. n. 396  del  2000)
al fine di mutare l'identita' personale di un soggetto. 
    Il giudice rimettente sottolinea che, in  caso  di  mutamento  di
status, l'interessato ha diritto di essere sentito e  di  opporsi  al
mutamento del proprio cognome (art. 262 cod. civ.). Al  riguardo,  si
fa rilevare che con sentenza n.  13  del  1994  e'  stata  dichiarata
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 165  del  regio  decreto  9
luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), per violazione
dell'art. 2 Cost., nella parte in  cui  non  prevedeva  che,  ove  la
rettifica degli atti dello stato  civile,  per  ragioni  indipendenti
dalla volonta' del soggetto, comporti il cambiamento del cognome,  il
soggetto stesso possa ottenere  dal  giudice  il  riconoscimento  del
diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli. 
    Sarebbe, inoltre, ravvisabile la violazione dell'art.  76  Cost.,
in quanto l'art. 1, comma  28,  della  legge  n.  76  del  2016,  nel
conferire  la  potesta'  legislativa  al  Governo  «fatte  salve   le
disposizioni di cui alla presente legge», non avrebbe previsto  alcun
potere  di  revoca  o  annullamento  retroattivo  di   iscrizioni   e
annotazioni gia' effettuate. 
    E' inoltre denunciato il contrasto con l'art. 8  della  CEDU  che
prevede il diritto della persona al rispetto  della  vita  privata  e
familiare,  nell'ambito  del  quale  la  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo ha  individuato  la  tutela  del  diritto  al  nome,  quale
espressione  del  diritto  all'identita'  e  dignita'  personale.  Le
disposizioni  censurate  si  porrebbero  in  contrasto  anche  con  i
principi affermati dagli artt. 1 e 7 della CDFUE, i  quali  enunciano
il diritto alla dignita' umana e al rispetto  della  vita  privata  e
familiare. 
    Ritenendo non praticabile un'interpretazione adeguatrice, tale da
attribuire  alle  disposizioni  censurate  un  significato   conforme
all'art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE,  il  giudice  a
quo ritiene necessario rimettere a questa Corte la valutazione  della
loro legittimita' in riferimento agli artt. 11 e  117,  primo  comma,
Cost., alla luce dei principi e degli obblighi comunitari. 
    3.- Nel giudizio dinanzi alla Corte si  sono  costituiti  con  un
unico atto G. Z.G. e G. G., parti ricorrenti nel giudizio principale,
chiedendo   l'accoglimento   delle    questioni    di    legittimita'
costituzionale e ribadendo tali conclusioni con successiva memoria. 
    3.1.- Le parti costituite evidenziano che,  privando  di  valenza
anagrafica il cognome comune,  relegato  ad  una  funzione  meramente
simbolica, sarebbero stati svuotati i diritti  soggettivi  attribuiti
alle parti delle unioni civili dall'art. 1, comma 10, della legge  n.
76 del 2016. Sarebbe lesa l'identita' personale della  parte  il  cui
cognome sia diverso da quello scelto quale cognome  comune.  Infatti,
la cancellazione prevista dall'art.  8  del  d.lgs.  n.  5  del  2017
ridefinisce l'identita' personale secondo lo status quo ante. 
    Cio' determinerebbe la violazione del diritto di una delle  parti
dell'unione civile (quella che abbia assunto  il  cognome  comune  in
luogo del proprio o in aggiunta al proprio) di trasmettere alla prole
il proprio cognome, come modificato a seguito della scelta consentita
dal citato comma 10. Si osserva inoltre che, ove una delle  parti  di
unioni civili gia' costituite abbia  generato  figli,  ai  quali  sia
stato assegnato ex lege il cognome del proprio  genitore,  modificato
per effetto delle disposizioni dettate dal d.P.C.m. n. 144 del  2016,
sarebbe lesa anche l'identita' personale  dei  figli,  in  quanto  ne
sarebbe trasformato il presupposto costituito dal nome. 
    L'eliminazione   retroattiva   delle    annotazioni    e    degli
aggiornamenti anagrafici gia' eseguiti determinerebbe  il  sacrificio
di diritti soggettivi tutelati anche  a  livello  sovranazionale.  Al
riguardo, sono richiamate alcune pronunce della Corte  di  Strasburgo
che hanno ricondotto il diritto al nome nell'ambito dell'art. 8 della
CEDU (sentenze 21 ottobre 2008,  Guzel  Erdagoz  contro  Turchia;  1°
luglio 2008, Daroczy contro Ungheria;  6  settembre  2007,  Johansson
contro Finlandia; 16 novembre 2004, Unal Tekeli  contro  Turchia;  22
febbraio 1994, Burghartz contro Svizzera). 
    Le parti costituite deducono che, ai sensi dell'art. 52, comma 3,
della CDFUE, in caso di corrispondenza  tra  i  diritti  riconosciuti
dalla Carta di Nizza e quelli garantiti dalla CEDU, il significato  e
la  portata  dei  primi  sono  identici  a  quelli  conferiti   dalla
Convenzione. Pertanto, ad avviso  delle  parti  costituite,  tutti  i
diritti previsti dalla CEDU che trovino  corrispondenza  nella  CDFUE
debbono ritenersi tutelati con la medesima forza  di  quelli  sanciti
nel Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea  (TFUE).  Cio'
sarebbe confermato anche dall'art. 53 della CDFUE, il quale  sancisce
il divieto di interpretarne le disposizioni in senso  limitativo  dei
diritti riconosciuti dalla CEDU. 
    Sono, quindi, richiamate alcune pronunce di giudici di merito che
hanno ritenuto le disposizioni in esame incompatibili con  la  tutela
sovranazionale  dei  diritti  fondamentali  della  persona  e   hanno
provveduto alla loro disapplicazione. 
    3.2.- Cio' premesso, le parti costituite illustrano le ragioni  a
sostegno   dell'illegittimita'   costituzionale    delle    censurate
disposizioni del d.lgs. n. 5 del 2017. 
    3.2.1.- Si  evidenzia  che  l'istituto  dell'unione  civile,  pur
essendo  modellato   sulla   disciplina   del   matrimonio,   se   ne
discosterebbe sotto molteplici profili. Sarebbe infatti differente la
disciplina relativa alla filiazione,  all'adozione  e  agli  obblighi
derivanti dal vincolo.  Particolarmente  innovativa  sarebbe  poi  la
disciplina relativa al cognome comune. 
    Ad avviso delle parti costituite, l'art. 4, comma 2, del d.P.C.m.
n.  144  del  2016,  esplicitando  il  contenuto  di  queste  novita'
legislative,  avrebbe  dettato  la   disciplina   delle   conseguenze
anagrafiche della scelta operata dalle  parti  unite  civilmente,  in
quanto costitutiva della loro nuova identita' personale. 
    La scelta del cognome comune rappresenterebbe l'esercizio  di  un
diritto soggettivo, previsto dalla legge n. 76 del  2016.  In  quanto
espressione  di  un  diritto  fondamentale,  incidente  sulla  stessa
identita' personale, oltre che sulla  vita  familiare,  esso  sarebbe
incoercibile e non potrebbe essere negato dall'ufficiale dello  stato
civile, se non per ragioni espressamente ammesse dalla legge. 
    Viceversa, il d.lgs. n. 5 del 2017 ed il successivo  decreto  del
Ministro dell'interno 27 febbraio 2017, nell'omologare la  disciplina
del cognome comune dell'unione civile  a  quella  prevista  dall'art.
143-bis cod. civ. per  il  cognome  coniugale  avrebbe  stravolto  il
significato normativo dell'art. 1, comma 10, della legge  n.  76  del
2016, condiviso dallo stesso Governo nel d.P.C.m. n. 144 del 2016. 
    A conferma di tale interpretazione, si osserva che se la legge n.
76 del 2016 avesse voluto consentire a una  delle  parti  dell'unione
civile  il  mero  utilizzo  del  cognome  dell'altra,  senza   alcuna
incidenza anagrafica, non  ci  sarebbe  stata  ragione  di  prevedere
l'ulteriore diritto di manifestare, con un'apposita dichiarazione, la
volonta' di mantenere anche il proprio cognome anagrafico. Il  citato
comma 10 dispone, infatti, che  la  parte  puo'  mantenere  anche  il
proprio cognome, anteponendolo o posponendolo a quello acquisito.  Ad
avviso delle parti costituite, cio' sarebbe indicativo del fatto che,
in caso contrario, la parte perde il cognome originario e assume solo
quello comune. 
    3.2.2.- Ad avviso delle parti, il d.lgs. n. 5 del 2017,  anziche'
costituire attuazione dell'art. l, comma 10, della legge  n.  76  del
2016,  introdurrebbe  una  disciplina  contrastante  con   esso,   in
violazione dell'art. 76 Cost. 
    Il comma 28 dell'art. 1 della legge  n.  76  del  2016,  infatti,
conferisce la delega facendo  «salve  le  disposizioni  di  cui  alla
presente legge». Viceversa, le norme censurate, lungi dal  far  salvo
il comma 10, ne determinerebbero  lo  svuotamento  e  la  sostanziale
abrogazione. Esse impedirebbero a questa  disposizione  di  esprimere
tutti i suoi precetti normativi  e  determinerebbero  la  lesione  di
diritti soggettivi riconosciuti sia alle parti unite civilmente nella
vigenza del d.P.C.m. n. 144 del 2016, sia a quelle che intendano,  in
futuro, unirsi civilmente. 
    La disciplina del d.lgs. n.  5  del  2017  non  sarebbe,  quindi,
coerente con il limite posto dalla  delega,  ne'  potrebbe  ritenersi
espressiva di adeguamento e riassetto legislativo. 
    3.3.-  Le  disposizioni  censurate  si  porrebbero,  inoltre,  in
contrasto con gli artt. 2, 3, 11,  22  e  117,  primo  comma,  Cost.,
quest'ultimo in riferimento agli artt. 1 e 7 della CDFUE e all'art. 8
della CEDU. 
    Invero, la cancellazione retroattiva del  «cognome  comune»  gia'
assunto da una delle parti dell'unione civile, lederebbe la  dignita'
della persona e il suo diritto inviolabile al nome e alla  identita',
protetto dall'art. 2 Cost., nonche' il diritto al rispetto alla  vita
privata e familiare. Si fa rilevare che la  Corte  di  Strasburgo  ha
garantito il diritto fondamentale alla  vita  familiare  alle  coppie
omosessuali (sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria) e
che la  giurisprudenza  costituzionale  ha  riconosciuto  il  diritto
fondamentale delle stesse coppie ad essere riconosciute e tutelate ai
sensi dell'art. 2 Cost. (sentenza n. 138 del 2010). 
    Con l'attribuzione della valenza anagrafica del  cognome  comune,
la legge n. 76 del 2016 avrebbe inteso  conferire  all'unione  civile
visibilita'  sociale  e  caratterizzazione  anche  sotto  il  profilo
familiare. La  modifica  del  cognome,  disposta  dalle  disposizioni
censurate, frustrerebbe questa manifestazione della  vita  familiare,
in violazione dell'art. 2 Cost. e dell'art. 117, primo comma,  Cost.,
quest'ultimo in riferimento agli artt. l e 7 della CDFUE e all'art. 8
della CEDU. Ne' sussisterebbe alcuna delle  ragioni,  previste  dallo
stesso art. 8 della CEDU, che possa giustificare tale  ingerenza  del
legislatore. 
    3.4.- In particolare, con  riferimento  alla  dedotta  violazione
dell'art. 76 Cost., le parti fanno rilevare che l'art. 1,  comma  28,
della  legge  n.  76  del   2016   esprimerebbe   un   principio   di
intangibilita', da parte del legislatore delegato, delle disposizioni
contenute nella legge delega.  Tale  principio  sarebbe  violato  dal
legislatore   delegato   attraverso   l'adozione   di    disposizioni
abrogative,  che  avrebbero  l'effetto   di   stravolgere   l'assetto
normativo delineato dal legislatore delegante, facendo  degradare  il
cognome comune  dell'unione  civile  da  cognome  anagrafico  a  mero
cognome d'uso. 
    Ad avviso delle parti, l'esclusione della valenza anagrafica  del
cognome comune non costituirebbe affatto un'opzione interpretativa di
uno tra  i  diversi  significati  possibili  della  disposizione,  ma
sarebbe una soluzione contra legem: in tal  modo,  si  finirebbe  per
attribuire  all'art.  1,  comma  10,  della  legge  n.  76  del  2016
un'accezione  priva  di  senso,  in  luogo   dell'unico   significato
possibile dotato di senso (in particolare circa la natura  anagrafica
del cognome). In quanto frutto di  un  ripensamento  del  legislatore
delegato, le disposizioni correttive introdotte dal d.lgs. n.  5  del
2017 sarebbero illegittime. 
    3.5.- D'altra parte, l'art. 8 del  d.lgs.  n.  5  del  2017,  nel
prevedere la modificazione retroattiva delle risultanze  anagrafiche,
sarebbe lesivo anche del diritto al nome  e  alla  sua  conservazione
(art. 22 Cost.), quale prima  e  piu'  immediata  manifestazione  del
diritto all'identita' personale e del diritto alla dignita' personale
(art. 2 Cost. e art. 1 della CDFUE). 
    Infatti, le coppie  unite  civilmente,  che  abbiano  assunto  un
cognome comune nell'intervallo di tempo intercorrente  tra  l'entrata
in vigore della legge n. 76 del 2016 e l'entrata in vigore del d.lgs.
n. 5 del 2017, sarebbero titolari di  un  diritto  fondamentale  alla
conservazione di tale cognome, ormai  divenuto  elemento  costitutivo
della loro identita'  personale.  Pertanto,  sarebbe  illegittima  la
disposizione in esame che,  con  efficacia  retroattiva,  incide  sul
cognome legittimamente assunto. 
    Inoltre, l'indicazione  della  procedura  di  correzione  di  cui
all'art. 98, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000 sarebbe impropria ed
incongrua. Le parti costituite ritengono, infatti, che  l'annotazione
della scelta del cognome, gia' effettuata in base al d.P.C.m. n.  144
del 2016, non costituisca un  errore  materiale,  ma  sia  invece  un
adempimento amministrativo effettuato dall'ufficiale di stato  civile
nell'esecuzione di puntuali istruzioni legislative  e  regolamentari.
L'annullamento  delle  annotazioni  rappresenterebbe   un   tentativo
surrettizio di  dissimulare  una  rettificazione  anagrafica  imposta
d'ufficio e in assenza di  contraddittorio.  Cio'  determinerebbe  il
sacrificio dei diritti fondamentali delle coppie unite civilmente che
abbiano esercitato il diritto di scelta del cognome comune. 
    4.- Nel giudizio innanzi alla Corte, e' intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che  le  questioni  siano  dichiarate
inammissibili o comunque non fondate. 
    4.1.-   L'interveniente   ha   eccepito,    in    primo    luogo,
l'inammissibilita' delle questioni per l'incompleta ricostruzione del
quadro normativo. Il rimettente  avrebbe  omesso  di  considerare  la
disciplina delle schede anagrafiche individuali, di cui  all'art.  20
del d.P.R. n. 223 del 1989, e dell'annotazione  negli  archivi  dello
stato civile di cui all'art. 63 del d.P.R. n. 396 del 2000. 
    Si fa rilevare che  con  il  matrimonio  la  moglie  acquista  il
diritto di aggiungere il cognome del marito al proprio (art.  143-bis
cod. civ.); da cio' non deriva alcuna modifica anagrafica del cognome
della moglie, ma solo il diritto di  usare  il  cognome  del  marito,
aggiungendolo al proprio. La relativa scheda anagrafica  non  subisce
modificazioni e continua a riportare il cognome da nubile. 
    Per le unioni civili, la legge n. 76 del 2016, all'art. l,  comma
10, consente alle parti di scegliere un cognome comune. Nel prevedere
che le schede anagrafiche siano intestate al cognome posseduto  prima
dell'unione civile, l'art.  3  del  d.lgs.  n.  5  del  2017  sarebbe
coerente con le disposizioni in materia di matrimonio. 
    Inoltre, sempre nell'intento di regolare in modo uniforme  unioni
civili e matrimoni, il legislatore delegato ha modificato  l'art.  63
del d.P.R. n. 396 del 2000,  prevedendo  l'iscrizione  negli  archivi
dello stato civile della dichiarazione di voler assumere  un  cognome
comune e di anteporlo o posporlo al proprio. 
    4.2.- D'altra parte, non sarebbero fondate le questioni sollevate
in riferimento agli artt. 2,  22  e  117,  primo  comma,  Cost.,  con
riguardo al parametro interposto dell'art. 8 della CEDU. 
    Al momento della costituzione dell'unione civile le parti possono
scegliere il cognome, rendendo esplicita dichiarazione in tal  senso.
Secondo quanto stabilito dal novellato art. 20 del d.P.R. n. 223  del
1989, tali dichiarazioni non  devono  essere  annotate  nell'atto  di
nascita,  ne'  deve   procedersi   all'aggiornamento   della   scheda
anagrafica. 
    4.3.- Cio' posto, si fa rilevare che, nel disporre l'annullamento
dell'annotazione del cognome effettuata in vigenza  del  d.P.C.m.  n.
144 del 2016, il censurato art. 8 avrebbe la  funzione  di  norma  di
coordinamento. 
    Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato,  questa  disposizione  non
inciderebbe su diritti fondamentali della persona e non comporterebbe
un cambio di identita'. Quest'ultima ha radice nel cognome proprio di
ogni soggetto, il  quale  e'  immutabile  e  identifica  la  persona.
Oggetto di modifica  sarebbe  l'annotazione  dello  status,  per  sua
natura transitorio, di componente dell'unione  civile.  Esso  sarebbe
identificativo  non  gia'  dell'identita'  dell'individuo,  ma  della
creazione  di  un  nucleo   familiare.   Da   queste   considerazioni
deriverebbe la non fondatezza delle questioni,  in  riferimento  agli
artt. 2, 22  e  117  Cost.,  in  relazione  al  parametro  interposto
dell'art. 8 della CEDU. 
    Quanto alla denunciata violazione dell'art. 3 Cost., l'Avvocatura
dello Stato eccepisce l'inammissibilita' della censura per errata  ed
insufficiente descrizione della fattispecie. Nel merito, essa sarebbe
comunque  manifestamente  infondata,  poiche'  non  vi  sarebbe   una
modifica dell'identita' personale, ne' d'altra parte sussisterebbe un
obbligo di contraddittorio. Si  evidenzia,  a  questo  riguardo,  che
l'art.  98,  comma  3,  del  d.P.R.  n.  396  del  2000  consente  al
procuratore della Repubblica e  a  chiunque  vi  abbia  interesse  di
proporre opposizione, con cio' garantendo il diritto di difesa. 
    4.4.-  In  riferimento   al   denunciato   eccesso   di   delega,
l'Avvocatura dello Stato eccepisce l'inammissibilita'  della  censura
perche' generica e non adeguatamente motivata. 
    Nel merito, la questione sollevata  in  riferimento  all'art.  76
Cost. non sarebbe fondata. La disposizione  di  cui  all'art.  8  del
d.lgs. n. 5 del 2017 sarebbe  perfettamente  coerente  con  la  legge
delega. Essa dovrebbe essere  esaminata  congiuntamente  all'art.  1,
lettera m), numero 1),  del  medesimo  d.lgs.  n.  5  del  2017.  Nel
modificare l'art. 63 del d.P.R. n. 396 del  2000,  tale  disposizione
prevede, alla lettera  g-sexies),  l'iscrizione  della  dichiarazione
relativa alla scelta del cognome comune e alla sua posizione. 
    Ad avviso dell'Avvocatura generale dello Stato, nel prevedere  il
mantenimento del cognome originario sulla scheda anagrafica,  nonche'
nel disporre la cancellazione delle annotazioni  difformi  effettuate
nelle more dell'adozione della disciplina definitiva, il  legislatore
delegato non avrebbe violato alcuno dei criteri della delega, essendo
autorizzato ad adottare le disposizioni necessarie per  l'adeguamento
alla nuova normativa delle «disposizioni dell'ordinamento dello stato
civile in materia di iscrizioni, trascrizioni ed  annotazioni»  (art.
l, comma 28, della legge n. 76 del 2016). 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8
del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5,  recante  «Adeguamento
delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia  di
iscrizioni, trascrizioni  e  annotazioni,  nonche'  modificazioni  ed
integrazioni normative per la regolamentazione delle  unioni  civili,
ai sensi dell'articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della  legge  20
maggio 2016, n. 76», in riferimento agli artt. 2, 3,  11,  22,  76  e
117, primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  8  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848, e agli artt. 1 e  7  della  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000  e
adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 
    1.1.- In particolare, la prima delle due  disposizioni  censurate
inserisce,  nell'art.  20  del  d.P.R.  30  maggio   1989,   n.   223
(Approvazione del  nuovo  regolamento  anagrafico  della  popolazione
residente), il comma 3-bis, il quale  prevede  che  «[p]er  le  parti
dell'unione civile le  schede  devono  essere  intestate  al  cognome
posseduto prima dell'unione civile». 
    La disposizione dell'art. 8 prevede, d'altra  parte,  che  «[...]
l'ufficiale dello stato civile, con la procedura di correzione di cui
all'articolo 98, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica
3 novembre 2000, n. 396, annulla l'annotazione relativa  alla  scelta
del cognome effettuata a norma dell'articolo 4, comma 2, del  decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144». 
    1.2.- Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni sopra
richiamate violerebbero, in primo luogo, l'art. 2 Cost.,  poiche'  la
parte  dell'unione  civile  verrebbe  privata,  d'ufficio   e   senza
contraddittorio,  del  cognome  comune  legittimamente  acquisito   e
utilizzato, cosi'  determinando  la  lesione  dei  diritti  al  nome,
all'identita' e alla dignita' personale. 
    Sarebbe violato anche  il  principio  di  ragionevolezza  di  cui
all'art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione  del
potere  statale  d'intervenire  d'imperio,  con  la  procedura  senza
contraddittorio prevista per la correzione di  errori  materiali,  al
fine di modificare l'identita' personale di un soggetto. 
    Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con
l'art. 22 Cost., poiche', con l'eliminazione della valenza anagrafica
del cognome comune, la parte dell'unione civile verrebbe  privata  di
un cognome gia' acquisito. 
    Esse sarebbero altresi' in contrasto con l'art. 76 Cost., poiche'
il legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca
o annullamento delle iscrizioni e annotazioni gia' effettuate. 
    Infine, e' denunciata la violazione degli artt. 11 e  117,  primo
comma, Cost., poiche' sarebbe pregiudicato il diritto al  nome  e  al
rispetto della vita privata e familiare, garantito dall'art. 8  della
CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE. 
    2.-  In  via  preliminare,  vanno  esaminate  le   eccezioni   di
inammissibilita' delle questioni, formulate dall'Avvocatura  generale
dello Stato. 
    2.1.- Ad avviso di quest'ultima, il rimettente avrebbe omesso  di
considerare la disciplina delle schede  anagrafiche  individuali,  di
cui all'art. 20 del d.P.R. n. 223 del 1989, e  dell'iscrizione  negli
archivi dello stato civile, di cui all'art. 63 del d.P.R. 3  novembre
2000, n. 396 (Regolamento  per  la  revisione  e  la  semplificazione
dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo  2,  comma
12, della legge 15 maggio 1997, n. 127). La  considerazione  di  tali
disposizioni   avrebbe   consentito   di   individuare    la    ratio
dell'intervento legislativo in esame nell'esigenza di  uniformare  la
disciplina del cognome delle  unioni  civili  a  quella  del  cognome
coniugale. 
    Tuttavia, e' proprio su tale volonta' di assimilare la disciplina
dei due istituti che il giudice a  quo,  sulla  scorta  di  argomenti
illustrati anche dalle parti costituite, appunta le  proprie  censure
in ordine alle innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2017. Nella
prospettazione del rimettente, l'omologazione  della  disciplina  del
cognome comune a quella del cognome  coniugale  avrebbe  svuotato  di
significato  una   previsione   innovativa   e   caratterizzante   il
riconoscimento giuridico e sociale delle unioni civili. 
    2.2.-   L'Avvocatura   dello   Stato   ha,   inoltre,    eccepito
l'inammissibilita' delle  questioni  per  difetto  di  rilevanza,  in
considerazione della carente descrizione della fattispecie. 
    Dall'ordinanza di rimessione risulta che nel giudizio  a  quo  le
parti ricorrenti hanno chiesto l'annullamento della variazione  delle
registrazioni  anagrafiche,  nonche'  dell'annotazione  nell'atto  di
nascita di una delle parti, conservato presso i registri dello  stato
civile. Il giudice a quo ha  evidenziato  che  tali  variazioni  sono
state eseguite in applicazione  delle  disposizioni  censurate.  Egli
ritiene quindi che  la  rilevanza  delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale discenda dalla natura stessa degli atti impugnati,  in
quanto meramente applicativi della disciplina censurata. 
    L'esposizione  della  vicenda  concreta,  se  pur  sintetica,  e'
comunque  sufficiente  a  soddisfare  l'onere  di  motivazione  sulla
rilevanza, essendo stata adeguatamente rappresentata  una  situazione
in cui le doglianze dei ricorrenti non potrebbero  altrimenti  essere
accolte che a seguito dell'eventuale accoglimento della questione  di
legittimita' proposta nei confronti della disposizione  di  legge  di
cui i provvedimenti impugnati sono applicazione (sentenze n.  16  del
2017, n. 151 del 2009, n. 303 del 2007 e n. 4 del 2000). 
    2.3.- Non e', infine,  fondata  l'eccezione  di  inammissibilita'
della censura relativa all'eccesso di delega, perche' generica e  non
adeguatamente motivata. 
    Con motivazione sintetica, ma non implausibile, il giudice a  quo
deduce la violazione dell'art. 76 Cost., in quanto  l'art.  1,  comma
28, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle  unioni
civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze),
nel delegare la potesta' legislativa al  Governo  «[f]atte  salve  le
disposizioni di cui alla presente legge», non avrebbe previsto  alcun
potere  di  revoca  o  annullamento  retroattivo  di   iscrizioni   e
annotazioni gia' effettuate. 
    I  termini  della  questione  sono  stati  dunque  enucleati  con
un'argomentazione adeguata,  che  supera  il  vaglio  preliminare  di
ammissibilita' richiesto  a  questa  Corte,  giacche'  «[a]ttiene  al
merito - e  non  al  profilo  preliminare  dell'ammissibilita'  -  la
valutazione della forza persuasiva degli argomenti addotti a sostegno
delle censure» (sentenza n. 259 del 2017). 
    3.-  Va  d'altra  parte   dichiarata   l'inammissibilita'   delle
questioni di legittimita'  costituzionale  sollevate  in  riferimento
all'art. 22 Cost. 
    Il rimettente si limita ad  osservare  che  il  nome  costituisce
elemento  distintivo  della  personalita'  al   punto   da   meritare
un'espressa tutela da parte dell'art. 22 Cost., ma  omette  qualsiasi
argomentazione  a  sostegno   del   denunciato   contrasto   tra   le
disposizioni censurate e il parametro evocato, il  quale  esclude  la
privazione del nome per motivi politici. Inoltre, nessun argomento e'
svolto circa la natura politica della lamentata privazione. 
    Tale  difetto  motivazionale  comporta  l'inammissibilita'  della
questione. Per costante giurisprudenza di  questa  Corte,  non  basta
l'indicazione  delle   norme   da   raffrontare   per   valutare   la
compatibilita' dell'una rispetto al contenuto precettivo  dell'altra,
ma e' necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del
caso,  illustrare  i  passaggi  interpretativi  operati  al  fine  di
enucleare i rispettivi contenuti di normazione (ex  multis,  sentenze
n. 240 e n. 35 del 2017, n. 120 del 2015, n. 236 del 2011;  ordinanze
n. 26 del 2012, n. 321 del 2010 e n. 181 del 2009). 
    4.- Nel  merito,  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono
fondate. 
    4.1.- Con la disposizione censurata il  legislatore  delegato  ha
escluso la valenza anagrafica del cognome comune scelto  dalle  parti
dell'unione civile.  Ferma  restando  la  facolta'  di  scegliere  ed
utilizzare tale cognome comune per  la  durata  della  unione,  viene
espressamente  esclusa  la  necessita'  di   modificare   la   scheda
anagrafica individuale, la  quale  resta,  pertanto,  intestata  alla
stessa parte  con  il  cognome  posseduto  prima  della  costituzione
dell'unione. 
    E' questa  la  scelta  del  legislatore  delegato  che  e'  stata
censurata dal giudice rimettente, assumendo che  essa  contrasti,  in
primo luogo, con i principi posti dalla  legge  n.  76  del  2016  e,
dunque, con l'art. 76 Cost. 
    4.1.1.- Secondo la costante giurisprudenza di questa  Corte,  «la
previsione di cui all'art. 76 Cost. non osta all'emanazione, da parte
del legislatore delegato, di  norme  che  rappresentino  un  coerente
sviluppo e un completamento delle  scelte  espresse  dal  legislatore
delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata
ad  una  mera  scansione  linguistica  di  previsioni  stabilite  dal
secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega  legislativa  deve,
cosi', svolgersi  attraverso  un  confronto  tra  gli  esiti  di  due
processi  ermeneutici  paralleli,  riguardanti,  da   un   lato,   le
disposizioni che  determinano  l'oggetto,  i  principi  e  i  criteri
direttivi indicati dalla  legge  di  delegazione  e,  dall'altro,  le
disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel
significato compatibile con i principi e i  criteri  direttivi  della
delega.  Il  che,  se  porta  a  ritenere   del   tutto   fisiologica
quell'attivita' normativa di completamento e  sviluppo  delle  scelte
del delegante, circoscrive, d'altra parte, il vizio  in  discorso  ai
casi di dilatazione dell'oggetto indicato dalla legge di delega, fino
all'estremo di ricomprendere in esso materie che  ne  erano  escluse»
(sentenza n. 194 del 2015; sentenze n. 229, n. 182 e n. 50 del 2014). 
    4.1.2.- Cio' premesso, va in primo  luogo  rilevato  che  oggetto
della delega in esame era «[l'] adeguamento [...] delle  disposizioni
dell'ordinamento  dello  stato  civile  in  materia  di   iscrizioni,
trascrizioni e annotazioni» alle previsioni della stessa legge  sulle
unioni civili, con salvezza delle disposizioni da  essa  direttamente
introdotte, e in particolare di quella di cui all'art. 1,  comma  10,
dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili. 
    Quest'ultima disposizione prevede un  sistema  di  individuazione
del cognome comune fondato sull'accordo e ispirato alla  liberta'  di
determinazione  delle  parti   dell'unione   civile.   Ad   esse   e'
riconosciuta infatti  la  facolta'  di  adottare  un  cognome  unico,
scegliendolo  tra  quello  dell'una  o  dell'altra.  Parimenti,  esse
potrebbero legittimamente decidere di mantenere i rispettivi cognomi,
rinunciando a contraddistinguere il vincolo con un cognome  comune  e
condiviso. 
    Ancorche' la disposizione del comma 10 non  contenga  un'espressa
qualificazione degli effetti di tale scelta, essa  fornisce  tuttavia
un'indicazione  quanto  mai  significativa  circa  la  necessita'  di
modifiche anagrafiche, laddove espressamente delimita la  durata  del
cognome comune a quella dell'unione civile. Ai sensi del comma 10  in
esame, infatti, la scelta del  cognome  e'  operata  «per  la  durata
dell'unione». Dallo scioglimento dell'unione civile, anche in caso di
morte di una delle parti, discende la perdita automatica del  cognome
comune. 
    E'  stata  proprio  la  considerazione  di   tale   delimitazione
temporale che ha guidato la scelta operata dal legislatore  delegato.
Infatti, nella relazione illustrativa che accompagna  lo  schema  del
d.lgs. n. 5 del 2017, si rileva che «una vera  e  propria  variazione
anagrafica del cognome della parte dell'unione civile avrebbe effetto
solo  per  la  durata  dell'unione».  Tale  rilievo  sottintende   la
contraddittorieta' e l'irragionevolezza insite  nell'attribuire  alla
scelta  compiuta  dalle  parti  dell'unione  civile  un  effetto,  la
variazione  del   cognome   anagrafico,   che   e'   nell'ordinamento
tendenzialmente  definitivo  e  irreversibile,  mentre  nella  specie
sarebbe temporaneo e limitato alla durata dell'unione. 
    Vale la pena  di  rammentare  che  l'aggiornamento  della  scheda
anagrafica individuale avrebbe comportato  che  qualsiasi  successiva
certificazione  anagrafica  sarebbe  stata  rilasciata  con  il  solo
cognome modificato, con la conseguente necessita' di  aggiornare  non
solo i documenti di identita', ma anche i dati  fiscali,  lavorativi,
sanitari e previdenziali. 
    L'impostazione fatta propria dal  rimettente  non  appare  dunque
coerente con il principio di ragionevolezza, ne'  con  le  previsioni
della legge delega ed in particolare  con  l'indicazione  rinvenibile
nell'art. 1, comma 10, della legge  n.  76  del  2016.  Nell'adeguare
l'ordinamento dello stato civile alle previsioni  sul  cognome  delle
unioni civili, e' stata dunque compiuta una scelta che rappresenta il
coerente sviluppo dei principi posti dalla legge di delega. 
    4.2.- Anche in riferimento agli artt.  2,  3,  11  e  117,  primo
comma, Cost. le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 3,
lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate. 
    Che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell'identita'
personale, debba concretizzarsi nel cognome  comune,  rendendo  cosi'
doverosa la modifica anagrafica di quello originario,  non  discende,
infatti, ne' dalle norme della nostra  Costituzione,  ne'  da  quelle
interposte che essa richiama. 
    Va sottolineato, inoltre, che la  ipotizzata  valenza  anagrafica
del  cognome  comune  sarebbe  suscettibile   di   produrre   effetti
pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di quella
delle parti che avesse  assunto  tale  cognome  in  sostituzione  del
proprio. Ad essi infatti, in base all'art. 262 del codice civile,  e'
attribuito il cognome del  genitore  che  li  abbia  riconosciuti.  A
seguito dello scioglimento  dell'unione  civile  i  figli  (salva  la
facolta' di scelta riconosciuta al figlio maggiorenne  dall'art.  33,
comma 2, del d.P.R. n. 396 del 2000) rimarrebbero privi di uno  degli
elementi che, fino al momento  dello  scioglimento,  identificava  il
relativo  nucleo  familiare,  con  tutto  cio'  che  questo  comporta
nell'ambiente in cui essi vivono. 
    E' bensi' vero che le parti del giudizio  a  quo  rifiutano  ogni
analogia con il matrimonio per quanto attiene al cognome  comune.  E'
tuttavia espressivo di  un  principio  caratterizzante  l'ordinamento
dello stato civile che  il  cognome  d'uso  assunto  dalla  moglie  a
seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione  anagrafica  del
cognome originario, che rimane immodificato. L'art. 20, comma 3,  del
d.P.R. n. 223 del 1989 prevede, infatti, che «Per le donne  coniugate
o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile».  In
linea di coerenza con tale  previsione,  si  prevede  che  la  scheda
anagrafica della parte dell'unione civile debba indicare il  nome  ed
il cognome dell'altra parte dell'unione (comma 1 dell'art. 20), senza
che cio' comporti una modifica del proprio cognome anagrafico  (comma
3-bis). 
    D'altra parte, la dichiarazione della scelta circa  la  posizione
del  cognome  comune  non  e'  affatto  priva  di  significato,  come
sostengono le parti, neppure laddove a  tale  cognome  si  riconnetta
mero valore d'uso. Anche in questo caso, infatti,  la  posizione  del
cognome acquisito  rispetto  a  quello  originario  riveste  indubbio
rilievo. Va infatti sottolineato che la dichiarazione sulla posizione
del cognome comune costituisce esercizio di un'ulteriore facolta' che
la legge n. 76  del  2016  ha  espressamente  attribuito  alle  parti
dell'unione civile. Il rilievo di tale dichiarazione trova  riscontro
anche nella previsione della sua iscrizione,  a  cura  dell'ufficiale
dello stato civile, negli archivi informatici degli atti dello  stato
civile (art. 63, comma 1, lettera g-sexies, del  d.P.R.  n.  396  del
2000). 
    La natura paritaria e flessibile  della  disciplina  del  cognome
comune da  utilizzare  durante  l'unione  civile  e  la  facolta'  di
stabilirne la collocazione accanto a quello  originario  -  anche  in
mancanza di modifiche della scheda anagrafica - costituiscono  dunque
garanzia adeguata dell'identita'  della  coppia  unita  civilmente  e
della sua visibilita' nella sfera delle relazioni sociali in cui essa
si trova ad esistere. 
    5.- Anche le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 8
del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate. 
    5.1.- Le censure del giudice a quo attengono in primo luogo  alla
violazione dell'art. 76 Cost., in quanto non sarebbe stato  conferito
al legislatore delegato alcun potere  di  revoca  o  annullamento  di
iscrizioni e annotazioni gia' effettuate e relative alla  scelta  del
cognome. 
    Al riguardo va rilevato che la disposizione dell'art. 8 detta una
disciplina transitoria destinata ad  applicarsi  alle  unioni  civili
costituite nell'intervallo temporale tra il  decreto  del  Presidente
del Consiglio dei  ministri  23  luglio  2016,  n.  144  (Regolamento
recante  disposizioni  transitorie  necessarie  per  la  tenuta   dei
registri nell'archivio dello stato civile, ai sensi dell'articolo  1,
comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76), e il d.lgs. 19  gennaio
2017, n. 5, nelle quali sia stata esercitata l'opzione per il cognome
comune e sia  stata  altresi'  effettuata  la  variazione  anagrafica
prevista dall'art. 4 del citato d.P.C.m.  e  successivamente  esclusa
dall'art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017. 
    Va ribadito che  la  delega  conferita  dall'art.  1,  comma  28,
lettera a), della legge  n.  76  del  2016  aveva  ad  oggetto  «[l']
adeguamento [...] delle  disposizioni  dell'ordinamento  dello  stato
civile in materia di iscrizioni,  trascrizioni  e  annotazioni»  alle
previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle
disposizioni da essa direttamente introdotte, ed  in  particolare  di
quella di cui all'art. 1, comma  10,  dedicato  alla  disciplina  del
cognome comune delle unioni civili. 
    Come si e' visto nel precedente punto 4., il legislatore delegato
ha dapprima esplicitato il significato del principio posto  dall'art.
1, comma 10, della legge  n.  76  del  2016,  escludendo  la  valenza
anagrafica del cognome comune. Con il successivo art. 8, e sempre  al
fine  dell'adeguamento  della  disciplina  dello  stato  civile,   ha
previsto la caducazione delle annotazioni effettuate  medio  tempore,
in applicazione di una fonte normativa, provvisoria  e  di  carattere
secondario, non coerente con i principi della delega. 
    5.2.- Non e' ravvisabile neppure la denunciata  violazione  degli
artt. 2, 11 e 117, primo comma, Cost.,  quest'ultimo  in  riferimento
all'art. 8 della  CEDU  e  agli  artt.  1  e  7  della  CDFUE.  Nella
prospettazione  del  rimettente,  tali  censure  sono  ricondotte  al
sacrificio del diritto alla conservazione del cognome comune da parte
di chi lo abbia acquisito  nel  vigore  dell'art.  4,  comma  2,  del
d.P.C.m. n. 144 del 2016. 
    Introdotto da una disposizione destinata ad applicarsi in  attesa
dell'entrata in vigore dei decreti legislativi previsti  dalla  legge
n. 76  del  2016,  l'effetto  modificativo  della  scheda  anagrafica
rivestiva la medesima natura provvisoria  della  fonte  regolamentare
che l'aveva previsto e che era destinata a cessare  per  effetto  dei
successivi decreti  legislativi.  La  dichiarata  transitorieta'  del
d.P.C.m. in esame e la relativa brevita' del suo orizzonte  temporale
di riferimento portano ad escludere che le novita' da esso introdotte
abbiano   determinato   un   ragionevole   affidamento   in    ordine
all'emersione e al consolidamento di un nuovo  tratto  identificativo
della persona. Ne consegue che la previsione dell'annullamento  delle
variazioni anagrafiche gia' effettuate non puo' ritenersi  lesiva  di
una nuova identita' personale, ancora non affermata. 
    Pertanto, non risulta conferente il richiamo alla sentenza n.  13
del  1994,  con  la  quale  e'  stata   dichiarata   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 165 del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238
(Ordinamento dello stato civile), per violazione dell'art.  2  Cost.,
nella parte in cui esso non prevedeva che,  ove  la  rettifica  degli
atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volonta'  del
soggetto, comporti il cambiamento del  cognome,  il  soggetto  stesso
possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a  mantenere
il cognome originariamente attribuitogli. 
    In quella occasione, l'esigenza di protezione dell'interesse alla
conservazione del cognome e' stata riconosciuta «[...] in presenza di
una situazione nella quale con quel  cognome  la  persona  sia  ormai
individuata e conosciuta nell'ambiente ove vive [...]», cio' che  non
puo' ritenersi verificato nel caso in esame. 
    5.3.- Non e' fondata,  infine,  la  censura  di  irragionevolezza
proposta dal rimettente in  riferimento  all'indicazione  legislativa
del procedimento di cui all'art. 98 del d.P.R. n. 396  del  2000  per
l'annullamento  delle  variazioni  anagrafiche  effettuate  in   base
all'art. 4 del citato d.P.C.m. 
    Il modello  procedimentale  prescelto  dal  legislatore  delegato
prevede, in particolare, che del provvedimento sia data comunicazione
agli interessati, al procuratore della Repubblica ed al  prefetto.  A
partire da questa comunicazione gli interessati hanno  trenta  giorni
per proporre ricorso al tribunale, a norma dell'art. 95 del d.P.R. n.
396 del 2000. Lo stesso termine e' previsto per il procuratore  della
Repubblica che puo' proporre ricorso contro la correzione  effettuata
dall'ufficiale dello stato civile. 
    Si  tratta  dunque   di   una   procedura   che   garantisce   il
contraddittorio con la parte interessata attraverso  la  proposizione
di un ricorso e l'instaurazione  di  un  giudizio  di  fronte  ad  un
tribunale (come e' avvenuto proprio nel giudizio a quo). 
    E,  se  e'  vero  che  la   procedura   indicata   contempla   il
contraddittorio e l'intervento del giudice in una fase differita,  si
tratta pur sempre di uno  strumento  processuale  che  consente  alle
parti  coinvolte   di   contestare   l'annullamento   di   variazioni
anagrafiche. L'art. 8 in esame prescrive  dunque  l'utilizzo  di  uno
schema procedimentale, gia'  previsto  nel  sistema  dell'ordinamento
dello stato civile, ancorche' utilizzato per differenti evenienze. La
legittimita'  del  rinvio   a   tale   modello   non   e'   inficiata
dall'estensione del suo ambito applicativo a  ulteriori  fattispecie,
differenti da quelle per le quali esso era originariamente previsto.