ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 1, 3  e  5
della legge 27 dicembre 1956, n.  1423  (Misure  di  prevenzione  nei
confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica
moralita'),  dell'art.  19  della  legge  22  maggio  1975,  n.   152
(Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico), e  degli  artt.  1,  4,
comma 1, lettera c), 6, 8, 16, 20 e  24  del  decreto  legislativo  6
settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e  delle  misure
di  prevenzione,   nonche'   nuove   disposizioni   in   materia   di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto 2010, n. 136), promossi dal Tribunale ordinario di Udine,  dal
Tribunale ordinario di Padova e dalla Corte di appello di Napoli, con
ordinanze del 10 aprile, del 30 maggio e del 15 marzo 2017,  iscritte
rispettivamente ai nn. 115, 146 e 154 del registro ordinanze  2017  e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37, 43 e 45,
prima serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visti l'atto di costituzione  di  F.  S.,  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei  ministri  e  di  M.  S.,
quest'ultimo fuori termine; 
    udito nella udienza pubblica del 20 novembre e  nella  camera  di
consiglio del 21 novembre 2018 il Giudice relatore Francesco Vigano'; 
    Uditi gli avvocati Massimo Malipiero e Giuseppe Pavan per F. S. e
l'avvocato dello Stato  Gabriella  Palmieri  per  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 15 marzo 2017 (r. o. n. 154 del  2017),  la
Corte d'appello di Napoli ha sollevato: a) questioni di  legittimita'
costituzionale degli artt. 1, 3 e 5 della legge 27 dicembre 1956,  n.
1423 (Misure di prevenzione nei confronti  delle  persone  pericolose
per la sicurezza e per la pubblica  moralita'),  dell'art.  19  della
legge 22 maggio 1975,  n.  152  (Disposizioni  a  tutela  dell'ordine
pubblico), e degli artt. 1, 4, comma 1, lettera c), 6 e 8 del decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia  e
delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto 2010, n. 136),  tutti  con  riferimento  all'art.  117,  primo
comma, della Costituzione, in relazione all'art. 2 del Protocollo  n.
4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmato a Strasburgo  il  16  settembre
1963 e reso esecutivo in Italia  con  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 217 del 14 aprile 1982; b)  questioni  di  legittimita'
costituzionale del solo art. 19  della  legge  n.  152  del  1975  in
riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. in relazione all'art.  1
del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi  il  20  marzo
1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto  1955,  n.  848,
nonche' all'art. 42 Cost. 
    1.1.- Il giudice a quo premette  di  conoscere  dell'impugnazione
avverso un decreto del Tribunale di Napoli  con  il  quale  e'  stata
applicata, nei  confronti  di  una  persona  ritenuta  portatrice  di
cosiddetta "pericolosita' generica" ai sensi dell'art. 1, numeri 1) e
2), della legge n. 1423 del 1956, la misura di prevenzione  personale
della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza di cui agli artt. 3
e 5 della medesima legge, per la durata di quattro anni, con  obbligo
di soggiorno nel territorio  del  Comune  di  residenza,  nonche'  la
misura di prevenzione patrimoniale della confisca, ai sensi dell'art.
19 della legge n. 152 del 1975, di numerosi beni mobili e immobili. 
    Il giudice rimettente rileva che con la sentenza pubblicata il 23
febbraio 2017, pronunciata nel procedimento n. 43395/09,  de  Tommaso
contro Italia, la Grande  Camera  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo ha affermato che le previsioni degli artt. 1, 3 e  5  della
legge n. 1423 del 1956 si pongono in contrasto con l'art. 2 del Prot.
n. 4 CEDU. Tali norme di legge non presenterebbero, in particolare, i
requisiti  di  «chiarezza,  precisione  e   completezza   precettiva»
richiesti dalla CEDU, e  precluderebbero  pertanto  al  cittadino  di
comprendere «quali condotte  debba  tenere  e  quali  condotte  debba
evitare per non incorrere  nella  misura  di  prevenzione»,  e  quali
condotte  integrino  la  «violazione  delle   prescrizioni   connesse
all'imposizione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza». 
    Inoltre, poiche' alle medesime  fattispecie  di  cui  all'art.  1
della legge n. 1423 del 1956, in forza dell'art. 19  della  legge  n.
152 del 1975, sono altresi' applicabili, tra le altre, le  misure  di
prevenzione patrimoniali  del  sequestro  e  della  confisca  di  cui
all'art. 2-ter della legge  31  maggio  1965,  n.  757  (Disposizioni
contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere),
la Corte d'appello di Napoli estende le censure attinenti all'assenza
di precisione e prevedibilita' della legge anche al gia' citato  art.
19 della legge n. 152 del 1975, assumendone il contrasto  con  l'art.
117, primo comma, Cost., in relazione all'art.  1  del  Prot.  addiz.
CEDU («Protezione della proprieta'»), e con l'art. 42 Cost. 
    Osserva in proposito il rimettente che, al pari dell'art.  2  del
Prot. n. 4 CEDU, l'art. 1 del Prot. addiz. CEDU,  al  secondo  comma,
afferma che nessuna privazione della proprieta' puo' avvenire se  non
alle condizioni «previste dalla legge». Pertanto, una volta accertato
il contrasto dell'art.  1  della  legge  n.  1423  del  1956  con  il
requisito della "base legale" richiesto  dal  diritto  convenzionale,
anche l'art. 19 della legge n.  152  del  1975  risulterebbe,  per  i
medesimi motivi, illegittimo, «pervenendosi  altrimenti  all'illogica
conseguenza per cui le misure di prevenzione patrimoniali  potrebbero
essere imposte nei confronti di persone  che  non  possono  definirsi
pericolose a seguito della dichiarata  illegittimita'  costituzionale
della norma che definisce tale pericolosita'». 
    L'incompatibilita'  delle  norme  censurate   con   i   parametri
convenzionali evocati determinerebbe l'illegittimita'  costituzionale
delle stesse per contrasto con l'art. 117, primo  comma,  Cost.,  non
sussistendo a parere del giudice a quo «alcuna via interpretativa per
adeguare le disposizioni delle norme citate alla norma convenzionale,
dovendo a tal fine il giudice comune procedere a  una  riformulazione
complessiva delle disposizioni di legge in  contestazione,  riservata
esclusivamente al Legislatore». 
    In punto di rilevanza delle questioni, l'ordinanza di  rimessione
precisa  che  l'appellante  censura  proprio   la   sussistenza   dei
presupposti previsti dall'art. 1 della legge n. 1423 del 1956,  tanto
ai fini dell'applicazione della misura personale  della  sorveglianza
speciale, quanto ai fini della misura patrimoniale della confisca. 
    Infine,  il  giudice  a  quo  sostiene  che   le   questioni   di
legittimita' costituzionale andrebbero estese all'art. 1, all'art. 4,
comma 1, lett. c), all'art. 6 e all'art. 8  del  d.lgs.  n.  159  del
2011,  i  quali  riproducono  oggi,  con  un  tenore  sostanzialmente
identico, il contenuto degli artt. 1, 3 e 5 della legge n.  1423  del
1956,  «abrogati  per  effetto  dello  stesso  d.lgs.  159/2011   con
riferimento alle proposte di prevenzione depositate dal 13.10.2011». 
    1.2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano  dichiarate  inammissibili  e
comunque infondate. 
    In primo luogo, viene censurata la carenza di  motivazione  circa
la  rilevanza  delle  questioni  di  legittimita'  sollevate,  stante
l'asserito  difetto  di   un'adeguata   descrizione   della   vicenda
processuale e, quindi, delle  ragioni  per  le  quali  risulterebbero
applicabili le norme della legge n. 1423 del 1956. 
    In secondo luogo, l'Avvocatura sostiene  che  la  sentenza  della
Corte europea dei  diritti  dell'uomo,  ancorche'  pronunciata  dalla
Grande  Camera,  non  sarebbe  espressione  di   una   giurisprudenza
consolidata nei termini delineati da questa Corte nella  sentenza  n.
49 del 2015. Pertanto,  l'interpretazione  ivi  offerta  non  sarebbe
immediatamente vincolante  per  il  giudice  nazionale,  che  avrebbe
dovuto tentare un'interpretazione  convenzionalmente  conforme  delle
disposizioni  censurate,  in  virtu'  della   funzione   assegnatagli
dall'art. 101, secondo comma, Cost. 
    1.3.- Con atto depositato in data 24 maggio 2018, e'  intervenuta
ad adiuvandum M. S., destinataria  di  un  decreto  di  sequestro  di
prevenzione disposto dal Tribunale ordinario di Roma in data 15 marzo
2016, sostenendo la propria legittimazione a intervenire in quanto la
«eventuale declaratoria di incostituzionalita' della norma indicata -
auspicata dalla giurisprudenza europea -  porterebbe  alla  immediata
cessazione degli effetti del provvedimento nei propri  confronti»,  e
insistendo perche' la Corte accolga tutte le questioni sollevate  dai
rimettenti. 
    2.- Con ordinanza del 4 aprile 2017 (r. o. n. 115 del  2017),  il
Tribunale ordinario di Udine ha sollevato questioni  di  legittimita'
costituzionale degli artt. 1, 3 e 5 della legge n. 1423 del  1956,  e
degli artt. 1, 4, comma 1, lettera c), 6 e 8 del d.lgs.  n.  159  del
2011, tutti con riferimento all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in
relazione all'art. 2 del Prot. n. 4 CEDU, nell'ambito di un  giudizio
originato da un'istanza  di  revoca  di  una  misura  di  prevenzione
personale presentata a  seguito  della  citata  sentenza  de  Tommaso
contro Italia della Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    2.1.-  Le  questioni  sono  identiche  a  quelle  sollevate   con
l'ordinanza della Corte d'appello di Napoli, gia' riferite  al  punto
1, con l'unica differenza che il Tribunale di Udine limita le proprie
censure alla disciplina relativa alla misura di prevenzione personale
della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, e non  anche  alla
normativa che costituisce il  presupposto  applicativo  della  misura
patrimoniale della confisca di prevenzione alle medesime  fattispecie
di "pericolosita' generica". 
    2.2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo anche in questo caso che la questione sia dichiarata
inammissibile e comunque infondata, per le medesime ragioni  riferite
al punto 1.2. 
    3.- Infine, con ordinanza del 30 maggio 2017 (r. o.  n.  146  del
2017), il Tribunale ordinario di Padova  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale degli artt. 1, 4, comma 1, lettera c), 6,
8, 16, 20 e 24 del d.lgs. 159 del 2011, per contrasto con l'art. 117,
primo comma, Cost. in relazione all'art.  2  del  Prot.  n.  4  CEDU,
nonche' con l'art. 25, terzo comma, Cost. e - come  si  evince  dalla
motivazione dell'ordinanza - con l'art. 13 Cost.; nonche' degli artt.
16, 20 e 24 del d.lgs. n. 159 del 2011 per contrasto con l'art.  117,
primo comma, Cost. in relazione all'art. 1 Prot. addiz. CEDU. 
    3.1- Le questioni - che originano da un giudizio  di  prevenzione
volto all'applicazione delle misure  della  sorveglianza  speciale  e
della confisca nei confronti di una persona inquadrata tra i soggetti
di cui all'art. 1, comma 1, lettere a) e b), del d.lgs.  n.  159  del
2011 - sono analoghe a quelle  sollevate  dalla  Corte  d'appello  di
Napoli, riferite al punto 1,  con  le  seguenti  differenze:  a)  per
ragioni  di  rilevanza  temporale,  nel  giudizio   principale   sono
censurate solamente le norme del vigente d.lgs. n. 159  del  2011  (e
non anche quelle delle previgenti leggi n. 1423 del 1956 e n. 152 del
1975); b) vengono invocati,  nell'ambito  delle  questioni  attinenti
alle   misure   personali   di   prevenzione,   anche   i   parametri
costituzionali di cui all'art. 25, terzo comma, Cost. e 13 Cost.;  c)
vengono impugnati, nell'ambito delle questioni attinenti alle  misure
patrimoniali di prevenzione, anche gli artt. 16, 20 e 24  del  d.lgs.
n. 159 del 2011. 
    A parere del rimettente, la lettura  della  sentenza  de  Tommaso
della Corte europea dei  diritti  dell'uomo,  in  quanto  proveniente
dalla Grande Camera, «ha una portata precettiva tale che, sebbene non
vincolante sul piano formale, si pone  sul  piano  sostanziale  quale
criterio  per  l'interprete,  anche  suggerendo   una   rivisitazione
dell'esplicazione del principio di legalita' in materia di misure  di
prevenzione, la cui osservanza in concreto, sotto  il  profilo  della
determinazione  dei  comportamenti  tipici  tali  da  determinare  la
sussunzione dell'individuo in  soggetto  connotato  dalla  cosiddetta
"pericolosita' generica" viene demandata al giudice». 
    Sul punto, il giudice a quo richiama la sentenza di questa  Corte
n. 419 del 1994, nella quale si era affermato  come  la  legittimita'
costituzionale  delle   misure   di   prevenzione   sia   subordinata
all'osservanza del principio di legalita',  individuato  negli  artt.
13, secondo comma, e 25, terzo comma, Cost. Cio'  imporrebbe  che  la
descrizione legislativa delle fattispecie di  pericolosita'  permetta
di individuare le condotte dal cui  accertamento  nel  caso  concreto
possa  fondatamente  dedursi  un  giudizio,  di  natura  prognostica,
relativo  alla  pericolosita'  del  soggetto  proposto;  giudizio  da
«fondarsi sulla sussistenza di elementi  di  fatto,  in  ossequio  al
principio  del   ripudio   del   mero   sospetto   come   presupposto
dell'applicazione delle misure in esame». 
    Sotto quest'ultimo profilo, la sentenza della Grande Camera della
Corte di Strasburgo indurrebbe a un «ripensamento sul  fatto  che  il
meccanismo sinora attuato sia idoneo ad assicurare  il  rispetto  del
principio di legalita', inteso in senso sostanziale, dal momento  che
proprio l'individuazione della categoria dei  soggetti  passibili  di
sottoposizione  a  misure   di   prevenzione   e'   da   considerarsi
insufficientemente  determinata  sul   piano   legislativo,   perche'
generica  ove  demanda  all'interprete  l'individuazione  di   quegli
elementi di  fatto  cui  collegare  la  sussistenza  dei  presupposti
fondanti la misura». 
    3.2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile oppure
infondata, per le medesime ragioni riferite al punto 1.2. 
    3.3.- Ha depositato memoria di costituzione la parte  privata  F.
S., nei cui confronti sono richieste le  misure  di  prevenzione  nel
giudizio a quo, concludendo per la fondatezza di tutte  le  questioni
di legittimita' costituzionali sollevate. 
    Ritiene la  parte  privata  che  la  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo  abbia   «espressamente   dichiarato   che   il   contenuto
descrittivo  e  precettivo  della  legge  n.  1423/1956  si  pone  in
violazione dell'art. 2 del  protocollo  addizionale  n.  4  CEDU  per
difetto di precisione e prevedibilita'» e che  non  vi  sia  pertanto
possibilita' di  interpretare  le  disposizioni  denunciate  in  modo
idoneo ad adeguarle alla norma convenzionale. 
    A parere della parte privata, le medesime ragioni che militano  a
favore dell'accoglimento delle  questioni  relative  alla  disciplina
legislativa  delle  misure  di  prevenzione  personali  varrebbero  -
mutando il solo parametro convenzionale interposto - per la confisca,
la quale si risolverebbe in una misura  «sostanzialmente  definitiva»
che, privando il soggetto dei propri beni, si trasformerebbe  in  una
«vera e propria pena,  comminata  al  di  fuori  di  un  procedimento
giurisdizionale ordinario». 
    3.3.1.- Con ulteriore memoria depositata in data 30 ottobre 2018,
la stessa parte privata F. S. ha insistito per  l'accoglimento  delle
questioni, svolgendo ulteriori argomenti a sostegno del  petitum  del
rimettente. 
    Piu' specificamente, la parte prende atto di come alcuni  arresti
di questa Corte (tra cui le sentenze n. 11 del 1956, n. 23 del  1964,
n. 177 del 1980, n. 721 del 1988 e n.  335  del  1996)  abbiano  dato
avvio ad un percorso «tassativizzante» delle misure  di  prevenzione,
che - proprio a seguito della sentenza de Tommaso della Corte europea
- e' stato recentemente sviluppato  dalla  Corte  di  cassazione  nel
senso, da un lato, di delimitare  la  categoria  della  pericolosita'
generica (Corte di cassazione,  prima  sezione  penale,  sentenza  19
aprile 2018, n. 43826) e, dall'altro, di  operare  un'interpretazione
convenzionalmente orientata del delitto di violazione degli  obblighi
inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno  di  cui
all'art. 75, comma 2 del d.lgs. n. 159 del 2011 (Corte di cassazione,
sezioni unite, sentenza 27 aprile 2017, n. 40076). 
    Osserva tuttavia  la  parte  privata  che,  mentre  sotto  questo
secondo profilo le sezioni unite  della  Corte  di  cassazione  hanno
potuto «in via  ermeneutica  delimitare  con  esattezza  l'ambito  di
prensione della norma  penale»  (espungendo  la  generica  violazione
della prescrizione del  «vivere  onestamente»  e  di  «rispettare  le
leggi»), invece,  «per  la  questione  della  pericolosita'  generica
questa operazione non e' stata  possibile  a  causa  della  natura  e
struttura stessa delle norme di prevenzione vigenti che affondano  le
loro radici nel c.d. principio di efficacia piu'  che  su  quello  di
precisione, rifuggendo nella loro formulazione originaria (riproposta
nella vigente disciplina) ad una certezza intesa come  prevedibilita'
e quindi anche come possibilita' di  rimprovero  per  l'atteggiamento
antidoveroso della volonta'». 
    Pertanto, si osserva nella stessa memoria, «nonostante gli sforzi
della giurisprudenza,  permane  con  riferimento  alla  pericolosita'
generica l'impossibilita' di comprendere quali comportamenti potranno
essere  oggetto  della  misura   di   prevenzione   essendo   l'unico
riferimento  certo  -  cioe'   quello   riguardante   la   necessaria
commissione di un delitto - tanto generico da non soddisfare in alcun
modo il requisito di necessaria certezza e quindi  di  prevedibilita'
della  disciplina  applicabile,  non  potendo  la   natura   creativa
dell'attivita' giurisdizionale riuscire  sempre  e  in  ogni  caso  a
sostituirsi   -   in   particolare   attraverso    una    opera    di
tassativizzazione delle modalita' di accertamento  processuale  -  al
precipuo compito  della  legislazione  di  produrre  norme  di  legge
adeguatamente  definite  e  capaci  di  assicurare  a  chiunque   una
percezione sufficientemente chiara e immediata dei possibili  profili
di illiceita' della propria condotta». 
    3.4.- Con atto depositato in data 24  maggio  2018,  ha  spiegato
atto di intervento ad adiuvandum  M.  S.,  per  le  medesime  ragioni
riferite al punto 1.3. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza iscritta al r. o. n. 154  del  2017,  la  Corte
d'appello di Napoli ha sollevato: 
    a) questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 1, 3 e  5
della legge 27 dicembre 1956, n.  1423  (Misure  di  prevenzione  nei
confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica
moralita'),  dell'art.  19  della  legge  22  maggio  1975,  n.   152
(Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico), e  degli  artt.  1,  4,
comma 1, lettera c), 6 e 8 del decreto legislativo 6 settembre  2011,
n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure  di  prevenzione,
nonche' nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia,  a
norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), tutte
con riferimento all'art. 117, primo  comma,  della  Costituzione,  in
relazione all'art. 2 del Protocollo n.  4  alla  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), firmato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo in
Italia con decreto del Presidente della  Repubblica  n.  217  del  14
aprile 1982; 
    b) questioni di legittimita'  costituzionale  del  solo  art.  19
della legge n. 152 del  1975  con  riferimento  all'art.  117,  primo
comma, Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla
CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso  esecutivo
con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonche' all'art. 42 Cost. 
    2.- Con ordinanza iscritta al r. o. n. 115 del 2017, il Tribunale
ordinario  di  Udine   ha   sollevato   questioni   di   legittimita'
costituzionale degli artt. 1, 3 e 5 della legge n. 1423 del  1956,  e
degli artt. 1, 4, comma 1, lettera c), 6 e 8 del d.lgs.  n.  159  del
2011, tutte con riferimento all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in
relazione all'art. 2 del Prot. n. 4 CEDU. 
    3.- Infine, con ordinanza iscritta al r. o. n. 146 del  2017,  il
Tribunale ordinario di Padova ha sollevato: 
    a) questioni di legittimita' costituzionale  degli  artt.  1,  4,
comma 1, lettera c), 6, 8, 16, 20 e 24 del d.lgs. n.  159  del  2011,
per contrasto  con  l'art.  117,  primo  comma,  Cost.  in  relazione
all'art. 2 del Prot. n. 4 CEDU, nonche' con l'art. 25,  terzo  comma,
Cost. e - come si evince dalla motivazione dell'ordinanza - l'art. 13
Cost.; 
    b) questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 16, 20  e
24 del d.lgs. n. 159 del 2011 per contrasto  con  l'art.  117,  primo
comma, Cost. in relazione all'art. 1 Prot. addiz. CEDU. 
    4.- Preliminarmente, i tre ricorsi  devono  essere  riuniti,  dal
momento che le questioni prospettate - non identiche tra loro  quanto
a petitum e a parametri invocati, ma tutte afferenti  ai  presupposti
che legittimano l'applicazione di misure di prevenzione personali  e,
in due casi, patrimoniali - si fondano su argomenti in  larga  misura
sovrapponibili. 
    5.- Deve inoltre essere dichiarata, ai sensi dell'art.  4,  comma
4,  delle  Norme  integrative  per  i  giudizi  davanti  alla   Corte
costituzionale,  l'inammissibilita'  dell'intervento  di  M.  S.,  in
quanto  avvenuto,  in  entrambi  i  giudizi  in   cui   ha   spiegato
l'intervento, oltre il termine di venti  giorni  dalla  pubblicazione
nella Gazzetta Ufficiale dell'atto introduttivo del giudizio. 
    6.-  L'elevato  numero  di  disposizioni  censurate,   tra   loro
fittamente intrecciate, esige  -  sempre  in  via  preliminare  -  la
precisazione dell'oggetto del presente  giudizio,  da  ricostruire  a
partire dai petita formulati nelle ordinanze di  rimessione,  si'  da
sgomberare subito il campo dalle (numerose) questioni inammissibili. 
    6.1. - Cuore di tutte  le  questioni  prospettate  e'  l'allegato
difetto di precisione  di  due  fattispecie  astratte,  previste  dai
numeri 1) e 2) dell'art. 1  della  legge  n.  1423  del  1956,  nella
versione modificata dalla legge 3  agosto  1988,  n.  327  (Norme  in
materia di  misure  di  prevenzione  personali),  poi  riprodotte  in
termini pressoche' identici nelle lettere a) e  b)  dell'art.  1  del
d.lgs. n. 159 del 2011, il quale trova applicazione  con  riferimento
alle proposte di misure di prevenzione  depositate  a  partire  dalla
data di entrata in vigore del decreto legislativo stesso (13  ottobre
2011). 
    Tali disposizioni consentono l'applicazione - da un lato -  della
misura di prevenzione personale della sorveglianza  speciale,  con  o
senza obbligo o divieto di soggiorno, e - dall'altro -  delle  misure
di prevenzione patrimoniali del sequestro e  della  confisca,  a  due
categorie di destinatari: «coloro che debba ritenersi, sulla base  di
elementi  di  fatto,  che  sono  abitualmente   dediti   a   traffici
delittuosi» (art.  1,  numero  1,  della  legge  n.  1423  del  1956,
riprodotto in modo pressoche' identico dall'art. 1,  lettera  a,  del
d.lgs. n. 159 del 2011), e «coloro che per la condotta ed  il  tenore
di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che  vivono
abitualmente, anche in parte, con i proventi di attivita' delittuose»
(art. 1, numero 2, della legge n. 1423 del 1956; art. 1,  lettera  b,
del d.lgs. n. 159 del 2011). 
    Come  si  evince  dal  tenore  complessivo  delle  ordinanze   di
rimessione,  peraltro,   le   questioni   sollevate   concernono   la
legittimita' costituzionale  delle  previsioni  indicate  nella  sola
parte in cui costituiscano il presupposto  per  l'applicazione  delle
menzionate misure di prevenzione personali e patrimoniali. 
    Resta, pertanto, estraneo al vaglio  odierno  il  quesito  se  le
previsioni in  parola  possano  legittimamente  operare  anche  quale
presupposto  applicativo  di  altre  misure  tuttora  di   competenza
dell'autorita' di polizia (in particolare, foglio di via obbligatorio
e avviso orale). Una simile  questione,  in  effetti,  non  e'  stata
sollevata dai giudici rimettenti; ne'  avrebbe  potuto  esserlo,  non
essendo il tribunale l'autorita'  competente  per  l'applicazione  di
tali misure. 
    6.2.- Da quanto precede consegue,  anzitutto,  che  le  questioni
sollevate dalla Corte d'appello di Napoli e dal  Tribunale  di  Udine
aventi a oggetto l'art. 1 della legge n. 1423 del  1956,  applicabile
ratione  temporis  nei  rispettivi  procedimenti   a   quibus,   sono
ammissibili  in  quanto  si  intendano  come  aventi  a  oggetto   la
legittimita' costituzionale di tale disposizione nella sola parte  in
cui consente l'applicazione ai soggetti indicati nello stesso art. 1,
numeri  1)  e  2),  della  misura  di  prevenzione  personale   della
sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o  senza  obbligo  o
divieto di soggiorno. 
    Correttamente censurato  dalla  Corte  d'appello  di  Napoli,  in
riferimento all'art. 117, primo comma, Cost. in relazione all'art.  1
Prot. addiz. CEDU, e' poi l'art. 19 della  legge  n.  152  del  1975,
applicabile ratione temporis nel relativo procedimento  a  quo.  Tale
disposizione prevede infatti che le misure di prevenzione di cui alla
legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro  le  organizzazioni
criminali di tipo  mafioso,  anche  straniere),  comprese  dunque  le
misure di prevenzione patrimoniali disciplinate  dall'art.  2-ter  di
quest'ultima legge, si applichino -  per  l'appunto  -  alle  persone
indicate nello stesso art. 1, numeri 1) e 2), della legge n. 1423 del
1956. 
    6.3.- Quanto alle  disposizioni  del  d.lgs.  n.  159  del  2011,
destinato ad applicarsi ratione temporis nel solo  giudizio  pendente
avanti  al  Tribunale  ordinario   di   Padova,   inammissibile   per
irrilevanza  deve  ritenersi  la  censura  relativa  all'art.  1  del
medesimo  decreto  legislativo,  che  si  limita  a  disciplinare   i
presupposti applicativi delle misure del foglio di via obbligatorio e
dell'avviso orale, di competenza del questore. 
    Ammissibile e', per converso, la censura formulata  dallo  stesso
Tribunale ordinario di Padova relativa all'art. 4, comma  1,  lettera
c), del d.lgs. n. 159 del  2011,  da  intendersi  come  mirante  alla
dichiarazione di illegittimita' della disposizione nella parte in cui
stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II del titolo I  del
libro I del decreto (e cioe' la misura della  sorveglianza  speciale,
con o senza obbligo o divieto di soggiorno, prevista  dal  successivo
art. 6) si applichino anche ai soggetti indicati nell'art. 1, lettere
a) e b). 
    Analogamente,  la  censura  del  Tribunale  ordinario  di  Padova
relativa all'art. 16 del d.lgs. n. 159 del 2011 e' ammissibile, e  da
intendersi come  finalizzata  alla  dichiarazione  di  illegittimita'
della disposizione nella parte in cui stabilisce  che  le  misure  di
prevenzione  del  sequestro  e  della  confisca,   disciplinate   dai
successivi artt. 20 e 24, si applichino anche  ai  soggetti  indicati
nell'art. 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 159 del 2011. 
    6.4.- Inammissibili, per aberratio ictus, sono invece le  censure
formulate dalla Corte d'appello di Napoli e dal  Tribunale  ordinario
di Udine a proposito dell'art. 3 della legge n. 1423 del 1956,  cosi'
come la censura formulata dal Tribunale di  Padova  a  proposito  del
corrispondente art. 6 del d.lgs. n. 159 del 2011. Tali  disposizioni,
infatti, si limitano a disciplinare  la  tipologia  delle  misure  di
prevenzione personale e i loro  presupposti  oggettivi:  tipologia  e
presupposti la cui legittimita' costituzionale non e' in questa  sede
in discussione,  poiche'  i  diversi  petita  enunciati  dai  giudici
rimettenti riguardano esclusivamente l'individuazione dei  potenziali
destinatari delle misure. 
    Per la medesima ragione, sono inammissibili le censure  formulate
dal Tribunale ordinario di Padova a proposito degli artt. 20 e 24 del
d.lgs. n. 159 del 2011, che disciplinano i presupposti oggettivi e la
procedura applicativa delle misure del sequestro  e  della  confisca:
profili anch'essi estranei ai diversi petita. 
    6.5.- Parimenti inammissibili, in ragione del  pressoche'  totale
difetto di motivazione sulla  non  manifesta  infondatezza,  sono  le
questioni  sollevate  dalle  ordinanze  di  rimessione  della   Corte
d'appello di Napoli e del Tribunale ordinario di  Udine  sull'art.  5
della legge n. 1423 del 1956 e sul corrispondente art. 8  del  d.lgs.
n. 159 del 2011, quest'ultimo censurato anche dal Tribunale ordinario
di Padova, che disciplinano il contenuto delle misure di  prevenzione
personali. 
    I giudici a quibus incentrano, infatti,  le  loro  argomentazioni
sul difetto di precisione delle norme che stabiliscono i  presupposti
applicativi delle misure (personali e/o patrimoniali) che vengono  di
volta in volta in considerazione, e non gia' sull'imprecisione  delle
prescrizioni che costituiscono  il  contenuto  delle  misure  stesse:
profilo, quest'ultimo, che non e' nemmeno  menzionato  nell'ordinanza
del Tribunale ordinario di Udine, e che e'  oggetto  di  osservazioni
non piu' che cursorie nelle altre due ordinanze della Corte d'appello
di Napoli e del Tribunale ordinario di Padova. 
    6.6.- Per quanto concerne specificamente l'ordinanza della  Corte
d'appello di Napoli, devono poi essere dichiarate  inammissibili:  a)
la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 19 della  legge
n. 152 del 1975, formulata con riferimento all'art. 117, primo comma,
Cost.  in  relazione  all'art.  2  Prot.  n.  4  CEDU,   in   ragione
dell'inconferenza del  parametro  interposto  invocato  (relativo  al
diritto alla liberta' di  circolazione)  rispetto  alla  disposizione
impugnata (qui rilevante solo in quanto consente l'applicazione delle
misure patrimoniali previste dall'art. 2-ter della legge n.  575  del
1965 ai soggetti indicati dall'art. 1, numeri 1 e 2, della  legge  n.
1423 del  1956);  nonche'  b)  tutte  le  questioni  di  legittimita'
costituzionale relative al d.lgs. n. 159  del  2011,  in  quanto  non
rilevanti nel procedimento a quo, posto che la  stessa  ordinanza  di
rimessione da' atto che dovrebbero ivi trovare applicazione,  ratione
temporis, le sole disposizioni della legge n. 1423 del 1956,  nonche'
(in riferimento alle misure patrimoniali) l'art. 19  della  legge  n.
152 del 1975. 
    6.7.- Quanto infine  all'ordinanza  del  Tribunale  ordinario  di
Udine, devono essere dichiarate inammissibili per  irrilevanza  tutte
le questioni di legittimita' costituzionale formulate in relazione al
d.lgs. n. 159 del 2011, non applicabile ratione temporis nel giudizio
a quo, posto che la stessa ordinanza di rimessione da' atto di  dover
decidere sulla revoca di una misura adottata  prima  dell'entrata  in
vigore del decreto. 
    7.- In sintesi, risultano dunque  ammissibili,  e  devono  essere
esaminate nel merito: 
    a) le  questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1,
numeri 1) e 2), della legge n. 1423 del  1956,  nella  parte  in  cui
consentono l'applicazione ai soggetti ivi indicati  delle  misure  di
prevenzione  personali  della  sorveglianza  speciale   di   pubblica
sicurezza con o senza obbligo o divieto di soggiorno, sollevate dalla
Corte d'appello di Napoli e  dal  Tribunale  ordinario  di  Udine  in
riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 2
Prot. n. 4 CEDU; 
    b) le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 19 della
legge n. 152 del 1975 sollevate dalla Corte d'appello  di  Napoli  in
riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 1
Prot. addiz. CEDU, nonche' con riferimento all'art. 42 Cost.; 
    c) le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma
1, lettera c), del d.lgs.  n.  159  del  2011,  nella  parte  in  cui
stabilisce che i provvedimenti previsti dal Capo II del Titolo I  del
Libro I del decreto si applichino  anche  ai  soggetti  indicati  nel
precedente art. 1, lettere a) e b), sollevate dal Tribunale ordinario
di Padova  in  riferimento  all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in
relazione all'art. 2 Prot. n. 4 CEDU, nonche' in riferimento all'art.
25, terzo comma, Cost. e all'art. 13 Cost.; 
    d) la questione di legittimita' costituzionale dell'art.  16  del
d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che  le  misure
di  prevenzione  del  sequestro  e   della   confisca,   disciplinati
rispettivamente dai successivi artt. 20 e 24, si applichino anche  ai
soggetti indicati  nell'art.  1,  lettere  a)  e  b),  sollevata  dal
Tribunale ordinario di Padova  in  riferimento  all'art.  117,  primo
comma, Cost., in relazione all'art. 1 del Prot. addiz. CEDU. 
    8.-  Cosi'  precisato  l'odierno   thema   decidendum,   conviene
anteporre all'esame del merito delle censure alcune premesse generali
sullo statuto di  garanzia  (costituzionale  e  convenzionale)  delle
misure di prevenzione, personali (infra, 9)  e  patrimoniali  (infra,
10), nonche' alcune premesse piu' specifiche  sulle  due  fattispecie
normative  oggetto  delle  presenti  questioni  di  costituzionalita'
(infra, 11). 
    9.- Le misure di prevenzione  personali  accompagnano  la  storia
dell'ordinamento italiano sin dalla  sua  nascita.  Cionondimeno,  il
loro preciso statuto costituzionale, rimasto incerto nei  primi  anni
successivi all'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, non
cessa ancor oggi di ingenerare controversie. 
    9.1.- Le  misure  di  prevenzione  personali  oggi  organicamente
disciplinate nel d.lgs. n. 159 del 2011 rappresentano, in effetti, il
provvisorio approdo di una lunga evoluzione storica, le  cui  origini
risalgono quanto meno  alla  legislazione  di  polizia  ottocentesca,
cristallizzatasi subito dopo l'unita' d'Italia nella legge  20  marzo
1865, n. 2248 (Per l'unificazione amministrativa del Regno d'Italia),
allegato B, che gia' conferiva all'autorita' di pubblica sicurezza il
potere di disporre le misure dell'ammonizione, del  domicilio  coatto
(o confino di polizia) e del rimpatrio con foglio di via obbligatorio
nei confronti di persone ritenute pericolose per la  societa',  senza
che fosse - tuttavia - necessaria una loro condanna in sede penale. 
    Largamente  utilizzate  in  epoca  fascista  come  strumento   di
controllo e di repressione degli oppositori politici, tali  misure  -
la cui disciplina era nel frattempo confluita nel  regio  decreto  18
giugno 1931, n. 773 (Testo unico di pubblica sicurezza)  -  restarono
in vita anche dopo l'avvento della Costituzione repubblicana, ponendo
subito alla dottrina e alla stessa giurisprudenza la questione  della
loro compatibilita' con la Carta costituzionale. 
    Gia' nel suo primo anno  di  attivita',  questa  Corte  fu  cosi'
sollecitata a vagliare la legittimita' della relativa  disciplina  da
numerose ordinanze di rimessione provenienti da  pretori  chiamati  a
giudicare della responsabilita' penale di soggetti imputati di  avere
violato le prescrizioni inerenti a  misure  di  prevenzione  disposte
dall'autorita' di  polizia.  Con  la  sentenza  n.  2  del  1956,  fu
dichiarata l'illegittimita' della disciplina allora vigente  in  tema
di  esecuzione  coattiva  dell'ordine  di  rimpatrio   disposto   dal
questore, mentre con la successiva sentenza n. 11 del 1956  a  essere
dichiarata illegittima fu la disciplina dell'ammonizione. Nell'uno  e
nell'altro caso, la decisione si fondo'  sull'incompatibilita'  delle
discipline in questione  con  la  riserva  di  giurisdizione  di  cui
all'art. 13 Cost. Sottolineo' in particolare la sentenza  n.  11  del
1956  «che  l'ordinanza  di  ammonizione  ha   per   conseguenza   la
sottoposizione  dell'individuo  ad  una  speciale   sorveglianza   di
polizia»  e  «che   attraverso   questo   provvedimento   si   impone
all'ammonito tutta una serie di obblighi, di fare e di non fare,  fra
cui, quello di non uscire prima e di non rincasare dopo di una  certa
ora, non e' che  uno  fra  gli  altri  che  la  speciale  commissione
prescrive»:   effetti,   tutti,    integranti    una    significativa
«restrizione» del diritto alla liberta' personale tutelato  dall'art.
13 Cost., e come tali sottratti - per volere  dei  costituenti  -  al
potere esclusivo dell'autorita' di polizia. 
    9.2.- Il legislatore si adeguo' prontamente, gia' nel dicembre di
quell'anno, alle pronunce della Corte, attraverso una nuova  organica
disciplina delle misure di prevenzione contenuta nella legge n.  1423
del 1956. Nella sua versione originaria,  la  legge  indicava  cinque
diverse categorie di destinatari  delle  misure  medesime:  oziosi  e
vagabondi; persone «notoriamente e abitualmente dedit[e]  a  traffici
illeciti»; «proclivi a delinquere e coloro che, per la condotta e  il
tenore di vita, devono ritenersi vivere abitualmente, anche in parte,
con il  provento  di  delitti  o  con  il  favoreggiamento»;  persone
ritenute dedite allo sfruttamento della  prostituzione,  alla  tratta
delle donne, alla corruzione di minori, al contrabbando o al traffico
di droga; nonche' «coloro che svolgono abitualmente  altre  attivita'
contrarie alla morale pubblica e al buon costume». Nei  confronti  di
tutti  costoro,  la  legge  prevedeva   che   il   questore   potesse
direttamente indirizzare una motivata diffida  a  cambiare  condotta,
nonche' ordinarne il rimpatrio con foglio di via obbligatorio; mentre
affidava al tribunale - in conformita'  al  principio  fissato  dalla
sentenza n. 11 del 1956 - la competenza  a  disporre  la  piu'  grave
misura della sorveglianza speciale, cui il  tribunale  stesso  poteva
aggiungere il divieto di soggiorno in uno o piu'  comuni  o  province
nonche',  nei  casi  di  particolare  pericolosita',  l'obbligo   del
soggiorno in un determinato comune. 
    Le misure previste dalla legge n. 1423 del 1956 sono state quindi
estese  dalla  legge  n.  575  del   1965,   nelle   sue   successive
modificazioni, agli «indiziati di appartenere ad associazioni di tipo
mafioso»; e la legge n. 152 del 1975 (la cosiddetta legge  Reale)  ne
amplio' ulteriormente l'ambito di applicazione a una  vasta  area  di
soggetti  indiziati  di   coinvolgimento   in   attivita'   di   tipo
terroristico o eversivo, di appartenenza  ad  associazioni  politiche
disciolte  o  di  ricostituzione  del  partito  fascista,  nonche'  a
soggetti gia' condannati per violazioni della disciplina  in  materia
di armi  e  da  ritenersi,  per  il  loro  comportamento  successivo,
«proclivi» a commettere nuovi reati della stessa specie. 
    9.3.- Nel 1980, giusto al culmine dell'emergenza terroristica che
aveva  nel  frattempo  investito  il  nostro  Paese,  due  importanti
sentenze  -  l'una  della  Corte  EDU,  l'altra  di  questa  Corte  -
richiamarono pero' nuovamente l'attenzione sulle esigenze  di  tutela
dei diritti fondamentali dei destinatari delle misure in esame. 
    La sentenza della Corte EDU  6  novembre  1980,  Guzzardi  contro
Italia, stabili' (al paragrafo 102) che l'applicazione  della  misura
della  sorveglianza  speciale  con  ordine  di  soggiorno   all'isola
dell'Asinara disposta nei  confronti  del  ricorrente,  indiziato  di
appartenenza a un'associazione mafiosa ai sensi della  legge  n.  575
del 1965, non aveva soltanto limitato la sua liberta' di circolazione
tutelata dall'art. 2 Prot. n. 4 CEDU (all'epoca non ancora ratificato
dall'Italia), ma si  era  risolta  -  in  ragione  della  particolare
ristrettezza dello spazio cui il ricorrente  era  confinato,  nonche'
della situazione di sostanziale isolamento personale in cui egli  era
costretto a vivere - in una  vera  e  propria  privazione  della  sua
liberta' personale, ai sensi dell'art. 5 CEDU.  Tale  privazione  non
poteva, d'altra parte, considerarsi legittima, non ricorrendo  alcuna
delle eccezioni previste dal primo comma dello stesso  art.  5  CEDU:
secondo  la  Corte,  il  confino  del  ricorrente  non  poteva  -  in
particolare - legittimarsi in quanto misura necessaria «a  impedirgli
di commettere un reato»  ai  sensi  della  lettera  c)  del  comma  1
dell'art. 5 indicato, dal momento  che  una  privazione  di  liberta'
disposta a tal fine avrebbe dovuto essere necessariamente  funzionale
a un successivo  giudizio  penale,  celebrato  davanti  all'autorita'
giudiziaria, per uno specifico reato del quale  il  soggetto  venisse
accusato. Funzionalita' che,  evidentemente,  non  sussiste  rispetto
alle misure di  prevenzione,  la  cui  applicazione  prescinde  dalla
necessita' di formulazione di un'accusa penale. 
    Sul fronte interno, la sentenza n. 177 del 1980 di  questa  Corte
dichiaro' incompatibile con il principio di legalita' -  ritenuto  in
quella  occasione  applicabile  anche  alle  misure  di   prevenzione
personali in forza sia dell'art. 13 Cost., sia  dell'art.  25,  terzo
comma, Cost. - la previsione della loro applicabilita' a  coloro  che
«per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano  fondato  motivo
di  ritenere  che  siano   proclivi   a   delinquere»,   in   ragione
dell'intollerabile  indeterminatezza  di  tale   formula   normativa,
ritenuta  tale  da  «offr[ire]   agli   operatori   uno   spazio   di
incontrollabile discrezionalita'». 
    La risposta del legislatore giunse, qualche anno piu' tardi,  con
la legge 3 agosto 1988,  n.  327  (Norme  in  materia  di  misure  di
prevenzione personali), che da un lato elimino' la  possibilita'  per
il tribunale di ordinare l'obbligo di soggiorno in un Comune  diverso
da quello di residenza;  e,  dall'altro,  riformulo'  le  descrizioni
normative contenute  nell'art.  1  della  legge  n.  1423  del  1956,
eliminando dal novero dei destinatari delle  misure  in  questione  i
«vagabondi» e gli «oziosi», e precisando in ciascuna di esse  che  la
riconduzione  del  soggetto  alle  categorie  descritte  dalla  legge
dovesse effettuarsi da parte del tribunale sulla base di «elementi di
fatto» (e non gia', dunque, sulla base di semplici voci o sospetti). 
    9.4.- La legislazione degli anni successivi prosegui',  peraltro,
lungo una direttrice di progressivo ampliamento delle  categorie  dei
potenziali destinatari delle misure in parola. 
    Tali categorie sono, oggi, organicamente elencate nell'art. 4 del
d.lgs. n. 159 del 2011 e successive modificazioni, ove sono confluite
tutte  le  fattispecie  in  precedenza  disseminate  in  piu'   testi
normativi di non sempre agevole coordinamento.  All'interno  di  tale
elenco si trova in particolare, alla lettera c), il riferimento  alle
residue tre fattispecie originariamente previste dalla legge n.  1423
del 1956, nella versione modificata dalla legge n. 327 del 1988, oggi
testualmente riprodotta dall'art. 1 dello stesso d.lgs.  n.  159  del
2011: fattispecie che continuano ad operare  anche  come  presupposti
delle misure  di  prevenzione  tuttora  di  competenza  del  questore
(foglio di via obbligatorio e avviso orale), oggi disciplinati  dagli
artt. 2 e 3 del decreto, e che al tempo stesso operano come possibili
presupposti  dell'applicazione  delle  misure   di   prevenzione   di
competenza del tribunale, alla  stessa  stregua  di  tutte  le  altre
fattispecie elencate nell'art. 4. 
    9.5.- Oltre alla verifica della riconducibilita' del  soggetto  a
una delle categorie oggi elencate nell'art. 4 del d.lgs. n.  159  del
2011,  presupposto  comune   dell'applicazione   della   sorveglianza
speciale,  con  o  senza  obbligo  o  divieto  di  soggiorno,  e'  la
pericolosita' del soggetto medesimo per la sicurezza  pubblica  (art.
6, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011). 
    Al riscontro probatorio delle sue  passate  attivita'  criminose,
deve dunque affiancarsi una ulteriore verifica processuale  circa  la
sua pericolosita', in termini - cioe' - di rilevante probabilita'  di
commissione, nel futuro, di ulteriori attivita' criminose. 
    9.6.- Il requisito della pericolosita' per la sicurezza  pubblica
del destinatario delle misure di prevenzione  personali  accomuna  le
stesse alle misure di sicurezza disciplinate dal codice penale, dalle
quali tuttavia le prime si differenziano in quanto non  presuppongono
l'instaurarsi di un  processo  penale  nei  confronti  del  soggetto.
Sufficiente e necessario a legittimare l'applicazione di  una  misura
di prevenzione personale e', infatti,  che  l'attivita'  criminosa  -
descritta nelle varie  fattispecie  elencate  oggi  nell'art.  4  del
d.lgs. n. 159 del 2011, e il cui riscontro probatorio funge  da  base
sulla quale sviluppare il giudizio in ordine alla  pericolosita'  del
soggetto per la sicurezza pubblica - risulti da evidenze che la legge
indica ora come «elementi  di  fatto»,  piu'  spesso  come  «indizi»;
evidenze che debbono essere vagliate dal tribunale nell'ambito di  un
procedimento retto da regole probatorie  e  di  giudizio  diverse  da
quelle proprie dei procedimenti penali. 
    9.7.- La ricostruzione storica che precede  offre  le  coordinate
essenziali per chiarire quali siano le garanzie  che,  dal  punto  di
vista  costituzionale  e  convenzionale,  circondano  le  misure   di
prevenzione personali. 
    9.7.1.- Anzitutto, la circostanza che, ai fini  dell'applicazione
di una misura  di  prevenzione  personale,  sono  comunque  necessari
elementi che facciano ritenere pregresse attivita' criminose da parte
del soggetto, non comporta che le misure in questione  abbiano  nella
sostanza carattere sanzionatorio-punitivo, si' da chiamare  in  causa
necessariamente le garanzie che la CEDU, e  la  stessa  Costituzione,
sanciscono per la materia penale. 
    Imperniate come sono su un giudizio di persistente  pericolosita'
del soggetto, le misure di prevenzione  personale  hanno  una  chiara
finalita'  preventiva  anziche'  punitiva,  mirando  a  limitare   la
liberta'  di  movimento  del  loro  destinatario  per  impedirgli  di
commettere  ulteriori  reati,  o  quanto  meno  per  rendergli   piu'
difficoltosa la  loro  realizzazione,  consentendo  al  tempo  stesso
all'autorita' di pubblica sicurezza di esercitare  un  piu'  efficace
controllo  sulle  possibili  iniziative   criminose   del   soggetto.
L'indubbia dimensione afflittiva  delle  misure  stesse  non  e',  in
quest'ottica, che una conseguenza collaterale di misure il cui  scopo
essenziale e'  il  controllo,  per  il  futuro,  della  pericolosita'
sociale del soggetto interessato: non gia' la punizione per cio'  che
questi ha compiuto nel passato. 
    La stessa Corte EDU, nella recente sentenza che - come  si  dira'
piu'  innanzi  -  e'  all'origine   delle   presenti   questioni   di
legittimita' costituzionale, ha espressamente escluso che  le  misure
di  prevenzione  personali  sottoposte  al  suo  esame  costituiscano
sanzioni di natura sostanzialmente punitiva, come  tali  soggette  ai
vincoli che la Convenzione detta in  relazione  alla  materia  penale
(Corte EDU, sentenza 23 febbraio  2017,  de  Tommaso  contro  Italia,
paragrafo 143). Ne' la Corte costituzionale, nelle varie occasioni in
cui ha sinora avuto modo di pronunciarsi sulle misure di  prevenzione
personali, ha mai ritenuto che esse soggiacciano ai principi dettati,
in materia di diritto  e  di  processo  penale,  dagli  articoli  25,
secondo comma, 27, 111, terzo, quarto e quinto comma, e 112, Cost. 
    9.7.2.- Nella sentenza de  Tommaso,  la  Corte  EDU  ha,  invece,
affermato che le misure di prevenzione disciplinate  nell'ordinamento
italiano - dopo la scomparsa, nel 1988, dell'obbligo di soggiorno  in
un Comune diverso da quello di residenza, che aveva dato  luogo  alla
condanna dell'Italia nella sentenza Guzzardi -  costituiscono  misure
limitative della liberta' di circolazione, sancita dall'art. 2  Prot.
n. 4 CEDU; misure che, come tali, sono legittime in quanto sussistano
le condizioni previste dal paragrafo 3 della norma  convenzionale  in
questione (in particolare: idonea base legale,  finalita'  legittima,
"necessita'  in  una  societa'  democratica"  della  limitazione   in
rapporto agli obiettivi perseguiti). 
    9.7.3.- In direzione analoga si era mossa d'altra parte, da epoca
ben precedente agli interventi della Corte EDU, anche  questa  Corte,
che - accanto ai non sempre costanti riferimenti all'art.  25,  terzo
comma, Cost. - ha sempre affermato, sin dalle sue prime sentenze  del
1956 in materia, che l'esecuzione  delle  misure  di  prevenzione  di
volta in volta sottoposte al suo esame comportavano  una  restrizione
della liberta' personale sancita dall'art. 13 Cost.; restrizione  che
certamente   consegue   alle   prescrizioni   che   ineriscono   alla
sorveglianza di pubblica sicurezza ai sensi dell'art.  8,  comma,  2,
del d.lgs. n 159 del 2011, le quali - anche laddove non sia  disposto
l'obbligo o  il  divieto  di  soggiorno  -  comportano,  ad  esempio,
l'obbligo di fissare la propria dimora e di non allontanarsene  senza
preventivo avviso all'autorita',  nonche'  il  divieto  di  uscire  o
rincasare al di fuori di certi orari. 
    Conseguentemente,  le  misure  in  questione  in  tanto   possono
considerarsi legittime, in quanto rispettino i requisiti  cui  l'art.
13 Cost. subordina la liceita'  di  ogni  restrizione  alla  liberta'
personale, tra i quali vanno in particolare sottolineate  la  riserva
assoluta di legge (rinforzata, stante l'esigenza di predeterminazione
legale  dei  «casi  e  modi»  della  restrizione)  e  la  riserva  di
giurisdizione. 
    Gli esiti  cui  e'  approdata  la  giurisprudenza  costituzionale
italiana, che in questa sede  devono  essere  riaffermati,  finiscono
cosi' per attribuire un livello di tutela ai diritti fondamentali dei
destinatari della misura della sorveglianza  speciale,  con  o  senza
obbligo o divieto di soggiorno, che e' superiore a quello  assicurato
in sede europea. La riconduzione delle  misure  in  parola  all'alveo
dell'art. 13 Cost. comporta, infatti, che  alle  garanzie  (richieste
anche nel quadro convenzionale) a) di una idonea  base  legale  delle
misure in questione e  b)  della  necessaria  proporzionalita'  della
misura rispetto ai  legittimi  obiettivi  di  prevenzione  dei  reati
(proporzionalita'  che  e'  requisito  di  sistema   nell'ordinamento
costituzionale italiano, in  relazione  a  ogni  atto  dell'autorita'
suscettibile di incidere sui  diritti  fondamentali  dell'individuo),
debba  affiancarsi  l'ulteriore  garanzia   c)   della   riserva   di
giurisdizione, non richiesta in sede europea per misure limitative di
quella che la Corte EDU considera come mera liberta' di circolazione,
ricondotta in quanto tale al quadro garantistico dell'art. 2 Prot. n.
4 CEDU. 
    10.- Assai piu'  recente  e'  stato  l'ingresso  nell'ordinamento
italiano delle misure di prevenzione patrimoniali  della  confisca  e
del correlato sequestro. 
    10.1.- Se si prescinde da  taluni  pur  significativi  precedenti
normativi, risalenti in parte alla legislazione del regime fascista e
in  parte  all'epoca  immediatamente  successiva  alla   sua   caduta
(precedenti, questi ultimi,  sui  quali  ebbe  a  pronunciarsi  anche
questa Corte, nelle sentenze n. 46 del 1964 e n.  29  del  1961),  fu
soltanto la legge 13 settembre 1982, n. 646, recante «Disposizioni in
materia  di  misure  di  prevenzione  di  carattere  patrimoniale  ed
integrazione alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio  1962,
n. 57 e 31 maggio  1965,  n.  575.  Istituzione  di  una  commissione
parlamentare sul fenomeno della mafia» (cosiddetta  legge  Rognoni-La
Torre), a introdurre nella legge n. 575 del 1965 la disciplina di una
nuova tipologia di confisca (art. 2-ter, comma 3) non  dipendente  da
condanna penale, e i cui effetti erano destinati a essere  anticipati
da uno speciale sequestro (art. 2-ter, comma 2), in  chiave  di  piu'
efficace contrasto della criminalita' mafiosa. 
    Il legislatore del 1982 scelse dunque di innestare  questi  nuovi
istituti   sull'impianto   della   legge   del    1965,    estendendo
l'applicabilita' delle misure di prevenzione personali previste dalla
legge  n.  1423  del  1956  agli  indiziati  di   appartenenza   alle
associazioni mafiose. Tale collocazione sistematica determino'  anche
il complessivo assetto di disciplina delle nuove misure,  che  furono
affidate al medesimo tribunale competente a  disporre  le  misure  di
prevenzione personali, dalle quali la nuova confisca (e  il  relativo
sequestro)  ereditarono  inizialmente  presupposti   e   procedimento
applicativo,  salve  naturalmente   le   peculiarita'   legate   alla
necessita' di effettuare indagini patrimoniali per individuare i beni
potenzialmente oggetto di ablazione patrimoniale. 
    Conseguentemente, anche  queste  misure  furono  configurate  dal
legislatore come  del  tutto  indipendenti  dal  procedimento  penale
eventualmente aperto nei confronti del destinatario della proposta di
misura di prevenzione  patrimoniale,  essendo  piuttosto  basate  sui
medesimi "indizi" che legittimavano l'applicazione nei loro confronti
delle misure di prevenzione personali. A tali  indizi  la  disciplina
originaria del 1982 affiancava i seguenti ulteriori  presupposti:  ai
fini  del  sequestro  dei  beni  dell'indiziato,  la  sussistenza  di
«sufficienti indizi, come la notevole sperequazione fra il tenore  di
vita e l'entita' dei redditi apparenti o dichiarati»,  dai  quali  si
potesse ritenere che i beni dei quali il soggetto risultava disporre,
anche indirettamente, «fossero il frutto di attivita' illecite  o  ne
costituissero il reimpiego»; ai fini della loro definitiva  confisca,
la mancata dimostrazione dell'origine lecita dei beni gia' oggetto di
sequestro. 
    Come appare evidente  dalla  semplice  lettura  dell'art.  2-ter,
comma 3, della legge n. 575 del 1965, nel testo originario introdotto
dalla legge Rognoni-La Torre, lo  scopo  fin  dall'inizio  sotteso  a
queste misure era quello di sottrarre alla  criminalita'  organizzata
beni e denaro di origine illecita (dimostrata attraverso un  classico
schema  presuntivo),  evitando  al  tempo   stesso   di   subordinare
l'ablazione patrimoniale alla necessita' di  dimostrare,  nell'ambito
di un processo penale, la precisa derivazione di ogni singolo bene  o
somma di denaro da un particolare delitto. 
    Sin dalle origini, peraltro, l'applicazione  dei  nuovi  istituti
non resto' confinata all'ambito della criminalita' di  tipo  mafioso,
ma - per effetto del rinvio (ritenuto "mobile"  dalla  giurisprudenza
prevalente) contenuto nell'art. 19 della legge n. 152 del  1975,  che
stabiliva l'applicabilita' di tutte le disposizioni  della  legge  n.
575 del 1965 a talune delle fattispecie previste  dall'art.  1  della
legge n. 1423 del 1956  -  fu  subito  ritenuta  estesa  ai  soggetti
indicati quali destinatari di  misure  di  prevenzione  personali  ai
sensi delle fattispecie di "pericolosita'  generica"  previste  dalla
legge n. 1423 del 1956, e in particolare alle due fattispecie  che  -
con lievissime modificazioni - sono oggetto delle presenti  questioni
di legittimita' costituzionale. 
    La concreta adozione delle nuove  misure  patrimoniali  resto'  a
lungo dipendente  dalla  contemporanea  adozione  di  una  misura  di
prevenzione personale a carico del soggetto interessato, la quale - a
sua volta - presupponeva una valutazione relativa  alla  sua  attuale
pericolosita' sociale. Cio' condusse questa Corte ad  affermare,  nel
1996, che «[d]al sistema legislativo  vigente  risulta  dunque,  come
principio, che le misure di ordine patrimoniale  non  hanno  la  loro
ragion d'essere esclusivamente nei caratteri dei beni che colpiscono.
Esse sono rivolte non a beni come tali,  in  conseguenza  della  loro
sospetta provenienza illegittima, ma a beni che, oltre a  cio',  sono
nella disponibilita' di persone  socialmente  pericolose,  in  quanto
sospette di appartenere ad associazioni di tipo mafioso  o  ad  altre
alle prime equiparate [...]. La pericolosita'  del  bene,  per  cosi'
dire, e' considerata dalla legge derivare dalla  pericolosita'  della
persona che ne puo' disporre» (sentenza n. 335 del 1996). 
    10.2.- L'evoluzione legislativa successiva di queste nuove misure
di prevenzione patrimoniali fu in particolare caratterizzata, per gli
aspetti che qui rilevano: a) da un progressivo ampliamento  del  loro
campo di applicazione, analogamente a  quanto  era  accaduto  per  le
misure  di  prevenzione  personali  (infra,  10.2.1);   b)   da   una
modificazione dello schema di  accertamento  presuntivo  dell'origine
illecita, che assegno' autonomo rilievo alla  sproporzione  dei  beni
rispetto al reddito dichiarato (infra, 10.2.2);  e,  soprattutto,  c)
dall'autonomizzazione del procedimento  applicativo  di  tali  misure
rispetto  a  quello  finalizzato  all'applicazione   di   misure   di
prevenzione personali (infra, 10.2.3). 
    10.2.1.- Gia' la legge 19 marzo 1990, n. 55  (Nuove  disposizioni
per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi
forme di manifestazioni di pericolosita' sociale) estese le misure in
questione agli indiziati di associazione per  delinquere  finalizzata
alla commissione di delitti in materia di stupefacenti e  a  soggetti
indiziati di vivere abitualmente almeno in parte, con il provento dei
delitti di estorsione, sequestro di persona a  scopo  di  estorsione,
riciclaggio, impiego  di  denaro,  beni  o  utilita'  di  provenienza
illecita o di contrabbando. 
    Ma furono soprattutto il decreto-legge  23  maggio  2008,  n.  92
(Misure urgenti in materia di sicurezza  pubblica),  convertito,  con
modificazioni, nella legge 24 luglio 2008, n. 125,  e  la  successiva
legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni  in  materia  di  sicurezza
pubblica)  a  realizzare  gradatamente  una  totale   sovrapposizione
dell'ambito di applicazione soggettiva delle  misure  di  prevenzione
patrimoniale  rispetto  a  quelle  personali;   sovrapposizione   poi
destinata a trovare integrale conferma nell'art. 16 del d.lgs. n. 159
del 2011, che richiama tutte le ipotesi previste dal precedente  art.
4. 
    10.2.2.- Nel frattempo, la legge 24 luglio 1993, n. 256 (Modifica
dell'istituto del soggiorno obbligato  e  dell'articolo  2-ter  della
legge 31  maggio  1965,  n.  575)  aveva  modificato  parzialmente  i
presupposti  del  sequestro  di  prevenzione,   conferendo   autonoma
rilevanza al requisito della  sproporzione  dei  beni  da  confiscare
rispetto al reddito  dichiarato  o  all'attivita'  economica  svolta:
sproporzione che assurgeva, cosi', a ipotesi alternativa  rispetto  a
quella originariamente prevista, in base alla quale il sequestro  era
consentito allorche' si avesse motivo di ritenere che i  beni  stessi
fossero il  frutto  di  attivita'  illecite  o  ne  costituissero  il
reimpiego. 
    10.2.3.- L'innovazione certamente  piu'  significativa,  ai  fini
della definizione della natura delle misure di prevenzione in  parola
e  del  loro  statuto  di  garanzia,  consiste  pero'  nella  recente
autonomizzazione del rispettivo procedimento applicativo  rispetto  a
quello  finalizzato  all'applicazione  delle  misure  di  prevenzione
personali. 
    Tale evoluzione fu sostanzialmente attuata gia' con il d.l. n. 92
del 2008, il quale espressamente stabili' che  le  due  tipologie  di
misure  potessero  essere  richieste  e   applicate   disgiuntamente,
prevedendo altresi' la loro applicazione anche in caso di  morte  del
soggetto e la prosecuzione del procedimento nei  confronti  dei  suoi
eredi o comunque aventi causa, nell'ipotesi in  cui  la  morte  fosse
sopraggiunta nel corso del procedimento. La successiva  legge  n.  94
del 2009, modificando, con l'art. 2, comma 22, l'art.  10,  comma  1,
lettera c), numero 2), del d.l. 92 del 2008, completo' tale percorso,
chiarendo che le  misure  in  questione  potessero  essere  applicate
«indipendentemente dalla pericolosita' sociale del soggetto  proposto
per la loro applicazione al momento della richiesta della  misura  di
prevenzione».   Principi,   tutti,   confluiti   senza    alterazioni
significative nel d.lgs. n. 159 del 2011. 
    10.3.- Il complesso quadro normativo che  precede,  derivante  da
una stratificazione di interventi a  carattere  occasionale,  attuati
senza  un  preciso  disegno  di   carattere   sistematico,   consente
purtuttavia di trarre - sulla base della  recente  giurisprudenza  di
questa Corte e della Corte di cassazione - alcune  conclusioni  sulla
ratio del sequestro e della confisca di  prevenzione:  conclusioni  a
loro  volta  essenziali   al   fine   di   individuare   i   principi
costituzionali e convenzionali che tali misure chiamano in causa. 
    Il presupposto giustificativo della confisca di prevenzione  -  e
pertanto dello stesso sequestro, che ne anticipa provvisoriamente gli
effetti - e' «la  ragionevole  presunzione  che  il  bene  sia  stato
acquistato  con  i  proventi  di  attivita'   illecita»   (Corte   di
cassazione, sezioni unite, sentenza 26 giugno 2014-2  febbraio  2015,
n. 4880). Come gia' osservato, una tale ratio risultava  evidente  in
base al tenore originario dell'art. 3-bis, comma 2,  della  legge  n.
575 del 1965, introdotto nel 1982; ma la  conclusione  non  muta  pur
dopo le modifiche apportate alla norma ad opera della  legge  n.  256
del 1993, confluita sostanzialmente inalterata  in  parte  qua  negli
articoli 20 e 24 del d.lgs. n. 159 del 2011, che disciplinano oggi il
sequestro e  la  confisca  di  prevenzione.  La  circostanza  che  la
sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o  all'attivita'
economica, da mero indicatore dell'origine illecita  dei  beni  (come
era nella disciplina originaria  del  1982),  sia  stato  elevato,  a
partire dal 1993, a requisito alternativo e  autonomo  rispetto  alla
dimostrazione dell'origine illecita stessa,  non  modifica  la  ratio
delle misure in parola: la verifica  giudiziale  della  sproporzione,
infatti, continua ad avere senso  in  quanto  idonea  a  fondare  una
ragionevole  presunzione  relativa  all'origine  illecita  del  bene,
allorche' contestualmente risulti la pregressa attivita' criminosa di
colui il quale abbia la disponibilita'  del  bene  e  -  in  sede  di
valutazione  dei  presupposti  della  confisca   -   non   riesca   a
giustificarne la legittima provenienza. 
    Il sequestro e la confisca in parola condividono, a ben guardare,
la medesima finalita' sottesa alla confisca  cosiddetta  "allargata",
originariamente prevista dall'art.  12-sexies  del  decreto  legge  8
giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice  di  procedura
penale e  provvedimenti  di  contrasto  alla  criminalita'  mafiosa),
convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n.  356,  e
oggi confluita nell'art. 240-bis del codice penale; misura che questa
Corte ha  recentemente  ritenuto  radicarsi,  per  l'appunto,  «sulla
presunzione  che  le  risorse  economiche,   sproporzionate   e   non
giustificate,   rinvenute   in   capo    al    condannato    derivino
dall'accumulazione di illecita  ricchezza  che  talune  categorie  di
reati sono ordinariamente idonee a  produrre»  (sentenza  n.  33  del
2018).  Tale  presunzione  (relativa)  e'  fondata,  essa  pure,  sul
riscontro della sproporzione tra i beni da confiscare e il reddito  o
l'attivita' economica del soggetto - condannato  per  uno  dei  reati
menzionati dallo stesso art. 240-bis cod. pen. -  che  di  tali  beni
risulti titolare o abbia a qualsiasi titolo la disponibilita', e  dei
quali non riesca a giustificare l'origine lecita. 
    La confisca "di prevenzione"  e  la  confisca  "allargata"  (e  i
sequestri  che,   rispettivamente,   ne   anticipano   gli   effetti)
costituiscono dunque altrettante  species  di  un  unico  genus,  che
questa Corte - nella sentenza da  ultimo  citata  -  ha  identificato
nella «confisca dei  beni  di  sospetta  origine  illecita»  -  ossia
accertata mediante uno schema legale di carattere  presuntivo  -,  la
quale  rappresenta  uno  strumento  di  contrasto  alla  criminalita'
lucrogenetica ormai largamente diffuso in sede  internazionale.  Tale
strumento e' caratterizzato «sia da un allentamento del rapporto  tra
l'oggetto dell'ablazione e il singolo reato, sia, soprattutto, da  un
affievolimento  degli  oneri  probatori  gravanti  sull'accusa»,   in
funzione dell'esigenza di  «superare  i  limiti  di  efficacia  della
confisca penale "classica": limiti legati all'esigenza di  dimostrare
l'esistenza di un nesso di pertinenza - in termini di  strumentalita'
o di derivazione - tra i beni da confiscare e il  singolo  reato  per
cui e'  pronunciata  condanna.  Le  difficolta'  cui  tale  prova  va
incontro hanno fatto si' che la confisca "tradizionale" si  rivelasse
inidonea   a   contrastare   in    modo    adeguato    il    fenomeno
dell'accumulazione di ricchezze illecite da parte della criminalita',
e in specie della criminalita' organizzata: fenomeno  particolarmente
allarmante, a fronte tanto del possibile reimpiego delle risorse  per
il finanziamento di ulteriori attivita'  illecite,  quanto  del  loro
investimento nel sistema economico legale, con effetti distorsivi del
funzionamento del mercato» (sentenza n. 33 del 2018). 
    In conformita' a tale ratio, la  giurisprudenza  della  Corte  di
cassazione, con riferimento tanto al sequestro  e  alla  confisca  di
prevenzione quanto alla confisca "allargata", ha da tempo  intrapreso
- come rammentato, ancora,  dalla  sentenza  n.  33  del  2018  -  un
percorso  volto  a  circoscrivere  l'area  dei   beni   confiscabili,
limitandoli a quelli acquisiti in un arco  temporale  ragionevolmente
correlato a quello in cui il soggetto risulta essere stato  impegnato
in attivita' criminose. Rispetto, in particolare, al sequestro e alla
confisca di prevenzione, le  Sezioni  unite  sono  pervenute  a  tale
risultato chiarendo la necessita'  di  accertare  lo  svolgimento  di
attivita' criminose da parte del soggetto con  riferimento  al  lasso
temporale nel quale  si  e'  verificato,  nel  passato,  l'incremento
patrimoniale che la confisca intende neutralizzare (Cass., sez.  un.,
n.  4880  del  2015):  requisito,  quest'ultimo,  non   scritto,   ma
discendente   evidentemente   dalla    necessita'    di    conservare
ragionevolezza alla presunzione (relativa) di illecito  acquisto  dei
beni, sulla quale il  sequestro  e  la  confisca  di  prevenzione  si
fondano. Tale presunzione, infatti, in tanto ha senso, in  quanto  si
possa ragionevolmente ipotizzare che i beni o  il  denaro  confiscati
costituiscano il frutto delle  attivita'  criminose  nelle  quali  il
soggetto   risultava   essere   impegnato   all'epoca   della    loro
acquisizione, ancorche' non  sia  necessario  stabilirne  la  precisa
derivazione causale da uno specifico delitto. 
    10.4.- Cosi' chiarita la ratio delle misure in parola,  resta  da
stabilire quali siano i principi costituzionali e  convenzionali  che
ne integrano lo specifico statuto di garanzia. 
    10.4.1.- La presunzione relativa di origine  illecita  dei  beni,
che ne giustifica l'ablazione  in  favore  della  collettivita',  non
conduce necessariamente - come talvolta si sostiene -  a  riconoscere
la natura  sostanzialmente  sanzionatorio-punitiva  delle  misure  in
questione; e non comporta, pertanto, la sottoposizione  delle  misure
medesime allo statuto costituzionale e convenzionale delle pene. 
    In effetti, nell'ottica del sistema,  l'ablazione  di  tali  beni
costituisce  non  gia'  una  sanzione,  ma  piuttosto   la   naturale
conseguenza della loro illecita acquisizione, la  quale  determina  -
come ben evidenziato dalla recente pronuncia, gia' menzionata,  delle
sezioni unite della Corte di cassazione -  un  vizio  genetico  nella
costituzione dello stesso diritto di proprieta'  in  capo  a  chi  ne
abbia acquisito la materiale disponibilita', risultando  «sin  troppo
ovvio che la funzione sociale della proprieta' privata  possa  essere
assolta solo all'indeclinabile condizione che  il  suo  acquisto  sia
conforme alle regole dell'ordinamento giuridico.  Non  puo',  dunque,
ritenersi compatibile con  quella  funzione  l'acquisizione  di  beni
contra legem, sicche' nei confronti dell'ordinamento statuale non  e'
mai opponibile un acquisto inficiato da illecite  modalita'»  (Cass.,
sez. un., n. 4880 del 2015). 
    In presenza, insomma, di una ragionevole presunzione che il bene,
di  cui  il  soggetto  risulti  titolare   o   abbia   la   materiale
disponibilita', sia stato acquistato attraverso una condotta illecita
- presunzione a sua volta fondata sul puntuale  riscontro,  da  parte
del giudice, dei requisiti dettati dalla normativa in esame  -,  o  a
fortiori in presenza di prove dirette di tale  origine  illecita,  il
sequestro e la confisca del bene  medesimo  non  hanno  lo  scopo  di
punire  il  soggetto  per   la   propria   condotta;   bensi',   piu'
semplicemente, quello di far venir meno  il  rapporto  di  fatto  del
soggetto con il bene, dal momento che tale rapporto si e'  costituito
in maniera non conforme all'ordinamento giuridico, o comunque di  far
si' (eventualmente attraverso la confisca per equivalente) che  venga
neutralizzato quell'arricchimento di cui il soggetto,  se  non  fosse
stata  compiuta  l'attivita'  criminosa  presupposta,  non   potrebbe
godere. 
    In  assenza  di  connotati  afflittivi  ulteriori,  la  finalita'
dell'ablazione patrimoniale ha, in tale ipotesi, carattere  meramente
ripristinatorio della situazione  che  si  sarebbe  data  in  assenza
dell'illecita acquisizione  del  bene.  Quest'ultimo  potra',  cosi',
essere sottratto al circuito criminale, ed essere invece destinato  -
quanto meno  ove  non  sia  possibile  restituirlo  a  un  precedente
titolare, che ne fosse stato illegittimamente spogliato - a finalita'
di  pubblico  interesse,  come  quelle  istituzionalmente  perseguite
dall'Agenzia nazionale dei beni confiscati. 
    10.4.2.- D'altra parte, nelle numerose occasioni in cui la  Corte
EDU ha sinora esaminato  doglianze  relative  all'applicazione  della
confisca  di  prevenzione,   mai   e'   stata   riconosciuta   natura
sostanzialmente penale a questa  misura.  E'  stato  conseguentemente
escluso che ad essa possano applicarsi gli artt. 6,  nel  suo  "volet
penal", e 7 CEDU; e si e' invece  affermato  che  la  misura  rientra
nell'ambito di  applicazione  dell'art.  1,  Prot.  addiz.  CEDU,  in
ragione della  sua  incidenza  limitatrice  rispetto  al  diritto  di
proprieta' (ex multis, Corte EDU, sezione seconda, sentenza 5 gennaio
2010, Bongiorno e altri contro  Italia;  decisione  15  giugno  1999,
Prisco contro Italia; sentenza  22  febbraio  1994,  Raimondo  contro
Italia). 
    Particolarmente significativa, nell'ambito  della  giurisprudenza
della Corte EDU, appare d'altra parte la sentenza Gogitidze  e  altri
contro  Georgia  del  2015,  che  ha  ritenuto  compatibile  con   la
Convenzione una confisca specificamente rivolta ad apprendere beni di
ritenuta  origine  illecita,  nei  confronti  di  pubblici  ufficiali
imputati di gravi reati contro la pubblica amministrazione e di  loro
prossimi congiunti: una confisca, piu' in particolare, operante sulla
base   di   meccanismi   presuntivi   simili   a   quelli    previsti
nell'ordinamento italiano, e comunque  in  assenza  di  condanna  del
pubblico funzionario. Nel procedere, in  particolare,  al  vaglio  di
compatibilita' della relativa disciplina  con  i  principi  dell'equo
processo di cui all'art. 6 CEDU, la Corte ha negato che  tale  misura
rappresenti una sanzione di carattere sostanzialmente punitivo,  come
tale soggetta ai principi che la  Convenzione  detta  in  materia  di
processo penale, e l'ha piuttosto qualificata come un'«azione  civile
in  rem  finalizzata  al  recupero   di   beni   illegittimamente   o
inspiegabilmente  accumulati»  dal  loro  titolare  (paragrafo   91);
osservando, altresi', che la ratio di questa  tipologia  di  confisca
senza condanna e' al  tempo  stesso,  «compensatoria  e  preventiva»,
mirando essa, da un lato, a ripristinare la situazione  che  esisteva
prima  dell'acquisto  illecito  dei  beni  da  parte   del   pubblico
ufficiale; e,  dall'altro,  a  impedire  arricchimenti  illeciti  del
soggetto, inviando il chiaro segnale agli ufficiali pubblici  che  le
loro condotte illecite, anche  laddove  rimangano  impunite  in  sede
penale,  non  potranno  assicurare  loro  alcun  vantaggio  economico
(paragrafi 101-102). 
    10.4.3.- Pur non avendo natura penale, sequestro  e  confisca  di
prevenzione restano peraltro misure  che  incidono  pesantemente  sui
diritti di proprieta' e di iniziativa economica, tutelati  a  livello
costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale  (art.  1  Prot.
addiz. CEDU). 
    Esse dovranno, pertanto, soggiacere al combinato  disposto  delle
garanzie  cui  la  Costituzione  e  la  stessa  CEDU  subordinano  la
legittimita' di qualsiasi restrizione ai diritti  in  questione,  tra
cui - segnatamente -: a)  la  sua  previsione  attraverso  una  legge
(artt. 41 e 42 Cost.) che possa consentire ai propri destinatari,  in
conformita'  alla  costante  giurisprudenza  della  Corte   EDU   sui
requisiti di qualita'  della  "base  legale"  della  restrizione,  di
prevedere la futura possibile applicazione di  tali  misure  (art.  1
Prot. addiz. CEDU); b) l'essere la restrizione "necessaria"  rispetto
ai legittimi obiettivi perseguiti  (art.  1  Prot.  addiz.  CEDU),  e
pertanto  proporzionata  rispetto  a   tali   obiettivi,   cio'   che
rappresenta  un   requisito   di   sistema   anche   nell'ordinamento
costituzionale italiano per ogni misura della pubblica autorita'  che
incide sui diritti  dell'individuo,  alla  luce  dell'art.  3  Cost.;
nonche' c) la necessita' che la  sua  applicazione  sia  disposta  in
esito a  un  procedimento  che  -  pur  non  dovendo  necessariamente
conformarsi  ai  principi  che   la   Costituzione   e   il   diritto
convenzionale dettano specificamente per il processo  penale  -  deve
tuttavia rispettare i  canoni  generali  di  ogni  "giusto"  processo
garantito dalla legge (artt.  111,  primo,  secondo  e  sesto  comma,
Cost., e 6 CEDU, nel suo "volet civil"), assicurando  in  particolare
la piena tutela al diritto di difesa (art. 24 Cost.) di colui nei cui
confronti la misura sia richiesta. 
    11.- Le specifiche questioni oggetto  di  esame  in  questa  sede
concernono, come anticipato, la garanzia della previsione  per  legge
tanto della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o  divieto  di
soggiorno, quanto del sequestro e della confisca  di  prevenzione;  e
cio' in relazione a due delle  fattispecie  normative  di  cosiddetta
"pericolosita' generica" che traggono la loro  origine  nell'art.  1,
numeri 1) e 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluite nell'art.
1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 159 del 2011. 
    Nella  prospettazione  delle  ordinanze   di   rimessione,   tali
fattispecie  normative  non  sarebbero  in  grado  di  indicare   con
sufficiente precisione i presupposti delle misure in  questione,  si'
da non consentire ai  loro  destinatari  di  poterne  ragionevolmente
prevedere l'applicazione. 
    11.1.-  Come  emerge  dalla  ricapitolazione   storica   poc'anzi
compiuta (al punto 9), la formulazione delle  disposizioni  censurate
rappresenta il lascito, mai sostanzialmente modificato  nell'arco  di
piu' di un secolo, di  una  produzione  normativa  ottocentesca  che,
nell'ambito  della  legislazione  di  polizia,  aveva  quali   propri
destinatari soggetti posti ai margini  della  societa'  -  vagabondi,
oziosi, sospettati per furti di campagna - che  venivano  attinti  da
misure  limitative  della  liberta'  personale  o  di   circolazione,
applicate direttamente dall'autorita' di pubblica sicurezza. 
    Alla progressiva opera di giurisdizionalizzazione di tali  misure
- alla quale hanno contribuito tanto le  pronunce  di  questa  Corte,
quanto  gli  interventi  del  legislatore  repubblicano   -   si   e'
accompagnata una progressiva tipizzazione dei  comportamenti  assunti
come presupposto delle misure di prevenzione (personali e, a  partire
dal 1982, patrimoniali), i cui destinatari iniziarono gradualmente ad
essere individuati dal legislatore mediante il richiamo alle numerose
tipologie  specifiche  di  reato,  tra  cui  quello  di  associazione
mafiosa, che oggi  sono  confluite  nell'elenco  tassativo  contenuto
nell'art. 4 del d.l.gs. n. 159 del 2011. 
    Queste ultime, ormai  numerosissime,  fattispecie  di  cosiddetta
pericolosita' "qualificata" -  che  restano  del  tutto  estranee  al
presente giudizio  di  legittimita'  costituzionale  -  sono  rimaste
tuttavia affiancate dalle piu' antiche fattispecie  di  pericolosita'
"generica", che sono state solo  parzialmente  rimodulate  a  seguito
dell'intervento di questa Corte nel 1980 e del legislatore nel 1988. 
    Nella gia' menzionata sentenza n. 177 del 1980, questa  Corte  ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art.  1  della  legge  n.
1423 del 1956 nella parte in cui includeva tra  i  destinatari  della
misura personale della sorveglianza speciale «coloro che [...] per le
manifestazioni  cui  abbiano  dato  luogo  diano  fondato  motivo  di
ritenere che siano proclivi a  delinquere».  In  quell'occasione,  la
Corte ha  ritenuto  inadeguata  la  «descrizione  legislativa»  della
«fattispecie legale», sottolineando che «il principio di legalita' in
materia di  prevenzione  [...],  lo  si  ancori  all'art.  13  ovvero
all'art. 25, terzo comma, Cost., implica che  la  applicazione  della
misura [...] trovi  il  presupposto  necessario  in  "fattispecie  di
pericolosita'", previste  -  descritte  -  dalla  legge;  fattispecie
destinate a costituire il parametro dell'accertamento  giudiziale  e,
insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosita', che solo  su
questa base puo' dirsi legalmente fondata». 
    Come gia' rammentato, in seguito a tale pronuncia, il legislatore
- con la legge n. 327 del 1988 - e' intervenuto  espungendo  altresi'
dalla disposizione in esame il  riferimento  ai  «vagabondi»  e  agli
«oziosi», nonche' introducendo il requisito, di carattere probatorio,
degli «elementi di fatto». 
    Sono pero' sopravvissuti nel testo legislativo,  e  sono  di  qui
confluiti nel nuovo art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011, le fattispecie
- oggetto della presente censura di illegittimita'  costituzionale  -
relative ai soggetti «abitualmente dediti a traffici delittuosi» e  a
«coloro [...] che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi
di attivita' delittuose». 
    11.2.- La legittimita' di queste ultime disposizioni e' stata  di
recente scrutinata, al metro del diritto internazionale  dei  diritti
umani, dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti  dell'uomo
nella sentenza de Tommaso, del 23 febbraio 2017. 
    La Corte di Strasburgo ha ritenuto che le disposizioni in  parola
non soddisfino gli standard qualitativi - in termini  di  precisione,
determinatezza e prevedibilita' - che deve possedere ogni  norma  che
costituisca la base  legale  di  un'interferenza  nei  diritti  della
persona  riconosciuti  dalla  CEDU  o   dai   suoi   protocolli.   In
particolare, la Corte ha affermato che «ne' la  legge  ne'  la  Corte
costituzionale hanno individuato chiaramente le "prove fattuali" o le
specifiche tipologie di comportamento di cui si deve tener  conto  al
fine di valutare il  pericolo  che  la  persona  rappresenta  per  la
societa' e che puo' dar luogo a misure di prevenzione». La  Corte  ha
pertanto  ritenuto  che  la  legge  in   questione   non   contenesse
«disposizioni sufficientemente dettagliate sui tipi di  comportamento
che  dovevano  essere  considerati  costituire  un  pericolo  per  la
societa'» (paragrafo 117); e ha quindi ribadito che  le  disposizioni
sulla cui base era stata adottata la misura di prevenzione che  aveva
attinto il ricorrente «non indicasse[ro] con sufficiente chiarezza la
portata o la modalita' di esercizio della ampissima  discrezionalita'
conferita ai tribunali interni, e non fosse[ro] pertanto  formulat[e]
con sufficiente precisione in modo da fornire una  protezione  contro
le ingerenze arbitrarie e consentire al  ricorrente  di  regolare  la
propria condotta e prevedere con un  sufficiente  grado  di  certezza
l'applicazione di misure di prevenzione» (paragrafo 118). 
    Proprio tali vizi normativi hanno determinato nel caso  concreto,
secondo la Corte, la lesione del diritto del ricorrente alla liberta'
di circolazione, riconosciuto dall'art. 2 del Prot. n. 4 CEDU. 
    11.3.- La sentenza de Tommaso e' assunta quale punto di  partenza
delle censure formulate da tutte  le  ordinanze  di  rimessione,  che
denunciano  la  contrarieta'  all'art.  117,  comma   1,   Cost.   in
riferimento all'art. 2 del Prot. n.  4  CEDU  delle  disposizioni  in
materia di misure di prevenzione personali  sottoposte  all'esame  di
questa Corte. 
    Muovendo poi dall'assunto che i medesimi requisiti di precisione,
determinatezza e prevedibilita' della base normativa enucleati  dalla
Corte europea valgano in linea generale anche  rispetto  alle  misure
limitative del diritto di proprieta', due  degli  odierni  rimettenti
ritengono che le disposizioni in parola, nella misura  in  cui  siano
invocate a fondamento di misure di prevenzione patrimoniali,  violino
altresi' l'ulteriore garanzia convenzionale di  cui  all'art.  1  del
Prot. addiz. CEDU, che tutela per l'appunto il diritto di proprieta',
e si pongano pertanto in contrasto con  lo  stesso  art.  117,  prima
comma, Cost. 
    Altre censure svolte dalle ordinanze di  rimessione  coinvolgono,
come anticipato, i parametri interni corrispondenti alle due garanzie
convenzionali menzionate: gli artt. 13 e 25, terzo comma, Cost.,  per
quanto riguarda le misure di prevenzione personali; l'art.  42  Cost.
per quanto riguarda quelle patrimoniali. 
    11.4.- Prima di esaminare il merito di  queste  censure,  occorre
ancora rammentare che, gia' in epoca immediatamente  precedente  alla
sentenza de Tommaso, la giurisprudenza di legittimita' aveva compiuto
un commendevole sforzo di conferire,  in  via  ermeneutica,  maggiore
precisione alle  due  fattispecie  di  "pericolosita'  generica"  qui
all'esame. Tale sforzo interpretativo e' stato ripreso  e  potenziato
successivamente alla pronuncia della Corte EDU, al dichiarato fine di
porre rimedio al deficit di precisione in quella sede rilevato. 
    Questa lettura convenzionalmente orientata, talora indicata  come
"tassativizzante", muove dal presupposto metodologico secondo cui  la
fase prognostica relativa alla probabilita' che il soggetto  delinqua
in   futuro   e'    necessariamente    preceduta    da    una    fase
diagnostico-constatativa, nella quale vengono accertati (con giudizio
retrospettivo) gli elementi costitutivi delle cosiddette "fattispecie
di pericolosita' generica", attraverso un apprezzamento  di  «fatti»,
costituenti a loro volta «indicatori» della possibilita' di iscrivere
il soggetto proposto in una delle categorie  criminologiche  previste
dalla legge (Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 1  febbraio
2018-31 maggio 2018, n. 24707; sezione  seconda,  sentenza  4  giugno
2015-22 giugno 2015, n.  26235;  sezione  prima,  sentenza  24  marzo
2015-17 luglio 2015, n. 31209; sezione prima,  sentenza  11  febbraio
2014-5 giugno 2014, n. 23641). 
    Con   riferimento,   in   particolare,   alle   "fattispecie   di
pericolosita' generica" disciplinate dall'art. 1,  numeri  1)  e  2),
della legge n. 1423 del 1956 e - oggi - dall'art. 1, lettere a) e b),
del d.lgs. n. 159 del 2011 (disposizione,  quest'ultima,  alla  quale
per comodita' si fara' prevalentemente riferimento nel prosieguo),  i
loro elementi  costitutivi  sono  stati  dalla  Corte  di  cassazione
precisati nei termini seguenti. 
    L'aggettivo «delittuoso», che compare sia nella  lettera  a)  che
nella lettera b)  della  disposizione,  viene  letto  nel  senso  che
l'attivita'  del  proposto  debba  caratterizzarsi  in   termini   di
"delitto" e non  di  un  qualsiasi  illecito  (Corte  di  cassazione,
sezione prima, sentenza 19 aprile  2018-3  ottobre  2018,  n.  43826;
sezione seconda, sentenza 23 marzo 2012-3 maggio 2012, n. 16348), si'
da escludere, ad esempio, che «il mero status di evasore fiscale» sia
sufficiente a fondare la misura, ben  potendo  l'evasione  tributaria
consistere  anche  in  meri   illeciti   amministrativi   (Corte   di
cassazione, sezione quinta, sentenza 6 dicembre 2016-9 febbraio 2017,
n. 6067; sezione sesta, sentenza 21 settembre 2017-21 novembre  2017,
n. 53003). 
    L'avverbio «abitualmente», che pure compare sia nella lettera  a)
che nella lettera b) della disposizione, viene  letto  nel  senso  di
richiedere una  «realizzazione  di  attivita'  delittuose  [...]  non
episodica, ma  almeno  caratterizzante  un  significativo  intervallo
temporale della vita del proposto» (Cass., n.  31209  del  2015),  in
modo che si possa «attribuire al soggetto proposto una pluralita'  di
condotte passate» (Corte di cassazione, sezione  prima,  sentenza  15
giugno 2017-9 gennaio 2018, n. 349), talora  richiedendosi  che  esse
connotino «in modo significativo lo stile di vita del  soggetto,  che
quindi   si   deve   caratterizzare   quale   individuo   che   abbia
consapevolmente scelto il crimine come pratica  comune  di  vita  per
periodi adeguati o  comunque  significativi»  (Corte  di  cassazione,
sezione seconda, sentenza 19 gennaio 2018-15 marzo 2018, n. 11846). 
    Il termine «traffici» delittuosi, di  cui  alla  lettera  a)  del
medesimo articolo, e' stato  in  un  caso  definito  come  «qualsiasi
attivita' delittuosa che comporti illeciti arricchimenti, anche senza
ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti  [...]»,  risultandovi  cosi'
comprese anche attivita' «che si caratterizzano per  la  spoliazione,
l'approfittamento o l'alterazione di un meccanismo  negoziale  o  dei
rapporti economici, sociali o civili» (Cass., n. 11846 del 2018).  In
altra pronuncia, il termine e' stato invece  inteso  come  «commercio
illecito di beni tanto materiali (in via  meramente  esemplificativa:
di stupefacenti, di armi, di materiale  pedopornografico,  di  denaro
contraffatto, di beni con marchi o segni distintivi contraffatti,  di
documenti contraffatti impiegabili a fini  fiscali,  di  proventi  di
delitti in tutte le ipotesi di riciclaggio)  quanto  immateriali  (di
influenze illecite, di notizie  riservate,  di  dati  protetti  dalla
disciplina in tema  di  privacy,  etc.),  o  addirittura  concernente
esseri viventi (umani, con riferimento ai delitti di cui  al  decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo  unico  delle  disposizioni
concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla  condizione
dello straniero), o di  cui  all'art.  600  cod.  pen.  e  segg.,  ed
animali, con riferimento alla  normativa  di  tutela  di  particolari
specie), nonche' a condotte lato sensu negoziali  ed  intrinsecamente
illecite (usura,  corruzione),  ma  comunque  evitando  che  essa  si
confonda con la mera nozione di delitto [...] da cui sia derivato una
qualche forma di provento» (Cass., n. 53003 del 2017). 
    Il riferimento ai «proventi» di attivita' delittuose, di cui alla
lettera b) della disposizione censurata, viene poi  interpretato  nel
senso di richiedere la «realizzazione  di  attivita'  delittuose  che
[...] siano  produttive  di  reddito  illecito»  e  dalle  quale  sia
scaturita un'effettiva derivazione di profitti  illeciti  (Cass.,  n.
31209 del 2015) 
    Nell'ambito di questa interpretazione "tassativizzante", la Corte
di cassazione - in sede di interpretazione del  requisito  normativo,
che compare tanto nella lettera a) quanto nella lettera b)  dell'art.
1 del d.lgs. n. 159 del  2011,  degli  «elementi  di  fatto»  su  cui
l'applicazione della misura deve basarsi - fa infine confluire  anche
considerazioni attinenti alle modalita' di accertamento  in  giudizio
di tali elementi della fattispecie. Pur muovendo dal presupposto  che
«il giudice della misura  di  prevenzione  puo'  ricostruire  in  via
totalmente autonoma gli episodi  storici  in  questione  -  anche  in
assenza di procedimento penale correlato - in virtu' della assenza di
pregiudizialita'  e  della  possibilita'  di   azione   autonoma   di
prevenzione» (Cass., n. 43826 del 2018), si  e'  precisato:  che  non
sono sufficienti meri indizi,  perche'  la  locuzione  utilizzata  va
considerata volutamente diversa e piu' rigorosa di quella  utilizzata
dall'art. 4 del d.lgs. n. 159 del  2011  per  l'individuazione  delle
categorie di cosiddetta pericolosita' qualificata, dove si  parla  di
«indiziati» (Cass., n. 43826 del 2018  e  n.  53003  del  2017);  che
l'esistenza di una sentenza di  proscioglimento  nel  merito  per  un
determinato fatto impedisce, alla luce anche del  disposto  dell'art.
28, comma 1, lett. b), che esso possa  essere  assunto  a  fondamento
della misura, salvo alcune ipotesi eccezionali (Cass., n.  43826  del
2018); che occorre un pregresso accertamento in sede penale, che puo'
discendere da una sentenza di condanna  oppure  da  una  sentenza  di
proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga  in
motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e  della  sua
commissione da parte di quel soggetto (Cass., n. 11846 del  2018,  n.
53003 del 2017 e n. 31209 del 2015). 
    12.- Le odierne questioni di legittimita' costituzionale  devono,
allora, assumere a proprio oggetto le  disposizioni  censurate  nella
lettura fornitane dalla piu' recente giurisprudenza  della  Corte  di
cassazione,  al  fine  di  verificare  se  tale   interpretazione   -
sviluppatasi in epoca in larga misura successiva alla sentenza  della
Corte EDU de Tommaso - ne garantisca ora un'applicazione  prevedibile
da parte dei consociati. 
    In materia di responsabilita' penale, invero, questa Corte ha  da
tempo   sottolineato    come    «l'esistenza    di    interpretazioni
giurisprudenziali  costanti  non  valga,  di  per  se',   a   colmare
l'eventuale originaria carenza di  precisione  del  precetto  penale»
(sentenza n. 327 del 2008), ribadendo recentemente, in termini  assai
netti, come nessuna interpretazione possa  «surrogarsi  integralmente
alla praevia lex scripta, con cui si intende garantire  alle  persone
"la sicurezza giuridica delle  consentite,  libere  scelte  d'azione"
(sentenza n. 364 del 1988)» (sentenza n. 115 del  2018);  e  cio'  in
quanto «nei paesi di tradizione continentale, e certamente in Italia»
e' indispensabile l'esistenza di un «diritto  scritto  di  produzione
legislativa» rispetto al quale «l'ausilio interpretativo del  giudice
penale non e' che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali
zone d'ombra, individuando il significato corretto della disposizione
nell'arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la  persona
puo' raffigurarsi leggendolo» (sentenza n. 115 del 2018). 
    Tuttavia, allorche' si versi - come nelle questioni ora all'esame
- al di fuori della materia penale, non puo' del tutto escludersi che
l'esigenza di predeterminazione delle condizioni  in  presenza  delle
quali puo' legittimamente limitarsi un diritto  costituzionalmente  e
convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla  base
dell'interpretazione,  fornita  da  una  giurisprudenza  costante   e
uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall'uso di
clausole generali, o comunque da formule connotate in origine  da  un
certo grado di imprecisione. 
    Essenziale - nell'ottica  costituzionale  cosi'  come  in  quella
convenzionale (ex multis, Corte  EDU,  sezione  quinta,  sentenza  26
novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; Corte EDU, sezione prima, sentenza
4 giugno 2002, Olivieiria c. Paesi Bassi; Corte EDU,  sezione  prima,
sentenza 20 maggio 2010, Lelas c. Croazia) - e',  infatti,  che  tale
interpretazione giurisprudenziale sia in grado di  porre  la  persona
potenzialmente destinataria delle misure limitative  del  diritto  in
condizioni di poter ragionevolmente  prevedere  l'applicazione  della
misura stessa. 
    12.1.- Nell'esaminare, dunque, se la giurisprudenza  della  Corte
di cassazione della quale si e'  poc'anzi  dato  conto  sia  riuscita
nell'intento di conferire un grado di sufficiente precisione, imposta
da tutti i parametri costituzionali e  convenzionali  invocati,  alle
fattispecie  normative  in  parola,  occorre  subito  eliminare  ogni
equivoca sovrapposizione tra il concetto di tassativita' sostanziale,
relativa al thema probandum,  e  quello  di  cosiddetta  tassativita'
processuale, concernente il quomodo  della  prova.  Mentre  il  primo
attiene al rispetto del principio di legalita' al metro dei parametri
gia'  sopra  richiamati,  inteso  quale   garanzia   di   precisione,
determinatezza e  prevedibilita'  degli  elementi  costitutivi  della
fattispecie legale che  costituisce  oggetto  di  prova,  il  secondo
attiene invece alle modalita' di accertamento probatorio in giudizio,
ed e' quindi riconducibile a differenti  parametri  costituzionali  e
convenzionali - tra cui, in particolare, il diritto di difesa di  cui
all'art. 24 Cost. e il diritto  a  un  "giusto  processo"  ai  sensi,
assieme, dell'art. 111 Cost. e dall'art. 6 CEDU - i quali, seppur  di
fondamentale  importanza  al  fine  di  assicurare  la   legittimita'
costituzionale del sistema delle misure di prevenzione,  non  vengono
in rilievo ai fini delle questioni di costituzionalita' ora in esame. 
    Non sono, dunque, conferenti in questa sede i  pur  significativi
sforzi della giurisprudenza -  nella  perdurante  e  totale  assenza,
nella legislazione vigente, di indicazioni  vincolanti  in  proposito
per il giudice della prevenzione - di  selezionare  le  tipologie  di
evidenze (genericamente  indicate  nelle  disposizioni  in  questione
quali «elementi di fatto») suscettibili  di  essere  utilizzate  come
fonti di  prova  dei  requisiti  sostanziali  delle  "fattispecie  di
pericolosita' generica" descritte dalle disposizioni in  questa  sede
censurate: requisiti consistenti - con riferimento  alle  ipotesi  di
cui alla lettera a)  dell'art.  1  del  d.lgs.  n.  159  del  2011  -
nell'essere i  soggetti  proposti  «abitualmente  dediti  a  traffici
delittuosi» e - con riferimento alla lettera b)  -  nel  vivere  essi
«abitualmente,  anche  in  parte,  con  i   proventi   di   attivita'
delittuose». 
    12.2.-  Questa  Corte  ritiene  che,  alla  luce  dell'evoluzione
giurisprudenziale successiva alla sentenza de Tommaso,  risulti  oggi
possibile assicurare in via interpretativa contorni  sufficientemente
precisi alla fattispecie descritta  dell'art.  1,  numero  2),  della
legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell'art. 1,  lettera  b),  del
d.lgs. n. 159 del 2011, si' da consentire ai consociati di  prevedere
ragionevolmente in anticipo in quali «casi»  -  oltre  che  in  quali
«modi» - essi potranno essere sottoposti alla misura  di  prevenzione
della sorveglianza  speciale,  nonche'  alle  misure  di  prevenzione
patrimoniali del sequestro e della confisca. 
    La locuzione «coloro che per la condotta ed  il  tenore  di  vita
debba  ritenersi,  sulla  base  di  elementi  di  fatto,  che  vivono
abitualmente, anche in parte, con i proventi di attivita' delittuose»
e' oggi suscettibile, infatti, di essere interpretata come espressiva
della necessita' di predeterminazione non tanto di  singoli  "titoli"
di reato, quanto di specifiche "categorie" di reato. 
    Tale  interpretazione  della  fattispecie  permette  di  ritenere
soddisfatta  l'esigenza  -  sulla  quale  ha  da  ultimo  giustamente
insistito la Corte europea, ma  sulla  quale  aveva  gia'  richiamato
l'attenzione la sentenza n.  177  del  1980  di  questa  Corte  -  di
individuazione dei «tipi di  comportamento»  («types  of  behaviour»)
assunti a presupposto della misura. 
    Le  "categorie  di  delitto"  che  possono   essere   assunte   a
presupposto della misura sono  in  effetti  suscettibili  di  trovare
concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice  in  virtu'
del triplice requisito - da provarsi sulla base di precisi  «elementi
di fatto», di cui il tribunale dovra' dare conto  puntualmente  nella
motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) - per cui deve  trattarsi
di a) delitti commessi abitualmente (e  dunque  in  un  significativo
arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente  generato
profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano -  o
abbiano costituito in una determinata epoca  -  l'unico  reddito  del
soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito. 
    Ai  fini   dell'applicazione   della   misura   personale   della
sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, al
riscontro  processuale  di   tali   requisiti   dovra'   naturalmente
aggiungersi la valutazione dell'effettiva pericolosita' del  soggetto
per la sicurezza pubblica, ai sensi dell'art. 6, comma 1, del  d.lgs.
n. 159 del 2011. 
    Quanto, invece, alle misure patrimoniali del  sequestro  e  della
confisca, i requisiti poc'anzi enucleati dovranno  -  in  conformita'
all'ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di cui si  e'
poc'anzi dato conto (al punto 10.3) - essere accertati  in  relazione
al  lasso  temporale  nel  quale  si  e'  verificato,  nel   passato,
l'illecito  incremento   patrimoniale   che   la   confisca   intende
neutralizzare.  Dal  momento  che,  secondo   quanto   autorevolmente
affermato  dalle  sezioni  unite  della  Corte  di   cassazione,   la
necessita'  della  correlazione   temporale   in   parola   «discende
dall'apprezzamento  dello  stesso  presupposto  giustificativo  della
confisca di prevenzione, ossia dalla ragionevole presunzione  che  il
bene sia stato acquistato  con  i  proventi  di  attivita'  illecita»
(Corte di  cassazione,  sezioni  unite,  sentenza  26  giugno  2014-2
febbraio 2015, n. 4880), l'ablazione patrimoniale  si  giustifichera'
se, e nei soli limiti in  cui,  le  condotte  criminose  compiute  in
passato dal soggetto risultino essere state effettivamente  fonte  di
profitti illeciti, in quantita' ragionevolmente  congruente  rispetto
al valore dei beni che  s'intendono  confiscare,  e  la  cui  origine
lecita egli non sia in grado di giustificare. 
    12.3.- L'altra fattispecie di cui all'art. 1,  numero  1),  della
legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell'art. 1,  lettera  a),  del
d.lgs.  n.  159  del  2011,  appare  invece   affetta   da   radicale
imprecisione,  non  emendata  dalla  giurisprudenza  successiva  alla
sentenza de Tommaso. 
    Alla giurisprudenza, infatti, non e' stato possibile riempire  di
significato  certo,  e  ragionevolmente  prevedibile  ex   ante   per
l'interessato, il disposto normativo in esame. 
    Invero, come poc'anzi evidenziato, sul punto convivono  tutt'oggi
due contrapposti indirizzi interpretativi, che  definiscono  in  modo
differente il concetto di  «traffici  delittuosi».  Da  un  lato,  ad
esempio, la sentenza della Corte di cassazione, n. 11846 del 2018, fa
riferimento a «qualsiasi attivita' delittuosa che  comporti  illeciti
arricchimenti, anche senza ricorso a mezzi  negoziali  o  fraudolenti
[...]», ricomprendendovi anche attivita' «che si  caratterizzano  per
la spoliazione, l'approfittamento o l'alterazione  di  un  meccanismo
negoziale o dei rapporti economici, sociali o civili». Dall'altro,  e
sempre a guisa d'esempio, la pronuncia della Corte di cassazione,  n.
53003 del 2017, si riferisce al «commercio  illecito  di  beni  tanto
materiali [...] quanto immateriali [...]  o  addirittura  concernente
esseri viventi (umani [...] ed animali  [...]),  nonche'  a  condotte
lato sensu negoziali ed intrinsecamente illecite [...],  ma  comunque
evitando che essa si confonda con la mera nozione di delitto [...] da
cui  sia  derivato  una  qualche  forma  di   provento»,   osservando
ulteriormente che «nel  senso  comune  della  lingua  italiana  [...]
trafficare significa in primo luogo commerciare, poi anche  darsi  da
fare, affaccendarsi, occuparsi in una serie di operazioni, di lavori,
in modo affannoso, disordinato, talvolta inutile, e infine, in ambito
marinaresco, maneggiare,  ma  non  puo'  fondatamente  estendersi  al
significato di delinquere con finalita' di arricchimento». 
    Simili genericissime  (e  tra  loro  tutt'altro  che  congruenti)
definizioni di un termine geneticamente vago come quello di «traffici
delittuosi»,  non  ulteriormente  specificato  dal  legislatore,  non
appaiono in  grado  di  selezionare,  nemmeno  con  riferimento  alla
concretezza  del  caso  esaminato  dal  giudice,  i  delitti  la  cui
commissione  possa  costituire  il  ragionevole  presupposto  per  un
giudizio di pericolosita' del potenziale destinatario  della  misura:
esigenza, questa, sul cui rispetto ha richiamato non  solo  la  Corte
EDU nella sentenza de Tommaso, ma anche -  e  assai  prima  -  questa
stessa Corte nella sentenza n. 177 del 1980. 
    Ne' siffatte nozioni di  «traffici  delittuosi»,  dichiaratamente
non circoscritte a delitti produttivi  di  profitto,  potrebbero  mai
legittimare dal punto di vista costituzionale misure ablative di beni
posseduti dal soggetto che risulti avere  commesso  in  passato  tali
delitti, difettando in  tal  caso  il  fondamento  stesso  di  quella
presunzione di ragionevole origine criminosa  dei  beni,  che  si  e'
visto costituire la ratio di tali misure. 
    Pertanto,  la  descrizione  normativa  in  questione,  anche   se
considerata alla luce della giurisprudenza che ha tentato  sinora  di
precisarne  l'ambito  applicativo,  non  soddisfa  le   esigenze   di
precisione imposte tanto dall'art. 13 Cost., quanto,  in  riferimento
all'art. 117, comma primo, Cost., dall'art. 2 del Prot. n. 4 CEDU per
cio'  che  concerne  le  misure  di   prevenzione   personali   della
sorveglianza speciale, con o senza obbligo o  divieto  di  soggiorno;
ne' quelle imposte dall'art. 42 Cost. e, in riferimento all'art. 117,
comma primo, Cost., dall'art. 1 del Prot. addiz. CEDU  per  cio'  che
concerne le misure patrimoniali del sequestro e della confisca. 
    13.- Da cio' consegue l'illegittimita' costituzionale, in ragione
del loro contrasto con i  parametri  appena  indicati,  di  tutte  le
disposizioni cui si riferiscono  le  questioni  ritenute  ammissibili
(indicate al precedente punto 7), nella parte in  cui  consentono  di
applicare le misure di prevenzione della sorveglianza speciale, con o
senza obbligo o divieto di soggiorno, del sequestro e della confisca,
ai soggetti indicati nell'art. 1, numero 1), della legge n. 1423  del
1956, poi confluito nell'art. 1, lettera a), del d.lgs.  n.  159  del
2011 («coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto,
abitualmente dediti a traffici delittuosi»),  restando  assorbita  la
questione relativa all'art. 25, terzo comma, Cost. 
    Tali  disposizioni  si  sottraggono  invece   alle   censure   di
illegittimita' costituzionale in questa  sede  formulate,  nel  senso
gia' precisato (supra,  12.2),  nella  parte  in  cui  consentono  di
applicare le misure di prevenzione della sorveglianza speciale, con o
senza obbligo o divieto di soggiorno, del sequestro e della confisca,
ai soggetti indicati nell'art. 1, numero 2), della legge n. 1423  del
1956, poi confluito nell'art. 1, lettera b), del d.lgs.  n.  159  del
2011 («coloro che  per  la  condotta  ed  il  tenore  di  vita  debba
ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono  abitualmente,
anche in parte, con i proventi di attivita' delittuose»).