ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  75,  comma
2, del decreto legislativo 6 settembre 2011,  n.  159  (Codice  delle
leggi  antimafia  e  delle  misure  di  prevenzione,  nonche'   nuove
disposizioni in materia di documentazione antimafia,  a  norma  degli
articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n.  136),  promosso  dalla
Corte di cassazione, sezione seconda penale, nel procedimento  penale
a carico di C. S., con ordinanza del 26 ottobre 2017, iscritta al  n.
1 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella  Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 2018. 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri e di M. S., quest'ultimo fuori termine; 
    udito nella camera di consiglio del 23 gennaio  2019  il  Giudice
relatore Giovanni Amoroso. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- La Corte di cassazione, sezione seconda penale, con ordinanza
del  26  ottobre  2017,  ha  sollevato  questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 75,  comma  2,  del  decreto  legislativo  6
settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e  delle  misure
di  prevenzione,   nonche'   nuove   disposizioni   in   materia   di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto 2010, n. 136), in  riferimento  agli  artt.  25  e  117  della
Costituzione - quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione
per  la  salvaguardia  del  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata  e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.  848,  e  all'art.  2  del
Protocollo n. 4 della stessa Convenzione, adottato a Strasburgo il 16
settembre 1963, reso esecutivo con d.P.R. 14  aprile  1982,  n.  217,
interpretati alla luce della sentenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo, grande camera, 23 febbraio 2017, de Tommaso contro  Italia
- nella parte in cui sanziona penalmente la violazione degli obblighi
di  «vivere   onestamente»   e   «rispettare   le   leggi»   connessi
all'imposizione  della  misura  di  prevenzione  della   sorveglianza
speciale con obbligo o divieto di soggiorno. 
    In punto di fatto la Corte di cassazione premette  che  la  Corte
d'appello di Bari aveva confermato la  responsabilita'  dell'imputato
per i reati di cui agli artt. 628, comma 2, del codice  penale  (capo
A) e 75, comma 2,  cod.  antimafia  (capo  B),  al  quale  era  stato
contestato anche il reato da  ultimo  citato,  perche'  nelle  stesse
circostanze di tempo e  di  luogo,  pur  sottoposto  alla  misura  di
prevenzione della sorveglianza speciale di  pubblica  sicurezza,  con
obbligo di soggiorno nel Comune di Bitonto  per  la  durata  di  mesi
dieci e giorni undici, in virtu' del provvedimento del  Tribunale  di
Bari, violava le prescrizioni di cui al punto 4 («vivere onestamente,
rispettare le leggi dello Stato e non dare ragione alcuna di sospetto
in ordine alla propria condotta») commettendo il  delitto  di  rapina
aggravata. 
    Per tale delitto (capo B) era stato inflitto un aumento di  pena,
in continuazione con la sanzione relativa al reato di rapina, di anno
uno, mesi sei di reclusione ed euro 400 di multa. 
    Avverso  tale  sentenza  ha  proposto  ricorso   per   cassazione
l'imputato, deducendo il vizio di legge e di motivazione in ordine al
giudizio di bilanciamento tra  le  circostanze  e  all'individuazione
della pena base. 
    1.1.- Quanto alla rilevanza delle questioni, in  primo  luogo  la
Corte rimettente si sofferma sulla sopravvenuta sentenza della  Corte
di cassazione, sezioni unite penali, 27 aprile-5 settembre  2017,  n.
40076  (cosiddetta  "sentenza  Paterno'"),  secondo  cui   la   norma
incriminatrice di cui all'art.  75,  comma  2,  cod.  antimafia  deve
essere interpretata  nel  senso  che  non  ha  ad  oggetto  anche  la
violazione delle prescrizioni di «vivere onestamente»  e  «rispettare
le leggi». Quindi, l'inosservanza di tali prescrizioni da  parte  del
soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o  divieto
di soggiorno non configura il reato previsto dall'art. 75,  comma  2,
il  cui  contenuto  precettivo  e'  integrato  esclusivamente   dalle
prescrizioni cosiddette specifiche;  aggiungendo,  tuttavia,  che  la
predetta  inosservanza   puo'   rilevare   ai   fini   dell'eventuale
aggravamento della misura di prevenzione. 
    Le Sezioni unite - prosegue la Corte rimettente - danno atto  che
«solo una lettura "tassativizzante" e  tipizzante  della  fattispecie
puo' rendere  coerenza  costituzionale  e  convenzionale  alla  norma
incriminatrice di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del  2011».
Si tratta,  pertanto,  di  una  interpretazione  adeguatrice  che  si
risolve, di fatto,  in  un'abrogazione  giurisprudenziale  del  reato
previsto dall'art. 75,  comma  2,  con  riferimento  alla  violazione
dell'obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi. 
    La Corte rimettente ricorda, altresi', che  tale  interpretazione
adeguatrice delle Sezioni unite ha trovato la ratio  ispiratrice  nei
principi di cui alla citata sentenza della Corte EDU de Tommaso, che,
con riguardo alla tassativita' delle prescrizioni, ha  affermato  che
gli obblighi di «vivere onestamente e rispettare le leggi» (e di «non
dare ragione alcuna ai sospetti», previsto dalla  legge  27  dicembre
1956, n. 1423, recante «Misure di  prevenzione  nei  confronti  delle
persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralita'», non
riprodotto  nel  codice  delle  leggi  antimafia)  non   sono   stati
delimitati in  modo  sufficiente  dalla  Corte  costituzionale  nella
sentenza n. 282 del 2010, trattandosi  di  obblighi  indeterminati  e
pertanto   l'interpretazione   datane   non   fornisce    indicazioni
sufficienti per le persone interessate. 
    La Corte rimettente ritiene  non  di  meno  necessario  sollevare
l'incidente di costituzionalita' avente ad oggetto l'art.  75,  comma
2, cod. antimafia, nonostante l'intervenuta  sentenza  delle  Sezioni
unite in ordine alla non configurabilita' del reato, la'  dove  siano
violate le prescrizioni di vivere  onestamente  e  di  rispettare  le
leggi. 
    Quanto, in particolare, al presupposto della rilevanza, la  Corte
rimettente ritiene che il ricorso per cassazione e' inammissibile  in
quanto il ricorrente ha proposto doglianze  generiche  nei  confronti
del trattamento sanzionatorio la' dove invece il giudice di merito ha
ben utilizzato i suoi poteri discrezionali e il ragionamento  non  e'
stato il frutto di mero arbitrio  o  di  illogicita'.  Alla  rilevata
inammissibilita' del ricorso conseguirebbe il passaggio in  giudicato
della condanna. 
    Tuttavia, ad avviso del giudice a quo, la valutazione  in  ordine
all'inammissibilita' del ricorso non esaurisce gli  oneri  valutativi
gravanti sulla Corte di legittimita' che, tranne nei casi di  ricorso
tardivo, ha l'obbligo  di  rilevare  d'ufficio  l'eventuale  abolitio
criminis. 
    Solo  in  caso  di  abolitio  criminis  o  di  dichiarazione   di
incostituzionalita' della norma incriminatrice e' possibile la revoca
della sentenza di condanna ai  sensi  dell'art.  673  del  codice  di
procedura penale. Sicche', in presenza di un  ricorso  inammissibile,
la Corte di  cassazione  puo'  porsi  il  problema  di  un  giudicato
pregiudizievole (per l'imputato) che sta per formarsi.  L'adempimento
dell'onere di controllo della «legalita' del giudicato»  impone,  nel
caso di specie, la verifica  della  perdurante  esistenza  del  reato
previsto dall'art. 75, comma 2, cod. antimafia. 
    In conclusione, la Corte rimettente afferma di non poter rilevare
ai sensi dell'art. 129  cod.  proc.  pen.  che  il  delitto  previsto
dall'art.  75,  comma  2,  cod.  antimafia  non  e'  integrato  dalla
violazione dell'obbligo di vivere  onestamente  e  di  rispettare  le
leggi che grava sul sorvegliato speciale con obbligo (o  divieto)  di
soggiorno.  Da  cio'  deriva  la   rilevanza   delle   questioni   di
costituzionalita'. 
    1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente
si sofferma sul ruolo della «norma» convenzionale nel sistema interno
delle fonti alla luce della sentenza  n.  49  del  2015,  ponendo  in
rilievo come  in  tale  occasione  si  sia  affermato  che  l'obbligo
dell'interpretazione adeguatrice incombe sul giudice solo in presenza
di un'interpretazione consolidata o di una  sentenza  pilota,  ovvero
nel solo caso di un «diritto consolidato». 
    In particolare, la Corte rimettente afferma  -  condividendo  sul
punto le argomentazioni espresse nella sentenza delle Sezioni unite -
che alla sentenza della Corte EDU de Tommaso puo' essere riconosciuta
la qualita' di «diritto consolidato» e la  conseguente  capacita'  di
attivare in capo al giudice comune l'onere conformativo. 
    Nella  fattispecie,  l'indeterminatezza  delle  prescrizioni   di
«vivere  onestamente»  e  di  «rispettare  le  leggi»  violerebbe  il
principio   di   legalita'   della   Costituzione   e   della   CEDU.
L'indeterminatezza  della  descrizione   della   fattispecie   penale
confliggerebbe - come ritenuto dalla  Corte  EDU  nella  sentenza  de
Tommaso - con il canone di prevedibilita', alla stregua del quale non
sono legittime incisioni del diritto alla liberta' per  condotte  non
sufficientemente definite. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, il quale ha concluso per l'inammissibilita' e comunque la  non
fondatezza del ricorso. 
    Sotto  il  profilo  dell'ammissibilita',  l'Avvocatura   generale
afferma  che,  se  e'  possibile  rilevare   l'intervenuta   abolitio
criminis, altrettanto puo' dirsi con riferimento alla interpretazione
adeguatrice accolta dalla citata sentenza delle Sezioni  unite  della
Corte di cassazione. 
    Inoltre, si osserva che  i  dubbi  della  Corte  rimettente  sono
diretti  non  tanto  all'interpretazione  abrogatrice  fornita  dalla
Cassazione e ancor prima dalla Corte EDU, quanto alla non stabilita',
a fronte  di  possibili  diverse  aree  di  definizione  di  condotte
penalmente rilevanti, rispetto a una casistica appunto indeterminata. 
    Nel merito, l'Avvocatura sostiene che  la  sentenza  della  Corte
EDU, ancorche' pronunciata dalla Grande camera, non e' espressione di
una giurisprudenza consolidata nei termini indicati nella sentenza n.
49 del 2015. 
    3.- Con atto depositato il 24  maggio  2018,  fuori  termine,  e'
intervenuto in giudizio M.S. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte di cassazione, sezione seconda penale, con ordinanza
del  26  ottobre  2017,  ha  sollevato  questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 75,  comma  2,  del  decreto  legislativo  6
settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e  delle  misure
di  prevenzione,   nonche'   nuove   disposizioni   in   materia   di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto 2010, n. 136), in  riferimento  agli  artt.  25  e  117  della
Costituzione - quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata  e
resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.  848,  e  all'art.  2  del
Protocollo n. 4 della stessa Convenzione, adottato a Strasburgo il 16
settembre 1963, reso esecutivo con d.P.R. 14  aprile  1982,  n.  217,
interpretati alla luce della sentenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo, grande camera, 23 febbraio 2017, de Tommaso contro  Italia
- nella parte in cui sanziona penalmente la violazione degli obblighi
di  «vivere   onestamente»   e   «rispettare   le   leggi»   connessi
all'imposizione  della  misura  di  prevenzione  della   sorveglianza
speciale con obbligo o divieto di soggiorno. 
    Il dubbio di  costituzionalita'  si  fonda  essenzialmente  sulla
vaghezza, indeterminatezza e non prevedibilita' di tale  prescrizione
- «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» - imposta  «[i]n  ogni
caso» con la  misura  della  sorveglianza  speciale  con  conseguente
violazione del principio di legalita' prescritto  in  materia  penale
dalla Costituzione e del canone di prevedibilita' sancito dalla CEDU. 
    La disposizione censurata (comma 2 dell'art.  75)  prevede,  come
delitto,  l'inosservanza  degli  «obblighi»  e  delle  «prescrizioni»
inerenti alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo
o divieto di soggiorno, tipica misura di prevenzione  applicabile  ai
soggetti  elencati  nell'art.  4  dello  stesso  codice  delle  leggi
antimafia - essenzialmente soggetti indiziati  di  determinati  gravi
reati  -  ove  ricorra  il  presupposto  della  loro   pericolosita'.
Parallelamente il comma 1 dell'art. 75 prevede  come  contravvenzione
la violazione delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza  speciale
senza obbligo o divieto di soggiorno. 
    Le  specifiche  prescrizioni  della  sorveglianza  speciale  sono
determinate dal tribunale e sono sia a contenuto  non  normativamente
determinato (art. 8, comma 2, cod. antimafia), ma  tali  comunque  da
rispondere a un criterio  di  ragionevole  proporzionalita'  rispetto
all'obiettivo di contrastare il pericolo che il soggetto destinatario
della misura  commetta  reati,  sia  elencate  in  un  catalogo  piu'
puntuale (art. 8, commi 3 e 4). 
    In ogni caso - precisa il comma  4  del  medesimo  art.  8  -  il
tribunale  prescrive,  in  generale,  «di  vivere   onestamente,   di
rispettare le  leggi»,  nonche',  in  particolare,  di  tenere  altri
comportamenti elencati dalla stessa  disposizione  (non  allontanarsi
dalla dimora senza preventivo avviso all'autorita' locale di pubblica
sicurezza; non associarsi abitualmente alle persone che hanno  subito
condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione  o  di  sicurezza,
non rincasare la sera piu' tardi e non uscire la mattina piu'  presto
di una data ora e senza  comprovata  necessita'  e,  comunque,  senza
averne data  tempestiva  notizia  all'autorita'  locale  di  pubblica
sicurezza, non  detenere  e  non  portare  armi,  non  partecipare  a
pubbliche riunioni). 
    Il comma 4 dell'art. 8 e' stato  successivamente  modificato  dal
decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia
di protezione  internazionale  e  immigrazione,  sicurezza  pubblica,
nonche' misure per la  funzionalita'  del  Ministero  dell'interno  e
l'organizzazione  e  il  funzionamento  dell'Agenzia  nazionale   per
l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati
alla criminalita' organizzata), convertito, con modificazioni,  nella
legge 1° dicembre 2018,  n.  132,  che  ha  inserito  come  ulteriore
prescrizione quella di «non accedere  agli  esercizi  pubblici  e  ai
locali di pubblico trattenimento, anche in determinate fasce orarie». 
    Questo affiancamento di una prescrizione di carattere generale ad
altre di contenuto piu' specifico risale all'originaria  formulazione
delle prescrizioni della misura  di  prevenzione  della  sorveglianza
speciale prevista dall'art. 5, terzo comma, della legge  27  dicembre
1956, n. 1423 (Misure di  prevenzione  nei  confronti  delle  persone
pericolose per  la  sicurezza  e  per  la  pubblica  moralita'),  che
all'obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi aggiungeva
anche quello di «non dare ragione di sospetti», piu'  non  riprodotto
nell'art. 8, comma 4, citato. 
    Il giudizio a quo ha ad oggetto la  condotta  di  un  sorvegliato
speciale con obbligo di soggiorno che ha  commesso  un  reato  comune
(nella specie, una rapina), del quale e' stato ritenuto responsabile;
la stessa condotta poi - hanno affermato i giudici  di  merito  -  ha
integrato  la  fattispecie  del  reato  previsto  dalla  disposizione
censurata (art. 75, comma 2) perche' il sottoposto alla  misura,  nel
commettere la rapina, ha  -  parimenti  (e  inevitabilmente,  con  la
stessa condotta) - violato anche l'obbligo di vivere onestamente e di
rispettare le leggi e quindi  ha  commesso  anche  il  reato  di  cui
all'art. 75, comma 2. Con la sentenza di condanna  per  i  due  reati
(quello comune e quello ex art. 75, comma 2) i giudici di merito,  in
particolare, hanno applicato un aumento di pena (ai  sensi  dell'art.
81, primo comma, del codice penale) su quella ritenuta congrua per il
reato comune in ragione del concorso formale  con  il  reato  di  cui
all'art. 75, comma 2. 
    Tale sentenza e' oggetto del ricorso per  cassazione,  della  cui
cognizione e' investita la Corte rimettente. La quale ritiene  che  -
ferma  la  definitiva  responsabilita'  dell'imputato  per  il  reato
comune,  stante   la   ritenuta   inammissibilita',   per   manifesta
infondatezza  e  genericita',  delle  censure  mosse  nel  ricorso  -
l'aumento di pena per il concorso  formale  dei  due  reati  potrebbe
essere  contra  legem  in  ragione  della  denunciata  illegittimita'
costituzionale  dell'art.  75,  comma  2,  che   prevede   il   reato
concorrente con quello comune. 
    2.- Preliminarmente  deve  essere  dichiarata  l'inammissibilita'
dell'intervento di M.S.,  in  quanto  intervenuto  oltre  il  termine
previsto dall'art. 4, comma 4, della  legge  11  marzo  1953,  n.  87
(Norme  sulla  costituzione   e   sul   funzionamento   della   Corte
costituzionale). 
    3.- Si pone innanzi tutto un sottile problema di  rilevanza  -  e
quindi   di   ammissibilita'   -   delle   sollevate   questioni   di
costituzionalita',  che  e'  oggetto  di   una   puntuale   eccezione
dell'Avvocatura generale. 
    4.-  La  Corte  rimettente  conosce  bene  il   recente   arresto
giurisprudenziale  costituito   dalla   sentenza   della   Corte   di
cassazione, sezioni unite penali,  27  aprile-5  settembre  2017,  n.
40076  (cosiddetta  "sentenza  Paterno'"),   sopravvenuto   dopo   la
pronuncia della Corte d'appello impugnata con ricorso per cassazione.
Le Sezioni  unite,  innovando  la  precedente  giurisprudenza,  hanno
affermato il seguente principio  di  diritto:  «L'inosservanza  delle
prescrizioni generiche  di  "vivere  onestamente"  e  "rispettare  le
leggi", da parte del soggetto sottoposto alla  sorveglianza  speciale
con  obbligo  o  divieto  di  soggiorno,   non   integra   la   norma
incriminatrice di cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del  2011».
Da cio' conseguirebbe che la condotta, di cui  l'imputato  ricorrente
e' stato ritenuto responsabile, non costituisce reato. 
    La Corte rimettente non  dubita  dell'esattezza  di  questa  piu'
recente giurisprudenza, di cui la Corte d'appello, che ha  emesso  la
sentenza impugnata con ricorso per cassazione, non  ha  potuto  tener
conto perche' successiva e che puo' qualificarsi come attuale diritto
vivente in ragione della provenienza  dalle  Sezioni  unite,  le  cui
pronunce sono ora assistite dal particolare  vincolo  processuale  di
cui all'art.  618,  comma  1-bis,  del  codice  di  procedura  penale
(secondo cui, se una sezione della Corte ritiene di  non  condividere
il principio di diritto enunciato  dalle  Sezioni  unite,  rimette  a
queste ultime, con ordinanza, la  decisione  del  ricorso).  Sicche',
nella specie - alla luce di tale giurisprudenza -  non  sussisterebbe
il reato ai sensi dell'art. 75, comma 2,  concorrente  con  il  reato
comune; pero' - osserva la Corte rimettente - non si  tratta  di  una
sopravvenuta abolitio criminis per successione della legge nel tempo,
ma di un'interpretazione giurisprudenziale che  risulta  essere  piu'
favorevole per l'imputato ricorrente. La non assimilabilita' di  tale
orientamento giurisprudenziale a uno ius superveniens fa  si'  che  -
secondo la Corte rimettente - non e' possibile tenerne conto  perche'
il  ricorso,  nella  specie,  muove   solo   censure   manifestamente
infondate,  e  quindi  inammissibili,  alla  sentenza  impugnata   e,
pertanto, e' destinato a una pronuncia di  inammissibilita'.  Invece,
ove  l'art.  75,  comma  2,   fosse   dichiarato   costituzionalmente
illegittimo, si  avrebbe  una  situazione  assimilabile  all'abolitio
criminis, che sarebbe rilevabile d'ufficio  ai  sensi  dell'art.  129
cod. proc. pen. 
    La stessa situazione si riproduce in  sede  di  esecuzione  della
condanna passata in giudicato perche'  l'art.  673  cod.  proc.  pen.
prevede la revoca della sentenza per abolizione  del  reato;  rimedio
questo non esperibile dal  condannato  deducendo  una  giurisprudenza
sopravvenuta secondo cui il fatto per cui  e'  stata  pronunciata  la
condanna non costituisce reato. 
    Di qui la ritenuta rilevanza delle questioni: la Corte rimettente
chiede una  pronuncia  di  illegittimita'  costituzionale  per  poter
rilevare d'ufficio che il fatto  contestato  come  delitto  ai  sensi
dell'art. 75, comma 2, non costituisce reato ed evitare cosi' che  si
formi un giudicato non piu' emendabile in  sede  esecutiva  e  quindi
ingiustamente pregiudizievole per l'imputato ricorrente. 
    5.- Tale predicata rilevanza effettivamente sussiste. 
    Va innanzi tutto condivisa l'affermazione della Corte  rimettente
secondo cui l'abolitio criminis - per ius superveniens o a seguito di
pronuncia di illegittimita' costituzionale - e'  cosa  diversa  dallo
sviluppo della giurisprudenza, essenzialmente  di  legittimita',  che
approdi all'esito (simile) di ritenere che una  determinata  condotta
non costituisca reato. 
    In un ordinamento in cui il giudice e' soggetto alla legge e solo
alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.), la giurisprudenza ha  un
contenuto dichiarativo e nella materia  penale  deve  conformarsi  al
principio di legalita' di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.,  che
vuole che sia la legge a prevedere che il fatto  commesso  e'  punito
come reato. 
    L'attivita'  interpretativa  del  giudice,  anche   nella   forma
dell'interpretazione adeguatrice costituzionalmente  orientata,  puo'
si' perimetrare i confini  della  fattispecie  penale  circoscrivendo
l'area della condotta penalmente  rilevante.  Ma  rimane  pur  sempre
un'attivita' dichiarativa, non assimilabile  alla  successione  della
legge penale nel tempo. 
    Questa Corte (sentenza n. 230  del  2012)  -  in  una  situazione
similare che  vedeva  la  sopravvenienza  di  un  orientamento  delle
Sezioni unite penali secondo cui non  costituiva  reato  la  condotta
oggetto di una sentenza di condanna passata in giudicato, di cui  era
chiesta la revoca ex art. 673 cod.  proc.  pen.  per  abolizione  del
reato - ha sottolineato che, pure  in  presenza  di  un  orientamento
giurisprudenziale  che  abbia  acquisito  i  caratteri  del  «diritto
vivente», il giudice rimettente ha soltanto la facolta', e  non  gia'
l'obbligo di uniformarsi a esso. E ha ribadito che «[a]l  pari  della
creazione delle norme, e delle norme penali in specie, anche la  loro
abrogazione - totale o parziale - non puo', infatti,  dipendere,  nel
disegno costituzionale, da regole giurisprudenziali, ma  soltanto  da
un atto di volonta' del legislatore  (eius  est  abrogare  cuius  est
condere)».  In  tal  senso,  pur  con  qualche  distinzione,  si   e'
pronunciata  anche  la  giurisprudenza  di  legittimita'  (Corte   di
cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 ottobre 2015-23  giugno
2016, n. 26259). 
    Inoltre, si e' affermato  che  l'ordinamento  nazionale  «conosce
ipotesi di flessione dell'intangibilita' del giudicato, che la  legge
prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso  intrinseco
si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignita'
costituzionale,  ai  quali  il  legislatore  intende  assicurare   un
primato»  (sentenza  n.  210  del  2013).  E,  con   riferimento   al
procedimento  di  adeguamento  dell'ordinamento  interno  alla  CEDU,
originato da una pronuncia della Grande camera della  Corte  EDU,  ha
aggiunto che «il giudicato non costituisce un  ostacolo  insuperabile
che [...] limiti gli effetti dell'obbligo conformativo ai  soli  casi
ancora sub iudice». 
    A  maggior  ragione  e'  rilevante  un  dubbio  di   legittimita'
costituzionale della norma incriminatrice in tutti i casi in  cui  il
giudicato non si e' ancora formato, ma sta per  formarsi  proprio  in
ragione  della  pronuncia  di  inammissibilita'   del   ricorso   per
cassazione che la Corte rimettente ritiene  debba  essere  emessa,  a
meno che non sia accolta la  questione  di  costituzionalita'  e  sia
dichiarata l'illegittimita' della norma incriminatrice. 
    6.-  Risponde  poi  al  canone   di   plausibilita'   l'ulteriore
affermazione della  Corte  rimettente  secondo  cui  nella  strettoia
processuale  determinata  da  un  ricorso  manifestamente  infondato,
avviato pertanto a una pronuncia di inammissibilita', la Corte  possa
rilevare d'ufficio ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen.  l'abolitio
criminis, ma non anche la sopravvenienza di  una  giurisprudenza  che
esclude  la  rilevanza  penale  della  condotta  per  cui  e'   stata
pronunciata la sentenza di condanna. 
    L'affermazione trova le sue radici in  un  risalente,  ma  sempre
seguito, arresto delle Sezioni unite  penali  (Corte  di  cassazione,
sezioni unite penali, sentenza 22 novembre-21 dicembre 2000,  n.  32)
che, inaugurando un filone  giurisprudenziale  piu'  volte  ribadito,
hanno affermato che l'inammissibilita'  del  ricorso  per  cassazione
dovuta  alla  manifesta  infondatezza  dei  motivi  non  consente  il
formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude,  pertanto,
la possibilita' di rilevare e dichiarare le cause di non  punibilita'
a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. 
    Di questo principio si e' fatta ripetuta applicazione soprattutto
in caso di  prescrizione  del  reato  maturata  successivamente  alla
sentenza  impugnata  con  il  ricorso.  Piu'  recentemente  tale  non
rilevabilita' d'ufficio ai sensi dell'art. 129  cod.  proc.  pen.  e'
stata affermata anche con riferimento alla prescrizione  maturata  in
data anteriore alla pronuncia  della  sentenza  di  appello,  ma  non
rilevata ne' eccepita in quella sede e neppure dedotta con  i  motivi
di ricorso (Corte di cassazione, sezioni unite  penali,  sentenza  17
dicembre 2015-25 marzo 2016, n. 12602). 
    Dibattuta e' la rilevabilita', ai sensi dell'art. 129 cod.  proc.
pen.,  della  sopravvenuta  introduzione  di   una   causa   di   non
punibilita', quale la particolare tenuita' del  fatto  (art.  131-bis
cod. pen.), prevalentemente esclusa in caso di ricorso  inammissibile
(Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 1°  febbraio-28
febbraio 2018, n. 9204). Anche la  rilevabilita'  della  sopravvenuta
abolitio criminis  in  caso  di  ricorso  inammissibile,  piu'  volte
affermata dalla giurisprudenza (ex  plurimis,  Corte  di  cassazione,
sezione quinta penale, sentenza 2 maggio-18 ottobre 2016, n.  44088),
non e' del tutto pacifica (in senso contrario, Corte  di  cassazione,
sezione quinta penale,  sentenza  14  aprile-28  settembre  2016,  n.
40290). 
    In questo contesto giurisprudenziale la  valutazione  che  fa  la
Corte rimettente e' certamente plausibile, anche se corre sul crinale
scivoloso  della  distinzione  tra  manifesta  infondatezza  e   mera
infondatezza dei motivi di ricorso e della conseguente  costituzione,
o no, del rapporto processuale di impugnazione. 
    Solo se il ricorso fosse stato ammissibile, ancorche'  infondato,
le questioni di costituzionalita' avrebbero potuto essere risolte  in
via interpretativa e sarebbero risultate prive di  rilevanza  perche'
il giudice di legittimita' ben avrebbe potuto rilevare  che,  secondo
il mutato orientamento giurisprudenziale, la condotta contestata  non
costituiva reato (in tal senso, Corte di  cassazione,  sezione  sesta
penale, sentenza 21 settembre 2017-21 giugno 2018, n. 28825). 
    Invece,  contenendo  il  ricorso  solo   censure   manifestamente
infondate, il giudice di legittimita'  non  puo'  rilevare  d'ufficio
l'insussistenza   del   reato   secondo   il    nuovo    orientamento
giurisprudenziale  e  da  cio'  consegue  la  rilevanza  -  e  quindi
l'ammissibilita' - delle questioni di costituzionalita'  dal  momento
che solo  un'eventuale  pronuncia  di  illegittimita'  costituzionale
della  disposizione  incriminatrice  consentirebbe  al   giudice   di
legittimita' di annullare  la  sentenza  impugnata  limitatamente  al
concorrente reato di cui al censurato art.  75,  comma  2,  e  quindi
all'aumento di pena ai sensi dell'art. 81, primo comma, cod. pen. 
    7.- Nel merito, la questione e' fondata, nei termini che seguono,
con riferimento agli artt. 7 CEDU e  2  del  Protocollo  n.  4  della
stessa Convenzione. 
    8.- La Corte di cassazione rimettente ha posto  le  questioni  di
costituzionalita' in riferimento sia al parametro nazionale (art.  25
Cost.) sia  a  quelli  convenzionali  (art.  7  CEDU  e  art.  2  del
Protocollo n. 4 della stessa Convenzione), questi  ultimi  interposti
per il tramite dell'art. 117, primo comma,  Cost.  E  cio'  ha  fatto
confrontandosi puntualmente con la giurisprudenza  di  questa  Corte,
della  Corte  EDU  e  delle  Sezioni  unite  della  stessa  Corte  di
cassazione. 
    Le questioni si pongono infatti nel  punto  di  confluenza  della
giurisprudenza delle tre Corti e segnatamente della sentenza  n.  282
del 2010 di questa Corte, della sentenza de Tommaso della Corte  EDU,
e della sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali,  n.
40076 del 2017. 
    9.- Il parametro nazionale evocato e' il principio  di  legalita'
in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.), che vuole che  sia
la legge a prevedere che il fatto commesso sia punito come reato.  Da
cio' discende il principio di  tassativita'  e  determinatezza  della
fattispecie penale. 
    Questa  Corte  (sentenza  n.  282  del  2010)  ha   valutato   la
conformita'  a  tale  principio  della  fattispecie  penale  prevista
dall'art. 9 della legge n. 1423 del 1956, all'epoca vigente  dopo  le
modifiche apportate con l'art. 14 del decreto-legge 27  luglio  2005,
n.  144   (Misure   urgenti   per   il   contrasto   del   terrorismo
internazionale), convertito in legge 31  luglio  2005,  n.  155,  che
disponeva nel comma 1 che il «contravventore agli  obblighi  inerenti
alla sorveglianza speciale e' punito con l'arresto da tre mesi ad  un
anno» e  nel  comma  2,  allora  censurato,  che  se  «l'inosservanza
riguarda gli obblighi e le prescrizioni  inerenti  alla  sorveglianza
speciale con l'obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la  pena
della reclusione da uno a cinque anni».  Tra  le  prescrizioni  della
sorveglianza speciale la cui violazione poteva integrare il reato era
gia' previsto - dall'art. 5 della stessa legge n.  1423  del  1956  -
l'obbligo  di  vivere  onestamente  e  rispettare  le   leggi.   Tali
disposizioni (l'art. 5 e l'art.  9)  si  ritrovano  riprodotte  negli
stessi termini, in parte qua, nell'art. 8 e  nel  censurato  art.  75
cod. antimafia. 
    La  Corte  ha  ricordato  che  per  verificare  il  rispetto  del
principio di tassativita' o  di  determinatezza  della  norma  penale
occorre  non  gia'  valutare   isolatamente   il   singolo   elemento
descrittivo dell'illecito, bensi' collegarlo con gli  altri  elementi
costitutivi della fattispecie e  con  la  disciplina  in  cui  questa
s'inserisce. E, in particolare, ha ribadito che  «l'inclusione  nella
formula  descrittiva  dell'illecito  di  espressioni   sommarie,   di
vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti  elastici,
non comporta un vulnus del parametro costituzionale  evocato,  quando
la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al
giudice    -    avuto    riguardo    alle    finalita'     perseguite
dall'incriminazione ed al piu' ampio contesto  ordinamentale  in  cui
essa si colloca -  di  stabilire  il  significato  di  tale  elemento
mediante un'operazione interpretativa non esorbitante  dall'ordinario
compito a lui affidato: quando cioe' quella descrizione  consenta  di
esprimere un giudizio di corrispondenza  della  fattispecie  concreta
alla fattispecie astratta,  sorretto  da  un  fondamento  ermeneutico
controllabile; e, correlativamente, permetta  al  destinatario  della
norma di avere una percezione sufficientemente  chiara  ed  immediata
del relativo valore precettivo» (ex plurimis,  sentenze  n.  327  del
2008, n. 5 del 2004, n. 34 del 1995 e n. 122 del 1993). 
    Ha, quindi, concluso ritenendo  che  la  prescrizione  di  vivere
onestamente e di rispettare le leggi non  violasse  il  principio  di
legalita' in materia penale. Da una parte, le «leggi» sono  tutte  le
norme a contenuto precettivo, non solo quelle la  cui  violazione  e'
sanzionata  penalmente;   d'altra   parte,   l'obbligo   di   «vivere
onestamente»  va  «collocat[o]  nel  contesto  di  tutte   le   altre
prescrizioni previste dal menzionato art. 5» e quindi ha il valore di
un monito rafforzativo di queste ultime senza un  autonomo  contenuto
prescrittivo. 
    10.- Dei due parametri convenzionali, evocati  nell'ordinanza  di
rimessione, che pero' esprimono lo stesso  canone  di  prevedibilita'
della  condotta  prevista  dalla  norma   nazionale   perche'   possa
giustificarsi una limitazione  della  liberta'  personale,  e'  stato
preso in considerazione dalla sentenza de Tommaso della Corte EDU, in
particolare, l'art. 2 del Protocollo n. 4  della  Convenzione,  nella
parte in cui pone il principio di legalita' con riferimento specifico
alla liberta' di circolazione che puo'  subire  solo  le  restrizioni
«previste dalla legge». 
    La Corte EDU ha ritenuto che «la loi n° 1423/1956 etait  libellee
en des termes vagues et  excessivement  generaux.  Ni  les  personnes
auxquelles  les  mesures  de  prevention  pouvaient  être  appliquees
(article 1 de la loi de 1956) ni  le  contenu  de  certaines  de  ces
mesures (articles 3 et 5 de la loi de 1956)  n'etaient  definis  avec
une precision et une clarte' suffisantes. Il s'ensuit que  cette  loi
ne remplissait pas les conditions de previsibilite'  telles  qu'elles
se degagent de  la  jurisprudence  de  la  Cour».  Ossia  il  sistema
nazionale  delle  misure  di  prevenzione  -  quanto  ai  presupposti
soggettivi e al loro  contenuto  -  e'  stato  censurato  per  essere
formulato «in termini vaghi  ed  eccessivamente  ampi»  tali  da  non
rispettare il criterio della «prevedibilita'», come  enunciato  dalla
giurisprudenza di quella Corte. La quale in particolare -  pur  dando
atto della (non collimante) interpretazione accolta da  questa  Corte
nella citata sentenza n. 282 del  2010  con  riferimento  all'omologo
principio di legalita'  dell'art.  25,  secondo  comma,  Cost.  -  ha
ritenuto, all'opposto, che gli  obblighi  di  «vivere  onestamente  e
rispettare le leggi» (oltre  che  di  «non  dare  ragione  alcuna  ai
sospetti»,  prescrizione  questa  non  piu'  rilevante  perche'   non
riprodotta nel citato art. 8 cod. antimafia) non  fossero  delimitati
in modo sufficiente e che, pertanto, fosse violato  il  principio  di
prevedibilita' della condotta da cui consegue  la  limitazione  della
liberta'  personale,  segnatamente  quello  posto  dall'art.  2   del
Protocollo n. 4. 
    11.-  La  pronuncia   della   Corte   EDU   e'   stata   decisiva
nell'orientare la puntualizzazione giurisprudenziale  espressa  dalla
sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite  penali,  n.  40076
del 2017 (cosiddetta "sentenza Paterno'"). 
    Le Sezioni unite penali si sono pronunciate con riferimento  alla
fattispecie   penale   di   violazione   delle   prescrizioni   della
sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, del tutto  analoga  a
quella oggetto dell'ordinanza di rimessione: il sorvegliato speciale,
nel commettere un  reato  comune,  aveva  (con  la  stessa  condotta)
violato anche l'obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi. 
    La Corte di cassazione si confronta con la sentenza  de  Tommaso,
avendo ben presente che - come affermato da questa Corte (sentenza n.
239 del 2009) - compete al giudice  di  assegnare  alla  disposizione
interna un significato quanto piu' aderente alla CEDU. Considera,  in
particolare, che «la Corte  europea,  riferendosi  al  contenuto  del
"vivere onestamente nel rispetto delle  leggi",  sottolinea,  quindi,
come tali prescrizioni non siano  state  sufficientemente  delimitate
dall'interpretazione della Corte costituzionale,  in  quanto  permane
una evidente indeterminatezza dei comportamenti che si pretendono dal
sorvegliato  speciale,  soprattutto  nella  misura  in  cui   possono
integrare la fattispecie penale di cui all'art. 9 legge n.  1423  del
1956 (ora art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011)». La  Corte  procede
quindi a una «rilettura del diritto interno  che  sia  aderente  alla
CEDU» e perviene alla conclusione che «il richiamo "agli  obblighi  e
alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con  obbligo  o
divieto di soggiorno" puo' essere riferito soltanto a quegli obblighi
e  a  quelle  prescrizioni  che  hanno  un  contenuto  determinato  e
specifico, a cui poter attribuire valore precettivo.  Tali  caratteri
difettano  alle  prescrizioni  del   "vivere   onestamente"   e   del
"rispettare le leggi"». 
    La conclusione e' che «le prescrizioni del vivere  onestamente  e
rispettare le leggi non possono integrare la norma incriminatrice  di
cui all'art. 75, comma 2, d.lgs. 159 del 2011». Aggiungono le Sezioni
unite: «ad esse tuttavia puo' essere data indiretta rilevanza ai fini
dell'eventuale  aggravamento  della  misura  di   prevenzione   della
sorveglianza speciale». 
    Quindi, la giurisprudenza di legittimita'  ha  gia'  compiuto  il
processo di adeguamento e maggiore conformita' ai principi della CEDU
proprio con riferimento alla fattispecie  oggetto  dell'ordinanza  di
rimessione: non sussiste il reato previsto  dal  censurato  art.  75,
comma 2, allorche' la violazione degli obblighi e delle  prescrizioni
della misura della sorveglianza speciale  consista  nell'inosservanza
dell'obbligo di vivere onestamente e di rispettare le leggi. 
    12.- Orbene, la convergenza delle Sezioni unite verso  la  citata
pronuncia della Corte EDU segna l'arresto ultimo del diritto vivente,
ben posto in risalto  dall'ordinanza  di  rimessione:  l'inosservanza
dell'obbligo di vivere onestamente e di rispettare  le  leggi,  quale
prescrizione della misura della sorveglianza speciale con obbligo  di
soggiorno, non integra la fattispecie di reato di  cui  al  censurato
art. 75, comma 2. 
    Pero' - per quanto sopra ritenuto  in  ordine  alla  rilevanza  e
all'ammissibilita'  delle  questioni  -  non  si  e'  di   fronte   a
un'abolitio criminis per successione nel tempo  della  legge  penale;
cio' comporta  che,  proprio  per  l'affermata  non  riconducibilita'
dell'orientamento   giurisprudenziale   sopravvenuto   a   uno    ius
superveniens, sussiste non di meno una limitata area in  cui  occorre
ancora domandarsi se la fattispecie penale suddetta,  schermata  solo
dall'interpretazione  giurisprudenziale,  sia  conforme,  o  no,   al
principio di legalita' in materia  penale,  vuoi  costituzionale  che
convenzionale. Area questa costituita - come gia'  sopra  rilevato  -
sia dall'esecuzione del  giudicato  penale  di  condanna,  sia  dalla
rilevabilita' ai sensi dell'art. 129  cod.  proc.  pen.  in  caso  di
ricorso per cassazione recante solo censure manifestamente  infondate
e quindi inammissibili. 
    13.- In questi stretti limiti si pone, in sostanza, la  questione
di costituzionalita' come possibile completamento dell'operazione  di
adeguamento dell'ordinamento interno  alla  CEDU,  gia'  fatta  dalle
Sezioni unite nei limiti in cui  l'interpretazione  giurisprudenziale
puo' ritagliare la fattispecie penale escludendo dal  reato  condotte
che prima si riteneva vi fossero comprese. 
    L'interpretazione  del  giudice  comune,  ordinario  o  speciale,
orientata alla conformita' alla CEDU - le cui prescrizioni e principi
appartengono  indubbiamente  ai   vincoli   derivanti   da   obblighi
internazionali con impronta  costituzionale  (quelli  con  «vocazione
costituzionale»: sentenza n.  194  del  2018)  -  non  implica  anche
necessariamente l'illegittimita'  costituzionale  della  disposizione
oggetto dell'interpretazione per violazione di un principio o di  una
previsione della CEDU, quale parametro interposto ai sensi  dell'art.
117, primo comma, Cost. 
    E' ricorrente che gli stessi principi o  analoghe  previsioni  si
rinvengano nella Costituzione e nella CEDU, cosi' determinandosi  una
concorrenza di tutele, che pero'  possono  non  essere  perfettamente
simmetriche e sovrapponibili; vi puo' essere uno  scarto  di  tutele,
rilevante soprattutto  laddove  la  giurisprudenza  della  Corte  EDU
riconosca, in determinate fattispecie, una tutela piu' ampia.  Questa
Corte ha gia' affermato che,  quando  viene  in  rilievo  un  diritto
fondamentale, «il rispetto degli obblighi internazionali [...] puo' e
deve [...] costituire strumento efficace di ampliamento della  tutela
stessa» (sentenza n. 317 del 2009). E' quanto  si  e'  verificato  da
ultimo (sentenza n. 120 del  2018)  con  riferimento  al  diritto  di
associazione sindacale, tutelato sia dalla Costituzione (art. 39) che
dalla CEDU (art. 11). 
    Non c'e' pero', nel  progressivo  adeguamento  alla  CEDU,  alcun
automatismo, come risulta gia' dalla giurisprudenza di questa  Corte,
stante, nell'ordinamento nazionale, il «predominio assiologico  della
Costituzione sulla CEDU» (sentenza n. 49 del 2015). 
    Da  una   parte,   la   denunciata   violazione   del   parametro
convenzionale interposto, ove  gia'  emergente  dalla  giurisprudenza
della Corte  EDU,  puo'  comportare  l'illegittimita'  costituzionale
della norma interna sempre che nelle pronunce  di  quella  Corte  sia
identificabile un «approdo giurisprudenziale  stabile»  (sentenza  n.
120 del 2018) o un «diritto consolidato» (sentenze n. 49 del 2015  e,
nello stesso senso, n. 80 del 2011). Inoltre, va  verificato  che  il
bilanciamento,  in  una  prospettiva  generale,  con  altri  principi
presenti nella Costituzione non conduca a una valutazione di  sistema
diversa - o comunque non necessariamente  convergente  -  rispetto  a
quella sottesa all'accertamento, riferito al caso  di  specie,  della
violazione di un diritto fondamentale  riconosciuto  dalla  CEDU.  Va
infatti ribadito che, «[a] differenza della Corte EDU,  questa  Corte
[...] opera una valutazione sistemica,  e  non  isolata,  dei  valori
coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata,  ed  e',  quindi,
tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante» (sentenza n. 264
del 2012); bilanciamento in cui si sostanzia tra l'altro il  «margine
di apprezzamento» che compete allo Stato membro (sentenze n. 193  del
2016, n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009). 
    14.-  Nella  fattispecie  in  esame   ricorrono   entrambi   tali
presupposti per completare, con riferimento alla norma oggetto  delle
questioni  di   costituzionalita',   l'adeguamento   alla   CEDU   in
concordanza con quello gia' operato,  in  via  interpretativa,  dalla
citata sentenza delle Sezioni unite. 
    14.1.- Sotto il primo profilo  -  anche  se  inizialmente  tra  i
giudici di merito vi sono  stati  orientamenti  non  concordanti,  in
ragione soprattutto della circostanza che la sentenza della Corte EDU
de Tommaso si presentava  come  un  nuovo  approdo  giurisprudenziale
(come riconosciuto in quella stessa sentenza: «La Cour note qu'a'  ce
jour elle n'a pas eu a' examiner en detail la  previsibilite'  de  la
loi n. 1423/1956»), recava plurime opinioni parzialmente dissenzienti
e riguardava un caso in cui il  rimedio  impugnatorio  interno  aveva
portato all'annullamento ex tunc della misura  di  prevenzione  -  la
giurisprudenza  di  legittimita'  si  e'  indirizzata  nel  senso  di
valutare  tale  sentenza  come  idonea  a  fondare  l'interpretazione
convenzionalmente orientata di cui si e' detto  ("sentenza  Paterno'"
delle Sezioni unite). 
    Da ultimo, questa Corte (sentenza n. 24 del 2019) ha tenuto conto
proprio della sentenza della Corte EDU e dell'esigenza di conformita'
al principio di prevedibilita', quale espresso da tale pronuncia, per
dichiarare l'illegittimita' costituzionale, in parte qua, dell'art. 1
della legge n. 1423 del 1956, dell'art.  19  della  legge  22  maggio
1975, n. 152 (Disposizioni a tutela  dell'ordine  pubblico)  e  degli
artt. 4, comma 1, lettera c), e 16 cod. antimafia. 
    14.2.- Sotto l'altro profilo, si ha che la valutazione di sistema
all'interno  dei  parametri  della  Costituzione   e   il   possibile
bilanciamento con altri valori  costituzionalmente  tutelati  non  e'
affatto distonica, nella fattispecie, rispetto al  pieno  dispiegarsi
dei parametri interposti. 
    L'esigenza di contrastare il rischio che  siano  commessi  reati,
che e' al fondo della ratio delle misure  di  prevenzione  e  che  si
raccorda alla tutela dell'ordine pubblico  e  della  sicurezza,  come
valore costituzionale, e'  comunque  soddisfatta  dalle  prescrizioni
specifiche che l'art. 8 consente al giudice di  indicare  e  modulare
come  contenuto  della  misura  di  prevenzione  della   sorveglianza
speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno. 
    Vi e' poi da considerare, all'opposto,  che  la  previsione  come
reato  della  violazione,  da   parte   del   sorvegliato   speciale,
dell'obbligo «di vivere onestamente» e «di rispettare le  leggi»  ha,
da una parte, l'effetto abnorme di sanzionare come reato qualsivoglia
violazione amministrativa  e,  dall'altra  parte,  comporta,  ove  la
violazione dell'obbligo costituisca di per se'  reato,  di  aggravare
indistintamente la  pena,  laddove  l'art.  71  cod.  antimafia  gia'
prevede come aggravante, per una serie di delitti, la circostanza che
il fatto sia stato commesso da persona sottoposta, con  provvedimento
definitivo, a una misura di prevenzione personale durante il  periodo
previsto di applicazione della misura. 
    Puo',  pertanto,  pervenirsi  alla  conclusione  che   la   norma
censurata viola il canone di prevedibilita' della condotta sanzionata
con la limitazione  della  liberta'  personale,  quale  contenuto  in
generale nell'art. 7 CEDU e in particolare nell'art. 2 del Protocollo
n. 4, e rilevante come parametro interposto ai sensi  dell'art.  117,
primo comma, Cost. 
    15.- In conclusione - assorbito il  parametro  interno  dell'art.
25,  secondo  comma,   Cost.   -   va   dichiarata   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 75, comma 2, del d.lgs.  n.  159  del  2011,
nella  parte  in  cui  punisce  come  delitto  l'inosservanza   delle
prescrizioni di "vivere onestamente" e di "rispettare  le  leggi"  da
parte del  soggetto  sottoposto  alla  misura  di  prevenzione  della
sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno. 
    16.-  Le  questioni  sollevate   dall'ordinanza   di   rimessione
riguardano il delitto previsto dall'art. 75, comma 2. 
    Ma gli  stessi  dubbi  di  costituzionalita'  possono  porsi  con
riferimento al reato  contravvenzionale  di  cui  al  comma  1  della
medesima disposizione che prevede analogamente  la  violazione  degli
obblighi  inerenti  la  misura  di  prevenzione  della   sorveglianza
speciale, ma senza obbligo ne' divieto  di  soggiorno,  allorche'  le
prescrizioni consistono  nell'obbligo  di  vivere  onestamente  e  di
rispettare  le  leggi;  reato  che  parimenti  la  giurisprudenza  di
legittimita' ritiene in via  interpretativa  non  piu'  configurabile
dopo la richiamata pronuncia delle Sezioni unite (ex plurimis,  Corte
di cassazione, sezione settima penale, 6 ottobre 2017-13 marzo  2018,
n. 11171). 
    Pertanto, in via  consequenziale  e  per  le  stesse  ragioni  va
dichiarata l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  75,  comma  1,
cod.   antimafia,   nella   parte   in   cui   prevede   come   reato
contravvenzionale la violazione degli  obblighi  inerenti  la  misura
della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno, ove
consistente nell'obbligo di "vivere onestamente" e di "rispettare  le
leggi".