ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  29  del
d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul
processo penale a carico di imputati minorenni), e dell'art.  657-bis
del codice di procedura penale, promosso dalla Corte  di  cassazione,
prima sezione penale, nel procedimento penale a carico  di  A.P.  B.,
con ordinanza del 12 aprile 2018, iscritta al  n.  106  del  registro
ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 34, prima serie speciale, dell'anno 2018. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 6 febbraio  2019  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 12 aprile 2018,  la  Corte  di  Cassazione,
prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 31 e
27 della Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale degli
artt. 29 del d.P.R. 22 settembre 1988,  n.  448  (Approvazione  delle
disposizioni sul processo penale a carico di imputati  minorenni),  e
657-bis del codice di procedura  penale,  «nella  parte  in  cui  non
prevedono che, in caso di esito negativo della messa  alla  prova  di
soggetto minorenne, il giudice determina la pena da  eseguire  tenuto
conto della consistenza e della durata delle limitazioni patite e del
comportamento  tenuto   dal   minorenne   durante   il   periodo   di
sottoposizione alla messa alla prova». 
    1.1.- La Sezione rimettente  premette  di  essere  investita  del
ricorso avverso un'ordinanza del Tribunale per i minorenni di  Milano
che,  in  veste  di  giudice  dell'esecuzione,  aveva  rigettato   la
richiesta, formulata da  un  condannato,  di  riconoscimento  in  suo
favore dello scomputo di pena prevista dall'art. 657-bis  cod.  proc.
pen. per il caso di esito negativo della messa  alla  prova,  laddove
una parte della prova sia stata comunque eseguita. 
    1.1.1.- Nel caso di specie, il ricorrente  A.P.  B.,  rinviato  a
giudizio avanti al Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale per
i minorenni di Milano per rispondere  di  concorso  in  ricettazione,
aveva beneficiato una prima volta  nel  2011  della  sospensione  del
processo con messa alla prova ai sensi dell'art. 28 del d.P.R. n. 448
del 1988, per un periodo pari a un anno. 
    Nel corso del periodo di sospensione, egli era stato sottoposto a
un progetto elaborato dal servizio  sociale  minorile  che  prevedeva
«interventi di orientamento formativo e lavorativo, di  sostegno  per
il  conseguimento  del  patentino  per   il   ciclomotore,   per   il
mantenimento  della  frequenza  di  uno  sport  di  squadra,  per  lo
svolgimento di attivita'  di  utilita'  sociale,  da  individuarsi  a
carico  dello  stesso   servizio   sociale,   nonche'   colloqui   di
monitoraggio con  l'assistente  sociale  e  di  sostegno  psicologico
dell'equipe penale». 
    Dopo  un  periodo  in  cui  aveva  correttamente  adempiuto  alle
prescrizioni, l'imputato aveva tuttavia interrotto i contatti con gli
operatori  e   si   era   sottratto   alle   prescrizioni   medesime.
Conseguentemente, il GUP aveva ritenuto che la messa  alla  prova  si
fosse conclusa con esito negativo e - ripreso  il  processo  -  aveva
condannato l'imputato alla pena di sette mesi  e  quattro  giorni  di
reclusione. 
    1.1.2.- Successivamente A.P. B. era  stato  nuovamente  tratto  a
giudizio davanti al GUP del Tribunale per i minorenni di  Milano  per
rispondere del delitto di violenza sessuale  di  gruppo  aggravata  e
continuata, ed era stato ammesso una seconda volta,  nel  2014,  alla
messa alla prova per un periodo di un anno e sei mesi. 
    Il nuovo progetto  prevedeva  «il  mantenimento  della  frequenza
scolastica, con profitto e buon comportamento, colloqui  di  sostegno
psicologico, con cadenza quantomeno quindicinale,  finalizzati  anche
alla  rielaborazione  dei  reati  e  dei  sottesi  stili  di  vita  e
relazionali con i pari; lo svolgimento di attivita' socialmente utili
inizialmente  presso  un  oratorio  e  successivamente  presso  altri
contesti al fine di incentivare  "sentimenti  di  condivisione  e  di
empatia", di attivita' di servizio alla persona,  con  l'inserimento,
ove possibile, in gruppi rivolti  alla  presa  in  carico  di  minori
coinvolti in reati di stampo sessuale, nonche' colloqui di verifica e
di sostegno con  l'assistente  sociale,  con  il  coinvolgimento  dei
familiari». 
    Anche questa  messa  alla  prova  aveva  avuto,  tuttavia,  esito
negativo. Rilevato come «il giovane si fosse sottratto ad  una  presa
in carico piscologica, avesse interrotto e ripreso i rapporti con gli
operatori a proprio  piacimento,  si  fosse  mantenuto  "emotivamente
distante rispetto alle relazioni di aiuto a lui offerte"  [...],  non
avesse svolto "alcuna significativa  riflessione  sulle  condotte  di
reato", non palesando alcun "movimento trasformativo" sia  sul  piano
comportamentale che attitudinale», il GUP aveva condannato l'imputato
alla pena di due anni e sei mesi di reclusione  per  i  reati  a  lui
ascritti. 
    1.1.3.- Le due sentenze di condanna erano state quindi  unificate
con provvedimento di cumulo del Procuratore della  Repubblica  presso
il Tribunale per i minorenni di Milano, e  la  pena  da  espiare  era
stata determinata complessivamente in tre anni,  un  mese  e  quattro
giorni di reclusione. 
    Il difensore del condannato  aveva  allora  chiesto  allo  stesso
Procuratore della Repubblica che dalla pena cosi'  determinata  fosse
detratto, ai sensi dell'art. 657-bis  cod.  proc.  pen.,  un  periodo
corrispondente ai due anni e mezzo complessivi di  messa  alla  prova
eseguita. 
    Il  Procuratore  della  Repubblica   aveva   tuttavia   rigettato
l'istanza,  ritenendo  che  la  disposizione   invocata   non   fosse
applicabile alla  sospensione  del  processo  con  messa  alla  prova
prevista, per gli imputati minorenni, dagli artt. 28 e 29 del  d.P.R.
n. 448 del 1988. 
    Il condannato aveva allora proposto incidente di esecuzione volto
a ottenere il relativo scomputo  di  pena,  ma  il  Tribunale  per  i
minorenni  di   Milano   -   in   funzione,   appunto,   di   giudice
dell'esecuzione - aveva parimenti rigettato la  richiesta,  ritenendo
esso pure che la disposizione invocata non fosse applicabile nel caso
di specie. 
    Avverso tale ordinanza, il difensore del condannato aveva  infine
proposto  il  ricorso  per  cassazione  che  ha   dato   origine   al
procedimento a quo. 
    1.2.- Ritiene anzitutto la Sezione rimettente che  l'applicazione
estensiva dell'art. 657-bis cod. proc. pen. alla messa alla prova per
i minorenni - sollecitata anche dal Procuratore generale in  udienza,
oltre che dal difensore dell'imputato - non sia praticabile. 
    Ad avviso del giudice a quo, infatti, la messa alla prova  per  i
minorenni presenta significative differenze strutturali  rispetto  al
corrispondente istituto previsto per  gli  adulti,  introdotto  dalla
legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in  materia  di  pene
detentive non carcerarie e  di  riforma  del  sistema  sanzionatorio.
Disposizioni in materia di sospensione  del  procedimento  con  messa
alla prova e nei confronti degli irreperibili).  In  particolare,  la
messa alla  prova  per  i  minorenni  non  e'  sottoposta  ad  alcuna
limitazione quanto alla sfera dei suoi possibili  destinatari  e  dei
reati dei quali essi sono imputati;  non  richiede  il  consenso  del
minore; ha ad oggetto «prescrizioni variamente  modulabili  e  almeno
tendenzialmente connotate da una minore afflittivita'»; e' soggetta a
diversi termini di durata; e il suo esito puo' essere negativo  anche
nel caso in cui  vengano  rispettate  le  prescrizioni  previste  nel
progetto. Sotto lo specifico profilo funzionale,  d'altra  parte,  la
necessaria  previsione,  nella  messa  alla  prova  per  gli  adulti,
dell'obbligo  di  prestazioni   lavorative   di   pubblica   utilita'
connoterebbe l'istituto in termini «prettamente afflittivi», cio' che
invece avverrebbe in maniera meno pregnante nella  messa  alla  prova
per  i  minorenni,  caratterizzata  invece   da   istanze   di   tipo
essenzialmente educativo. 
    Da cio' discenderebbe l'impossibilita' di estendere la previsione
dell'art.  657-bis  cod.  proc.  pen.  al  processo   minorile,   «in
particolare per quanto concerne il rigido automatismo previsto  dalla
norma», la quale «contempla un meccanismo di  fungibilita'  costruito
alla stregua di un criterio matematico» - tre giorni  di  messa  alla
prova per ogni giorno di pena detentiva da detrarre - «che sembra non
esportabile automaticamente in ogni caso  di  messa  alla  prova  del
minorenne». 
    1.3.- Tuttavia, a parere della Sezione rimettente  «l'esclusione»
per l'imputato minorenne «di qualunque rilevanza del percorso seguito
durante la prova, pur segnato da  un  epilogo  sfavorevole»,  darebbe
vita  a  «un  regime   ingiustificatamente   differenziato   rispetto
all'assetto regolativo che caratterizza l'omologo  istituto  per  gli
imputati  maggiorenni,  si'  da  confliggere  con  il  principio   di
uguaglianza  posto  dall'art.  3  Cost.».  Cio'   in   relazione   ai
«significativi  profili  di  afflittivita'»  che  caratterizzerebbero
anche la messa alla prova per il minorenne, in particolare laddove ne
sia previsto l'inserimento comunitario all'interno di una  struttura,
«attesa la consistente limitazione della liberta'  di  movimento  che
esso  implica».  Alla  medesima   valutazione   dovrebbe,   peraltro,
pervenirsi anche in una fattispecie come quella all'esame, in cui gli
obblighi di fare o di non fare inerenti alle  prescrizioni  avrebbero
avuto essi pure «carattere afflittivo, al di la' della finalizzazione
verso un obiettivo di natura prettamente educativa». 
    L'impossibilita' di operare alcuno scomputo sulla pena da espiare
in relazione al periodo di messa alla  prova  eseguito  dall'imputato
minorenne, in caso di  fallimento  della  messa  alla  prova  stessa,
confliggerebbe altresi' con l'art. 31 Cost.; e cio' alla  luce  della
giurisprudenza di questa Corte, che da tale disposizione ha tratto il
principio secondo cui il processo minorile deve essere ispirato  alla
prevalente esigenza educativa del minore (sentenza n. 222 del  1983),
da   attuarsi   mediante   la   «specifica   individualizzazione    e
flessibilita' del trattamento che l'evolutivita'  della  personalita'
del minore e la preminenza  della  funzione  rieducativa  richiedono»
(sentenza n. 109 del 1997). 
    Tale impossibilita' risulterebbe,  altresi',  distonica  rispetto
all'art.   27,   terzo   comma,   Cost.,   che    parimenti    impone
l'individualizzazione  del   trattamento   sanzionatorio,   al   fine
prioritario  della  rieducazione  e  del  reinserimento  sociale  del
condannato minorenne all'epoca del fatto (cosi', ancora, sentenza  n.
222 del 1983). 
    Il giudice a quo ritiene, dunque, non manifestamente infondate le
questioni di legittimita'  costituzionale,  con  riferimento  ai  tre
parametri menzionati, dell'art. 657-bis cod. proc. pen.  e  dell'art.
29  del  d.P.R.  n.  448  del  1988  -  quest'ultimo  relativo   alle
determinazioni del giudice sull'esito della messa alla  prova  per  i
minori  -  nella  parte  in  cui  da   tali   disposizioni   discende
«l'impossibilita', per il giudice, di tenere in alcun conto,  per  il
minore condannato a seguito di esito negativo della messa alla prova,
del periodo trascorso in assoggettamento a  tale  regime,  valutando,
all'esito del pur negativo esperimento, le limitazioni alla  liberta'
personale alle quali  sia  stato  comunque  nelle  more  sottoposto»,
analogamente a quanto consentito in caso di  revoca  dell'affidamento
in prova al servizio sociale ai sensi dell'art. 47, comma  11,  della
legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario  e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'),
in forza della sentenza n. 343 del 1987 di questa Corte. 
    1.4.- In punto di rilevanza, la Sezione  rimettente  osserva  che
solo  in  caso  di  accoglimento  delle  prospettate   questioni   di
legittimita'  costituzionale  il  ricorso  proposto  dal   condannato
potrebbe  essere  accolto,  con   conseguente   rinvio   al   giudice
dell'esecuzione  per  la  valutazione  in  concreto   dei   contenuti
afflittivi delle prescrizioni imposte nei due periodi di  messa  alla
prova  cui  lo  stesso  e'  stato  sottoposto,  e  per  l'«esame  del
sostanziale aggravamento del  trattamento  sanzionatorio  subito  dal
condannato in  ragione  della  sua  sottoposizione  alla  messa  alla
prova». 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate. 
    Ad avviso dell'Avvocatura  generale,  infatti,  l'istituto  della
messa alla prova per i minorenni avrebbe  caratteristiche  peculiari,
tali da escludere che la  mancata  previsione  di  un  meccanismo  di
scomputo della pena paragonabile a quello previsto per  gli  imputati
adulti determini  una  violazione  dell'art.  3  Cost.  Tale  mancata
previsione sarebbe giustificata  dalla  preminenza  dell'esigenza  di
recupero del minore,  che  non  consentirebbe  di  attribuire  natura
sanzionatoria all'istituto; natura sanzionatoria che, invece, sarebbe
propria della misura dell'affidamento in prova al  servizio  sociale,
cui si riferisce la sentenza n. 343 del 1987 invocata dal rimettente. 
    Infondate  sarebbero,  altresi',   le   censure   formulate   con
riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 31 Cost., dal  momento  che
l'esclusione della possibilita' di tener conto del periodo  trascorso
in prova, lungi dall'essere incompatibile con  l'esigenza  di  tutela
del minore e con la funzione  di  rieducazione  della  pena,  sarebbe
invece «assolutamente coerente con l'esigenza di recupero del minore,
che costituisce la finalita' precipua del processo penale minorile». 
    3.- In una successiva memoria, l'Avvocatura generale ha  eccepito
altresi' l'inammissibilita' delle questioni prospettate, dal  momento
che il giudice a quo non si  limiterebbe  qui  a  invocare  una  mera
estensione della disciplina di cui all'art. 657-bis cod. proc.  pen.,
ma invocherebbe l'introduzione di un sistema di  computo  della  pena
ulteriore e diverso da quello regolato per gli adulti. In  tal  modo,
il rimettente chiederebbe pero' «un intervento  additivo  mirante  ad
introdurre nell'ordinamento giuridico una disciplina non  costituente
l'unica soluzione costituzionalmente  obbligata»,  cio'  che  sarebbe
precluso alle sentenze di questa Corte. 
    Le questioni sarebbero comunque infondate non solo per le ragioni
gia' esposte nell'atto di intervento,  ma  anche  perche'  l'istituto
della messa alla prova per  gli  adulti  sarebbe  stato  pensato  dal
legislatore  come  un  rito  speciale  finalizzato  a   ottenere   un
trattamento   alternativo   alla   pena   fondato   sulla    volonta'
dell'imputato, nel quale il lavoro di  pubblica  utilita'  svolge  un
ruolo  essenziale,  determinandone  il  carattere  afflittivo.   Tale
connotazione sarebbe invece del tutto estranea al parallelo  istituto
previsto per i minorenni, nel quale «la finalita'  rieducativa  [...]
e' talmente pregnante da consentire  al  giudice  di  non  dichiarare
l'estinzione del reato anche se  il  minore  abbia  ottemperato  alle
prestazioni  indicate  ma  dal  suo   comportamento   o   dalla   sua
personalita' la prova non abbia fornito esito positivo». In un simile
contesto, la previsione di un «meccanismo di computo o  fungibilita'»
non sarebbe corrispondente alle  finalita'  essenzialmente  educative
del processo minorile. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Con  l'ordinanza  descritta  in  epigrafe,   la   Corte   di
Cassazione, prima sezione penale, ha sollevato, in  riferimento  agli
artt. 3, 31  e  27  della  Costituzione,  questioni  di  legittimita'
costituzionale degli  artt.  29  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni
sul processo penale a carico di imputati minorenni),  e  657-bis  del
codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevedono che, in
caso di esito negativo della messa alla prova di soggetto  minorenne,
il  giudice  determina  la  pena  da  eseguire  tenuto  conto   della
consistenza  e  della  durata  delle   limitazioni   patite   e   del
comportamento  tenuto   dal   minorenne   durante   il   periodo   di
sottoposizione alla messa alla prova». 
    La Sezione rimettente evidenza, in particolare, una discrasia tra
la disciplina della sospensione del processo con messa alla prova per
gli imputati minorenni, disciplinata dagli artt. 28 e 29  del  d.P.R.
n. 448 del 1988, e quella dell'omologo istituto previsto oggi per gli
imputati maggiorenni, in forza della legge  28  aprile  2014,  n.  67
(Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e  di
riforma  del  sistema  sanzionatorio.  Disposizioni  in  materia   di
sospensione del procedimento con messa alla  prova  e  nei  confronti
degli irreperibili), che ha introdotto, tra l'altro,  l'art.  657-bis
cod. proc. pen. 
    Quest'ultima disposizione prevede che «[i]n caso di revoca  o  di
esito negativo della messa alla prova,  il  pubblico  ministero,  nel
determinare la pena da eseguire, detrae un periodo  corrispondente  a
quello della prova eseguita. Ai fini della detrazione, tre giorni  di
prova sono equiparati a un giorno di reclusione o di arresto,  ovvero
a 250 euro di multa o di ammenda». 
    Nessuna disposizione di analogo tenore e', invece, stabilita  per
la messa alla prova nel processo minorile, rispetto alla quale l'art.
29 del d.P.R. n. 448 del 1988 si limita a prevedere che «[d]ecorso il
periodo di sospensione, il giudice  fissa  una  nuova  udienza  nella
quale dichiara con sentenza estinto il reato  se,  tenuto  conto  del
comportamento  del   minorenne   e   della   evoluzione   della   sua
personalita',  ritiene  che  la  prova  abbia  dato  esito  positivo.
Altrimenti provvede a norma degli articoli 32 e 33», disponendo cosi'
la prosecuzione del processo. 
    La discrasia in parola induce  il  rimettente  a  dubitare  della
legittimita' costituzionale della disciplina della messa  alla  prova
del minore, nella parte in cui non prevede, per l'appunto, che  -  in
caso di esito negativo della messa alla prova dell'imputato minorenne
e conseguente condanna dello stesso - il giudice possa comunque tener
conto, nella determinazione della pena da eseguire,  del  periodo  di
avvenuta esecuzione della prova. 
    2.-   L'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita' delle questioni prospettate, dal momento  che  con
le stesse si solleciterebbe questa  Corte  a  operare  un  intervento
additivo, mirante a introdurre nell'ordinamento  una  disciplina  non
costituente l'unica soluzione costituzionalmente obbligata. 
    L'eccezione e' infondata. 
    2.1.- Il giudice a  quo,  per  la  verita',  non  chiede  che  la
disciplina prevista dall'art. 657-bis cod. proc. pen. per il caso  di
esito negativo di messa alla prova di imputati maggiorenni venga  sic
et simpliciter estesa all'omologo istituto previsto per i  minorenni.
Infatti, mentre la detrazione  di  pena  prevista  per  i  condannati
adulti e' operata  direttamente  dal  pubblico  ministero  secondo  i
criteri di calcolo automatici stabiliti  dallo  stesso  art.  657-bis
cod.  proc.  pen.,  il  petitum  dell'ordinanza  di  rimessione  mira
all'attribuzione al giudice di un potere discrezionale, in forza  del
quale egli dovrebbe essere posto in grado di determinare  la  residua
pena da espiare «tenuto conto della consistenza e della durata  delle
limitazioni patite e del comportamento tenuto dal  minorenne  durante
il periodo di sottoposizione alla messa alla  prova»:  al  di  fuori,
dunque,  di  ogni  automatismo.  D'altra  parte,  il  riferimento  al
«giudice» operato nel petitum parrebbe abbracciare tanto  il  giudice
dell'esecuzione - investito, come e' accaduto nel procedimento a quo,
di un ricorso del condannato mirante alla rideterminazione della pena
da scontare -, quanto lo stesso giudice della  cognizione,  il  quale
ben potrebbe, nella logica del  rimettente,  sin  dall'inizio  essere
chiamato a determinare la pena tenendo conto del periodo della  prova
comunque eseguita  dal  condannato,  nonostante  il  suo  complessivo
fallimento (l'intervento del giudice  dell'esecuzione  apparendo,  in
quest'ottica, una  sorta  di  rimedio  residuale  contro  il  mancato
esercizio,  gia'  in  sede  di  cognizione,  del   potere-dovere   di
determinare la pena tenendo conto della parte di prova gia'  eseguita
dal condannato). 
    Da cio' discende che, effettivamente, il giudice a quo  chiede  a
questa Corte di introdurre nel sistema una regola nuova - distinta da
quella sancita dall'art. 657-bis cod. proc. pen. per  la  messa  alla
prova degli adulti -  che  implicherebbe  l'attribuzione  al  giudice
(della cognizione, ed eventualmente  dell'esecuzione)  di  un  potere
discrezionale nella determinazione della pena da eseguire in caso  di
fallimento della messa alla prova per gli imputati minorenni. 
    2.2.- Cionondimeno, l'intervento sollecitato appare  strettamente
modellato su quello gia' operato da questa Corte  nella  sentenza  n.
343 del 1987, pure invocata dal rimettente,  con  la  quale  l'allora
comma 10 dell'art. 47 della legge  26  luglio  1975,  n.  354  (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative della  liberta'),  fu  dichiarato  illegittimo
«nella parte in  cui  -  in  caso  di  revoca  del  provvedimento  di
ammissione all'affidamento in prova per  comportamento  incompatibile
con la prosecuzione della  prova  -  non  consente  al  Tribunale  di
sorveglianza di determinare la residua  pena  detentiva  da  espiare,
tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal  condannato  e
del suo comportamento durante il trascorso periodo di affidamento  in
prova». 
    Nemmeno in quel caso la soluzione poteva dirsi costituzionalmente
obbligata; ma questa Corte ritenne di  doverla  egualmente  adottare,
per sanare il riscontrato vulnus ai «principi di  proporzionalita'  e
individualizzazione della pena» arrecato dalla disciplina  in  quella
sede censurata, che - come quella che oggi viene in considerazione  -
non prevedeva la possibilita' di alcuno scomputo sulla pena detentiva
da eseguire in caso di revoca dell'affidamento in prova  al  servizio
sociale. «La Corte non si nasconde» - rilevo' la sentenza n. 343  del
1987 - che il rimedio adottato «comporta l'attribuzione al  Tribunale
di sorveglianza di un consistente potere: ma  cio'  e'  fenomeno  non
solo ben noto [...] in altri  ordinamenti,  ma  coerente  all'analogo
potere  spettante  al  predetto  Tribunale   e   al   magistrato   di
sorveglianza in sede di ammissione della  misura,  di  controllo  sul
corso di essa e di individuazione dei presupposti per la sua  revoca.
D'altra parte, non e' certo inibito al legislatore di  dettare  nuove
regole che, in ottemperanza al  precetto  costituzionale,  valgano  a
stabilire  puntuali   criteri   di   valutazione   e   comparazione».
Considerazioni, queste ultime, che potrebbero in ipotesi valere anche
con  riferimento  ai  poteri  del  giudice  (in  particolare,   della
cognizione) nella determinazione concreta della  pena  da  infliggere
all'imputato nei cui confronti la messa alla prova abbia avuto  esito
negativo. 
    La soluzione sollecitata in questa  occasione  dall'ordinanza  di
rimessione non eccede, dunque, i limiti delle attribuzioni di  questa
Corte, cosi' come gia' esercitati in passato in  un  caso  del  tutto
simile. Dal che l'ammissibilita' delle questioni prospettate. 
    3.-  Nel  merito,  le  questioni  prospettate   sono,   tuttavia,
infondate. 
    3.1.- Il rimettente - denunciando il  possibile  contrasto  della
disciplina oggi in vigore con gli artt.  3,  27  e  31  Cost.  -  non
lamenta, come si e' appena osservato, un'irragionevole disparita'  di
trattamento tra il regime della messa alla prova  per  gli  adulti  e
quello per i minorenni. La stessa ordinanza di rimessione  da'  atto,
infatti, della diversa struttura e funzione dei due regimi,  fondando
proprio   su   tali   differenze   l'impossibilita'   di    estendere
analogicamente alla messa alla prova per i  minorenni  la  disciplina
dettata dall'art. 657-bis cod. proc. pen. 
    Il  senso  delle  censure  e',  invece,  quello   di   denunciare
l'incongruita' del regime oggi vigente, che non consente  al  giudice
di tener conto  del  periodo  di  prova  eseguita  al  momento  della
determinazione della pena che il condannato dovra' scontare, rispetto
ai principi costituzionali in materia di pene  desumibili,  in  linea
generale, dal combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost., nonche'  -
con riferimento specifico ai  condannati  minorenni  -  dall'art.  31
Cost. 
    Dalla  trama  complessiva  dell'ordinanza  di  rimessione  emerge
infatti che il  dubbio  del  giudice  a  quo  concerne  la  possibile
distonia della disciplina censurata rispetto a quei medesimi principi
di proporzionalita' e individualizzazione della pena che  erano  gia'
stati posti a base della citata sentenza n. 343  del  1987,  sul  cui
dispositivo il petitum dell'ordinanza di rimessione e' modellato. 
    In buona sostanza, il rimettente teme che,  essendo  preclusa  al
giudice la possibilita' di rideterminare la pena  tenendo  conto  dei
contenuti afflittivi delle  prescrizioni  inerenti  alla  messa  alla
prova e gia' ottemperate dal condannato, questi  venga  sottoposto  a
una pena eccessiva, e pertanto sproporzionata rispetto alla  gravita'
del fatto commesso; con conseguente frustrazione delle  finalita'  di
rieducazione, alla quale la  pena  deve  necessariamente  orientarsi,
nonche' di tutela del preminente interesse educativo del  minore,  al
quale si ispira l'intera disciplina del processo penale minorile. 
    3.2.-   Questa   Corte   non   e',   tuttavia,   persuasa   dalle
argomentazioni del rimettente. 
    Come rilevato dall'Avvocatura generale dello Stato, la messa alla
prova per i minorenni  presenta  caratteristiche  peculiari,  che  la
distinguono nettamente sia dall'omologo  istituto  previsto  per  gli
imputati maggiorenni, sia dalla misura  alternativa  alla  detenzione
dell'affidamento in prova al servizio sociale,  oggetto  quest'ultima
della sentenza n. 343 del 1987 richiamata dal rimettente. 
    3.2.1.- Tanto la messa alla prova per gli adulti quanto la misura
alternativa  dell'affidamento  in  prova  al  servizio  sociale  sono
caratterizzate  da  prescrizioni  che  sono   si'   funzionali   alla
risocializzazione del soggetto, ma che al tempo stesso  assumono  una
innegabile connotazione sanzionatoria rispetto al fatto di reato. 
    Cio' appare evidente rispetto  alla  misura  dell'affidamento  in
prova al servizio sociale, che  e'  concepita  dal  legislatore  come
strumento  di  espiazione  della  pena,  alternativo  rispetto   alla
detenzione:  uno  strumento,  certo,  meno  afflittivo  rispetto   al
carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio  rispetto  al
reato commesso, tanto che l'esito positivo dell'affidamento in  prova
estingue la pena detentiva e ogni  altro  effetto  penale  (art.  47,
comma 12, ordin. penit.). 
    Ma una connotazione sanzionatoria  non  e'  aliena  nemmeno  alle
prescrizioni inerenti alla sospensione del processo  con  messa  alla
prova prevista per gli imputati  adulti  in  forza  della  disciplina
introdotta dalla legge n. 67 del 2014, come la recente giurisprudenza
di questa Corte ha del resto riconosciuto. 
    Anzitutto, la sentenza n. 91 del  2018  ha  richiamato  in  senso
adesivo una pronuncia delle sezioni unite della Corte di  cassazione,
con la quale  si  e'  affermata  la  duplice  natura,  processuale  e
sostanziale, del nuovo istituto, che e' «[d]a  un  lato,  nuovo  rito
speciale, in cui l'imputato che rinuncia al processo ordinario  trova
il  vantaggio  di  un  trattamento   sanzionatorio   non   detentivo;
dall'altro, istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase
anticipata, in cui viene "infranta" la sequenza cognizione-esecuzione
della pena, in funzione del  raggiungimento  della  risocializzazione
del soggetto» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31
marzo 2016, n. 36272). 
    La Corte di cassazione, e questa stessa Corte, hanno in tal  modo
riconosciuto che la messa alla prova per gli  adulti  costituisce  un
vero e  proprio  «trattamento  sanzionatorio»,  ancorche'  anticipato
rispetto    all'ordinario    accertamento    della    responsabilita'
dell'imputato e rimesso comunque - a differenza  delle  pene  -  alla
spontanea osservanza delle prescrizioni da  parte  del  soggetto;  un
trattamento che persegue lo scopo  -  costituzionalmente  imposto  in
forza dell'art. 27, terzo comma, Cost. - della risocializzazione  del
soggetto, sulla base della libera scelta che questi ha  compiuto  per
evitare  le  conseguenze,  da   lui   ritenute   evidentemente   piu'
pregiudizievoli, del processo ordinario e  della  pena  che  potrebbe
conseguirne. Un trattamento, ancora, che si radica comunque su di una
sia pur incidentale e sommaria «considerazione della  responsabilita'
dell'imputato», almeno allo stato degli atti, «posto che il  giudice,
in  base  all'art.  464-quater,  comma  1,  cod.  proc.  pen.,   deve
verificare che non ricorrono le condizioni per "pronunciare  sentenza
di proscioglimento a norma dell'articolo  129"  cod.  proc.  pen.,  e
anche a tale scopo puo' esaminare gli atti del fascicolo del pubblico
ministero, deve valutare la  richiesta  dell'imputato,  eventualmente
disponendone la comparizione (art. 464-quater, comma  2,  cod.  proc.
pen.), e, se lo ritiene necessario, puo'  anche  acquisire  ulteriori
informazioni, in applicazione dell'art. 464-bis, comma 5, cod.  proc.
pen.» (sentenza n. 91 del 2018). 
    Componente essenziale di  tale  «trattamento  sanzionatorio»  e',
d'altra parte, l'obbligo a carico del soggetto che vi e' sottoposto -
ai sensi dell'art. 168-bis, terzo  comma,  del  codice  penale  -  di
prestare lavoro di pubblica utilita', consistente in una «prestazione
non retribuita [...] di durata non inferiore a  dieci  giorni,  anche
non continuativi, in favore della collettivita'»  e  la  cui  «durata
giornaliera non puo' superare le otto ore»; obbligo che  si  affianca
alla  «prestazione   di   condotte   volte   all'eliminazione   delle
conseguenze dannose o pericolose derivanti dal  reato,  nonche',  ove
possibile, il  risarcimento  del  danno»,  oltre  agli  obblighi  che
derivano dalle prescrizioni concordate  all'atto  dell'ammissione  al
beneficio, le quali possono comprendere «attivita' di volontariato di
rilievo sociale, ovvero  l'osservanza  di  prescrizioni  relative  ai
rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria,  alla
dimora,  alla  liberta'  di  movimento,  al  divieto  di  frequentare
determinati locali». Prescrizioni, queste  ultime,  che  incidono  in
maniera significativa sulla liberta' personale del soggetto che vi e'
sottoposto, sia pure in maniera evidentemente meno gravosa rispetto a
quanto accadrebbe nel caso di applicazione di una pena detentiva. 
    Il legislatore si e', inoltre, preoccupato di assicurare  che  le
prescrizioni cui il soggetto e'  vincolato  si  mantengano  entro  un
rapporto  di  proporzionalita'  rispetto  alla  gravita'  del   fatto
commesso. In primo luogo, legittimati ad accedere al  beneficio  sono
soltanto gli imputati per  reati  di  non  particolare  gravita',  in
quanto «puniti con la sola pena edittale pecuniaria  o  con  la  pena
edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro  anni»  ovvero
rientranti nella competenza del tribunale in composizione monocratica
(art. 168-bis cod. pen.). In secondo luogo,  la  durata  della  messa
alla prova (e  della  relativa  sospensione  del  processo)  varia  a
seconda  della  gravita'  del  reato  contestato  all'imputato  (art.
464-quater, comma 5, cod. proc. pen.). Infine, il giudice e' chiamato
a valutare l'idoneita' del  programma  di  trattamento  «in  base  ai
parametri  di  cui  all'articolo  133  del   codice   penale»   (art.
464-quater, comma 3, cod. proc. pen.), e cioe' in base ai criteri che
sovraintendono ordinariamente alla commisurazione della pena,  tra  i
quali spicca il riferimento alla gravita',  oggettiva  e  soggettiva,
del reato. 
    Proprio sulla base di una tale connotazione  sanzionatoria  della
messa alla prova  per  gli  adulti  -  e,  piu'  precisamente,  delle
prescrizioni inerenti  al  provvedimento,  volontariamente  accettate
dall'imputato - trova piana spiegazione la  scelta  del  legislatore,
espressa dall'art. 657-bis cod. proc. pen., di  imporre  al  pubblico
ministero, in caso di condanna conseguente al fallimento della  messa
alla prova, di scomputare dalla pena ancora da  eseguire  un  periodo
corrispondente a quello in cui il soggetto ha effettivamente eseguito
le prescrizioni che gli erano state imposte. E cio' sulla base di  un
coefficiente stabilito dalla legge, che si fonda a sua volta  su  una
valutazione di minore afflittivita' - ma pur sempre di  afflittivita'
- delle prescrizioni medesime rispetto a quella che deriva dalla pena
detentiva. 
    3.2.2.- Una logica affatto diversa e' quella che ispira la  messa
alla prova per i minorenni,  alla  quale  non  puo'  essere  ascritta
alcuna funzione sanzionatoria. 
    Per quanto anche tale beneficio possa  essere  concesso  soltanto
sulla base di un accertamento - sia pure sommario, incidentale e allo
stato  degli  atti  -  della  responsabilita'  penale   dell'imputato
(sentenza n. 125 del 1995), la messa alla prova per  i  minorenni  e'
concepita dal legislatore  come  in  larga  parte  svincolata  da  un
rapporto di proporzionalita' rispetto al reato. Cio' risulta evidente
gia' a partire dalla  considerazione  che  la  messa  alla  prova  e'
consentita per i minori di eta' che siano chiamati  a  rispondere  di
qualsiasi reato, ivi compresi quelli puniti in astratto con  la  pena
dell'ergastolo, la diversa gravita' del reato riflettendosi solo  nel
diverso termine massimo stabilito per la durata della sospensione del
processo (che e' pari a tre anni per i reati piu' gravi, a fronte del
termine ordinario di un anno che vige per tutti i reati punibili  con
la reclusione inferiore nel massimo a dodici anni: art. 28, comma  1,
del d.P.R. n. 448 del 1988). 
    La definizione delle  prescrizioni  cui  l'imputato  deve  essere
sottoposto resta, d'altra parte, affidata alla valutazione largamente
discrezionale del giudice e dei servizi sociali cui l'imputato  sara'
affidato. Il legislatore si e'  qui  limitato  a  stabilire  che  «il
giudice puo' impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze
del reato e a  promuovere  la  conciliazione  del  minorenne  con  la
persona offesa dal reato» (art. 28, comma 2, del d.P.R.  n.  448  del
1988) e che il progetto di intervento elaborato dai servizi  minorili
«deve prevedere tra l'altro: a) le modalita'  di  coinvolgimento  del
minorenne, del suo nucleo familiare e del suo ambiente  di  vita;  b)
gli impegni specifici che il minorenne assume;  c)  le  modalita'  di
partecipazione  al  progetto  degli  operatori  della   giustizia   e
dell'ente locale; d) le modalita' di attuazione eventualmente dirette
a riparare le conseguenze del reato e a promuovere  la  conciliazione
del minorenne con la persona offesa» (art. 27, comma 2,  del  decreto
legislativo 28 luglio 1989, n. 272, recante «Norme di attuazione,  di
coordinamento  e  transitorie  del  decreto  del   Presidente   della
Repubblica 22  settembre  1988,  n.  448,  recante  disposizioni  sul
processo penale a carico di imputati minorenni»). Tali  prescrizioni,
significativamente,   non   comprendono   l'obbligo   di    prevedere
prestazioni di lavoro di pubblica utilita',  obbligo  che  e'  invece
concepito dal legislatore come condizione necessaria della messa alla
prova prevista per gli adulti. Ne' compare alcun riferimento, qui, ai
criteri generali di commisurazione della pena  di  cui  all'art.  133
cod. pen. per orientare la discrezionalita' del giudice e dei servizi
sociali nella definizione delle prescrizioni, a differenza di  quanto
si e' visto accadere nella disciplina della messa alla prova per  gli
adulti. 
    Sulla base  di  queste  indicazioni  normative,  il  senso  delle
prescrizioni  inerenti  al  programma  cui  l'imputato  deve   essere
sottoposto appare esclusivamente orientato a  stimolare  un  percorso
(ri)educativo del minore, finalizzato  all'obiettivo  ultimo  di  una
«evoluzione della sua personalita'» nel senso del rispetto dei valori
fondamentali della convivenza civile, al cui riscontro e' subordinata
la stessa valutazione di esito positivo della messa alla prova  (art.
29 del d.P.R. n. 448 del 1988). 
    Le   stesse   prescrizioni   che   limitano   la   liberta'    di
autodeterminazione  e  di   movimento   dell'imputato   minorenne   -
imponendogli  la  frequenza  di  corsi  scolastici  o  professionali,
percorsi  terapeutici,  attivita'  di  volontariato,  e  persino   la
residenza in specifici luoghi, come le case-famiglia, in  cui  vigano
determinati orari - non possono  che  considerarsi  come  altrettante
occasioni educative, volte a stimolare nel  giovane  un  percorso  di
revisione critica del proprio passato e un  correlativo  processo  di
cambiamento,  il  cui  esito  positivo  potrebbe  rendere  non   piu'
necessaria la celebrazione di un processo e l'inflizione di una  pena
nei suoi confronti. Qualsiasi processo educativo,  d'altronde,  passa
necessariamente attraverso  l'imposizione  di  regole,  che  limitano
nell'immediato la liberta' di individui la cui personalita' e' ancora
in formazione. 
    Voler leggere, allora, tali regole come altrettante sanzioni  per
il fatto di reato commesso -  e,  piu'  precisamente,  come  sanzioni
anticipate rispetto alla pena che potra' essere inflitta  al  termine
del processo, in caso di fallimento  della  prova  -  significherebbe
fraintendere il loro significato, con  il  rischio  per  di  piu'  di
incentivare condotte opportunistiche da parte dell'imputato: il quale
potrebbe essere indotto  a  rispettare  formalmente  le  prescrizioni
soltanto al fine di scontare anticipatamente la pena per  il  proprio
reato in condizioni meno  gravose  di  quelle  che  incontrerebbe  in
carcere, senza pero' impegnarsi in un reale percorso di cambiamento. 
    Simili  rischi  di   fraintendimento   appaiono   particolarmente
evidenti in casi come quello oggetto del procedimento a quo,  in  cui
le prescrizioni in concreto imposte all'imputato (si vedano  i  punti
1.1.1. e 1.1.2.  del  Ritenuto  in  fatto)  -  nelle  due  successive
sospensioni di cui ha beneficiato, nel  secondo  caso  per  reati  di
rilevante gravita' - non potevano essere ragionevolmente intese,  ne'
dovevano esserlo da parte dell'imputato, come altrettante "punizioni"
per i fatti di reato a lui addebitati; bensi' avrebbero dovuto essere
accolte come - preziose - offerte educative,  volte  a  stimolare  un
cammino che richiede pero' una consapevole  adesione  "interiore"  da
parte del destinatario, in vista dell'esito sperato di  un'evoluzione
della  sua  personalita',  tale  da  non  rendere   piu'   necessaria
l'irrogazione di una pena nei suoi confronti. 
    3.2.3.- Non puo', pertanto, considerarsi contrario ai principi di
proporzionalita' e individualizzazione della pena fondati sugli artt.
3 e 27 Cost., nemmeno alla luce delle superiori  esigenze  di  tutela
della personalita' del minore sottese all'art. 31 Cost., il fatto che
- una volta che si sia riscontrato il  fallimento  della  messa  alla
prova dell'imputato minorenne - non sia previsto alcun meccanismo  di
scomputo di una parte della pena inflitta nei suoi confronti in esito
alla celebrazione del processo, in proporzione  rispetto  alla  prova
eseguita (come accade nel caso della messa alla prova per gli adulti)
ovvero in conformita'  al  discrezionale  apprezzamento  del  giudice
(secondo la prospettiva suggerita dal giudice a quo).