ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  2  del
decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei  reati
in materia di imposte sui redditi e  sul  valore  aggiunto,  a  norma
dell'articolo 9 della legge 25 giugno 1999,  n.  205),  promosso  dal
Tribunale ordinario di Palermo, nel procedimento penale a  carico  di
A. C., con ordinanza del 13 luglio  2017,  iscritta  al  n.  147  del
registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 2017. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  A.  C.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  5  febbraio  2019  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    uditi l'avvocato Antonio Gargano per A.  C.  e  l'avvocato  dello
Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 13 luglio 2017, il Tribunale  ordinario  di
Palermo ha sollevato, in riferimento all'art. 3  della  Costituzione,
questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  2  del  decreto
legislativo 10 marzo 2000, n.  74  (Nuova  disciplina  dei  reati  in
materia di imposte  sui  redditi  e  sul  valore  aggiunto,  a  norma
dell'articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), «nella parte  in
cui non prevede che la condotta delittuosa ivi descritta sia punibile
quando,  congiuntamente:  a)  l'imposta  evasa  e'   superiore,   con
riferimento a taluna delle singole imposte, ad  euro  trentamila;  b)
l'ammontare   complessivo    degli    elementi    attivi    sottratti
all'imposizione,  anche  mediante  indicazione  di  elementi  passivi
fittizi, e' superiore al cinque per cento dell'ammontare  complessivo
degli  elementi  attivi  indicati  in  dichiarazione,   o   comunque,
superiore  ad  euro  un  milione  cinquecentomila,   ovvero   qualora
l'ammontare complessivo dei crediti  e  delle  ritenute  fittizie  in
diminuzione  dell'imposta,  e'  superiore   al   cinque   per   cento
dell'ammontare dell'imposta medesima o comunque a euro trentamila». 
    Il giudice a quo premette di essere investito  del  processo  nei
confronti di una persona imputata del reato di  cui  all'art.  2  del
d.lgs. n. 74 del 2000, per aver utilizzato,  in  qualita'  di  legale
rappresentante di una societa' in accomandita semplice,  due  fatture
per operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti: la prima
riportata nella dichiarazione  annuale  relativa  all'anno  d'imposta
2007 (presentata il 25 settembre 2008),  indicando  elementi  passivi
fittizi  per  euro  12.176,  con  evasione  dell'imposta  sul  valore
aggiunto  (IVA)  per  euro  2.436;   la   seconda   riportata   nella
dichiarazione   annuale   relativa   all'anno   di    imposta    2011
(dichiarazione presentata il 10 settembre 2012),  indicando  elementi
passivi fittizi per euro 18.000, con evasione di IVA per euro 2.436. 
    La questione sarebbe, dunque, rilevante. L'imputato e'  chiamato,
infatti, a rispondere di operazioni fraudolente che per ciascun  anno
d'imposta si collocano ben di sotto alla soglia dei  trentamila  euro
di  imposta  evasa,  con  la  conseguenza  che  l'accoglimento  della
questione renderebbe le condotte contestate penalmente irrilevanti. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a  quo  rileva
che la norma censurata non prevede alcuna soglia  di  punibilita'  in
relazione al delitto, da essa delineato, di dichiarazione fraudolenta
mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
Cio' a differenza di quanto avviene per il delitto  di  dichiarazione
fraudolenta mediante altri artifici, relativamente al quale l'art.  3
del d.lgs. n. 74 del 2000 prevede invece  due  distinte  soglie:  una
riferita  all'ammontare  dell'imposta  evasa,  l'altra  all'ammontare
complessivo degli elementi attivi sottratti  all'imposizione,  ovvero
dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell'imposta. 
    Secondo il rimettente, tale  disparita'  di  trattamento  sarebbe
arbitraria, essendosi  al  cospetto  di  fattispecie  sostanzialmente
identiche,   ormai   accomunate   dalla   «struttura   bifasica»    e
riconducibili all'unico genus  della  «frode  fiscale».  Le  condotte
previste dall'art. 3 esporrebbero, d'altro canto, il bene protetto  -
costituito dall'interesse dell'erario alla piena e rapida  percezione
dei tributi - a un pericolo concreto  «sicuramente  eguale»,  se  non
addirittura piu' elevato, rispetto a quello indotto dalle  operazioni
punite dall'art. 2. 
    In  base  all'interpretazione  piu'  diffusa,  le   due   ipotesi
criminose si porrebbero in  rapporto  di  specialita'  reciproca.  Al
nucleo comune di offensivita', costituito dalla presentazione di  una
dichiarazione infedele, si aggiungono, in chiave  specializzante,  da
un lato, l'utilizzazione di fatture o di documenti aventi un  rilievo
probatorio analogo,  relativi  a  operazioni  inesistenti  (art.  2);
dall'altro, il compimento di  operazioni  simulate  oggettivamente  o
soggettivamente, ovvero l'utilizzazione di documenti falsi o di altri
mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l'accertamento tributario (art.
3). 
    Un ulteriore indice della  sostanziale  omogeneita'  tra  le  due
disposizioni poste a raffronto si ricaverebbe  dalla  sovrapposizione
tra il concetto di «operazioni inesistenti», che compare nell'art. 2,
e quello di «operazioni simulate», che figura  nell'art.  3,  la  cui
distinzione dipenderebbe «esclusivamente dalla sussistenza o meno del
documento  contabile  nonche'  della  eventuale  copertura  cartolare
offerta dalla fattura». 
    Una  differenza  di  trattamento  cosi'  vistosa,  quale   quella
denunciata, non potrebbe  essere,  d'altronde,  giustificata  facendo
leva  sulla  particolare  efficacia   probatoria   attribuita   dalla
legislazione tributaria alla fattura o al documento ad essa  analogo.
Alla  luce  della  comune  esperienza,  non  si  potrebbe,   infatti,
escludere che il compimento di operazioni  simulate  e  l'impiego  di
mezzi fraudolenti siano idonei a indurre in errore  l'amministrazione
finanziaria  con  il  medesimo  -  se  non  maggiore  -   «grado   di
insidiosita'» dell'uso di fatture per operazioni inesistenti. 
    Al fine di rimuovere il riscontrato vulnus costituzionale,  senza
invadere  la  discrezionalita'   legislativa,   occorrerebbe   dunque
estendere alla fattispecie descritta dalla norma  censurata  entrambe
le soglie di punibilita' contemplate dall'art. 3. 
    2.- Si e' costituito A.C., imputato nel giudizio a quo, chiedendo
l'accoglimento della questione. 
    La  parte  privata  rileva  preliminarmente   come   il   sistema
sanzionatorio penale tributario sia stato,  di  recente,  oggetto  di
revisione ad opera del decreto legislativo 24 settembre 2015, n.  158
(Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell'articolo  8,
comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23). Nell'occasione, l'art.  2
del d.lgs. n. 74 del 2000 ha subito «una riforma in peius», in quanto
la sanzione penale e' stata estesa a tutte le dichiarazioni  relative
alle imposte sui redditi e all'IVA, anche  non  annuali.  Di  contro,
l'art. 3 sarebbe stato modificato «in melius», con l'innalzamento  di
una delle due soglie di punibilita'  (quella  relativa  all'ammontare
complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione,  portata
da un milione di euro a un milione e cinquecentomila euro). 
    Cio' premesso, la  parte  privata  osserva  come  la  sostanziale
identita' tra le fattispecie poste in comparazione  sia  testimoniata
dal fatto che, anteriormente al d.lgs. n. 74  del  2000,  esse  erano
punite in modo eguale  e  indistinto  a  titolo  di  «frode  fiscale»
dall'art. 4 del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429  (Norme  per  la
repressione della evasione in materia di imposte sui  redditi  e  sul
valore aggiunto e per agevolare  la  definizione  delle  pendenze  in
materia tributaria), convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto
1982, n. 516. 
    L'omogeneita' delle due fattispecie incriminatrici sarebbe,  poi,
confermata dalle incertezze interpretative in ordine ai  confini  tra
le  rispettive  aree  di  applicazione,  rivelatrici  delle   strette
interconnessioni tra esse esistenti. 
    La giurisprudenza di legittimita' si  e'  espressa,  infatti,  in
modo contrastante riguardo all'inquadrabilita', nell'una o nell'altra
ipotesi criminosa,  dell'utilizzo  di  fatture  materialmente  false.
Secondo alcune pronunce, tale condotta integrerebbe il delitto di cui
all'art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000,  giacche'  l'art.  2  punirebbe
solo l'uso di documentazione ideologicamente  falsa;  secondo  altre,
realizzerebbe invece il reato di  cui  all'art.  2,  in  quanto  tale
disposizione  reprimerebbe  l'utilizzazione  di  fatture  relative  a
operazioni inesistenti senza distinguere tra  falsita'  ideologica  e
falsita' materiale, attribuendo rilievo solo all'efficacia probatoria
del documento utilizzato a supporto della dichiarazione fraudolenta. 
    Ugualmente labile  sarebbe  la  distinzione  tra  i  concetti  di
«operazioni inesistenti» e di «operazioni simulate  oggettivamente  o
soggettivamente». La giurisprudenza di legittimita' antecedente  alla
riforma  del  2015  riteneva  che  le  operazioni   «soggettivamente»
simulate, riguardo all'IVA, dovessero essere punite a norma dell'art.
2 del d.lgs. n. 74 del 2000. Nella relazione redatta  il  28  ottobre
2015 a commento della riforma, l'Ufficio del massimario  della  Corte
di  cassazione  ha  prospettato,  di  contro,  la   possibilita'   di
distinguere le due condotte secondo un criterio «di tipo formale», in
base al quale l'elemento  che  tipizza  l'ipotesi  criminosa  di  cui
all'art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 sarebbe  l'efficacia  probatoria
del documento utilizzato (fattura o  documento  equivalente  in  base
alle norme tributarie). Il medesimo Ufficio ha,  peraltro,  posto  in
evidenza come tale interpretazione, oggi in effetti dominante, faccia
sorgere dubbi sulla ragionevolezza di un sistema che  diversifica  il
trattamento - non quanto alla pena, che e' identica, ma  in  rapporto
alla previsione di soglie di punibilita' nel solo art. 3 (oggi per di
piu' sensibilmente aumentate) - «fra condotte (l'utilizzo di  fatture
false, il compimento di operazioni simulate, l'uso di altri documenti
falsi o di ulteriori mezzi fraudolenti) tutte riconducibili all'unico
genus della frode fiscale e fra le quali non e' affatto certo  che  -
quanto meno in  determinate  fattispecie  -  proprio  quelle  di  cui
all'art. 3 non rappresentino, per  la  particolare  insidiosita',  un
pericolo concreto piu'  elevato  per  il  bene  giuridico  presidiato
dall'ordinamento». 
    3.- E' intervenuto, altresi', il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata  manifestamente
infondata. 
    In via preliminare, la difesa dello Stato  segnala  un  possibile
errore materiale dell'ordinanza di rimessione  nella  quantificazione
dell'evasione di IVA  che  sarebbe  derivata,  nel  caso  di  specie,
dall'utilizzazione della seconda delle  due  fatture  per  operazioni
inesistenti (l'ammontare corretto, tenuto  conto  dell'importo  della
fattura, sarebbe euro 3.600, anziche' euro 2.436):  errore  materiale
che non inciderebbe, comunque sia, sulla rilevanza della questione. 
    Nel merito, l'Avvocatura dello Stato assume che le fattispecie di
reato poste a raffronto dal giudice a quo - benche' dirette  entrambe
a   tutelare   l'attivita'   di   accertamento   dell'amministrazione
finanziaria - sarebbero profondamente diverse tra loro. Il delitto di
cui all'art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 costituirebbe  un  reato  di
pericolo, essendo sufficiente, per la sua  configurabilita',  che  la
dichiarazione si fondi su fatture, o altri  documenti  analoghi,  per
operazioni  inesistenti.   La   norma   incriminatrice   risulterebbe
strettamente correlata a quella del successivo art.  8,  che  prevede
l'ipotesi inversa di chi emette o rilascia fatture o altri  documenti
per operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi  di  evadere
l'IVA o le imposte sui redditi, assoggettandola  alla  medesima  pena
(reclusione da un anno e sei mesi a sei anni). 
    L'art. 3 contemplerebbe,  invece,  un  reato  di  danno,  essendo
necessaria,  per  la  sua   realizzazione,   una   concreta   lesione
dell'interesse del fisco alla tempestiva ed integrale percezione  del
tributo. La disposizione prevede, infatti, che i  documenti  falsi  o
gli altri mezzi fraudolenti  debbano  essere  «idonei  ad  ostacolare
l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria». 
    Tale diversa natura delle  fattispecie  delittuose  escluderebbe,
gia' da sola, la pretesa irragionevolezza del loro differente  regime
punitivo. 
    L'interveniente reputa, in  ogni  caso,  infondata  la  tesi  del
giudice rimettente, secondo la quale le condotte previste dall'art. 3
del d.lgs. n. 74 del 2000 esporrebbero il bene protetto a un pericolo
non inferiore a quello determinato dalle operazioni punite  dall'art.
2. Sarebbe, di contro, innegabile che l'utilizzazione  di  fatture  o
altri documenti equiparati  per  operazioni  inesistenti  costituisca
condotta maggiormente offensiva, rispetto all'utilizzazione di  altri
documenti non veridici che  hanno  un  diverso  ruolo  rispetto  agli
obblighi tributari. 
    La fattura e', infatti, il documento principale  nel  particolare
meccanismo dell'IVA, la quale, a sua volta, e' un'imposta armonizzata
a livello europeo. Dal combinato disposto degli artt. 19, comma 1,  e
21, commi  1,  4,  5  e  6,  del  d.P.R.  26  ottobre  1972,  n.  633
(Istituzione  e  disciplina  dell'imposta  sul  valore  aggiunto)  si
desume, in specie, che  l'emissione  della  fattura  determina  tanto
l'insorgenza dell'obbligo - di regola per il cedente o il  prestatore
- di versare l'imposta, quanto la nascita del diritto alla detrazione
dell'imposta in capo al cessionario del bene  o  al  committente  del
servizio. Ed e' proprio su tale detrazione che si inseriscono i  noti
meccanismi di frode al fisco, quali, ad esempio, le cosiddette  frodi
carosello. 
    Anche  ai  fini  delle  imposte  dirette,  peraltro,  la  fattura
svolgerebbe un ruolo di tutto rilievo, consentendo la  deduzione  dei
costi ivi riportati. 
    La  scelta  legislativa  di   reprimere   con   sanzioni   penali
l'emissione e l'utilizzazione di fatture per operazioni  inesistenti,
lungi dal risultare irrazionale, si rivelerebbe, pertanto, necessaria
al fine di garantire l'idoneita' dei controlli da parte del fisco. Al
tempo stesso, la peculiare funzione che la fattura assolve  in  campo
tributario  giustificherebbe   una   previsione   sanzionatoria   che
«prescinda dall'importo della operazione  inesistente  (indicata  nel
documento  come  reale)»,  configurando  come  ipotesi  di  effettivo
pericolo  «il  solo  fatto  della  utilizzazione  di   un   documento
ideologicamente falso». 
    4.-  La  parte  privata  ha  depositato  una  memoria,  intesa  a
replicare alle difese dell'Avvocatura dello Stato. 
    Secondo la parte costituita  sarebbe  erronea,  in  primo  luogo,
l'affermazione dell'Avvocatura, in base alla quale le due fattispecie
avrebbero diversa natura,  essendo  l'una  un  reato  di  pericolo  e
l'altra un reato di danno. 
    La formula descrittiva  delle  condotte  incriminate  renderebbe,
infatti, evidente come entrambe le ipotesi delittuose ruotino attorno
a  un  doppio  disvalore:  da  un  lato,   un   danno   patrimoniale,
rappresentato dal minor gettito fiscale; dall'altro,  un  danno  alla
funzione   di    accertamento    dell'amministrazione    finanziaria,
conseguente  al  ricorso  a  uno  strumento  ingannatorio.  Il  primo
contenuto offensivo - insito nel fatto che le  due  norme  richiedono
una evasione di imposta, rappresentata, in base alla  definizione  di
cui all'art. 1, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 74 del 2000, dalla
differenza tra l'imposta dichiarata e quella dovuta  -  costituirebbe
il nucleo di un evento di danno  erariale,  con  la  conseguenza  che
sarebbe inesatto concludere che si tratti di reato di mero pericolo. 
    Nel senso  della  natura  di  reato  di  danno  deporrebbe  anche
l'elemento psicologico del delitto previsto dall'art. 2 del d.lgs. n.
74 del 2000, rappresentato  dal  «fine  di  evadere  le  imposte  sui
redditi e sul valore aggiunto», il  quale  svolgerebbe  una  funzione
anche a livello oggettivo, implicando quanto meno  l'idoneita'  della
condotta a raggiungere lo scopo perseguito e, quindi, a offendere  il
bene giuridico protetto. 
    Parimente   non   condivisibile    sarebbe    l'ulteriore    tesi
dell'Avvocatura dello Stato, stando alla quale il  differente  regime
delle due fattispecie sarebbe giustificato dalla  particolare  natura
del documento usato per commettere la frode. Alla luce  dell'avvenuta
riscrittura della norma incriminatrice di cui all'art. 3  del  d.lgs.
n. 74 del 2000 - nella quale e' stato, in particolare,  eliminato  il
riferimento alla «falsa rappresentazione  nelle  scritture  contabili
obbligatorie»  e  inserita  una  piu'  articolata  descrizione  delle
condotte   artificiose   -   nonche'   della   previsione    punitiva
dell'emissione  di  fatture  o   altri   documenti   per   operazioni
inesistenti, di cui all'art. 8 del medesimo decreto  legislativo,  si
dovrebbe ritenere che l'utilizzazione di  una  fattura  materialmente
falsa a sostegno di una  dichiarazione  mendace  ricada  nella  sfera
applicativa del citato art. 3 - sub specie di uso di documenti  falsi
o di mezzo fraudolento - e non in quello  dell'art.  2  (che  avrebbe
riguardo al solo falso ideologico). 
    Cio' renderebbe evidente l'omogeneita' delle due figure criminose
e, con essa, la manifesta irragionevolezza della mancata  previsione,
nell'art.  2  censurato,  delle  medesime   soglie   di   punibilita'
prefigurate nel successivo art. 3. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Palermo dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000,  n.
74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte  sui  redditi  e
sul valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della  legge  25  giugno
1999, n. 205), «nella parte  in  cui  non  prevede  che  la  condotta
delittuosa ivi  descritta  sia  punibile  quando  congiuntamente:  a)
l'imposta evasa e' superiore, con riferimento a taluna delle  singole
imposte,  ad  euro  trentamila;  b)  l'ammontare  complessivo   degli
elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione
di elementi  passivi  fittizi,  e'  superiore  al  cinque  per  cento
dell'ammontare  complessivo  degli  elementi   attivi   indicati   in
dichiarazione,   o   comunque,   superiore   ad   euro   un   milione
cinquecentomila, ovvero qualora l'ammontare complessivo dei crediti e
delle ritenute fittizie in diminuzione dell'imposta, e' superiore  al
cinque per cento dell'ammontare dell'imposta medesima  o  comunque  a
euro trentamila». 
    Il giudice  a  quo  lamenta,  in  sostanza,  che  il  delitto  di
dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o  altri  documenti
per operazioni inesistenti - delineato dalla  norma  censurata  e  in
rapporto al quale  non  e'  attualmente  prevista  alcuna  soglia  di
punibilita' - non sia invece assoggettato  alle  medesime  soglie  di
punibilita' contemplate dall'art. 3 del d.lgs.  n.  74  del  2000  in
rapporto al  delitto  di  dichiarazione  fraudolenta  mediante  altri
artifici. 
    Ad avviso del rimettente, la disparita' di trattamento fra le due
fattispecie  risulterebbe  arbitraria,  e  percio'  contrastante  con
l'art. 3 della  Costituzione.  Le  due  figure  criminose  sarebbero,
infatti, del tutto omogenee, per struttura e oggettivita'  giuridica,
e, d'altra parte, le condotte incriminate dall'art. 3 del  d.lgs.  n.
74 del 2000 esporrebbero il  bene  giuridico  protetto  -  costituito
dall'interesse dell'erario alla piena e rapida percezione dei tributi
- a un pericolo concreto uguale, se  non  addirittura  piu'  elevato,
rispetto a quello generato dalle operazioni punite dall'art. 2. 
    2.- La questione non e' fondata. 
    Lo scrutinio  cui  e'  chiamata  questa  Corte  ha,  quale  unico
parametro,  l'art.  3  Cost.,  che  si  assume   violato   a   motivo
dell'asserita manifesta irragionevolezza della scelta legislativa  di
non prevedere,  per  il  delitto  in  esame,  soglie  di  punibilita'
omologhe a quelle prefigurate in  rapporto  al  finitimo  delitto  di
dichiarazione fraudolenta mediante  altri  artifici:  soglie  la  cui
introduzione avrebbe ovviamente l'effetto di restringere il perimetro
applicativo  della   fattispecie   criminosa,   rendendo   penalmente
irrilevanti  i  fatti  che  non  attingano  ai  livelli  quantitativi
stabiliti. 
    Le coordinate dello scrutinio risultano,  dunque,  segnate  dalla
nota e costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la  quale  la
configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione  della
pena  per  ciascuna  di  esse  costituiscono  materia  affidata  alla
discrezionalita' del legislatore. Gli apprezzamenti  in  ordine  alla
"meritevolezza" e al "bisogno di pena"  -  dunque,  sull'opportunita'
del ricorso alla tutela penale e sui livelli ottimali della stessa  -
sono, infatti, per loro natura, tipicamente politici (sentenza n. 394
del  2006).  Le  scelte  legislative   in   materia   sono   pertanto
censurabili, in sede di  sindacato  di  legittimita'  costituzionale,
solo ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o  nell'arbitrio
(ex plurimis, sentenze n. 273 e n. 47 del 2010, ordinanze n. 249 e n.
71  del  2007,  nonche',  con  particolare  riguardo  al  trattamento
sanzionatorio, sentenze n. 179 del 2017, n. 236 e n. 148  del  2016),
come avviene quando ci si trovi a fronte di diversita' di  disciplina
tra  fattispecie  omogenee  non  sorrette   da   alcuna   ragionevole
giustificazione (tra le altre, sentenze n. 40 del 2019, 35 del  2018,
n. 79 e n. 23 del 2016, n. 185  del  2015  e  n.  68  del  2012).  Il
confronto tra fattispecie  normative,  finalizzato  a  verificare  la
ragionevolezza  delle   scelte   legislative,   presuppone,   dunque,
necessariamente l'omogeneita' delle ipotesi in comparazione (sentenze
n. 35 del 2018 e n. 161 del 2009; ordinanza n. 41 del 2009). 
    3.- Nel  caso  in  esame,  di  la'  dai  profili  di  omogeneita'
effettivamente esistenti, resta, peraltro, il fatto che,  tramite  la
norma censurata, il  legislatore  ha  inteso  "isolare",  nell'ambito
dell'ampia gamma dei mezzi fraudolenti utilizzabili a supporto di una
dichiarazione  mendace,  uno  specifico  artificio,  al  quale  viene
annesso, sulla base dell'esperienza,  uno  spiccato  coefficiente  di
"insidiosita'" per gli interessi dell'erario. 
    La disposizione denunciata punisce, infatti,  chi,  «al  fine  di
evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi  di
fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica  in  una
delle  dichiarazioni  relative  a  dette  imposte  elementi   passivi
fittizi» (l'aggettivo «annuali», che originariamente  qualificava  in
funzione limitativa il sostantivo «dichiarazioni», e' stato soppresso
dall'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 24 settembre  2015,  n.
158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell'articolo
8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23).  In  base  alla  norma
definitoria di cui all'art. 1, comma 1, lettera a), del d.lgs. n.  74
del 2000, per «fatture o altri documenti per operazioni  inesistenti»
si intendono  «le  fatture  o  gli  altri  documenti  aventi  rilievo
probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte  di
operazioni non realmente  effettuate  in  tutto  o  in  parte  o  che
indicano i corrispettivi o l'imposta sul valore  aggiunto  in  misura
superiore a quella  reale,  ovvero  che  riferiscono  l'operazione  a
soggetti diversi da quelli effettivi». Il fenomeno avuto di mira  e',
dunque,  quello  della  falsa  fatturazione   intesa   a   comprovare
operazioni in tutto o in parte non eseguite  -  in  assoluto,  o  dai
soggetti ai quali esse vengono riferite - ovvero con corrispettivi  o
IVA "gonfiati", in funzione di una  indebita  deduzione  di  costi  o
detrazione di imposta da parte del contribuente. 
    L'intento del legislatore di contrastare con rigore  il  fenomeno
si e' manifestato non soltanto nella mancata previsione di soglie  di
punibilita'  per  il  delitto  che  qui  interessa  -  che   colpisce
l'utilizzatore delle fatture - ma anche nella configurazione  di  uno
speculare delitto in capo all'emittente, egualmente privo  di  soglie
(art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000): delitto  che  si  pone  come  una
eccezionale deviazione rispetto alla fondamentale  linea  ispiratrice
della   riforma   penale   tributaria   del    2000,    rappresentata
dall'abbandono  dello  schema  del  cosiddetto   "reato   prodromico"
all'evasione  d'imposta  (caratteristico  del  sistema   precedente).
L'emissione  di  documentazione  per  operazioni  inesistenti  viene,
infatti, punita ex se, indipendentemente dalla concreta utilizzazione
del documento falso da parte di terzi a scopo di evasione fiscale. 
    Si e', dunque, di fronte  a  una  precisa  strategia,  espressiva
dell'ampia discrezionalita' del legislatore in  materia  di  politica
criminale (con riguardo al delitto di cui all'art. 8 del d.lgs. n. 74
del 2000, sentenza n. 49 del 2002): strategia che,  dopo  la  riforma
del 2000, e' stata ulteriormente ribadita e rafforzata.  Il  comma  3
dell'art.  2  del  d.lgs.  n.  74   del   2000   prevedeva   infatti,
originariamente, una pena decisamente piu' mite (la reclusione da sei
mesi a due anni) quando l'ammontare degli  elementi  passivi  fittizi
esposti  in  dichiarazione  sulla  base  delle  false  fatture  fosse
inferiore a euro 154.937,07. Tale circostanza attenuante speciale  (o
ipotesi autonoma attenuata, secondo altra qualificazione)  e'  stata,
tuttavia, soppressa - al pari di quella speculare di cui al  comma  3
dell'art. 8 del d.lgs. 74 del 2000 -  dall'art.  2,  comma  36-vicies
semel, del decreto-legge 13 agosto 2011,  n.  138  (Ulteriori  misure
urgenti per  la  stabilizzazione  finanziaria  e  per  lo  sviluppo),
aggiunto dalla legge di conversione 14 settembre 2011,  n.  148,  nel
quadro di un intervento di innalzamento del  livello  di  "attenzione
penalistica" in campo tributario. 
    4.- Tale strategia legislativa non puo'  essere,  d'altro  canto,
considerata manifestamente irragionevole o arbitraria,  tenuto  conto
del particolare ruolo che la fattura e i documenti ad essa equiparati
sul piano probatorio dalla normativa  fiscale  assolvono  nel  quadro
dell'adempimento  degli  obblighi  del  contribuente,  nonche'  della
capacita'  di  sviamento  dell'attivita'  accertativa  degli   uffici
finanziari che l'artificio in questione possiede. 
    Come nota anche l'Avvocatura dello Stato, la  fattura  assume  un
ruolo fondamentale nel sistema di  applicazione  dell'IVA  -  tributo
armonizzato a livello di diritto dell'Unione  europea  (segnatamente,
in base alla direttiva 2006/112/CE  del  Consiglio  del  28  novembre
2006, relativa al sistema comune d'imposta  sul  valore  aggiunto)  -
perche'  garantisce  l'attuazione  del  principio  della  neutralita'
dell'imposta rispetto ai soggetti  passivi,  mediante  il  meccanismo
della rivalsa e della detrazione. In particolare,  l'emissione  della
fattura, oltre a determinare l'insorgenza di un debito  d'imposta  in
capo al cedente o al prestatore di servizio, legittima il cessionario
o committente,  che  sia  anche  soggetto  passivo,  alla  detrazione
dell'IVA indicata nel documento  o,  eventualmente,  a  chiederne  il
rimborso all'amministrazione finanziaria (artt.  19  e  seguenti  del
d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633,  recante  «Istituzione  e  disciplina
dell'imposta sul valore aggiunto»). Meccanismo, questo, che si presta
ad essere strumentalizzato per frodare il fisco. 
    Anche con riguardo alle imposte  dirette,  peraltro,  la  fattura
passiva  (o  documento  equiparato)  assolve  un  ruolo  di  rilievo,
costituendo lo strumento tipico attraverso il quale  il  contribuente
attesta il proprio diritto a dedurre voci di spesa dalla propria base
imponibile o a effettuare detrazioni dall'imposta, in  conformita'  a
quanto previsto dalla legislazione tributaria. 
    Secondo  un  consolidato  orientamento  della  giurisprudenza  di
legittimita', d'altra parte, la fattura  costituisce  titolo  per  il
contribuente ai fini del diritto  alla  detrazione  dell'IVA  e  alla
deduzione dei costi: con la conseguenza che, a fronte di essa, spetta
all'amministrazione   finanziaria   dimostrare   il   difetto   delle
condizioni per l'insorgenza di tale diritto. In particolare, nel caso
in  cui  l'ufficio  ritenga  che  la  fattura   concerne   operazioni
inesistenti,  e'  su  di  esso  che  grava  l'onere  di  provare  che
l'operazione fatturata non e' stata realmente effettuata,  o  che  e'
stata effettuata tra soggetti diversi da quelli in essa indicati  (ex
plurimis, tra le ultime, Corte di cassazione, sezione quinta  civile,
sentenza 15 dicembre 2017, n. 30148; ordinanze 19  ottobre  2018,  n.
26453 e 5 luglio 2018, n. 17619). 
    5.- In quest'ottica, non puo', dunque, considerarsi arbitraria la
scelta  legislativa   di   riservare   alla   specifica   fattispecie
considerata un trattamento distinto e piu' severo  -  sul  piano  non
della reazione punitiva, ma delle soglie di punibilita' -  di  quello
prefigurato in rapporto alla  generalita'  degli  altri  artifici  di
supporto di una dichiarazione mendace (anche  di  tipo  documentale):
artifici dei quali si occupa l'art. 3 del d.lgs. n.  74  del  2000  -
costituente  norma  incriminatrice  sussidiaria,  come   attesta   la
clausola di  riserva  con  cui  essa  esordisce  («[f]uori  dei  casi
previsti dall'articolo 2»)  -  e  che  comprendono,  attualmente,  il
compimento di «operazioni simulate oggettivamente o  soggettivamente»
e l'impiego «di documenti falsi o di altri mezzi  fraudolenti  idonei
ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione
finanziaria».  Escludendo  che  nell'ipotesi  in  esame  la  reazione
punitiva   resti   collegata    alla    "consistenza    quantitativa"
dell'evasione, il legislatore ha inteso, in particolare, far emergere
lo speciale disvalore "di azione" che, nel suo apprezzamento - in se'
non manifestamente irragionevole - la specifica fattispecie presenta. 
    L'affermazione del giudice a quo - stando alla quale le  condotte
descritte  dall'art.  3  potrebbero  «rappresentare,  per   la   loro
particolare insidiosita', un pericolo in concreto sicuramente  eguale
(se non piu' elevato) per  il  bene  giuridico»,  rispetto  a  quelle
punite  dall'art.  2  -  appare  in  se'  apodittica,   non   essendo
accompagnata dal riferimento ad alcuna ipotesi che valga a dimostrare
l'assunto. 
    Non sarebbe  utile,  in  ogni  caso,  richiamare  la  fattispecie
dell'utilizzazione (anche in funzione di gonfiamento  dei  costi)  di
«documenti falsi» diversi dalla fattura (e privi  di  analogo  valore
probatorio), ora contemplata dall'art. 3.  E'  agevole,  in  effetti,
osservare che anche il sistema dei  reati  di  falso,  delineato  dal
codice penale, prevede tradizionalmente trattamenti differenziati  in
ragione della natura del documento su cui cade la condotta. E  cosi',
la falsita' in  testamento  olografo,  cambiale  o  altro  titolo  di
credito trasmissibile per girata o al portatore (art. 491 del  codice
penale)  e'  punita  piu'  severamente  della  generica  falsita'  in
(qualsiasi  altra)  scrittura   privata   (art.   485   cod.   pen.):
fattispecie,  quest'ultima,  attualmente  addirittura   depenalizzata
(art. 4, comma 4, lettera a, del decreto legislativo 15 gennaio 2016,
n. 7, recante «Disposizioni in materia  di  abrogazione  di  reati  e
introduzione di illeciti con  sanzioni  pecuniarie  civili,  a  norma
dell'articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67»). 
    La   validita'   della   conclusione   non   risulta    inficiata
dall'esistenza dei contrasti interpretativi, cui fa  cenno  la  parte
privata, relativi al trattamento  da  riservare  all'uso  di  fatture
materialmente false, ossia di fatture formate da soggetto diverso  da
colui che appare come emittente,  ovvero  alterate  dopo  l'emissione
(ipotesi  che  non  si  deduce,  peraltro,  ricorrere  nel   giudizio
principale). Secondo la giurisprudenza di legittimita' piu'  recente,
tale condotta ricadrebbe nella sfera applicativa dell'art. 2,  e  non
in quella, residuale, dell'art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000. In  base
a  tale  soluzione  interpretativa  le  due   figure   criminose   si
distinguono, infatti, non per la natura - ideologica  o  materiale  -
del falso, ma per le caratteristiche del documento impiegato:  quello
che qualifica l'ipotesi criminosa di cui all'art. 2 e' la particolare
efficacia  probatoria,  in  base   alle   norme   tributarie,   della
documentazione di cui il contribuente si avvale (Corte di cassazione,
sezione terza penale, sentenza 10 novembre 2011-19 dicembre 2011,  n.
46785; in senso analogo, altresi', da ultimo,  Corte  di  cassazione,
sezione terza penale, 25 ottobre  2018-11  febbraio  2019,  n.  6360;
sezione feriale, sentenza 31 agosto 2017-17 ottobre 2017, n.  47603).
Conclusione   che   non   contraddice,   comunque   sia,   la   ratio
giustificatrice  del  trattamento  differenziato  dianzi   posta   in
evidenza. 
    Considerazioni analoghe, mutatis mutandis, possono formularsi con
riguardo all'ulteriore rilievo,  svolto  tanto  dal  giudice  a  quo,
quanto dalla parte privata,  relativo  alla  sovrapposizione  tra  il
concetto di «operazioni inesistenti» - sintagma presente nell'art.  2
e definito, come si e' visto, dall'art. 1, comma 1, lettera  a),  del
d.lgs. n. 74 del  2000  -  e  il  concetto  di  «operazioni  simulate
oggettivamente   o   soggettivamente»   -   impiegato    nell'attuale
formulazione dell'art. 3 e definito della lettera g-bis)  del  citato
art. 1 (aggiunta dall'art. 1, comma 1, lettera d, del d.lgs.  n.  158
del 2015). 
    A mente di quest'ultima, le operazioni «simulate  oggettivamente»
sono quelle «apparenti [...] poste in essere con la volonta'  di  non
realizzarle in tutto o in  parte»:  con  il  che  esse  sembrano,  in
effetti, sovrapporsi alle «operazioni oggettivamente inesistenti», in
quanto  «non  realmente  effettuate  in  tutto  in  parte»,  cui   fa
riferimento la lettera a) del comma 1 dell'art. 1 del  d.lgs.  n.  74
del 2000. Le operazioni «simulate soggettivamente»  -  che  ai  sensi
della  lettera  g-bis)  sono  «le  operazioni  riferite  a   soggetti
fittiziamente  interposti»  -  si  sovrappongono   alle   «operazioni
soggettivamente inesistenti», e cioe' riferite «a soggetti diversi da
quelli effettivi» (lettera a del comma 1 dell'art. 1 del d.lgs. n. 74
del 2000). 
    Al riguardo, la Corte di cassazione ha gia' avuto modo, peraltro,
di qualificare come «totalmente infondata» la  tesi  in  forza  della
quale l'inserimento della nuova lettera g-bis) nell'art. 1, comma  1,
del d.lgs. n. 74 del 2000 avrebbe comportato l'attrazione nell'ambito
del delitto di cui all'art. 3 di  ipotesi  in  precedenza  ricomprese
nella sfera applicativa del delitto  di  cui  all'art.  2.  Cio'  che
discrimina le due fattispecie non e' la natura dell'operazione, ma il
modo in cui e' documentata: si applica,  cioe',  l'art.  2  tutte  le
volte  in  cui  alla  realizzazione  dell'operazione  si   accompagni
l'emissione e l'utilizzazione di fatture o documenti analoghi  (Corte
di cassazione, sezione  terza  penale,  sentenza  11  aprile  2017-1°
agosto 2017, n. 38185). 
    In tal modo, il ragionamento dianzi svolto trova nuova  conferma:
lo  scarto  di  rilevanza  tra  le  operazioni  simulate  documentate
mediante fatture o documenti equipollenti e  le  operazioni  simulate
documentate in  modo  diverso  trova  spiegazione  nella  particolare
capacita'  probatoria  delle  fatture  e  documenti  analoghi  e,  di
riflesso, nella maggiore capacita' decettiva delle falsita'  commesse
tramite tali documenti. 
    Meno ancora, da  ultimo,  giova  far  riferimento  a  fattispecie
riconducibili alla generica nozione di «altri mezzi fraudolenti» -  a
titolo di esempio, la tenuta di una "contabilita' nera", accompagnata
da un sistema informatico  di  travisamento  dei  dati  nel  caso  di
controllo fiscale, o la creazione  di  "societa'  di  comodo",  sulle
quali "travasare" i redditi del contribuente - ma che non  hanno,  in
se', alcuna "assonanza" con l'utilizzazione di fatture per operazioni
inesistenti. Vale, infatti, in tal caso,  il  rilievo  che  si  e'  a
fronte di fattispecie eterogenee e, dunque, non utilmente comparabili
al  fine  di  farne  discendere  una  violazione  del  principio   di
eguaglianza: la valutazione di uguale o  maggiore  pericolosita'  per
l'erario delle condotte in questione, formulata dal  giudice  a  quo,
esprimerebbe  una  sua  convinzione  personale,  che   non   potrebbe
surrogarsi a quella del legislatore. 
    6.- Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione va
dichiarata, dunque, non fondata.