ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), promosso dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, nel procedimento penale a carico di N. M., con ordinanza del 22 marzo 2018, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 2018. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 6 febbraio 2019 il Giudice relatore Marta Cartabia. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 22 marzo 2018, la Corte di cassazione, prima sezione penale, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dell'art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), «nella parte in cui detta previsione di legge non prevede la applicazione della detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di grave infermita' psichica sopravvenuta durante l'esecuzione della pena». L'ordinanza di rimessione espone che, nel caso sottoposto al giudice rimettente, un detenuto condannato per concorso in rapina aggravata aveva fatto ricorso avverso un'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che non aveva accolto la sua richiesta di differimento della pena per grave infermita' ai sensi dell'art. 147 del codice penale, in quanto applicabile solo ai casi di grave infermita' fisica, mentre nel caso di specie il detenuto risultava affetto da «grave disturbo misto di personalita', con predominante organizzazione border line in fase di scompenso psicopatologico», accertato in seguito a gravi comportamenti autolesionistici. Al momento in cui il Tribunale di sorveglianza si pronunciava, la pena residua da espiare era di sei anni, quattro mesi e ventuno giorni. L'ordinanza di rimessione riferisce che si tratta di una patologia grave e radicata nel tempo, per la quale la detenzione determina un trattamento contrario al senso di umanita'. 2.- Dopo avere precisato, in via preliminare, che anche la fase del giudizio di legittimita' risulta idonea alla proposizione dell'incidente di costituzionalita', la Corte rimettente conferma il proprio costante orientamento, fatto proprio anche dal provvedimento del Tribunale di sorveglianza, secondo cui il detenuto portatore di infermita' esclusivamente di tipo psichico sopravvenuta alla condanna non puo' accedere ne' agli istituti del differimento obbligatorio o facoltativo della pena previsti dagli artt. 146 e 147 cod. pen., ne' alla detenzione domiciliare cosiddetta "in deroga" di cui alla disposizione censurata, posto che nel testo di tale disposizione vengono richiamate esclusivamente le condizioni di infermita' fisica di cui agli artt. 146 e 147 cod. pen., e non anche quelle relative alla infermita' psichica sopravvenuta evocate nel testo dell'art. 148 cod. pen. Pertanto, solo in presenza di ricadute della patologia psichica sul complessivo assetto funzionale dell'individuo risulta possibile attivare le garanzie previste dagli artt. 146 e 147 cod. pen. 3.- La Corte rimettente si interroga sull'applicabilita' dell'art. 148 cod. pen. o di altre forme alternative alla detenzione in carcere, per i casi di infermita' psichica sopravvenuta alla condanna; in particolare considera la misura alternativa della detenzione domiciliare "in deroga". 3.1.- La Corte di cassazione ritiene che «[n]ell'attuale momento storico e' da ritenersi che la disposizione di legge di cui all'art. 148 cod. pen. sia inapplicabile per effetto di abrogazione implicita derivante dal contenuto degli interventi legislativi succedutisi tra il 2012 e il 2014», che hanno previsto la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e che, nel creare le residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), operanti su base regionale, non hanno previsto che esse subentrassero nelle funzioni accessorie di cui all'art. 148 cod. pen. gia' svolte dagli OPG, dato che le vigenti disposizioni di legge indicano le REMS come luoghi di esecuzione delle sole misure di sicurezza (provvisorie o definitive). Ne' rileverebbe, in contrario, la previsione dell'art. 16, comma 1, lettera d) [recte: art. 1, comma 16, lettera d], della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario), ove si prevede l'assegnazione alle REMS anche dei soggetti portatori di infermita' psichica sopravvenuta durante l'esecuzione, in ipotesi di inadeguatezza dei trattamenti praticati in ambito penitenziario, «trattandosi, per l'appunto, di delega non ancora tradotta in una o piu' disposizioni concretamente applicabili». L'impossibilita' di ritenere che le REMS siano succedute nelle funzioni in precedenza svolte dagli OPG in base all'art. 148 cod. pen. sarebbe del resto confermata dal fatto che il processo di superamento degli OPG e' stato accompagnato dalla realizzazione, all'interno degli istituti penitenziari ordinari, di «apposite sezioni denominate "articolazioni per la tutela della salute mentale"» e dedicate all'accoglienza dei detenuti appartenenti a specifiche categorie giuridiche in precedenza ospitati negli OPG per le necessarie cure e assistenza psichiatriche. Secondo il giudice rimettente, dunque, il sistema normativo attuale tratterebbe in modo differente il soggetto portatore di un'infermita' psichica tale da escludere la capacita' di intendere o di volere al momento della commissione del fatto - il quale, li' dove si riscontri pericolosita' sociale, viene sottoposto al trattamento riabilitativo presso le REMS, strutture ad esclusiva gestione sanitaria - rispetto al soggetto in esecuzione di pena portatore di patologia psichica sopravvenuta, che resta detenuto e ove possibile e' allocato presso una delle articolazioni per la tutela della salute mentale poste all'interno del circuito penitenziario. Si tratterebbe di due categorie soggettive indubbiamente non pienamente assimilabili, ove si consideri il rapporto tra patologia e imputabilita' (si richiama la sentenza n. 111 del 1996); tuttavia, osserva il giudice a quo, «la condizione vissuta dai secondi e' del tutto assimilabile, quantomeno sul piano delle prevalenti necessita' terapeutiche, a quella dei non imputabili». L'assenza di alternative alla detenzione per i condannati affetti da grave patologia psichica determinerebbe un dubbio di legittimita', sufficiente ad attivare l'incidente di costituzionalita'. 3.2.- La Corte di cassazione afferma che allo stato attuale della normativa non sussistono alternative alla detenzione carceraria per una persona nelle condizioni in cui versa il ricorrente, e cioe' per un soggetto in esecuzione pena con residuo superiore a quattro anni (o per reato ricompreso nella elencazione di cui all'art. 4-bis ordin. penit.) affetto da patologia psichica sopravvenuta, «stante da un lato la impossibilita' di usufruire, per assenza dei presupposti di accessibilita', della detenzione domiciliare ordinaria (art. 47-ter, comma 1 ord. pen.), dall'altro la gia' segnalata impossibilita' di accedere, per il criterio della interpretazione letterale, alla detenzione domiciliare "in deroga" di cui all'art. 47-ter, comma 1 ord. pen.», posto che la disposizione permette l'applicazione di tale misura nei casi in cui potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 cod. pen., i quali a loro volta si riferiscono alla grave infermita' fisica e non a quella psichica. Ne' sarebbe possibile estendere la detenzione domiciliare "in deroga" di cui alla disposizione censurata anche alla grave infermita' psichica in forza di un'interpretazione conforme a Costituzione dell'attuale sistema normativo; a cio' osterebbero sia il dato testuale sia l'intenzione del legislatore. L'assetto normativo attuale, in definitiva, impedirebbe al condannato affetto da grave infermita' psichica sopravvenuta, qualora il residuo di pena sia superiore a quattro anni o si trovi in espiazione per reato ostativo, di accedere sia all'istituto del differimento della pena (artt. 146 e 147 cod. pen.), sia al ricovero in OPG di cui all'art. 148 cod. pen., sia alla collocazione nelle REMS, sia alla detenzione domiciliare "in deroga". Inoltre, la situazione del detenuto portatore di questo tipo di infermita' sarebbe caratterizzata da aspetti di manifesto regresso trattamentale dato che, da una parte, l'ingresso nelle articolazioni per la salute mentale non e' oggi frutto di una decisione giurisdizionale, come invece era in passato per il collocamento in OPG, bensi' di una decisione dell'amministrazione, la cui discrezionalita' tra l'altro e' condizionata da fattori non dominabili quali il sovraffollamento delle strutture; e, dall'altra parte, l'idoneita' del trattamento praticabile all'interno di tali articolazioni non e' previamente verificato in sede giurisdizionale da parte della magistratura di sorveglianza. In particolare, proprio l'impossibilita' di accedere alla misura alternativa della detenzione domiciliare "in deroga" di cui all'art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit. si porrebbe in contrasto con numerosi principi sia costituzionali sia convenzionali, sicche' si imporrebbe la necessita' di rivalutare i contenuti di precedenti decisioni costituzionali sul tema, in particolare si richiama la sentenza n. 111 del 1996 di questa Corte. 4.- Quanto ai parametri costituzionali interni, la Corte di cassazione denuncia la violazione degli artt. 2, 3, 27 e 32 Cost. Dalla giurisprudenza costituzionale, infatti, si ricaverebbero alcune linee-guida sul sistema dell'esecuzione penale il quale, per essere costituzionalmente compatibile, dovrebbe offrire: «a) opportunita' giurisdizionali di verifica in concreto della condizione patologica; b) strumenti giuridici di contemperamento dei valori coinvolti che siano tali da consentire la sospensione della esecuzione o la modifica migliorativa delle condizioni del singolo, li' dove le ricadute della patologia finiscano con l'esporre il bene primario della salute individuale a compromissione, si' da concretizzare - in ipotesi di mantenimento della condizione detentiva - un trattamento contrario al senso di umanita' (art. 27, comma 3 Cost.) o inumano o degradante (con potenziale violazione dell'art. 3 Convenzione Edu)» (si citano, con ampi richiami testuali, le sentenze n. 438 del 1995, n. 70 del 1994 e n. 313 del 1990). Le opportunita' di contemperamento dei valori in gioco, e la stessa giurisdizionalita' piena dell'intervento, sarebbero invece compromesse da un assetto normativo come quello attuale, che vede come unica risposta il mantenimento della condizione detentiva del soggetto affetto da infermita' psichica sopravvenuta e l'affidamento al servizio sanitario reso in ambito penitenziario. In particolare, anche a fronte della avvenuta constatazione di inadeguatezza di simile trattamento, non risulterebbe consentita - allo stato - ne' la sospensione dell'esecuzione, ne' l'approdo alla detenzione domiciliare "in deroga" nei casi in cui non risulti applicabile quella ordinaria. Alla luce dei mutamenti del quadro normativo, pertanto, assumerebbe nuovo significato il monito al legislatore rivolto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 111 del 1996, in cui la Corte, posta di fronte al dubbio di legittimita' costituzionale dell'art. 148 cod. pen., pur condividendo il «non soddisfacente trattamento riservato all'infermita' psichica grave sopravvenuta, specie quando e' incompatibile con l'unico tipo di struttura custodiale oggi prevista», aveva ritenuto che spettasse al legislatore individuare una «equilibrata soluzione», tale da garantire anche a quei condannati la cura della salute mentale senza che fosse eluso il trattamento penale. Negli anni successivi tale invito sembra essere stato accolto dal legislatore «solo in minima parte» con l'introduzione dell'art. 47-ter, comma 1, lettera c, ordin. penit., disposizione che tuttavia incontra limiti di applicabilita' correlati alla natura del reato e all'entita' del residuo di pena, e sarebbe rimasto comunque «eluso in riferimento alla condizione di quei soggetti affetti da patologia psichica sopravvenuta, non ammissibili alla detenzione domiciliare ordinaria (per i limiti di applicabilita' della disposizione) ne' a quella in deroga». 5.- Quanto ai profili di contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost. in relazione all'art. 3 CEDU, il giudice a quo, dopo avere ricordato la giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti tra ordinamento interno e ordinamento internazionale, ritiene di dovere sollevare questione di costituzionalita', dato che «l'unica disposizione interna che potrebbe offrire - in caso di patologia psichica sopravvenuta - l'accesso alla composizione del conflitto in chiave di tutela delle garanzie fondamentali (art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit.) non risulta interpretabile in senso costituzionalmente e convenzionalmente orientato». La protrazione della detenzione del soggetto affetto da grave infermita' psichica sembrerebbe infatti concretizzare, oltre che un trattamento contrario al senso di umanita', vietato dall'art. 27 Cost., anche una violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti previsto dall'art. 3 CEDU, in un contesto normativo come quello italiano che ha di recente elevato (si richiamano gli artt. 35-bis e 35-ter ordin. penit.) tale divieto a regola fondante del sistema di tutela dei diritti delle persone detenute. L'ordinanza di rimessione provvede a ricostruire gli orientamenti della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo attraverso il richiamo puntuale di numerose pronunce, da cui emerge univocamente che il divieto della tortura o delle pene o di trattamenti inumani o degradanti, di cui all'art. 3 CEDU, ha carattere assoluto. Nella giurisprudenza del giudice europeo tale divieto configurerebbe un obbligo positivo per lo Stato e non ammetterebbe alcuna deroga, neppure nel caso di pericolo pubblico che minaccia la vita della nazione. In ogni caso in cui la protrazione del trattamento detentivo, per la particolare gravita' della patologia riscontrata, per la inadeguatezza delle cure prestate o per la assenza delle condizioni materiali idonee risulti contraria al senso di umanita' e rischi di dar luogo a un trattamento degradante, sarebbe «preciso dovere della autorita' giurisdizionale provvedere alla interruzione della carcerazione», posto che la esecuzione della pena inframuraria sarebbe recessiva rispetto all'obbligo dello Stato di garantire che le condizioni dei reclusi non si traducano in trattamenti inumani o degradanti. Nella giurisprudenza di Strasburgo, l'obbligo di interruzione della detenzione non conforme all'art. 3 CEDU sarebbe ancora piu' pressante proprio nel delicato settore del diritto alla salute del soggetto recluso. Cosi', la mancanza di cure mediche adeguate e, piu' in generale, la detenzione di una persona malata in condizioni non adeguate, potrebbe in linea di principio costituire un trattamento contrario all'art. 3 CEDU. In particolare, la Corte di Strasburgo avrebbe in piu' occasioni affermato la necessita' di fornire adeguata tutela a soggetti reclusi portatori di accentuata vulnerabilita' in quanto affetti da patologia psichica, affermando che anche l'allocazione in reparto psichiatrico carcerario puo' dar luogo a trattamento degradante quando le terapie non risultino appropriate e la detenzione si prolunghi per un periodo di tempo significativo. 6.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile a causa della pluralita' di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del condannato, che escluderebbe l'asserito carattere «a rime obbligate» dell'intervento sollecitato dalla Corte di cassazione (sono citate, in particolare, l'ordinanza n. 318 e la sentenza n. 279 del 2013). La questione sarebbe anche infondata sia perche' gia' ora, secondo la giurisprudenza di legittimita', l'infermita' psichica che sfoci in grave infermita' fisica rende possibile il differimento della pena e la detenzione domiciliare "in deroga", sia perche' una infermita' psichica che non sfociasse in grave infermita' fisica porrebbe «tematiche, inerenti il relativo accertamento, caratterizzate da indubbie peculiarita', che escludono la possibilita' di una piena equiparazione e legittimano un differente trattamento in sede di esecuzione della pena». Inoltre, l'attuale sistema delle articolazioni per la salute mentale all'interno del circuito penitenziario, fondato sull'art. 65 ordin. penit., consentirebbe «un equo bilanciamento tra la posizione del reo e le esigenze di sicurezza sociale». Considerato in diritto 1.- La Corte di cassazione, prima sezione penale, ha sollevato d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), nella parte in cui non prevede l'applicazione della detenzione domiciliare "in deroga" anche nell'ipotesi di grave infermita' psichica sopravvenuta durante l'esecuzione della pena, per contrasto con gli artt. 2, 3, 27, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Il giudizio principale riguarda un detenuto con pena residua superiore a quattro anni, affetto da una grave «infermita' psichica sopravvenuta» ai sensi dell'art. 148 del codice penale, intendendosi per tale, secondo la giurisprudenza consolidata, una malattia mentale che, pur cronica o preesistente al reato, non sia stata considerata influente sulla capacita' di intendere e di volere nel corso del giudizio penale dal quale e' scaturita la condanna definitiva, oppure sia stata accertata o sia effettivamente insorta durante la detenzione. Secondo il giudice a quo, a un detenuto che si trovi nelle condizioni del ricorrente l'assetto normativo attuale non offrirebbe forme di esecuzione della pena alternative alla detenzione in carcere, ma solo la possibilita' di essere assistito presso una delle «Articolazioni per la tutela della salute mentale» eventualmente costituite all'interno del circuito penitenziario sulla base dell'art. 65 ordin. penit. L'impossibilita' di disporre il collocamento del detenuto fuori del carcere in un caso come quello di specie determinerebbe, in riferimento ai parametri costituzionali interni, un trattamento contrario al senso di umanita' e lesivo del diritto inviolabile alla salute del detenuto (artt. 2, 27, terzo comma, e 32 Cost.) e, in riferimento al parametro convenzionale, un trattamento inumano e degradante (art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 3 CEDU, cosi' come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo). Sarebbe inoltre violato anche l'art. 3 Cost. per disparita' di trattamento rispetto alla situazione delle persone portatrici di un'infermita' psichica tale da escludere la capacita' di intendere o di volere al momento del fatto, la' dove si riscontri pericolosita' sociale, per le quali l'ordinamento prevede un trattamento riabilitativo all'esterno del carcere presso le residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (REMS). Si ravviserebbe una disparita' di trattamento altresi' rispetto alle persone condannate con un analogo residuo di pena, ma affette da grave infermita' fisica, le quali possono accedere tanto al rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena di cui all'art. 147 cod. pen., quanto alla detenzione domiciliare di cui alla disposizione censurata. 2.- Deve preliminarmente essere respinta l'eccezione di inammissibilita' formulata dal Presidente del Consiglio dei ministri, basata sulla asserita mancanza di rimedi a "rime obbligate", idonei a sanare i vizi di illegittimita' costituzionale prospettati dalla Corte rimettente. 2.1.- Nella giurisprudenza piu' recente, questa Corte ha ripetutamente affermato che, di fronte alla violazione di diritti costituzionali, non puo' essere di ostacolo all'esame nel merito della questione di legittimita' costituzionale l'assenza di un'unica soluzione a "rime obbligate" per ricondurre l'ordinamento al rispetto della Costituzione. Proprio in materia penale, questa Corte ha piu' volte esaminato nel merito le questioni portate al suo esame qualora fossero ravvisabili nell'ordinamento soluzioni gia' esistenti, ancorche' non costituzionalmente obbligate, idonee a «porre rimedio nell'immediato al vulnus riscontrato», ferma restando la facolta' del legislatore di intervenire con scelte diverse (cosi' la sentenza n. 222 del 2018; ma si veda anche, analogamente, in un ambito vicino a quello qui considerato, la sentenza n. 41 del 2018, nonche' la sentenza n. 236 del 2016). L'ammissibilita' delle questioni di legittimita' costituzionale risulta percio' condizionata non tanto dall'esistenza di un'unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nell'ordinamento di una o piu' soluzioni costituzionalmente adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (sentenze n. 40 del 2019 e n. 233 del 2018). Occorre, infatti, evitare che l'ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimita' costituzionale specie negli ambiti, come quello penale, in cui e' piu' impellente l'esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore. Cio' vale tanto piu' in un'ipotesi come quella di cui la Corte e' ora chiamata a occuparsi, nella quale viene in rilievo l'effettivita' delle garanzie costituzionali di persone che non solo si trovano in uno stato di privazione della liberta' personale, ma sono anche gravemente malate e, dunque, versano in una condizione di duplice vulnerabilita'. 2.2.- Nel caso di specie, il giudice rimettente ritiene che l'ordinamento non offra, allo stato, un'alternativa all'esecuzione della pena in carcere per i detenuti che soffrono di gravi infermita' psichiche sopravvenute alla commissione del reato che si trovino nella situazione del detenuto ricorrente. Cio', a causa di una evoluzione dell'ordinamento che ha nei fatti svuotato di ogni contenuto l'art. 148 cod. pen., dedicato proprio ai casi di «[i]nfermita' psichica sopravvenuta al condannato», come recita la rubrica dello stesso. Per i gravi malati psichici, la reclusione costituirebbe una modalita' di esecuzione della pena contraria al senso di umanita' e percio' lesiva degli artt. 2, 27, terzo comma, e 32 Cost., oltre che dell'art. 3 CEDU che vieta i trattamenti inumani o degradanti e, quindi, dell'art. 117, primo comma, Cost. La Corte rimettente ha individuato nell'istituto della detenzione domiciliare di cui all'art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit. una risposta gia' presente nell'ordinamento per i detenuti affetti da gravi infermita' fisiche, la quale, per le modalita' con cui puo' essere articolata, risulta costituzionalmente adeguata e idonea a porre rimedio alle denunciate violazioni, in quanto permetterebbe anche ai malati psichici di espiare la pena fuori dal carcere in condizioni che consentano di contemperare le esigenze della tutela della salute con quelle della sicurezza. Si tratta della detenzione domiciliare "umanitaria" o "in deroga", cosi' denominata perche' puo' essere disposta anche nei confronti di detenuti che debbano ancora scontare una pena residua superiore ai quattro anni (come nel caso di specie), limite previsto dall'art. 47-ter, comma 1, ordin. penit. quale requisito generale per poter beneficiare, invece, della detenzione domiciliare "ordinaria". 2.3.- Il giudice rimettente chiede di estendere la detenzione domiciliare "in deroga", di cui al censurato art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., anche ai detenuti che soffrono di patologie psichiatriche talmente gravi da rendere l'espiazione della pena in carcere un trattamento sanzionatorio contrario al senso di umanita', oltre che lesivo del diritto alla salute; cio' senza che possa essere di ostacolo l'entita' della pena residua da scontare. Cosi' configurata, alla luce dei principi sopra enunciati, la questione supera il vaglio di ammissibilita'. 3.- Nel merito la questione e' fondata. L'ordinanza di rimessione muove dalla premessa che, allo stato attuale, un detenuto affetto da grave infermita' psichica sopravvenuta con un residuo di pena superiore ai quattro anni, come la parte del giudizio a quo, non avrebbe accesso ad alcuna forma di esecuzione della pena alternativa alla detenzione in carcere. La ricostruzione dell'assetto normativo vigente compiuta dalla Corte di cassazione e' senz'altro da condividere. 3.1.- E' vero innanzitutto che l'art. 148, primo comma, cod. pen., dedicato appunto ai casi di «[i]nfermita' psichica sopravvenuta al condannato», e' oggi divenuto inapplicabile, perche' superato da riforme legislative che, pur senza disporne espressamente l'abrogazione, l'hanno completamente svuotato di contenuto precettivo. La richiamata disposizione codicistica, infatti, prevede che il giudice possa disporre la sospensione o il differimento della pena e il contestuale ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, in casa di cura e di custodia ovvero, in determinate ipotesi, in un ospedale psichiatrico civile, nei casi di infermita' psichica sopravvenuta dopo la condanna che siano di gravita' tale da impedire l'esecuzione della pena in carcere. L'art. 148 cod. pen. riflette un approccio alla malattia mentale tipico dell'epoca in cui fu scritto, basato sull'internamento. In tale orizzonte culturale, i detenuti malati psichici potevano essere allontanati dal carcere per le difficolta' che la convivenza con altri detenuti, in un ambiente ristretto, poteva (e puo') generare, con lo scopo di essere reclusi altrove, insieme ad altre persone similmente malate e senza prospettive di rientro nella vita sociale. Tale disposizione non e' mai stata formalmente abrogata, ma tutti gli istituti a cui essa rinvia sono scomparsi in virtu' di riforme legislative che riflettono un cambiamento di paradigma culturale e scientifico nel trattamento della salute mentale, che puo' riassumersi nel passaggio dalla mera custodia alla terapia (ad esempio, in tal senso, il parere del Comitato nazionale per la bioetica, «Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere», del 22 marzo 2019). Sulla base delle mutate premesse culturali che orientano la tutela della salute mentale, gli ospedali psichiatrici civili sono stati chiusi oltre quaranta anni fa dalla nota legge Basaglia (legge 13 maggio 1978, n. 180, recante «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori»). Quanto agli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e alle case di cura e custodia, essi hanno dimostrato la loro inidoneita' a garantire la salute mentale di chi ivi era ricoverato (sentenza n. 186 del 2015) e sono percio' stati espunti dall'ordinamento giuridico a far data dal 31 marzo 2015, a seguito di un lungo itinerario legislativo, avviato dall'art. 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° aprile 2008 (Modalita' e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanita' penitenziaria); proseguito con l'art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9; continuato con l'art. 1, comma 1, lettera a, del decreto-legge 25 marzo 2013, n. 24 (Disposizioni urgenti in materia sanitaria), convertito, con modificazioni, nella legge 23 maggio 2013, n. 57, e terminato con l'art. 1 del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 30 maggio 2014, n. 81. Conclusosi l'iter normativo, l'effettiva chiusura degli ultimi OPG e' avvenuta solo grazie all'opera del commissario unico nominato dal Governo a tale scopo, che ha perfezionato la definitiva dismissione di tali istituzioni nel 2017. Chiusi gli ospedali psichiatrici civili e giudiziari, non puo' piu' farsi riferimento all'art. 148 cod. pen., vale a dire l'unica disposizione dedicata alla condizione dei detenuti affetti da gravi patologie psichiche sopravvenute. 3.2.- Nel frattempo, il legislatore ha istituito le residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), su base regionale e a esclusiva gestione sanitaria. Tali strutture non sono pero' destinate ad accogliere i condannati in cui la malattia psichica si manifesti successivamente. Per queste persone l'ordinamento non offre alternative al carcere, ove e' possibile soltanto che siano istituite apposite «sezioni speciali» per i soggetti affetti da infermita' o minorazioni fisiche o psichiche, secondo quanto disposto dall'art. 65 ordin. penit. Il lungo e faticoso processo riformatore che ha dato vita al fondamentale risultato della chiusura degli OPG non e' stato completato con previsioni adeguate alla situazione dei detenuti con gravi malattie psichiche sopravvenute. E' rimasta, infatti incompiuta quella parte della delega disposta dalla legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario), relativa ai detenuti malati psichici, volta a garantire loro adeguati trattamenti terapeutici e riabilitativi anche attraverso misure alternative alla detenzione, oltre che attraverso la creazione di nuove strutture sanitarie interne al carcere. L'istituzione delle REMS introdotte dalla riforma non e' di rimedio alla lacuna che si e' venuta a creare in seguito alla chiusura degli OPG. Come correttamente osserva la Corte di cassazione rimettente, le REMS non sono istituzioni volte a sostituire i vecchi ospedali psichiatrici sotto altra veste e denominazione. Mentre i vecchi OPG erano destinati a ospitare tutti i malati psichiatrici gravi in qualsiasi modo venuti a contatto con la giurisdizione penale e, dunque, anche i condannati con infermita' psichica "sopravvenuta" alla condanna, al contrario le REMS, cosi' come chiaramente indica la loro stessa denominazione, hanno come unici destinatari i malati psichiatrici che sono stati ritenuti non imputabili in sede di giudizio penale o che, condannati per delitto non colposo a una pena diminuita per cagione di infermita' psichica, sono stati sottoposti a una misura di sicurezza (art. 3-ter, comma 2, del d.l. n. 211 del 2011, introdotto dalla legge di conversione n. 9 del 2012 e successivamente attuato con decreto del Ministro della salute adottato di concerto con il Ministro della giustizia 1° ottobre 2012, recante «Requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle strutture residenziali destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell'assegnazione a casa di cura e custodia»). Il chiaro dettato normativo attualmente vigente non puo' essere integrato in via interpretativa neppure considerando quel passaggio della citata legge di delega nel quale ambiguamente si prevede la «destinazione alle REMS prioritariamente dei soggetti per i quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermita' al momento della commissione del fatto, da cui derivi il giudizio di pericolosita' sociale, nonche' dei soggetti per i quali l'infermita' di mente sia sopravvenuta durante l'esecuzione della pena, degli imputati sottoposti a misure di sicurezza provvisorie e di tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi» (art. 1, comma 16, lettera d, della legge n. 103 del 2017). Si tratta infatti di una delle previsioni della delega a cui non e' stata data attuazione. 3.3.- Rimasto incompiuto il complesso disegno riformatore, oggi il tessuto normativo presenta serie carenze che gravano, tra l'altro, proprio sulla condizione dei detenuti affetti da infermita' psichica sopravvenuta, i quali non hanno accesso ne' alle REMS ne' ad altre misure alternative al carcere, qualora abbiano un residuo di pena superiore a quattro anni, come il detenuto ricorrente. I detenuti che si trovino in condizioni simili a quelle della parte nel giudizio a quo non possono avere accesso alla detenzione domiciliare "ordinaria" di cui all'art. 47-ter, comma 1, lettera c, ordin. penit., prevista per tutti i detenuti con una pena residua inferiore a quattro anni e che siano gravemente malati, indipendentemente dal tipo di patologia - fisica o psichica - di cui soffrono. Neppure puo' essere loro applicato l'istituto del rinvio obbligatorio della esecuzione della pena di cui all'art. 146, primo comma, numero 3), cod. pen., perche' la grave patologia psichica non integra il presupposto ivi previsto della malattia grave, in fase cosi' avanzata da essere refrattaria alle terapie. Inoltre, i malati psichici non possono nemmeno beneficiare del rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena di cui all'art. 147, primo comma, numero 2), cod. pen., perche' questa previsione riguarda solo i casi di «grave infermita' fisica». Quest'ultima disposizione non lascia margini per una diversa interpretazione, tale da renderla applicabile anche al detenuto che soffra di una patologia psichica. Ostano a tale interpretazione tanto il dato testuale, quanto l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimita', secondo la quale le sole patologie psichiatriche che possono consentire al giudice di disporre il rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena sono quelle da cui discendono anche gravi ricadute di tipo fisico (tra le numerosissime pronunce in questo senso Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 11 maggio-30 agosto 2016, n. 35826 e 28 gennaio-16 settembre 2015, n. 37615). In breve, poiche' il rinvio obbligatorio o facoltativo di cui agli artt. 146 e 147 cod. pen. riguarda solo le persone affette da grave infermita' fisica, come si e' visto poco sopra, ne consegue che i malati psichici non possono giovarsi neppure della detenzione domiciliare "umanitaria" o "in deroga", di cui al censurato art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., che a tali disposizioni rinvia nel definire il suo ambito di applicazione. 4.- La mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per i detenuti affetti da grave malattia psichica sopravvenuta viola i principi costituzionali invocati nell'ordinanza di rimessione. 4.1.- La malattia psichica e' fonte di sofferenze non meno della malattia fisica ed e' appena il caso di ricordare che il diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di cui ogni persona e' titolare, deve intendersi come comprensivo non solo della salute fisica, ma anche della salute psichica, alla quale l'ordinamento e' tenuto ad apprestare un identico grado di tutela (tra le molte, sentenze n. 169 del 2017, n. 162 del 2014, n. 251 del 2008, n. 359 del 2003, n. 282 del 2002 e n. 167 del 1999), anche con adeguati mezzi per garantirne l'effettivita'. Occorre, anzi, considerare che soprattutto le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione: la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per se' a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, si' da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilita' tra carcere e disturbo mentale. Come emerge anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (tra le altre, Corte EDU, seconda sezione, sentenza 17 novembre 2015, Bamouhammad contro Belgio, paragrafo 119, e Corte EDU, grande camera, sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 105), in taluni casi mantenere in condizione di detenzione una persona affetta da grave malattia mentale assurge a vero e proprio trattamento inumano o degradante, nel linguaggio dell'art. 3 CEDU, ovvero a trattamento contrario al senso di umanita', secondo le espressioni usate dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione italiana. 4.2.- Se e' vero che la tutela della salute mentale dei detenuti richiede interventi complessi e integrati, che muovano anzitutto da un potenziamento delle strutture sanitarie in carcere, e' vero altresi' che occorre che l'ordinamento preveda anche percorsi terapeutici esterni, almeno per i casi di accertata incompatibilita' con l'ambiente carcerario. Per questi casi gravi, l'ordinamento deve prevedere misure alternative alla detenzione carceraria, che il giudice possa disporre caso per caso, momento per momento, modulando il percorso penitenziario tenendo conto e della tutela della salute dei malati psichici e della pericolosita' del condannato, di modo che non siano sacrificate le esigenze della sicurezza collettiva. Per le ragioni sopra esposte, questa Corte ritiene in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 32 e 117, primo comma, Cost. l'assenza di ogni alternativa al carcere, che impedisce al giudice di disporre che la pena sia eseguita fuori dagli istituti di detenzione, anche qualora, a seguito di tutti i necessari accertamenti medici, sia stata riscontrata una malattia mentale che provochi una sofferenza talmente grave che, cumulata con l'ordinaria afflittivita' del carcere, dia luogo a un supplemento di pena contrario al senso di umanita'. 4.3.- Questa Corte, con una sentenza risalente, preso atto dell'insoddisfacente trattamento riservato all'infermita' psichica grave, sopravvenuta alla condanna, ha richiamato il legislatore a «trovare una equilibrata soluzione» che garantisca ai condannati affetti da patologie psichiche «la cura della salute mentale - tutelata dall'art. 32 della Costituzione - senza che sia eluso il trattamento penale» (sentenza n. 111 del 1996). A distanza di tanti anni, tale richiamo e' rimasto inascoltato. Pur consapevole che incombe sul legislatore il dovere di portare a termine nel modo migliore la gia' avviata riforma dell'ordinamento penitenziario nell'ambito della salute mentale, con la previsione di apposite strutture interne ed esterne al carcere, questa Corte non puo' esimersi dall'intervenire per rimediare alla violazione dei principi costituzionali denunciata dal giudice rimettente, di modo che sia da subito ripristinato un adeguato bilanciamento tra le esigenze della sicurezza della collettivita' e la necessita' di garantire il diritto alla salute dei detenuti (art. 32 Cost.) e di assicurare che nessun condannato sia mai costretto a scontare la pena in condizioni contrarie al senso di umanita' (art. 27, terzo comma, Cost.), meno che mai un detenuto malato. Pertanto, deve essere accolta la questione di legittimita' costituzionale prospettata dal giudice rimettente e dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., nella parte in cui non consente che la detenzione domiciliare "umanitaria" sia disposta anche nelle ipotesi di grave infermita' psichica sopravvenuta. 5.- La misura alternativa della detenzione domiciliare "umanitaria" o "in deroga", individuata dal giudice rimettente si presta, allo stato attuale, a colmare le carenze sopra individuate. L'istituto della detenzione domiciliare e' una misura che puo' essere modellata dal giudice in modo tale da salvaguardare il fondamentale diritto alla salute del detenuto, qualora esso sia incompatibile con la permanenza in carcere e, contemporaneamente, le esigenze di difesa della collettivita' che deve essere protetta dalla potenziale pericolosita' di chi e' affetto da alcuni tipi di patologia psichiatrica. 5.1.- Introdotta dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), la detenzione domiciliare e' stata nel corso del tempo ampliata quanto all'ambito di applicazione e parzialmente ridisegnata nelle sue finalita', tanto da interventi del legislatore quanto da pronunce di questa Corte. Essa risponde sempre, tuttavia, secondo la giurisprudenza costituzionale, a una «logica unitaria e indivisibile» (sentenze n. 211 del 2018 e n. 177 del 2009). Per quanto qui rileva, questa Corte ha riconosciuto che la detenzione domiciliare costituisce «"non una misura alternativa alla pena", ma una pena "alternativa alla detenzione o, se si vuole, una modalita' di esecuzione della pena"», sottolineando come essa sia sempre accompagnata da «prescrizioni limitative della liberta', sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza e con l'intervento del servizio sociale» (ordinanza n. 327 del 1989). Per questo motivo, tra l'altro, essa differisce completamente dalla semplice scarcerazione del detenuto che consegue al rinvio dell'esecuzione della pena disposto sulla base degli artt. 146 e 147 cod. pen. Il dato normativo, in effetti, non lascia alcun dubbio in proposito. L'art. 47-ter, comma 4, ordin. penit. prevede che il «tribunale di sorveglianza, nel disporre la detenzione domiciliare, ne fissa le modalita' secondo quanto stabilito dall'articolo 284 del codice di procedura penale», il quale a sua volta statuisce che, con «il provvedimento che dispone gli arresti domiciliari, il giudice prescrive all'imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza ovvero, ove istituita, da una casa famiglia protetta» (comma 1). Pertanto, la detenzione domiciliare non significa riduttivamente un ritorno a casa o tanto meno un ritorno alla liberta'; certamente essa comporta l'uscita dal carcere, ma e' pur sempre accompagnata da severe limitazioni della liberta' personale, dato che il giudice, nel disporla, stabilisce le condizioni e le modalita' di svolgimento e individua il luogo di detenzione, che puo' essere anche diverso dalla propria abitazione, se piu' adeguato a contemperare le esigenze di tutela della salute del malato, quella della sicurezza e quelle della persona offesa dal reato (art. 284, comma 1-bis, cod. proc. pen.). Di fondamentale rilievo e' la possibilita' che la detenzione domiciliare possa svolgersi, oltre che «nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora», anche in «luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza», come prevede l'art. 284 cod. proc. pen. e come ribadisce anche il comma 1 del medesimo art. 47-ter ordin. penit. Inoltre, occorre sottolineare che il detenuto in regime di detenzione domiciliare non si puo' allontanare dal luogo a cui e' assegnato, salvo specifiche autorizzazioni da parte del giudice (art. 284, comma 3, cod. proc. pen.), il quale puo' anche imporgli limiti o divieti alla facolta' di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono (art. 284, comma 2, cod. proc. pen.). In ogni caso, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, anche di propria iniziativa, possono controllare in ogni momento l'osservanza delle prescrizioni imposte (art. 284, comma 4, cod. proc. pen.). L'art. 47-ter, comma 4, ordin. penit. aggiunge poi che il tribunale di sorveglianza «[d]etermina e impartisce altresi' le disposizioni per gli interventi del servizio sociale. Tali prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza competente per il luogo in cui si svolge la detenzione domiciliare». 5.2.- L'introduzione nell'ordinamento penitenziario della disposizione relativa alla detenzione domiciliare "umanitaria" o "in deroga" di cui al censurato art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit. si deve alla piu' recente legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all'art. 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modificazioni). Tale disposizione stabilisce che quando «potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale», il tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di quattro anni di cui all'art. 47-ter, comma 1, ordin. penit., «puo' disporre la applicazione della detenzione domiciliare». Come si e' detto, in virtu' dei richiami agli artt. 146 e 147 cod. pen., la detenzione domiciliare "in deroga" e' oggi preclusa ai malati psichici. Questa Corte ha gia' esplicitato che la ragione che ha spinto il legislatore a introdurre la detenzione domiciliare "in deroga" e' offrire una «alternativa rispetto al differimento dell'esecuzione della pena», «nella prospettiva di creare uno strumento intermedio e piu' duttile tra il mantenimento della detenzione in carcere e la piena liberazione del condannato (conseguente al rinvio): permettendo cosi' di tener conto della eventuale pericolosita' sociale residua di quest'ultimo e della connessa necessita' di contemperamento delle istanze di tutela del condannato medesimo con quelle di salvaguardia della sicurezza pubblica» (ordinanza n. 255 del 2005). Anche la giurisprudenza di legittimita' sottolinea che la norma sulla detenzione domiciliare "in deroga", della cui legittimita' costituzionale ora si discute, persegue proprio «la finalita' di colmare una lacuna della previgente normativa», che «imponeva un'alternativa secca tra carcerazione e liberta' senza vincoli», da un lato, obbedendo «all'esigenza di effettivita' dell'espiazione della pena e del necessario controllo cui vanno sottoposti i soggetti pericolosi» e, dall'altro, mirando a una esecuzione della pena «mediante forme compatibili con il senso di umanita'» (cosi', tra le molte, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 5 aprile-16 settembre 2016, n. 38680). 5.3.- In definitiva, la detenzione domiciliare e' uno strumento capace di offrire sollievo ai malati piu' gravi, per i quali la permanenza in carcere provoca un tale livello di sofferenza da ferire il senso di umanita'; al tempo stesso, essa puo' essere configurata in modo variabile, con un dosaggio ponderato delle limitazioni, degli obblighi e delle autorizzazioni secondo le esigenze del caso: grazie a una attenta individuazione del luogo di detenzione, possono perseguirsi finalita' terapeutiche e di protezione, senza trascurare le esigenze dei suoi familiari e assicurando, al tempo stesso, la sicurezza della collettivita'. La varieta' dei quadri clinici e delle condizioni sociali e familiari dei detenuti affetti da malattie psichiche esige da parte del giudice un'attenta valutazione caso per caso e momento per momento della singola situazione. A lui spettera' verificare, anche in base alle strutture e ai servizi di cura offerti all'interno del carcere, alle esigenze di salvaguardia degli altri detenuti e di tutto il personale che opera negli istituti penitenziari, se il condannato affetto da grave malattia psichica sia in condizioni di rimanere in carcere o debba essere destinato a un luogo esterno, ai sensi dell'art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., fermo restando che cio' non puo' accadere se il giudice ritiene prevalenti, nel singolo caso, le esigenze della sicurezza pubblica. In conclusione, e' opportuno sottolineare che, anche alla luce della piu' recente giurisprudenza di legittimita', la detenzione domiciliare "umanitaria" offre al giudice una possibilita' da attivare quando le condizioni lo consentano, sulla base di una complessiva valutazione a cui non puo' rimanere estraneo «il giudizio di pericolosita' ostativa a trattamenti extra-murari, opportunamente rinnovato e attualizzato in parallelo alla evoluzione della condizione sanitaria e personale del detenuto» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 novembre 2018-4 marzo 2019, n. 9410).