ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  47-ter,
comma  1-ter,  della  legge   26   luglio   1975,   n.   354   (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative  della  liberta'),  promosso  dalla  Corte  di
cassazione, prima sezione penale, nel procedimento penale a carico di
N. M., con ordinanza del 22  marzo  2018,  iscritta  al  n.  101  del
registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 2018. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 6 febbraio  2019  il  Giudice
relatore Marta Cartabia. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 22 marzo  2018,  la  Corte  di  cassazione,
prima  sezione  penale,  ha  sollevato  questione   di   legittimita'
costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, 32 e  117,  primo
comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 3 della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4  agosto  1955,  n.  848,
dell'art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26  luglio  1975,  n.  354
(Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure
privative e limitative della liberta'), «nella  parte  in  cui  detta
previsione di legge non  prevede  la  applicazione  della  detenzione
domiciliare  anche  nelle  ipotesi  di  grave   infermita'   psichica
sopravvenuta durante l'esecuzione della pena». 
    L'ordinanza di rimessione espone  che,  nel  caso  sottoposto  al
giudice rimettente, un detenuto condannato  per  concorso  in  rapina
aggravata aveva fatto ricorso avverso un'ordinanza del  Tribunale  di
sorveglianza di Roma che  non  aveva  accolto  la  sua  richiesta  di
differimento della pena per grave infermita' ai sensi  dell'art.  147
del codice penale, in  quanto  applicabile  solo  ai  casi  di  grave
infermita' fisica, mentre nel caso di specie  il  detenuto  risultava
affetto da «grave disturbo misto di  personalita',  con  predominante
organizzazione border line in  fase  di  scompenso  psicopatologico»,
accertato in  seguito  a  gravi  comportamenti  autolesionistici.  Al
momento in cui il Tribunale di sorveglianza si pronunciava,  la  pena
residua da espiare era di sei anni, quattro mesi  e  ventuno  giorni.
L'ordinanza di rimessione riferisce che si tratta  di  una  patologia
grave e radicata nel tempo, per la quale la detenzione  determina  un
trattamento contrario al senso di umanita'. 
    2.- Dopo avere precisato, in via preliminare, che anche  la  fase
del  giudizio  di  legittimita'  risulta  idonea  alla   proposizione
dell'incidente di costituzionalita', la Corte rimettente conferma  il
proprio costante orientamento, fatto proprio anche dal  provvedimento
del Tribunale di sorveglianza, secondo cui il detenuto  portatore  di
infermita' esclusivamente di tipo psichico sopravvenuta alla condanna
non puo' accedere ne' agli istituti del differimento  obbligatorio  o
facoltativo della pena previsti dagli artt. 146 e 147 cod. pen.,  ne'
alla detenzione  domiciliare  cosiddetta  "in  deroga"  di  cui  alla
disposizione censurata, posto che  nel  testo  di  tale  disposizione
vengono richiamate esclusivamente le condizioni di infermita'  fisica
di cui agli artt. 146 e 147 cod. pen., e non  anche  quelle  relative
alla infermita' psichica sopravvenuta evocate nel testo dell'art. 148
cod. pen. Pertanto, solo in  presenza  di  ricadute  della  patologia
psichica sul complessivo assetto  funzionale  dell'individuo  risulta
possibile attivare le garanzie previste dagli artt. 146  e  147  cod.
pen. 
    3.-  La  Corte  rimettente   si   interroga   sull'applicabilita'
dell'art. 148 cod. pen. o di altre forme alternative alla  detenzione
in carcere, per i  casi  di  infermita'  psichica  sopravvenuta  alla
condanna;  in  particolare  considera  la  misura  alternativa  della
detenzione domiciliare "in deroga". 
    3.1.- La Corte di cassazione ritiene che «[n]ell'attuale  momento
storico e' da ritenersi che la disposizione di legge di cui  all'art.
148 cod. pen. sia inapplicabile per effetto di abrogazione  implicita
derivante dal contenuto degli interventi legislativi succedutisi  tra
il 2012 e il 2014», che hanno previsto  la  chiusura  degli  ospedali
psichiatrici giudiziari (OPG) e che,  nel  creare  le  residenze  per
l'esecuzione delle misure  di  sicurezza  (REMS),  operanti  su  base
regionale, non hanno previsto che esse subentrassero  nelle  funzioni
accessorie di cui all'art. 148 cod. pen. gia' svolte dagli OPG,  dato
che le vigenti disposizioni di legge indicano le REMS come luoghi  di
esecuzione delle sole misure di sicurezza (provvisorie o definitive).
Ne' rileverebbe, in contrario, la previsione dell'art. 16,  comma  1,
lettera d) [recte: art. 1, comma  16,  lettera  d],  della  legge  23
giugno 2017, n.  103  (Modifiche  al  codice  penale,  al  codice  di
procedura penale e all'ordinamento  penitenziario),  ove  si  prevede
l'assegnazione alle REMS anche dei soggetti portatori  di  infermita'
psichica   sopravvenuta   durante   l'esecuzione,   in   ipotesi   di
inadeguatezza dei  trattamenti  praticati  in  ambito  penitenziario,
«trattandosi, per l'appunto, di delega non ancora tradotta in  una  o
piu' disposizioni concretamente applicabili». 
    L'impossibilita' di ritenere che le REMS  siano  succedute  nelle
funzioni in precedenza svolte dagli OPG in  base  all'art.  148  cod.
pen. sarebbe del resto  confermata  dal  fatto  che  il  processo  di
superamento degli OPG  e'  stato  accompagnato  dalla  realizzazione,
all'interno  degli  istituti  penitenziari  ordinari,  di   «apposite
sezioni  denominate  "articolazioni  per  la  tutela   della   salute
mentale"» e dedicate  all'accoglienza  dei  detenuti  appartenenti  a
specifiche categorie giuridiche in precedenza ospitati negli OPG  per
le necessarie cure e assistenza psichiatriche. 
    Secondo il  giudice  rimettente,  dunque,  il  sistema  normativo
attuale tratterebbe in  modo  differente  il  soggetto  portatore  di
un'infermita' psichica tale da escludere la capacita' di intendere  o
di volere al momento della commissione del fatto - il quale, li' dove
si riscontri pericolosita' sociale, viene sottoposto  al  trattamento
riabilitativo  presso  le  REMS,  strutture  ad  esclusiva   gestione
sanitaria - rispetto al soggetto in esecuzione di pena  portatore  di
patologia psichica sopravvenuta, che resta detenuto e  ove  possibile
e' allocato presso una delle articolazioni per la tutela della salute
mentale poste all'interno del circuito penitenziario. Si  tratterebbe
di   due   categorie   soggettive   indubbiamente   non    pienamente
assimilabili,  ove  si  consideri  il  rapporto   tra   patologia   e
imputabilita' (si richiama la sentenza n. 111  del  1996);  tuttavia,
osserva il giudice a quo, «la condizione vissuta dai secondi  e'  del
tutto assimilabile, quantomeno sul piano delle prevalenti  necessita'
terapeutiche, a quella dei non imputabili». L'assenza di  alternative
alla detenzione per i condannati affetti da grave patologia  psichica
determinerebbe un dubbio di  legittimita',  sufficiente  ad  attivare
l'incidente di costituzionalita'. 
    3.2.- La Corte di cassazione afferma che allo stato attuale della
normativa non sussistono alternative alla detenzione  carceraria  per
una persona nelle condizioni in cui versa il ricorrente, e cioe'  per
un soggetto in esecuzione pena con residuo superiore a  quattro  anni
(o per reato ricompreso  nella  elencazione  di  cui  all'art.  4-bis
ordin. penit.) affetto da patologia psichica sopravvenuta, «stante da
un lato la impossibilita' di usufruire, per assenza  dei  presupposti
di  accessibilita',  della  detenzione  domiciliare  ordinaria  (art.
47-ter,  comma  1  ord.   pen.),   dall'altro   la   gia'   segnalata
impossibilita' di accedere, per  il  criterio  della  interpretazione
letterale, alla detenzione domiciliare "in deroga"  di  cui  all'art.
47-ter, comma 1  ord.  pen.»,  posto  che  la  disposizione  permette
l'applicazione di  tale  misura  nei  casi  in  cui  potrebbe  essere
disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione  della
pena ai sensi degli artt. 146 e 147 cod. pen., i quali a  loro  volta
si riferiscono alla grave infermita' fisica e non a quella psichica. 
    Ne' sarebbe possibile estendere  la  detenzione  domiciliare  "in
deroga"  di  cui  alla  disposizione  censurata  anche   alla   grave
infermita'  psichica  in  forza  di  un'interpretazione  conforme   a
Costituzione dell'attuale sistema normativo; a cio'  osterebbero  sia
il dato testuale sia l'intenzione del legislatore. 
    L'assetto  normativo  attuale,  in  definitiva,  impedirebbe   al
condannato affetto da grave infermita' psichica sopravvenuta, qualora
il residuo di pena sia  superiore  a  quattro  anni  o  si  trovi  in
espiazione per reato  ostativo,  di  accedere  sia  all'istituto  del
differimento della pena (artt. 146 e 147 cod. pen.), sia al  ricovero
in OPG di cui all'art. 148 cod. pen.,  sia  alla  collocazione  nelle
REMS, sia  alla  detenzione  domiciliare  "in  deroga".  Inoltre,  la
situazione del  detenuto  portatore  di  questo  tipo  di  infermita'
sarebbe caratterizzata da aspetti di manifesto regresso trattamentale
dato che, da una parte, l'ingresso nelle articolazioni per la  salute
mentale non e' oggi frutto di  una  decisione  giurisdizionale,  come
invece era in passato per il  collocamento  in  OPG,  bensi'  di  una
decisione dell'amministrazione, la cui discrezionalita'  tra  l'altro
e' condizionata da fattori non dominabili quali  il  sovraffollamento
delle strutture; e, dall'altra  parte,  l'idoneita'  del  trattamento
praticabile all'interno di  tali  articolazioni  non  e'  previamente
verificato in sede giurisdizionale da  parte  della  magistratura  di
sorveglianza. 
    In particolare, proprio l'impossibilita' di accedere alla  misura
alternativa della detenzione domiciliare "in deroga" di cui  all'art.
47-ter, comma 1-ter, ordin.  penit.  si  porrebbe  in  contrasto  con
numerosi principi sia costituzionali sia  convenzionali,  sicche'  si
imporrebbe la necessita' di  rivalutare  i  contenuti  di  precedenti
decisioni costituzionali sul tema,  in  particolare  si  richiama  la
sentenza n. 111 del 1996 di questa Corte. 
    4.- Quanto ai  parametri  costituzionali  interni,  la  Corte  di
cassazione denuncia la violazione degli artt. 2, 3, 27 e 32 Cost. 
    Dalla giurisprudenza costituzionale,  infatti,  si  ricaverebbero
alcune linee-guida sul sistema dell'esecuzione penale il  quale,  per
essere  costituzionalmente   compatibile,   dovrebbe   offrire:   «a)
opportunita' giurisdizionali di verifica in concreto della condizione
patologica; b) strumenti  giuridici  di  contemperamento  dei  valori
coinvolti  che  siano  tali  da  consentire  la   sospensione   della
esecuzione o la modifica migliorativa delle condizioni  del  singolo,
li' dove le ricadute della patologia finiscano con l'esporre il  bene
primario  della  salute  individuale   a   compromissione,   si'   da
concretizzare - in ipotesi di mantenimento della condizione detentiva
- un trattamento contrario al senso di umanita'  (art.  27,  comma  3
Cost.) o inumano o degradante (con potenziale violazione dell'art.  3
Convenzione Edu)» (si citano, con ampi richiami testuali, le sentenze
n. 438 del 1995, n. 70 del 1994 e n. 313 del 1990). 
    Le opportunita' di contemperamento dei  valori  in  gioco,  e  la
stessa giurisdizionalita'  piena  dell'intervento,  sarebbero  invece
compromesse da un assetto normativo come  quello  attuale,  che  vede
come unica risposta il mantenimento della  condizione  detentiva  del
soggetto affetto da infermita' psichica sopravvenuta e  l'affidamento
al servizio sanitario reso in ambito penitenziario. 
    In particolare, anche a fronte della  avvenuta  constatazione  di
inadeguatezza di simile trattamento, non  risulterebbe  consentita  -
allo stato - ne' la sospensione dell'esecuzione, ne'  l'approdo  alla
detenzione domiciliare "in  deroga"  nei  casi  in  cui  non  risulti
applicabile quella ordinaria. 
    Alla  luce  dei  mutamenti  del   quadro   normativo,   pertanto,
assumerebbe nuovo significato il monito al legislatore rivolto  dalla
Corte costituzionale con la sentenza n.  111  del  1996,  in  cui  la
Corte, posta di  fronte  al  dubbio  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 148 cod.  pen.,  pur  condividendo  il  «non  soddisfacente
trattamento riservato  all'infermita'  psichica  grave  sopravvenuta,
specie  quando  e'  incompatibile  con  l'unico  tipo  di   struttura
custodiale  oggi  prevista»,  aveva   ritenuto   che   spettasse   al
legislatore  individuare  una  «equilibrata   soluzione»,   tale   da
garantire anche a quei condannati la cura della salute mentale  senza
che fosse eluso il trattamento penale.  Negli  anni  successivi  tale
invito sembra essere stato accolto dal legislatore  «solo  in  minima
parte» con l'introduzione  dell'art.  47-ter,  comma  1,  lettera  c,
ordin.  penit.,  disposizione  che  tuttavia   incontra   limiti   di
applicabilita' correlati alla natura  del  reato  e  all'entita'  del
residuo di pena, e sarebbe rimasto  comunque  «eluso  in  riferimento
alla condizione  di  quei  soggetti  affetti  da  patologia  psichica
sopravvenuta, non ammissibili alla detenzione  domiciliare  ordinaria
(per i limiti di applicabilita' della disposizione) ne' a  quella  in
deroga». 
    5.- Quanto ai profili di contrasto con l'art. 117,  primo  comma,
Cost. in relazione all'art. 3 CEDU, il  giudice  a  quo,  dopo  avere
ricordato la giurisprudenza costituzionale in tema  di  rapporti  tra
ordinamento interno e ordinamento internazionale, ritiene  di  dovere
sollevare  questione  di   costituzionalita',   dato   che   «l'unica
disposizione interna che potrebbe offrire  -  in  caso  di  patologia
psichica sopravvenuta - l'accesso alla composizione del conflitto  in
chiave di tutela delle  garanzie  fondamentali  (art.  47-ter,  comma
1-ter,  ordin.  penit.)   non   risulta   interpretabile   in   senso
costituzionalmente e  convenzionalmente  orientato».  La  protrazione
della detenzione del soggetto affetto da  grave  infermita'  psichica
sembrerebbe infatti concretizzare, oltre che un trattamento contrario
al  senso  di  umanita',  vietato  dall'art.  27  Cost.,  anche   una
violazione del divieto di trattamenti inumani o  degradanti  previsto
dall'art. 3 CEDU, in un contesto normativo come quello  italiano  che
ha di recente elevato (si richiamano gli artt. 35-bis e 35-ter ordin.
penit.) tale divieto a regola fondante  del  sistema  di  tutela  dei
diritti delle persone detenute. 
    L'ordinanza di rimessione provvede a ricostruire gli orientamenti
della  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo
attraverso il richiamo puntuale di numerose pronunce, da  cui  emerge
univocamente  che  il  divieto  della  tortura  o  delle  pene  o  di
trattamenti  inumani  o  degradanti,  di  cui  all'art.  3  CEDU,  ha
carattere assoluto. Nella giurisprudenza  del  giudice  europeo  tale
divieto configurerebbe  un  obbligo  positivo  per  lo  Stato  e  non
ammetterebbe alcuna deroga, neppure nel caso di pericolo pubblico che
minaccia la vita della nazione. In ogni caso in  cui  la  protrazione
del  trattamento  detentivo,  per  la  particolare   gravita'   della
patologia riscontrata, per la inadeguatezza delle cure prestate o per
la assenza delle condizioni materiali  idonee  risulti  contraria  al
senso di umanita' e rischi di dar luogo a un trattamento  degradante,
sarebbe «preciso dovere della  autorita'  giurisdizionale  provvedere
alla interruzione della carcerazione», posto che la esecuzione  della
pena inframuraria sarebbe recessiva rispetto all'obbligo dello  Stato
di garantire che le  condizioni  dei  reclusi  non  si  traducano  in
trattamenti inumani o degradanti. Nella giurisprudenza di Strasburgo,
l'obbligo di interruzione della detenzione non  conforme  all'art.  3
CEDU sarebbe ancora piu' pressante proprio nel delicato  settore  del
diritto alla salute del soggetto recluso. Cosi', la mancanza di  cure
mediche adeguate e, piu' in generale, la detenzione  di  una  persona
malata in condizioni non adeguate, potrebbe  in  linea  di  principio
costituire un trattamento contrario all'art. 3 CEDU. In  particolare,
la Corte  di  Strasburgo  avrebbe  in  piu'  occasioni  affermato  la
necessita' di fornire adeguata tutela a soggetti reclusi portatori di
accentuata vulnerabilita' in quanto affetti  da  patologia  psichica,
affermando che anche l'allocazione in reparto psichiatrico carcerario
puo' dar  luogo  a  trattamento  degradante  quando  le  terapie  non
risultino appropriate e la detenzione si prolunghi per un periodo  di
tempo significativo. 
    6.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  a
causa  della  pluralita'   di   soluzioni   normative   in   astratto
ipotizzabili a tutela del  condannato,  che  escluderebbe  l'asserito
carattere «a rime obbligate» dell'intervento sollecitato dalla  Corte
di cassazione (sono citate, in particolare, l'ordinanza n. 318  e  la
sentenza n. 279 del 2013). 
    La questione  sarebbe  anche  infondata  sia  perche'  gia'  ora,
secondo la giurisprudenza di legittimita', l'infermita' psichica  che
sfoci in grave infermita'  fisica  rende  possibile  il  differimento
della pena e la detenzione domiciliare "in deroga", sia  perche'  una
infermita' psichica che non  sfociasse  in  grave  infermita'  fisica
porrebbe   «tematiche,    inerenti    il    relativo    accertamento,
caratterizzate   da   indubbie   peculiarita',   che   escludono   la
possibilita' di una piena equiparazione e legittimano  un  differente
trattamento in sede di esecuzione  della  pena».  Inoltre,  l'attuale
sistema delle articolazioni per la  salute  mentale  all'interno  del
circuito  penitenziario,  fondato   sull'art.   65   ordin.   penit.,
consentirebbe «un equo bilanciamento tra la posizione del  reo  e  le
esigenze di sicurezza sociale». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte di cassazione, prima sezione  penale,  ha  sollevato
d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art.  47-ter,
comma  1-ter,  della  legge   26   luglio   1975,   n.   354   (Norme
sull'ordinamento  penitenziario  e  sulla  esecuzione  delle   misure
privative e limitative  della  liberta'),  nella  parte  in  cui  non
prevede l'applicazione della detenzione domiciliare "in deroga" anche
nell'ipotesi  di  grave  infermita'  psichica  sopravvenuta   durante
l'esecuzione della pena, per contrasto con gli artt. 2, 3, 27,  32  e
117, primo  comma,  della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione
all'art.  3  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848. 
    Il giudizio principale riguarda  un  detenuto  con  pena  residua
superiore a quattro anni, affetto da una grave  «infermita'  psichica
sopravvenuta» ai sensi dell'art. 148 del codice penale,  intendendosi
per tale, secondo la giurisprudenza consolidata, una malattia mentale
che, pur cronica o preesistente al reato, non sia  stata  considerata
influente sulla capacita' di intendere e  di  volere  nel  corso  del
giudizio penale dal quale e' scaturita la condanna definitiva, oppure
sia  stata  accertata  o  sia  effettivamente  insorta   durante   la
detenzione. 
    Secondo il giudice a quo,  a  un  detenuto  che  si  trovi  nelle
condizioni del ricorrente l'assetto normativo attuale non  offrirebbe
forme  di  esecuzione  della  pena  alternative  alla  detenzione  in
carcere, ma solo la possibilita' di essere assistito presso una delle
«Articolazioni per la  tutela  della  salute  mentale»  eventualmente
costituite  all'interno  del  circuito   penitenziario   sulla   base
dell'art.  65  ordin.  penit.   L'impossibilita'   di   disporre   il
collocamento del detenuto fuori del carcere in un caso come quello di
specie determinerebbe, in  riferimento  ai  parametri  costituzionali
interni, un trattamento contrario al senso di umanita' e  lesivo  del
diritto inviolabile alla salute del  detenuto  (artt.  2,  27,  terzo
comma, e 32 Cost.) e, in riferimento al parametro  convenzionale,  un
trattamento inumano e degradante (art. 117, primo  comma,  Cost.,  in
relazione  all'art.   3   CEDU,   cosi'   come   interpretato   dalla
giurisprudenza della Corte europea dei  diritti  dell'uomo).  Sarebbe
inoltre violato anche l'art. 3 Cost. per  disparita'  di  trattamento
rispetto alla situazione delle persone  portatrici  di  un'infermita'
psichica tale da escludere la capacita' di intendere o di  volere  al
momento del fatto, la' dove si riscontri pericolosita'  sociale,  per
le  quali  l'ordinamento   prevede   un   trattamento   riabilitativo
all'esterno del carcere presso le residenze  per  l'esecuzione  delle
misure  di  sicurezza  (REMS).  Si  ravviserebbe  una  disparita'  di
trattamento altresi' rispetto alle persone condannate con un  analogo
residuo di pena, ma affette da  grave  infermita'  fisica,  le  quali
possono accedere tanto al rinvio  facoltativo  dell'esecuzione  della
pena  di  cui  all'art.  147  cod.  pen.,  quanto   alla   detenzione
domiciliare di cui alla disposizione censurata. 
    2.-  Deve  preliminarmente   essere   respinta   l'eccezione   di
inammissibilita' formulata dal Presidente del Consiglio dei ministri,
basata sulla asserita mancanza di rimedi a "rime obbligate", idonei a
sanare i vizi  di  illegittimita'  costituzionale  prospettati  dalla
Corte rimettente. 
    2.1.-  Nella  giurisprudenza  piu'  recente,  questa   Corte   ha
ripetutamente affermato che, di fronte  alla  violazione  di  diritti
costituzionali, non puo' essere  di  ostacolo  all'esame  nel  merito
della questione di legittimita' costituzionale l'assenza di  un'unica
soluzione a "rime obbligate" per ricondurre l'ordinamento al rispetto
della Costituzione. 
    Proprio in materia penale, questa Corte ha piu'  volte  esaminato
nel  merito  le  questioni  portate  al  suo  esame  qualora  fossero
ravvisabili nell'ordinamento soluzioni gia' esistenti, ancorche'  non
costituzionalmente obbligate, idonee a «porre rimedio  nell'immediato
al vulnus riscontrato», ferma restando la facolta' del legislatore di
intervenire con scelte diverse (cosi' la sentenza n. 222 del 2018; ma
si veda anche,  analogamente,  in  un  ambito  vicino  a  quello  qui
considerato, la sentenza n. 41 del 2018, nonche' la sentenza  n.  236
del  2016).  L'ammissibilita'   delle   questioni   di   legittimita'
costituzionale risulta percio' condizionata non tanto  dall'esistenza
di un'unica  soluzione  costituzionalmente  obbligata,  quanto  dalla
presenza nell'ordinamento di una o piu' soluzioni  costituzionalmente
adeguate, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente  con
la logica perseguita dal legislatore (sentenze n. 40 del  2019  e  n.
233 del 2018). 
    Occorre, infatti, evitare che l'ordinamento presenti zone franche
immuni dal sindacato  di  legittimita'  costituzionale  specie  negli
ambiti, come quello penale, in cui e' piu' impellente  l'esigenza  di
assicurare una tutela  effettiva  dei  diritti  fondamentali,  incisi
dalle scelte del legislatore. Cio' vale tanto piu' in un'ipotesi come
quella di cui la Corte e' ora chiamata a occuparsi, nella quale viene
in rilievo l'effettivita' delle garanzie  costituzionali  di  persone
che non solo si trovano in uno stato  di  privazione  della  liberta'
personale, ma sono anche gravemente malate e, dunque, versano in  una
condizione di duplice vulnerabilita'. 
    2.2.- Nel caso di  specie,  il  giudice  rimettente  ritiene  che
l'ordinamento non offra, allo  stato,  un'alternativa  all'esecuzione
della pena in carcere per i detenuti che soffrono di gravi infermita'
psichiche sopravvenute alla commissione  del  reato  che  si  trovino
nella situazione del  detenuto  ricorrente.  Cio',  a  causa  di  una
evoluzione  dell'ordinamento  che  ha  nei  fatti  svuotato  di  ogni
contenuto  l'art.  148  cod.  pen.,  dedicato  proprio  ai  casi   di
«[i]nfermita' psichica sopravvenuta al condannato»,  come  recita  la
rubrica dello stesso. Per i  gravi  malati  psichici,  la  reclusione
costituirebbe una modalita' di esecuzione  della  pena  contraria  al
senso di umanita' e percio' lesiva degli artt. 2, 27, terzo comma,  e
32 Cost., oltre che dell'art. 3 CEDU che vieta i trattamenti  inumani
o degradanti e, quindi, dell'art. 117, primo comma, Cost. 
    La Corte rimettente ha individuato nell'istituto della detenzione
domiciliare di cui all'art. 47-ter, comma 1-ter,  ordin.  penit.  una
risposta gia' presente nell'ordinamento per  i  detenuti  affetti  da
gravi infermita' fisiche, la quale, per le  modalita'  con  cui  puo'
essere articolata, risulta costituzionalmente  adeguata  e  idonea  a
porre rimedio alle denunciate  violazioni,  in  quanto  permetterebbe
anche ai malati psichici di espiare la  pena  fuori  dal  carcere  in
condizioni che consentano di contemperare le  esigenze  della  tutela
della salute con quelle della sicurezza. Si tratta  della  detenzione
domiciliare "umanitaria" o "in deroga", cosi' denominata perche' puo'
essere disposta anche nei confronti di detenuti  che  debbano  ancora
scontare una pena residua superiore ai quattro anni (come nel caso di
specie), limite previsto dall'art. 47-ter,  comma  1,  ordin.  penit.
quale  requisito  generale  per  poter  beneficiare,  invece,   della
detenzione domiciliare "ordinaria". 
    2.3.- Il giudice rimettente chiede  di  estendere  la  detenzione
domiciliare "in deroga", di  cui  al  censurato  art.  47-ter,  comma
1-ter, ordin. penit., anche ai detenuti  che  soffrono  di  patologie
psichiatriche talmente gravi da rendere l'espiazione  della  pena  in
carcere un trattamento sanzionatorio contrario al senso di  umanita',
oltre che lesivo del diritto alla salute; cio' senza che possa essere
di ostacolo l'entita' della pena residua da scontare. 
    Cosi' configurata, alla luce dei  principi  sopra  enunciati,  la
questione supera il vaglio di ammissibilita'. 
    3.- Nel merito la questione e' fondata. 
    L'ordinanza di rimessione muove dalla premessa  che,  allo  stato
attuale,  un  detenuto   affetto   da   grave   infermita'   psichica
sopravvenuta con un residuo di pena superiore ai quattro  anni,  come
la parte del giudizio a quo, non avrebbe accesso ad alcuna  forma  di
esecuzione della pena alternativa alla detenzione in carcere. 
    La ricostruzione dell'assetto normativo  vigente  compiuta  dalla
Corte di cassazione e' senz'altro da condividere. 
    3.1.- E' vero innanzitutto che  l'art.  148,  primo  comma,  cod.
pen., dedicato appunto ai casi di «[i]nfermita' psichica sopravvenuta
al condannato», e' oggi divenuto inapplicabile, perche'  superato  da
riforme   legislative   che,   pur   senza   disporne   espressamente
l'abrogazione,   l'hanno   completamente   svuotato   di    contenuto
precettivo. La richiamata disposizione codicistica, infatti,  prevede
che il giudice possa disporre la sospensione o il differimento  della
pena  e  il  contestuale  ricovero  in   un   ospedale   psichiatrico
giudiziario, in casa di cura e di  custodia  ovvero,  in  determinate
ipotesi, in un ospedale psichiatrico civile, nei casi  di  infermita'
psichica sopravvenuta dopo la condanna che siano di gravita' tale  da
impedire l'esecuzione della pena in carcere. 
    L'art. 148 cod. pen. riflette un approccio alla malattia  mentale
tipico dell'epoca in cui fu  scritto,  basato  sull'internamento.  In
tale orizzonte culturale, i detenuti malati psichici potevano  essere
allontanati dal carcere per le  difficolta'  che  la  convivenza  con
altri detenuti, in un ambiente ristretto, poteva (e  puo')  generare,
con lo scopo di essere reclusi  altrove,  insieme  ad  altre  persone
similmente malate e senza prospettive di rientro nella vita  sociale.
Tale disposizione non e' mai stata formalmente abrogata, ma tutti gli
istituti a cui essa  rinvia  sono  scomparsi  in  virtu'  di  riforme
legislative che riflettono un cambiamento di  paradigma  culturale  e
scientifico  nel  trattamento  della   salute   mentale,   che   puo'
riassumersi nel  passaggio  dalla  mera  custodia  alla  terapia  (ad
esempio, in tal senso,  il  parere  del  Comitato  nazionale  per  la
bioetica, «Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere»,  del
22 marzo 2019). 
    Sulla base delle  mutate  premesse  culturali  che  orientano  la
tutela della salute mentale, gli ospedali  psichiatrici  civili  sono
stati chiusi oltre quaranta anni fa dalla nota legge Basaglia  (legge
13 maggio 1978, n. 180, recante «Accertamenti e trattamenti  sanitari
volontari  e  obbligatori»).  Quanto   agli   ospedali   psichiatrici
giudiziari  (OPG)  e  alle  case  di  cura  e  custodia,  essi  hanno
dimostrato la loro inidoneita' a garantire la salute mentale  di  chi
ivi era ricoverato (sentenza n. 186 del 2015) e  sono  percio'  stati
espunti dall'ordinamento giuridico a far data dal 31  marzo  2015,  a
seguito di un lungo itinerario legislativo, avviato dall'art.  5  del
decreto del Presidente del Consiglio  dei  ministri  1°  aprile  2008
(Modalita' e criteri  per  il  trasferimento  al  Servizio  sanitario
nazionale delle funzioni sanitarie, dei  rapporti  di  lavoro,  delle
risorse finanziarie  e  delle  attrezzature  e  beni  strumentali  in
materia di sanita' penitenziaria); proseguito con  l'art.  3-ter  del
decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211  (Interventi  urgenti  per  il
contrasto della tensione detentiva determinata  dal  sovraffollamento
delle  carceri),  convertito,  con  modificazioni,  nella  legge   17
febbraio 2012, n. 9; continuato con l'art. 1, comma 1, lettera a, del
decreto-legge 25 marzo 2013, n. 24 (Disposizioni urgenti  in  materia
sanitaria), convertito, con  modificazioni,  nella  legge  23  maggio
2013, n. 57, e terminato con l'art.  1  del  decreto-legge  31  marzo
2014, n. 52 (Disposizioni urgenti in  materia  di  superamento  degli
ospedali psichiatrici  giudiziari),  convertito,  con  modificazioni,
nella legge 30 maggio  2014,  n.  81.  Conclusosi  l'iter  normativo,
l'effettiva  chiusura  degli  ultimi  OPG  e'  avvenuta  solo  grazie
all'opera del commissario unico nominato dal Governo  a  tale  scopo,
che ha perfezionato la definitiva dismissione di tali istituzioni nel
2017. 
    Chiusi gli ospedali psichiatrici civili e  giudiziari,  non  puo'
piu' farsi riferimento all'art. 148 cod. pen., vale  a  dire  l'unica
disposizione dedicata alla condizione dei detenuti affetti  da  gravi
patologie psichiche sopravvenute. 
    3.2.- Nel frattempo, il legislatore ha istituito le residenze per
l'esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), su base regionale e  a
esclusiva gestione sanitaria. Tali strutture non sono pero' destinate
ad accogliere i condannati in cui la malattia psichica  si  manifesti
successivamente.  Per  queste   persone   l'ordinamento   non   offre
alternative al carcere, ove e' possibile soltanto che siano istituite
apposite «sezioni speciali» per i soggetti affetti  da  infermita'  o
minorazioni fisiche o psichiche, secondo quanto disposto dall'art. 65
ordin. penit. 
    Il lungo e faticoso processo riformatore  che  ha  dato  vita  al
fondamentale  risultato  della  chiusura  degli  OPG  non  e'   stato
completato con previsioni adeguate alla situazione dei  detenuti  con
gravi malattie psichiche sopravvenute. E' rimasta, infatti incompiuta
quella parte della delega disposta dalla legge 23 giugno 2017, n. 103
(Modifiche  al  codice  penale,  al  codice  di  procedura  penale  e
all'ordinamento penitenziario), relativa ai detenuti malati psichici,
volta  a  garantire   loro   adeguati   trattamenti   terapeutici   e
riabilitativi anche attraverso misure  alternative  alla  detenzione,
oltre che  attraverso  la  creazione  di  nuove  strutture  sanitarie
interne al carcere. L'istituzione delle REMS introdotte dalla riforma
non e' di rimedio alla lacuna che si e' venuta a  creare  in  seguito
alla chiusura degli OPG.  Come  correttamente  osserva  la  Corte  di
cassazione  rimettente,  le  REMS  non  sono  istituzioni   volte   a
sostituire  i  vecchi  ospedali  psichiatrici  sotto  altra  veste  e
denominazione. Mentre i vecchi OPG erano destinati a ospitare tutti i
malati psichiatrici gravi in qualsiasi modo venuti a contatto con  la
giurisdizione penale e, dunque, anche  i  condannati  con  infermita'
psichica "sopravvenuta" alla condanna, al contrario  le  REMS,  cosi'
come chiaramente indica la  loro  stessa  denominazione,  hanno  come
unici destinatari i malati psichiatrici che sono stati  ritenuti  non
imputabili in sede di giudizio penale o che, condannati  per  delitto
non colposo a una pena diminuita per cagione di infermita'  psichica,
sono stati sottoposti a una misura di sicurezza (art. 3-ter, comma 2,
del d.l. n. 211 del 2011, introdotto dalla legge di conversione n.  9
del 2012 e successivamente attuato con  decreto  del  Ministro  della
salute adottato di  concerto  con  il  Ministro  della  giustizia  1°
ottobre  2012,  recante   «Requisiti   strutturali,   tecnologici   e
organizzativi delle strutture residenziali destinate ad accogliere le
persone cui sono applicate le misure di  sicurezza  del  ricovero  in
ospedale psichiatrico giudiziario e dell'assegnazione a casa di  cura
e custodia»). 
    Il chiaro dettato normativo attualmente vigente non  puo'  essere
integrato in via interpretativa neppure considerando  quel  passaggio
della citata legge di delega nel quale  ambiguamente  si  prevede  la
«destinazione alle REMS prioritariamente dei soggetti per i quali sia
stato accertato in via definitiva lo stato di infermita'  al  momento
della  commissione  del  fatto,  da  cui  derivi   il   giudizio   di
pericolosita' sociale, nonche' dei soggetti per i quali  l'infermita'
di mente sia sopravvenuta  durante  l'esecuzione  della  pena,  degli
imputati sottoposti a misure di  sicurezza  provvisorie  e  di  tutti
coloro  per  i  quali  occorra  accertare  le   relative   condizioni
psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle  quali
sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i  trattamenti
terapeutico-riabilitativi» (art. 1, comma 16, lettera d, della  legge
n. 103 del 2017). Si tratta infatti di  una  delle  previsioni  della
delega a cui non e' stata data attuazione. 
    3.3.- Rimasto incompiuto il complesso disegno  riformatore,  oggi
il tessuto normativo presenta serie carenze che gravano, tra l'altro,
proprio sulla condizione dei detenuti affetti da infermita'  psichica
sopravvenuta, i quali non hanno accesso ne' alle REMS  ne'  ad  altre
misure alternative al carcere, qualora abbiano  un  residuo  di  pena
superiore a quattro anni, come il detenuto ricorrente. 
    I detenuti che si trovino in condizioni  simili  a  quelle  della
parte nel giudizio a quo non possono avere  accesso  alla  detenzione
domiciliare "ordinaria" di cui all'art. 47-ter, comma 1,  lettera  c,
ordin. penit., prevista per tutti i detenuti  con  una  pena  residua
inferiore  a  quattro   anni   e   che   siano   gravemente   malati,
indipendentemente dal tipo di patologia - fisica o psichica - di  cui
soffrono. 
    Neppure  puo'  essere  loro  applicato  l'istituto   del   rinvio
obbligatorio della esecuzione della pena di cui all'art.  146,  primo
comma, numero 3), cod. pen., perche' la grave patologia psichica  non
integra il presupposto ivi previsto della  malattia  grave,  in  fase
cosi' avanzata da essere refrattaria alle terapie. 
    Inoltre, i malati psichici non possono  nemmeno  beneficiare  del
rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena di  cui  all'art.  147,
primo comma, numero 2), cod. pen., perche' questa previsione riguarda
solo i casi di «grave infermita' fisica». 
    Quest'ultima disposizione non  lascia  margini  per  una  diversa
interpretazione, tale da renderla applicabile anche al  detenuto  che
soffra di una patologia psichica. Ostano a tale interpretazione tanto
il   dato   testuale,   quanto   l'orientamento   consolidato   della
giurisprudenza di legittimita', secondo la quale  le  sole  patologie
psichiatriche che possono consentire al giudice di disporre il rinvio
facoltativo dell'esecuzione della pena sono quelle da cui  discendono
anche gravi ricadute di tipo fisico (tra le numerosissime pronunce in
questo senso Corte di cassazione, sezione prima penale,  sentenze  11
maggio-30 agosto 2016, n. 35826 e 28 gennaio-16  settembre  2015,  n.
37615). 
    In breve, poiche' il rinvio obbligatorio  o  facoltativo  di  cui
agli artt. 146 e 147 cod. pen. riguarda solo le  persone  affette  da
grave infermita' fisica, come si e' visto poco sopra, ne consegue che
i malati psichici  non  possono  giovarsi  neppure  della  detenzione
domiciliare "umanitaria" o "in deroga",  di  cui  al  censurato  art.
47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., che a  tali  disposizioni  rinvia
nel definire il suo ambito di applicazione. 
    4.- La  mancanza  di  qualsiasi  alternativa  al  carcere  per  i
detenuti affetti da grave  malattia  psichica  sopravvenuta  viola  i
principi costituzionali invocati nell'ordinanza di rimessione. 
    4.1.- La malattia psichica e' fonte di sofferenze non meno  della
malattia fisica ed e' appena il caso  di  ricordare  che  il  diritto
fondamentale alla salute ex art. 32 Cost., di  cui  ogni  persona  e'
titolare, deve intendersi come  comprensivo  non  solo  della  salute
fisica, ma anche della salute psichica, alla quale  l'ordinamento  e'
tenuto ad apprestare un identico  grado  di  tutela  (tra  le  molte,
sentenze n. 169 del 2017, n. 162 del 2014, n. 251 del  2008,  n.  359
del 2003, n. 282 del 2002 e n. 167  del  1999),  anche  con  adeguati
mezzi per garantirne l'effettivita'. 
    Occorre, anzi, considerare che soprattutto le patologie psichiche
possono aggravarsi  e  acutizzarsi  proprio  per  la  reclusione:  la
sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per
se' a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti  delle
persone malate, si' da determinare, nei  casi  estremi,  una  vera  e
propria incompatibilita' tra carcere e disturbo mentale. 
    Come emerge anche dalla giurisprudenza della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo (tra le altre, Corte EDU, seconda sezione, sentenza
17 novembre 2015, Bamouhammad contro Belgio, paragrafo 119,  e  Corte
EDU, grande camera, sentenza 26  aprile  2016,  Murray  contro  Paesi
Bassi, paragrafo 105), in taluni  casi  mantenere  in  condizione  di
detenzione una persona affetta da grave malattia  mentale  assurge  a
vero e proprio  trattamento  inumano  o  degradante,  nel  linguaggio
dell'art.  3  CEDU,  ovvero  a  trattamento  contrario  al  senso  di
umanita', secondo le espressioni usate  dall'art.  27,  terzo  comma,
della Costituzione italiana. 
    4.2.- Se e' vero che la tutela della salute mentale dei  detenuti
richiede interventi complessi e integrati, che muovano  anzitutto  da
un potenziamento  delle  strutture  sanitarie  in  carcere,  e'  vero
altresi'  che  occorre  che  l'ordinamento  preveda  anche   percorsi
terapeutici esterni, almeno per i casi di accertata  incompatibilita'
con l'ambiente carcerario. Per questi casi gravi, l'ordinamento  deve
prevedere misure  alternative  alla  detenzione  carceraria,  che  il
giudice possa disporre caso per caso, momento per momento,  modulando
il percorso penitenziario tenendo conto e della tutela  della  salute
dei malati psichici e della pericolosita' del condannato, di modo che
non siano sacrificate le esigenze della sicurezza collettiva. 
    Per le ragioni sopra esposte, questa Corte ritiene  in  contrasto
con i principi costituzionali di cui  agli  artt.  2,  3,  27,  terzo
comma, 32 e 117, primo comma, Cost. l'assenza di ogni alternativa  al
carcere, che impedisce  al  giudice  di  disporre  che  la  pena  sia
eseguita fuori dagli istituti di detenzione, anche qualora, a seguito
di tutti i necessari accertamenti medici, sia stata  riscontrata  una
malattia mentale che provochi  una  sofferenza  talmente  grave  che,
cumulata con l'ordinaria afflittivita' del carcere, dia  luogo  a  un
supplemento di pena contrario al senso di umanita'. 
    4.3.- Questa  Corte,  con  una  sentenza  risalente,  preso  atto
dell'insoddisfacente trattamento  riservato  all'infermita'  psichica
grave, sopravvenuta alla condanna, ha  richiamato  il  legislatore  a
«trovare una equilibrata  soluzione»  che  garantisca  ai  condannati
affetti da patologie  psichiche  «la  cura  della  salute  mentale  -
tutelata dall'art. 32 della Costituzione - senza  che  sia  eluso  il
trattamento penale» (sentenza n. 111 del 1996). A distanza  di  tanti
anni, tale richiamo e' rimasto inascoltato. 
    Pur consapevole che incombe sul legislatore il dovere di  portare
a termine nel modo migliore la gia' avviata riforma  dell'ordinamento
penitenziario nell'ambito della salute mentale, con la previsione  di
apposite strutture interne ed esterne al carcere,  questa  Corte  non
puo' esimersi dall'intervenire  per  rimediare  alla  violazione  dei
principi costituzionali denunciata dal giudice  rimettente,  di  modo
che sia da subito  ripristinato  un  adeguato  bilanciamento  tra  le
esigenze della sicurezza  della  collettivita'  e  la  necessita'  di
garantire il diritto alla salute dei detenuti (art. 32  Cost.)  e  di
assicurare che nessun condannato sia mai costretto a scontare la pena
in condizioni contrarie al senso di umanita' (art. 27,  terzo  comma,
Cost.), meno che mai un detenuto malato. 
    Pertanto,  deve  essere  accolta  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  prospettata  dal  giudice  rimettente  e   dichiarata
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 47-ter, comma 1-ter, ordin.
penit., nella parte in cui non consente che la detenzione domiciliare
"umanitaria" sia disposta anche nelle  ipotesi  di  grave  infermita'
psichica sopravvenuta. 
    5.-  La   misura   alternativa   della   detenzione   domiciliare
"umanitaria" o "in deroga", individuata  dal  giudice  rimettente  si
presta, allo stato attuale, a colmare le carenze sopra individuate. 
    L'istituto della detenzione domiciliare e' una  misura  che  puo'
essere modellata  dal  giudice  in  modo  tale  da  salvaguardare  il
fondamentale diritto alla  salute  del  detenuto,  qualora  esso  sia
incompatibile con la permanenza in carcere e, contemporaneamente,  le
esigenze di difesa della collettivita' che deve essere protetta dalla
potenziale  pericolosita'  di  chi  e'  affetto  da  alcuni  tipi  di
patologia psichiatrica. 
    5.1.- Introdotta dalla legge 10 ottobre 1986, n.  663  (Modifiche
alla legge sull'ordinamento penitenziario e  sulla  esecuzione  delle
misure  privative  e  limitative  della  liberta'),   la   detenzione
domiciliare e' stata nel corso del tempo ampliata  quanto  all'ambito
di applicazione e parzialmente ridisegnata nelle sue finalita', tanto
da interventi del legislatore quanto da  pronunce  di  questa  Corte.
Essa   risponde   sempre,   tuttavia,   secondo   la   giurisprudenza
costituzionale, a una «logica unitaria e indivisibile»  (sentenze  n.
211 del 2018 e n. 177 del 2009). 
    Per quanto qui  rileva,  questa  Corte  ha  riconosciuto  che  la
detenzione domiciliare costituisce «"non una misura alternativa  alla
pena", ma una pena "alternativa alla detenzione o, se si  vuole,  una
modalita' di esecuzione della pena"»,  sottolineando  come  essa  sia
sempre accompagnata da «prescrizioni limitative della liberta', sotto
la vigilanza del magistrato di sorveglianza e  con  l'intervento  del
servizio sociale» (ordinanza n. 327 del 1989). Per questo motivo, tra
l'altro, essa differisce completamente dalla  semplice  scarcerazione
del detenuto  che  consegue  al  rinvio  dell'esecuzione  della  pena
disposto sulla base degli artt. 146 e 147 cod. pen. 
    Il dato  normativo,  in  effetti,  non  lascia  alcun  dubbio  in
proposito. 
    L'art. 47-ter, comma 4, ordin. penit. prevede che  il  «tribunale
di sorveglianza, nel disporre la detenzione domiciliare, ne fissa  le
modalita' secondo quanto stabilito dall'articolo 284  del  codice  di
procedura penale», il quale  a  sua  volta  statuisce  che,  con  «il
provvedimento  che  dispone  gli  arresti  domiciliari,  il   giudice
prescrive all'imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o
da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di  cura
o di assistenza ovvero, ove istituita, da una casa famiglia protetta»
(comma 1). 
    Pertanto, la detenzione domiciliare non significa  riduttivamente
un ritorno a casa o tanto meno un ritorno alla  liberta';  certamente
essa comporta l'uscita dal carcere, ma e' pur sempre accompagnata  da
severe limitazioni della liberta' personale, dato che il giudice, nel
disporla, stabilisce le condizioni e le modalita'  di  svolgimento  e
individua il luogo di detenzione, che puo' essere anche diverso dalla
propria abitazione, se piu' adeguato a contemperare  le  esigenze  di
tutela della salute del malato, quella della sicurezza e quelle della
persona offesa dal reato (art. 284, comma 1-bis, cod. proc. pen.). Di
fondamentale rilievo e' la possibilita' che la detenzione domiciliare
possa svolgersi, oltre che «nella propria abitazione o in altro luogo
di privata dimora», anche in «luogo pubblico di  cura,  assistenza  o
accoglienza»,  come  prevede  l'art.  284  cod.  proc.  pen.  e  come
ribadisce anche il comma 1 del medesimo art. 47-ter ordin. penit. 
    Inoltre, occorre  sottolineare  che  il  detenuto  in  regime  di
detenzione domiciliare non si puo' allontanare dal  luogo  a  cui  e'
assegnato, salvo specifiche autorizzazioni da parte del giudice (art.
284, comma 3, cod. proc. pen.), il quale puo' anche imporgli limiti o
divieti alla facolta' di comunicare con persone diverse da quelle che
con lui coabitano o che lo assistono (art. 284, comma 2,  cod.  proc.
pen.). In ogni caso, il pubblico ministero o la polizia  giudiziaria,
anche di propria iniziativa,  possono  controllare  in  ogni  momento
l'osservanza delle prescrizioni imposte  (art.  284,  comma  4,  cod.
proc. pen.). L'art. 47-ter, comma 4, ordin. penit. aggiunge  poi  che
il tribunale di sorveglianza «[d]etermina e  impartisce  altresi'  le
disposizioni  per  gli  interventi   del   servizio   sociale.   Tali
prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal  magistrato
di  sorveglianza  competente  per  il  luogo  in  cui  si  svolge  la
detenzione domiciliare». 
    5.2.-   L'introduzione   nell'ordinamento   penitenziario   della
disposizione relativa alla detenzione domiciliare "umanitaria" o  "in
deroga" di cui al censurato art. 47-ter, comma 1-ter,  ordin.  penit.
si deve alla piu' recente legge 27 maggio  1998,  n.  165  (Modifiche
all'art. 656 del codice di procedura penale ed alla legge  26  luglio
1975, n. 354 e successive modificazioni). 
    Tale disposizione stabilisce che quando «potrebbe essere disposto
il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della  pena  ai
sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale»,  il  tribunale  di
sorveglianza, anche se la pena supera il limite di  quattro  anni  di
cui all'art. 47-ter,  comma  1,  ordin.  penit.,  «puo'  disporre  la
applicazione della detenzione domiciliare».  Come  si  e'  detto,  in
virtu' dei richiami agli artt. 146 e 147  cod.  pen.,  la  detenzione
domiciliare "in deroga" e' oggi preclusa ai malati psichici. 
    Questa Corte ha gia' esplicitato che la ragione che ha spinto  il
legislatore a introdurre la detenzione  domiciliare  "in  deroga"  e'
offrire una «alternativa  rispetto  al  differimento  dell'esecuzione
della pena», «nella prospettiva di creare uno strumento intermedio  e
piu' duttile tra il mantenimento della detenzione  in  carcere  e  la
piena liberazione del condannato (conseguente al rinvio): permettendo
cosi' di tener conto della eventuale pericolosita' sociale residua di
quest'ultimo e della connessa  necessita'  di  contemperamento  delle
istanze di tutela del condannato medesimo con quelle di  salvaguardia
della sicurezza pubblica» (ordinanza n. 255 del 2005). 
    Anche la giurisprudenza di legittimita' sottolinea che  la  norma
sulla detenzione domiciliare  "in  deroga",  della  cui  legittimita'
costituzionale ora si discute,  persegue  proprio  «la  finalita'  di
colmare  una  lacuna  della  previgente  normativa»,  che   «imponeva
un'alternativa secca tra carcerazione e liberta' senza  vincoli»,  da
un lato,  obbedendo  «all'esigenza  di  effettivita'  dell'espiazione
della pena e del necessario controllo cui vanno sottoposti i soggetti
pericolosi» e,  dall'altro,  mirando  a  una  esecuzione  della  pena
«mediante forme compatibili con il senso di umanita'» (cosi', tra  le
molte,  Corte  di  cassazione,  sezione  prima  penale,  sentenza   5
aprile-16 settembre 2016, n. 38680). 
    5.3.- In definitiva, la detenzione domiciliare e'  uno  strumento
capace di offrire sollievo ai malati  piu'  gravi,  per  i  quali  la
permanenza in carcere provoca un tale livello di sofferenza da ferire
il senso di umanita'; al tempo stesso, essa puo'  essere  configurata
in modo variabile, con un dosaggio ponderato delle limitazioni, degli
obblighi e delle autorizzazioni secondo le esigenze del caso:  grazie
a  una  attenta  individuazione  del  luogo  di  detenzione,  possono
perseguirsi finalita' terapeutiche e di protezione, senza  trascurare
le esigenze dei suoi familiari e assicurando,  al  tempo  stesso,  la
sicurezza della collettivita'. 
    La varieta' dei quadri  clinici  e  delle  condizioni  sociali  e
familiari dei detenuti affetti da malattie psichiche esige  da  parte
del giudice un'attenta  valutazione  caso  per  caso  e  momento  per
momento della singola situazione. A lui spettera'  verificare,  anche
in base alle strutture e ai servizi di cura offerti  all'interno  del
carcere, alle esigenze di salvaguardia  degli  altri  detenuti  e  di
tutto il personale che  opera  negli  istituti  penitenziari,  se  il
condannato affetto da grave malattia psichica sia  in  condizioni  di
rimanere in carcere o debba essere destinato a un luogo  esterno,  ai
sensi dell'art. 47-ter, comma 1-ter, ordin.  penit.,  fermo  restando
che cio' non puo' accadere se  il  giudice  ritiene  prevalenti,  nel
singolo caso, le esigenze della sicurezza pubblica. 
    In conclusione, e' opportuno sottolineare che,  anche  alla  luce
della piu' recente  giurisprudenza  di  legittimita',  la  detenzione
domiciliare  "umanitaria"  offre  al  giudice  una  possibilita'   da
attivare quando le  condizioni  lo  consentano,  sulla  base  di  una
complessiva valutazione a cui non puo' rimanere estraneo «il giudizio
di pericolosita' ostativa a trattamenti extra-murari,  opportunamente
rinnovato  e  attualizzato  in  parallelo   alla   evoluzione   della
condizione sanitaria e personale del detenuto» (Corte di  cassazione,
sezione prima penale, sentenza 28  novembre  2018-4  marzo  2019,  n.
9410).