ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  649  del
codice di procedura  penale,  promosso  dal  Tribunale  ordinario  di
Bergamo nel procedimento penale a carico di L. M., con ordinanza  del
27 giugno 2018, iscritta al n. 169  del  registro  ordinanze  2018  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  47,  prima
serie speciale, dell'anno 2018. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  L.  M.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  del  18  giugno  2019  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    uditi l'avvocato Vittorio Meanti per L.  M.  e  l'avvocato  dello
Stato Gianna Galluzzo per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 27 giugno 2018, il Tribunale  ordinario  di
Bergamo ha sollevato - in riferimento  agli  artt.  3  e  117,  primo
comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art.  4  del
Protocollo n. 7 alla Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU) adottato a  Strasburgo
il 22 novembre 1984, ratificato e  reso  esecutivo  con  la  legge  9
aprile  1990,  n.  98  -  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 649 del codice di procedura penale «nella parte in cui  non
prevede l'applicabilita' della disciplina del divieto di  un  secondo
giudizio nei confronti di imputato al quale, con riguardo agli stessi
fatti, sia gia' stata irrogata in via definitiva, nell'ambito  di  un
procedimento    amministrativo,    una    sanzione    di    carattere
sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti
dell'Uomo e dei relativi Protocolli». 
    1.1.-  Il  rimettente   premette   di   dover   giudicare   della
responsabilita' di L.  M.,  imputato  del  reato  previsto  dall'art.
10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina
dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto,  a
norma dell'art. 9 della legge 25 giugno  1999,  n.  205),  per  avere
omesso, in qualita' di titolare dell'omonima impresa individuale,  il
versamento dell'imposta sul  valore  aggiunto  (IVA)  dovuta  per  il
periodo d'imposta 2011, per l'ammontare di 282.495,76 euro. 
    Osserva il giudice a quo che la  medesima  omissione  costituisce
altresi' illecito tributario, ai sensi dell'art.  13,  comma  1,  del
decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, recante «Riforma  delle
sanzioni tributarie non penali in  materia  di  imposte  dirette,  di
imposta sul valore aggiunto e di riscossione  dei  tributi,  a  norma
dell'articolo 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996,
n. 662». A tale titolo l'imputato e' gia' stato destinatario  di  una
cartella esattoriale, notificata il 6 novembre 2013, con la quale gli
era stato ingiunto  il  pagamento  dell'IVA  non  versata  e  di  una
sanzione amministrativa pari a 84.748,74 euro, corrispondente  al  30
per cento dell'ammontare del debito tributario. 
    Espone altresi' il rimettente che la sanzione  amministrativa  e'
divenuta definitiva prima dell'esercizio dell'azione penale, avvenuta
mediante decreto di citazione diretta  a  giudizio  del  13  novembre
2014, e che il 6 maggio 2014 L. M. e' stato autorizzato al  pagamento
rateale della somma evasa e della sanzione. 
    1.2.- Il rimettente riferisce quindi di avere, con ordinanza  del
16 settembre 2015, sottoposto alla  Corte  di  giustizia  dell'Unione
europea, nell'ambito del  medesimo  giudizio  a  quo,  una  questione
pregiudiziale d'interpretazione volta a  chiarire  se  la  previsione
dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
(CDFUE),  proclamata  a  Nizza  il  7  dicembre  2000  e  adattata  a
Strasburgo il 12 dicembre 2007, «interpretato alla luce  dell'art.  4
prot. n. 7 CEDU e della relativa giurisprudenza della  Corte  europea
dei  diritti  dell'uomo,  osti  alla  possibilita'  di  celebrare  un
procedimento penale avente ad oggetto  un  fatto  (omesso  versamento
IVA)  per  cui  il  soggetto  imputato   abbia   riportato   sanzione
amministrativa irrevocabile». 
    Con sentenza 20 marzo 2018, in causa C-524/15, Menci, la Corte di
giustizia ha statuito che: 
    «1)  L'articolo  50  della   Carta   dei   diritti   fondamentali
dell'Unione europea deve essere interpretato nel senso che  esso  non
osta ad una normativa nazionale in forza  della  quale  e'  possibile
avviare procedimenti penali  a  carico  di  una  persona  per  omesso
versamento dell'imposta sul valore aggiunto dovuta entro i termini di
legge, qualora a tale persona sia gia' stata inflitta, per i medesimi
fatti, una sanzione amministrativa definitiva  di  natura  penale  ai
sensi del citato articolo 50, purche' siffatta normativa 
    - sia volta  ad  un  obiettivo  di  interesse  generale  tale  da
giustificare un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni,  vale  a
dire la lotta ai reati in materia di  imposta  sul  valore  aggiunto,
fermo restando che detti procedimenti e dette sanzioni  devono  avere
scopi complementari, 
    - contenga norme che garantiscano una coordinazione che limiti  a
quanto strettamente necessario l'onere supplementare che risulta, per
gli interessati, da un cumulo di procedimenti, e 
    - preveda norme che consentano di garantire che la severita'  del
complesso delle sanzioni imposte sia limitata a  quanto  strettamente
necessario rispetto alla gravita' del reato di cui si tratti. 
    2) Spetta  al  giudice  nazionale  accertare,  tenuto  conto  del
complesso delle circostanze del procedimento principale, che  l'onere
risultante concretamente per  l'interessato  dall'applicazione  della
normativa nazionale in discussione nel procedimento principale e  dal
cumulo dei procedimenti e delle sanzioni che  la  medesima  autorizza
non sia eccessivo rispetto alla gravita' del reato commesso». 
    1.3.- All'esito del giudizio innanzi alla Corte di giustizia,  il
rimettente  solleva  ora  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 649 cod. proc. pen., sospettandone il contrasto  tanto  con
l'art. 117, primo comma, Cost. «nella misura in cui eleva a norma  di
rango    costituzionale    la    norma     interposta     discendente
dall'interpretazione della disposizione dell'art.  50  CDFUE  fornita
dalla Corte di Giustizia», quanto con l'art. 3 Cost., «declinato come
principio di ragionevolezza intrinseca dell'ordinamento». 
    Il rimettente premette che, nella citata sentenza Menci, la Corte
di giustizia avrebbe ravvisato l'identita' dei  fatti  in  ordine  ai
quali L. M. era stato soggetto prima a un procedimento amministrativo
e poi a un procedimento penale, e avrebbe  altresi'  riconosciuto  la
natura  punitiva,  in  base  ai  cosiddetti  "criteri  Engel",  della
sanzione amministrativa irrogata a L. M. in base all'art.  13,  comma
1, d.lgs. n. 471 del 1997, demandando poi  al  giudice  nazionale  di
valutare l'eventuale eccessiva  onerosita',  per  l'interessato,  del
cumulo di procedimenti  e  sanzioni,  derivante  dalla  possibilita',
prevista dall'ordinamento italiano, di punire  l'illecito  di  omesso
versamento dell'IVA, al di sopra della soglia di punibilita', sia con
sanzione amministrativa, sia con sanzione penale. 
    Il giudice a quo ritiene allora che tale cumulo di procedimenti e
sanzioni, sia, in  effetti,  eccessivamente  oneroso,  e  foriero  di
«un'ingiustificata disparita' di trattamento, specie se rapportata al
quadro sanzionatorio delle fattispecie originarie del d.lgs.  74/2000
nonche'    di    un    problema    di    ragionevolezza    intrinseca
dell'ordinamento». 
    Tali  criticita'   non   potrebbero   peraltro   essere   risolte
applicando, nella specie, il censurato art. 649 cod. proc. pen.,  che
vieta di  sottoporre  chi  sia  stato  prosciolto  o  condannato  con
sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili a nuovo  procedimento
penale per il medesimo fatto. Il tenore letterale della disposizione,
infatti, ricollega l'effetto preclusivo  del  secondo  giudizio  alla
«formazione di un giudicato penale». Donde l'affermata necessita'  di
una  pronuncia  di  questa  Corte,  che  estenda  la  portata   della
disposizione all'ipotesi, che qui viene  in  considerazione,  in  cui
l'imputato sia gia' stato destinatario di una sanzione amministrativa
di carattere "punitivo", divenuta  definitiva  prima  dell'avvio  del
procedimento penale a suo carico. 
    Il giudice a quo evidenzia che l'importo dell'IVA non versata  e'
superiore alla soglia di punibilita' prevista  dall'art.  10-ter  del
d.lgs.  n.  74  del  2000,  innalzata  a  250.000  euro  dal  decreto
legislativo  24  settembre  2015,  n.  158  (Revisione  del   sistema
sanzionatorio, in attuazione dell'articolo 8, comma 1, della legge 11
marzo 2014, n. 23), e che l'imputato non ha integralmente versato  le
rate della sanzione amministrativa irrogatagli,  di  talche'  risulta
inapplicabile la causa  di  non  punibilita'  introdotta,  nel  testo
dell'art. 13 del d.lgs. n. 74 del 2000, dal d.lgs. 158 del 2015. 
    Il rimettente osserva quindi che gli artt. 19, 20 e 21 del d.lgs.
n. 74 del 2000, pur «intesi a prevenire, sul  piano  sostanziale,  la
duplicazione delle sanzioni» penali  e  amministrative  in  relazione
agli illeciti tributari, non impediscono, ne' hanno impedito nel caso
di specie, l'avvio del procedimento penale  dopo  la  conclusione  di
quello amministrativo. Infatti, l'art. 19 del d.lgs. n. 74  del  2000
stabilisce che quando il medesimo fatto e' punito, in  quanto  reato,
ai sensi del Titolo II del d.lgs. n. 74  del  2000,  e,  allo  stesso
tempo, in quanto illecito amministrativo, deve  essere  applicata  la
sola disposizione speciale - disposizione che, nel caso in esame,  e'
quella penale. Tuttavia questa regola, in base all'art. 21 del d.lgs.
n. 74 del 2000, non impedirebbe che  il  procedimento  amministrativo
finalizzato all'applicazione della sanzione e il processo  tributario
siano avviati e se del caso conclusi, posto che la legge esclude  che
essi siano sospesi a causa della pendenza del procedimento penale. La
sanzione amministrativa, anzi,  dovrebbe  essere  applicata  in  ogni
caso, ma non potrebbe essere  eseguita,  salvo  che  il  procedimento
penale sia definito con provvedimento di  archiviazione,  o  sentenza
irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con una formula  che
esclude la rilevanza penale del fatto (art. 21, comma 2,  del  d.lgs.
n. 74 del 2000). In tal  modo,  il  legislatore  avrebbe  offerto  un
rimedio per scongiurare il rischio di duplicazione delle sanzioni  al
medesimo   soggetto   per   l'identico    fatto,    ma    -    stante
l'inapplicabilita' dell'art. 649 cod. proc. pen. -  avrebbe  comunque
imposto  la  celebrazione   del   giudizio   penale   nonostante   la
definitivita' della sanzione amministrativa gia' inflitta. 
    Ad avviso  del  rimettente,  il  cosiddetto  sistema  del  doppio
binario (penale e amministrativo) in materia tributaria  risulterebbe
giustificato  in   relazione   alle   sole   fattispecie   delittuose
originariamente  previste  dal  d.lgs.  n.  74  del  2000,  ossia  le
dichiarazioni fraudolente o infedeli di cui agli  artt.  2,  3  e  4,
l'omessa dichiarazione di cui all'art. 5, l'emissione  di  fatture  o
altri  documenti  per  operazioni  inesistenti  di  cui  all'art.  8,
l'occultamento o distruzione di documenti contabili di  cui  all'art.
10, la  sottrazione  fraudolenta  al  pagamento  di  imposte  di  cui
all'art. 11. Dette fattispecie - che concretano reati di pericolo,  a
dolo specifico, e presuppongono l'impiego di mezzi decettivi da parte
del  contribuente  -  assumerebbero  infatti  a  oggetto  diretto   e
immediato    della    tutela    penale    non    gia'     l'interesse
dell'Amministrazione finanziaria al pagamento dei tributi -  tutelato
anche  dalle  sanzioni  amministrative  -,  bensi'  «la  funzione  di
accertamento  che  le  infedelta'  del  contribuente   rischiano   di
compromettere». Del  tutto  priva  di  giustificazione  risulterebbe,
invece,  la  previsione   del   doppio   binario   procedimentale   e
sanzionatorio rispetto  alle  fattispecie  di  omesso  versamento  di
ritenute dovute o certificate di cui  all'art.  10-bis  e  di  omesso
versamento dell'IVA di cui all'art. 10-ter, rispettivamente  inserite
nel corpo del d.lgs. n. 74 del 2000 dall'art.  1,  comma  414,  della
legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per  la  formazione  del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato, e dall'art. 35, comma  7,
del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante Disposizioni urgenti
per il rilancio  economico  e  sociale,  per  il  contenimento  e  la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia
di entrate e  di  contrasto  all'evasione  fiscale,  convertito,  con
modificazioni,  nella  legge  4  agosto  2006,  n.  248).  Le   norme
incriminatrici  in  questione  sarebbero  infatti  poste  a  presidio
dell'interesse   dell'Amministrazione   all'esatta   percezione   del
tributo, ossia dello stesso bene giuridico  tutelato  dalla  sanzione
amministrativa. 
    L'identita' «naturalistica, giuridica e  di  politica  criminale»
tra il  delitto  di  omesso  versamento  dell'IVA  e  il  correlativo
illecito  amministrativo  impedirebbero  di  ritenere   integrati   i
requisiti cui  la  Corte  di  giustizia,  nella  sentenza  Menci,  ha
condizionato la valutazione di  conformita'  all'art.  50  CDFUE  del
doppio  binario  sanzionatorio   previsto   in   materia   tributaria
nell'ordinamento   italiano   (individuate   dal   rimettente   nella
complementarieta' di scopi  tra  procedimenti  e  relative  sanzioni,
nella diversita' di taluni aspetti della condotta sanzionata; nonche'
nella sussistenza di una normativa di coordinamento atta  a  limitare
l'onere supplementare derivante dal cumulo di procedimenti e di norme
idonee a garantire la  proporzionalita'  della  complessiva  risposta
sanzionatoria rispetto alla gravita' del  reato).  Infatti,  rispetto
all'omissione del versamento dell'IVA, i procedimenti e  le  sanzioni
rispettivamente penali e amministrativi perseguirebbero  il  medesimo
scopo; la condotta punita sarebbe identica; e non vi sarebbe modo  di
evitare la descritta «duplicazione procedimentale  e  sanzionatoria»,
specialmente  laddove  «i  due   procedimenti   non   si   instaurino
contestualmente o comunque non si  sviluppino  parallelamente  e  non
abbiano ad oggetto frazioni diverse di condotta». 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
siano dichiarate inammissibili o infondate. 
    2.1.- Ad avviso dell'interveniente, si  imporrebbe  anzitutto  la
declaratoria di inammissibilita' delle questioni, in quanto  tendenti
a sollecitare una pronuncia manipolativa di questa Corte, in  assenza
di  «una  sola  soluzione  normativa  costituzionalmente  compatibile
rispetto a quella costituzionalmente illegittima». 
    2.2.- L'Avvocatura generale dello Stato  afferma  quindi  che  la
Corte di  giustizia  avrebbe  ritenuto  compatibile  con  il  diritto
dell'Unione  la  normativa  italiana  che  prevede  l'irrogazione  di
sanzioni penali e amministrative per  l'omesso  versamento  dell'IVA.
Dalla sentenza Menci della Corte di giustizia si ricaverebbe  infatti
che il ne bis  in  idem  europeo  «ha  per[so]  la  sua  connotazione
esclusivamente  processuale  per  diventare  un  principio  "relativo
all'entita' della sanzione complessivamente irrogata"». Non  sarebbe,
pertanto,  costituzionalmente  illegittima,  ne'  incompatibile   con
l'ordinamento europeo la disciplina legislativa del cosiddetto doppio
binario sanzionatorio in materia tributaria, atteso che essa consente
al giudice di verificare, nel secondo giudizio,  la  proporzionalita'
della complessiva risposta sanzionatoria apprestata  dall'ordinamento
a   fronte   dell'illecito.   Tale   giudizio   di   proporzionalita'
assurgerebbe ad autentico «cardine della valutazione del  ne  bis  in
idem». 
    Il rimettente avrebbe, dunque, dovuto spiegare perche', nel  caso
in esame, l'inflizione all'interessato  di  una  precedente  sanzione
amministrativa - peraltro rateizzata e neppure pagata  -  costituisse
un'afflizione di gravita' tale da ostare  all'ulteriore  applicazione
di una sanzione penale che prevede la reclusione da sei  mesi  a  due
anni. 
    Sarebbe poi erronea la valutazione del giudice a quo circa la non
complementarieta'   degli    scopi    perseguiti    dalle    sanzioni
amministrativa e penale, argomentata in base  all'asserita  identita'
di ratio delle disposizioni sanzionatorie, che tutelerebbero entrambe
l'«interesse economico diretto dell'Erario». Detta conclusione da  un
lato  «prov[erebbe]  troppo  (trattandosi  di   scopo   genericamente
perseguito    dall'intero    apparato    sanzionatorio    penale    e
amministrativo)»; dall'altro lato, essa risulterebbe contrastante con
la giurisprudenza di legittimita', secondo cui  il  delitto  ex  art.
10-ter del d.lgs.  n.  74  del  2000  si  pone  il  rapporto  non  di
specialita' ma di «progressione illecita» con la fattispecie  di  cui
all'art. 13, comma 1, del d.lgs. 471 del 1997  (e'  citata  Corte  di
cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 marzo 2013-12 settembre
2013, n. 37424). 
    Sarebbe inoltre meramente assertiva l'affermazione del rimettente
circa l'eccessiva onerosita'  del  doppio  binario,  in  presenza  di
istituti di collegamento tra il procedimento amministrativo e  quello
penale. 
    Il giudice a quo avrebbe altresi' argomentato in maniera lacunosa
e apodittica l'asserita  contrarieta'  della  disposizione  censurata
all'art. 3 Cost., omettendo di illustrare quali sarebbero  i  profili
di intrinseca irragionevolezza della disciplina. 
    Tali carenze argomentative imporrebbero di ritenere inammissibili
le questioni sollevate, non avendo il rimettente assolto  al  proprio
compito  di   effettuare,   nell'ambito   del   procedimento   penale
susseguente  a  quello  amministrativo,  il  doveroso   giudizio   di
proporzionalita' della complessiva risposta punitiva dell'ordinamento
all'illecito, alla luce della sanzione amministrativa gia'  inflitta,
in conformita' del resto a quanto gia' affermato dalla giurisprudenza
di legittimita', secondo la quale spetterebbe al  giudice  di  merito
operare,  nel  vigente   quadro   normativo,   una   valutazione   di
proporzionalita' del complessivo trattamento sanzionatorio, alla luce
delle circostanze del caso concreto e  della  condotta  dell'imputato
(e' citata Corte di cassazione, sezione quinta  penale,  sentenza  16
luglio 2018-10 ottobre 2018, n. 45829). 
    Una pronuncia che estendesse l'ambito applicativo  dell'art.  649
cod. proc. pen. alle sanzioni «punitive» ai sensi della  CEDU  e  dei
relativi Protocolli non sarebbe, dunque, «la strada da percorrere per
giungere all'applicazione dei principi dettati  sia  dalla  Corte  di
Giustizia  UE  sia  dalla  Corte  EDU».  Invero,  l'ordinamento  gia'
prevedrebbe meccanismi di raccordo tra il procedimento amministrativo
e il procedimento penale in materia tributaria, delineati dagli artt.
19, 20 e 21 del d.lgs. n. 74 del  2000  e  ritenuti  dalla  Corte  di
giustizia idonei ad assicurare al giudice  di  merito  il  potere  di
valutare la proporzionalita' della complessiva risposta sanzionatoria
alla fattispecie concreta. 
    L'intervento  sollecitato  dal  rimettente  sortirebbe,   invece,
l'effetto di rendere  l'art.  649  cod.  proc.  pen.  «manifestamente
contrastante proprio con  il  nostro  ordinamento  costituzionale  ed
eurounitario». Infatti da un lato, come  avrebbe  evidenziato  questa
Corte nella sentenza n. 102 del 2016, siffatto  intervento  minerebbe
la certezza della risposta sanzionatoria  a  fronte  di  condotte  di
evasione dell'IVA, cosi' ponendosi in contrasto con gli  artt.  11  e
117 Cost. in relazione al canone di effettivita'  delle  sanzioni  in
materia  di  IVA,  imposto  dal   diritto   dell'Unione   europea   a
salvaguardia  degli  interessi   finanziari   dell'Unione   medesima.
Dall'altro  lato,  «l'incertezza  e  la  casualita'  delle   sanzioni
applicabili»   determinerebbe   la   violazione   dei   principi   di
determinatezza  e  di  legalita'  della  sanzione   penale,   sanciti
dall'art. 25 Cost., nonche' dell'art. 3 Cost., «essendo irragionevole
che soggetti autori di un medesimo fatto siano o  meno  sottoposti  a
sanzione penale in conseguenza di un accadimento del tutto casuale ed
aleatorio  quale  la  preventiva   comminatoria   di   una   sanzione
amministrativa». 
    L'invocato intervento  sull'art.  649  cod.  proc.  pen.  sarebbe
infine  suscettibile  di  porsi  in  contrasto   con   il   principio
dell'obbligatorieta' dell'azione penale, di cui all'art.  112  Cost.,
atteso che la  mera  definitivita'  di  una  sanzione  amministrativa
verrebbe a paralizzare  la  prosecuzione  dell'azione  da  parte  del
pubblico ministero. 
    A fronte dell'attuale conformazione del ne bis in  idem  europeo,
sarebbe in  definitiva  spettato  al  giudice  a  quo  assicurare  la
proporzionalita'    della    complessiva    risposta    sanzionatoria
all'illecito commesso da L. M., «utilizzando tutti gli strumenti e  i
criteri valutativi a sua disposizione (art.  21  del  D.lgs.  74/2000
oppure applicazione di circostanze  attenuanti  tali  da  ridurre  la
sanzione penale  anche  sotto  il  minimo  edittale)»,  senza  alcuna
necessita' di intervento sull'art. 649 cod. proc. pen. 
    3.- Si e' costituito in giudizio L. M., chiedendo  l'accoglimento
delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale  prospettate   dal
Tribunale di Bergamo e riservando le proprie deduzioni  a  successiva
memoria, poi non depositata. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Bergamo dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 649  del  codice  di  procedura  penale,  in
riferimento agli artt. 3 e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,
quest'ultimo in  relazione  all'art.  4  del  Protocollo  n.  7  alla
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), adottato a Strasburgo  il  22  novembre
1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n.  98,
«nella parte in cui non prevede l'applicabilita' della disciplina del
divieto di un secondo giudizio nei confronti di  imputato  al  quale,
con riguardo agli stessi  fatti,  sia  gia'  stata  irrogata  in  via
definitiva,  nell'ambito  di  un  procedimento  amministrativo,   una
sanzione  di  carattere  sostanzialmente  penale   ai   sensi   della
Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e dei relativi Protocolli». 
    1.1.-  Cuore  delle  censure   del   rimettente   e'   l'asserita
contrarieta' dell'art. 649 cod. proc. pen., nella sua attuale e -  ad
avviso del rimettente - lacunosa formulazione, con il divieto di  bis
in idem, nell'estensione riconosciutagli  dalla  Corte  di  giustizia
dell'Unione europea dalla sentenza 20 marzo 2018, in causa  C-524/15,
Menci, pronunciata in risposta a una domanda pregiudiziale  formulata
dallo stesso giudice a quo. 
    In proposito, il rimettente indica specificamente quale parametro
interposto il solo art. 4 Prot. n. 7 CEDU, mentre la sentenza Menci -
sulla quale e' imperniata la motivazione dell'ordinanza di rimessione
- interpreta in realta' la corrispondente  disposizione  del  diritto
dell'Unione, rappresentata  dall'art.  50  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata  a  Nizza  il  7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 
    Dalla logica complessiva dell'ordinanza di rimessione si  evince,
peraltro, che il giudice a  quo  intende  sottoporre  alla  Corte  la
questione della compatibilita' della disciplina censurata  tanto  con
l'art. 4 Prot. n. 7 CEDU, quanto con l'art.  50  CDFUE,  evocato  del
resto dalla motivazione; e  cio'  muovendo  dal  presupposto  di  una
sostanziale coincidenza tra gli approdi cui e' pervenuta da  un  lato
la giurisprudenza della Corte europea  dei  diritti  dell'uomo  nella
sentenza 15 novembre 2016, A e B contro  Norvegia,  e  dall'altro  la
giurisprudenza della Corte di  giustizia  dell'Unione  europea  nella
citata sentenza Menci. 
    Il giudice a quo espone di dover giudicare della  responsabilita'
penale di una persona fisica cui viene contestato il delitto  di  cui
all'art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n.  74  (Nuova
disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e  sul  valore
aggiunto, a norma dell'art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), in
relazione  all'omissione  del  versamento  dell'imposta  sul   valore
aggiunto  (IVA)  per  un  importo  superiore  all'attuale  soglia  di
punibilita' di 250.000 euro. Il medesimo imputato e', peraltro,  gia'
stato destinatario,  per  la  medesima  omissione,  di  una  sanzione
amministrativa di importo pari al 30 per cento della somma  evasa  ai
sensi dell'art. 13, comma 1,  del  decreto  legislativo  18  dicembre
1997, n. 471, recante «Riforma delle sanzioni tributarie  non  penali
in materia di imposte dirette, di imposta sul valore  aggiunto  e  di
riscossione dei tributi, a norma dell'articolo 3, comma 133,  lettera
q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662»:  sanzione  divenuta  ormai
definitiva. 
    Secondo  il  rimettente,   la   duplicazione   del   procedimento
sanzionatorio e delle relative sanzioni per  lo  stesso  fatto  -  il
mancato versamento  del  medesimo  debito  IVA  -  determinerebbe  la
violazione del ne bis in idem,  cosi'  come  declinato  dalla  citata
sentenza Menci, non potendo essere ritenute soddisfatte nella  specie
le condizioni da quella sentenza fissate perche'  possa  legittimarsi
un doppio binario sanzionatorio per  un  medesimo  fatto;  condizioni
indicate  dal  rimettente  nella  complementarieta'  di   scopi   tra
procedimenti e relative sanzioni, nella diversita' di taluni  aspetti
della  condotta,  nonche'  nella  sussistenza  di  una  normativa  di
coordinamento atta a limitare  l'onere  supplementare  derivante  dal
cumulo  di  procedimenti  e  di   norme   idonee   a   garantire   la
proporzionalita' della complessiva  risposta  sanzionatoria  rispetto
alla gravita' del reato. 
    Il diritto vigente non consentirebbe, tuttavia, di  evitare  tale
violazione, non potendosi - in particolare - applicare  nella  specie
l'art.  649  cod.  proc.  pen.,  il  cui  tenore  letterale   sarebbe
inequivoco nell'ancorare la pronuncia di una sentenza di non  doversi
procedere a una previa  sentenza  irrevocabile  sullo  stesso  fatto,
pronunciata da altro giudice penale. Di qui  la  richiesta  a  questa
Corte di  estendere,  attraverso  una  pronuncia  additiva,  l'ambito
applicativo dell'art. 649 cod. proc. pen. all'ipotesi, che qui  viene
in rilievo, in cui l'imputato sia gia' stato  punito  per  lo  stesso
fatto  in  via  amministrativa  con   una   sanzione   amministrativa
definitiva dal carattere "punitivo", come quella  prevista  dall'art.
13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997. 
    1.2.- Il giudice a quo ritiene, inoltre,  che  l'inapplicabilita'
dell'art. 649 cod. proc. pen. alle sanzioni di  carattere  "punitivo"
secondo i "criteri Engel" - con conseguente possibilita' di avviare o
proseguire un procedimento penale per  l'omesso  versamento  dell'IVA
anche  dopo  l'irrogazione  di  una  sanzione  amministrativa   ormai
definitiva  per  il  medesimo  omesso  versamento  -   determinerebbe
altresi' «un'ingiustificata disparita' di  trattamento,  specialmente
se rapportata al quadro sanzionatorio  delle  fattispecie  originarie
del d.lgs. n. 74/2000»,  e  comunque  solleverebbe  «un  problema  di
ragionevolezza intrinseca dell'ordinamento», in violazione  dell'art.
3  Cost.  Il  cosiddetto  doppio  binario  sanzionatorio  in  materia
tributaria si  giustificherebbe,  infatti,  in  relazione  alle  sole
fattispecie delittuose di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 e  11  del
d.gs. n. 74 del 2000, che puniscono condotte decettive e tutelano  la
funzione   accertativa   dell'Amministrazione   finanziaria,   mentre
risulterebbe ingiustificato in rapporto alle fattispecie di cui  agli
artt. 10-bis e 10-ter del medesimo decreto legislativo, che  tutelano
in  via  diretta  l'interesse  dell'Amministrazione  finanziaria   al
pagamento dei tributi, ossia  il  medesimo  bene  giuridico  protetto
dalla sanzione amministrativa di cui all'art. 13, comma 1, del d.lgs.
n. 471 del 1997. 
    2.- La  censura  fondamentale  prospettata  dal  rimettente,  che
assume il contrasto dell'art. 649 cod. proc.  pen.  con  l'art.  117,
primo comma, Cost. in relazione all'art. 4 Prot. n. 7  alla  CEDU  (e
implicitamente all'art. 50 CDFUE), e' inammissibile, dal momento  che
l'ordinanza di rimessione non chiarisce adeguatamente le ragioni  per
le quali non sarebbero soddisfatte nel caso di specie  le  condizioni
di  ammissibilita'  di   un   "doppio   binario"   procedimentale   e
sanzionatorio per l'omesso versamento di IVA,  cosi'  come  enunciate
dalla giurisprudenza europea evocata. 
    2.1.- Il rimettente si limita, infatti, a sottolineare la  natura
"punitiva" della sanzione  amministrativa  irrogata  all'imputato  ai
sensi dell'art. 13, comma 1, del d.lgs.  n.  471  del  1997,  nonche'
l'identita' storico-naturalistica del fatto (l'omesso versamento  del
debito IVA) astrattamente oggetto tanto di sanzione penale, quanto di
sanzione  amministrativa:   circostanza,   quest'ultima,   che   vale
indubbiamente  a  distinguere  l'illecito  qui  all'esame  da  quelli
penalmente sanzionati dagli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 e 11  del  d.lgs.
n. 74 del 2000, caratterizzati da  condotte  prodromiche  o  comunque
diverse rispetto alla mera evasione del tributo. 
    Tuttavia, la recente giurisprudenza tanto della Corte europea dei
diritti  dell'uomo,  quanto  della  Corte  di  giustizia  dell'Unione
europea, da cui il rimettente prende le mosse, non affermano  affatto
che la mera sottoposizione di un imputato a un processo penale per il
medesimo fatto per il  quale  egli  sia  gia'  stato  definitivamente
sanzionato in via amministrativa integri, sempre  e  necessariamente,
una violazione del ne bis in idem. 
    Come gia' questa Corte ha avuto modo di rammentare  (sentenza  n.
43 del 2018), infatti, nella citata sentenza A e B contro Norvegia la
Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo  ha  ritenuto
che debba essere esclusa la violazione del diritto sancito  dall'art.
4 Prot. n. 7 CEDU allorche' tra i due procedimenti - amministrativo e
penale  -  che  sanzionano  il  medesimo  fatto  sussista  un  legame
materiale e  temporale  sufficientemente  stretto;  legame  che  deve
essere ravvisato, in particolare: quando le due  sanzioni  perseguano
scopi diversi e complementari,  connessi  ad  aspetti  diversi  della
medesima  condotta;  quando  la  duplicazione  dei  procedimenti  sia
prevedibile  per  l'interessato;  quando  esista  una  coordinazione,
specie sul piano probatorio, tra i  due  procedimenti;  e  quando  il
risultato sanzionatorio  complessivo,  risultante  dal  cumulo  della
sanzione amministrativa e  della  pena,  non  risulti  eccessivamente
afflittivo   per   l'interessato,   in   rapporto    alla    gravita'
dell'illecito. Al contempo - come sottolineato ancora dalla  sentenza
n. 43 del 2018 - «si dovra' valutare», ai fini della  verifica  della
possibile lesione dell'art 4 Prot. n. 7 CEDU, «se  le  sanzioni,  pur
convenzionalmente penali, appartengano o  no  al  nocciolo  duro  del
diritto penale, perche' in caso  affermativo  si  sara'  piu'  severi
nello scrutinare la  sussistenza  del  legame  e  piu'  riluttanti  a
riconoscerlo in concreto». 
    Ad approdi in  larga  misura  analoghi  e'  pervenuta  la  Grande
sezione della Corte di giustizia, nelle tre  sentenze  coeve  del  20
marzo 2018 (rispettivamente in causa C-537/16, Garlsson  Real  Estate
SA e altri, in cause C-596/16 e C-597/16, Di  Puma  e  CONSOB,  e  in
causa C-524/15, Menci, quest'ultima relativa alla materia  tributaria
e,  come  gia'  rilevato,  emessa  proprio  in   seguito   a   rinvio
pregiudiziale proposto dall'odierno giudice  a  quo).  A  parere  del
supremo giudice dell'Unione, infatti, la violazione  del  ne  bis  in
idem sancito dall'art. 50 CDFUE non si verifica a) allorche'  le  due
sanzioni perseguano scopi differenti e complementari, sempre  che  b)
il  sistema  normativo  garantisca  una  coordinazione  tra   i   due
procedimenti si' da evitare eccessivi oneri per l'interessato,  e  c)
assicuri comunque che  il  complessivo  risultato  sanzionatorio  non
risulti sproporzionato rispetto alla gravita'  della  violazione.  La
sostanziale coincidenza di tali criteri rispetto a  quelli  enunciati
dalla Corte di Strasburgo e', del resto,  espressamente  sottolineata
dalla Corte di giustizia, che richiama il principio  generale,  posto
dall'art. 52,  paragrafo  1,  CDFUE,  dell'equivalenza  delle  tutele
assicurate dalla Carta rispetto a quelle approntate dalla CEDU e  dei
suoi protocolli (sentenza Menci, paragrafi 61-62). 
    Alla luce dei criteri  appena  rammentati,  la  stessa  Corte  di
giustizia, nella sentenza Menci, conclude nel senso che la disciplina
italiana in materia  di  omesso  versamento  di  IVA,  riservando  la
perseguibilita' in sede  penale  alle  sole  violazioni  superiori  a
determinate  soglie  di  imposta  evasa  e  attribuendo  tra  l'altro
rilevanza,  in  sede  penale,  al  volontario  pagamento  del  debito
tributario e delle sanzioni amministrative, appare conformata in modo
tale da «garantire» - sia pure «con riserva di verifica da parte  del
giudice del rinvio» - che «il cumulo di procedimenti  e  di  sanzioni
che essa autorizza non eccede quanto e'  strettamente  necessario  ai
fini della realizzazione dell'obiettivo»  di  assicurare  l'integrale
riscossione dell'IVA  (paragrafo  57).  In  tal  modo,  la  Corte  di
giustizia  da  un  lato  suggerisce  al  giudice   del   procedimento
principale che il complessivo regime sanzionatorio  e  procedimentale
previsto dal legislatore italiano in materia di omesso versamento  di
IVA non si pone in contrasto, in linea generale, con  il  ne  bis  in
idem  riconosciuto  dalla  Carta,  pur  facendo  salva   la   diversa
conclusione  cui  il  giudice  del  rinvio   dovesse   pervenire   in
applicazione dei criteri enunciati in via generale  dalla  Corte;  e,
dall'altro, affida  allo  stesso  giudice  nazionale  il  compito  di
verificare che, nel caso concreto, «l'onere risultante  concretamente
per l'interessato  dall'applicazione  della  normativa  nazionale  in
discussione nel procedimento principale e dal cumulo dei procedimenti
e delle sanzioni che la medesima autorizza non sia eccessivo rispetto
alla gravita' del reato commesso» (sentenza Menci, paragrafo 64). 
    2.2.- La questione  ora  sottoposta  all'esame  di  questa  Corte
sottende, invece, un giudizio di radicale contrarieta' al ne  bis  in
idem - cosi' come riconosciuto tanto dall'art. 4 Prot. n.  7,  quanto
dall'art.  50  CDFUE  -  dell'attuale  sistema  di  "doppio  binario"
sanzionatorio e procedimentale, cosi' come previsto in astratto dalla
legislazione  italiana  in  materia  di  omesso  versamento  di  IVA;
contrarieta' che produrrebbe sempre e necessariamente  la  violazione
del diritto in parola allorche' il contribuente, gia' definitivamente
sanzionato in via amministrativa, venga sottoposto a un  procedimento
penale per la medesima violazione. 
    Una simile conclusione - contraria, vale la pena di  ribadire,  a
quella raggiunta dalla sentenza  Menci,  sia  pure  «con  riserva  di
verifica da parte del giudice del rinvio» -  avrebbe  pero'  meritato
piu' puntuale dimostrazione da parte del giudice a quo, alla luce dei
criteri enunciati dalle  due  Corti  europee  nelle  sentenze  appena
rammentate. 
    2.2.1.- In merito anzitutto alle finalita' delle due  sanzioni  -
il primo dei criteri  enunciati  da  entrambe  le  Corti  europee  -,
l'ordinanza di rimessione si  limita  ad  affermarne  apoditticamente
l'identita' di scopo, senza pero' chiarire  -  in  particolare  -  le
ragioni per cui dovrebbe escludersi che la minaccia di  una  sanzione
detentiva per l'evasione di importi IVA annui superiori -  oggi  -  a
250.000 euro, in aggiunta a una  sanzione  amministrativa  pecuniaria
calcolata in misura percentuale  rispetto  all'importo  evaso,  possa
perseguire i  legittimi  scopi  di  rafforzare  l'effetto  deterrente
spiegato dalla mera previsione di quest'ultima, di esprimere la ferma
riprovazione  dell'ordinamento  a  fronte  di   condotte   gravemente
pregiudizievoli per gli interessi finanziari  nazionali  ed  europei,
nonche' di assicurare ex post l'effettiva riscossione  degli  importi
evasi da parte dell'amministrazione  grazie  ai  meccanismi  premiali
connessi all'integrale saldo del debito tributario. 
    2.2.2.- Nessuna parola spende poi l'ordinanza di  rimessione  sul
requisito - enunciato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella
sentenza A e B contro Norvegia - della necessaria prevedibilita'  per
l'interessato della duplicazione dei procedimenti e  delle  sanzioni.
Prevedibilita' che e', peraltro, in  re  ipsa,  dal  momento  che  la
legislazione italiana stabilisce chiaramente  la  sanzionabilita'  in
via amministrativa della violazione ai sensi dell'art. 13,  comma  1,
del d.lgs. n. 471 del 1997 da un lato,  e  in  via  penale  ai  sensi
dell'art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del  2000,  limitatamente  -  nella
formulazione attuale - agli omessi versamenti di importo superiore ai
250.000 euro, dall'altro. 
    2.2.3.- Come rileva l'Avvocatura generale dello  Stato,  inoltre,
il giudice a quo afferma si' l'eccessiva onerosita',  per  l'imputato
del giudizio a quo, del  cumulo  tra  procedimento  amministrativo  e
procedimento  penale  -  cio'  che  determinerebbe  in   effetti   la
violazione del ne bis in idem secondo la giurisprudenza  di  entrambe
le Corti europee -, ma non  fornisce  alcuna  plausibile  motivazione
dell'assunto. 
    Invero, l'ordinanza di rimessione  si  limita  a  richiamare  gli
artt. 19, 20 e  21  del  d.lgs.  n.  74  del  2000  -  relativi  alla
specialita' tra sanzioni  amministrative  e  penali,  all'assenza  di
pregiudizialita'  tra  procedimento  amministrativo  e   procedimento
penale,   e   alla   sospensione   dell'esecuzione   delle   sanzioni
amministrative in pendenza di procedimento penale - per poi  asserire
che la disciplina in questione, non essendo idonea a inibire  l'avvio
o la prosecuzione del procedimento penale dopo la definitivita' della
sanzione amministrativa, risulterebbe in contrasto con il ne  bis  in
idem. 
    In tal modo, il giudice a quo trascura pero' di considerare  che,
secondo  la  giurisprudenza  delle  due  Corti  europee,  l'eccessiva
onerosita' per l'interessato dei procedimenti amministrativo e penale
deve essere esclusa allorche' essi risultino avvinti da  una  stretta
connessione sostanziale e temporale. 
    In particolare, il rimettente omette di dare conto delle numerose
disposizioni normative, ulteriori rispetto agli artt. 19, 20 e 21 del
d.lgs. n. 74 del 2000,  che  regolano  i  rapporti  tra  procedimento
amministrativo e procedimento penale in materia tributaria. Al di la'
di un fugace accenno all'art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 74 del 2000,
relativo alla causa di non punibilita'  costituita  dalla  volontaria
estinzione del debito tributario e della  sanzione  amministrativa  -
nella specie non applicabile per mancato integrale pagamento di dette
somme da parte dell'imputato -, il rimettente trascura di  descrivere
gli ulteriori istituti premiali introdotti dal decreto legislativo 24
settembre 2015, n.  158  (Revisione  del  sistema  sanzionatorio,  in
attuazione dell'articolo 8, comma 1, della legge 11  marzo  2014,  n.
23), quali la concessione di termine per adempiere al  pagamento  del
residuo debito tributario rateizzato (art. 13, comma 3, del d.lgs. n.
74 del 2000) o gli effetti dell'adempimento del debito erariale sulla
confisca (art. 12-bis del medesimo testo normativo), e  di  saggiarne
la portata, in termini di introduzione di elementi  di  raccordo  tra
adempimento del debito tributario da un lato, e svolgimento ed  esito
del processo penale, dall'altro lato. 
    Neppure il giudice  a  quo  si  confronta  con  le  disposizioni,
estranee al corpus normativo del d.lgs. n. 74 del 2000, che prevedono
obblighi di comunicazione degli illeciti  tributari  da  parte  della
Guardia di Finanza all'autorita' giudiziaria  (art.  331  cod.  proc.
pen.) e, specularmente,  da  parte  dell'autorita'  giudiziaria  alla
Guardia di Finanza (art. 36 del d.P.R. 29  settembre  1973,  n.  600,
recante «Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte
sui redditi») e all'Agenzia delle entrate (art. 14,  comma  4,  della
legge 24 dicembre 1993, n. 537,  recante  «Interventi  correttivi  di
finanza pubblica», come modificato  dall'art.  1,  comma  141,  della
legge  28  dicembre  2015,  n.  208,  recante  «Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato»),  miranti
ad   assicurare    una    sostanziale    contestualita'    dell'avvio
dell'accertamento tributario e di quello penale. 
    Non vengono, poi,  considerate  le  disposizioni  che  consentono
forme di circolazione del materiale probatorio raccolto dall'indagine
penale all'accertamento tributario e viceversa (art. 63, comma 1, del
d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633,  recante  «Istituzione  e  disciplina
dell'imposta sul valore aggiunto», e art. 33, comma 3, del d.P.R.  n.
600 del 1973 e, specularmente, art. 220 delle Norme di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale). 
    Nemmeno   risulta   richiamata   la    giurisprudenza    relativa
all'utilizzabilita' del materiale  istruttorio  raccolto  in  ciascun
procedimento, quale elemento di prova e  fonte  di  convincimento  da
parte del giudice che istruisce l'altro  procedimento  (ex  plurimis,
Corte di cassazione, sezione  quinta  civile,  sentenze  14  novembre
2012,  n.  19859  e  20  marzo  2013,  n.  6918,  in  relazione  alla
possibilita' che gli elementi probatori  acquisiti  nel  procedimento
penale  siano  posti  dal  giudice  tributario  a  base  del  proprio
convincimento; sentenze 3 dicembre 2010, n. 24587 e 22  maggio  2015,
n.  10578,  relative  alla  possibilita'  che  la   sentenza   penale
irrevocabile, pur non spiegando efficacia di giudicato, possa  essere
presa in considerazione come possibile fonte  di  prova  dal  giudice
tributario; nonche', per converso, sezione terza penale, sentenze  24
settembre 2008-21 ottobre 2008, n. 39358, 28 ottobre 2015-18  gennaio
2016, n. 1628 e 23 ottobre 2018-5  dicembre  2018,  n.  54379,  tutte
relative alla possibilita' che gli elementi probatori  acquisiti  nel
processo tributario facciano ingresso nel processo  penale,  ex  art.
234 o 238-bis cod. proc. pen., quali prove valutabili ai sensi  degli
artt. 187 e 192 cod. proc. pen.). 
    2.2.4.- Ancora,  come  pure  giustamente  eccepisce  l'Avvocatura
generale dello Stato, il giudice a quo omette di spiegare  per  quale
motivo l'irrogazione di una  pena  detentiva  -  destinata  con  ogni
verosimiglianza,  peraltro,  a  essere  condizionalmente  sospesa   -
risulterebbe  sproporzionata  rispetto  alla   gravita'   del   reato
(consistente,  nella  specie,  nell'omissione   del   versamento   di
282.495,76 euro dovuti a titolo di IVA), se combinata con la sanzione
amministrativa gia' applicata (pari  in  concreto  al  30  per  cento
dell'imposta evasa), con conseguente violazione del ne  bis  in  idem
nei confronti dell'imputato. 
    2.2.5.- Nessun argomento spende, infine, il giudice a  quo  sulla
questione  della  riconducibilita'  o  meno  delle  sanzioni   penali
previste in materia di evasione di IVA al "nocciolo duro" del diritto
penale, rispetto al quale - secondo la sentenza A e B contro Norvegia
della Corte europea dei diritti dell'uomo -  piu'  rigoroso  dovrebbe
essere il vaglio di compatibilita' del "doppio binario" sanzionatorio
con la garanzia convenzionale del ne bis in idem. 
    2.3.-   Le   segnalate   lacune   determinano    un'insufficiente
motivazione tanto della non manifesta  infondatezza  della  questione
prospettata, quanto  della  sua  rilevanza  (in  quest'ultimo  senso,
sentenza n. 43 del 2018). 
    3.-  Le  censure  formulate  con  riferimento  all'art.  3  Cost.
dipendono strettamente,  nella  rispettiva  trama  motivazionale,  da
quelle prospettate in riferimento all'art. 117, primo  comma,  Cost.,
in relazione all'art. 4 Prot. n. 7 alla CEDU  e  all'art.  50  CDFUE.
Nella prospettiva del rimettente, l'art. 649 cod. proc. pen.  darebbe
infatti  luogo  a  una  «disparita'  di  trattamento»  nonche'  a  un
«problema    di    ragionevolezza    intrinseca     dell'ordinamento»
sostanzialmente  per  le  medesime  ragioni  per  le  quali  dovrebbe
ravvisarsi l'incompatibilita' tra la disposizione censurata e  il  ne
bis in idem, alla  luce  delle  indicazioni  fornite  dalla  sentenza
Menci. 
    La  carente  motivazione  su  tale   ultima   censura,   poc'anzi
sottolineata, non puo' che  riverberarsi  sulle  censure  ex  art.  3
Cost., declinate come ancillari rispetto alla  prima,  determinandone
parimenti l'inammissibilita'.