ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  13,  comma
2, della legge 18 ottobre 2001,  n.  383  (Primi  interventi  per  il
rilancio  dell'economia),  promosso  dalla   Commissione   tributaria
regionale del Molise  nel  procedimento  vertente  tra  P.  D.L.F.  e
l'Agenzia delle Entrate, con ordinanza dell'11 marzo  2019,  iscritta
al n. 122 del registro ordinanze 2019  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 36,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2019. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020  il  Giudice
relatore Luca Antonini; 
    deliberato nella camera di consiglio del 12 febbraio 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza deliberata il 21 settembre  2015  e  depositata
l'11 marzo 2019, la Commissione tributaria regionale (CTR) del Molise
ha sollevato, in  riferimento  agli  artt.  2,  3,  29,  e  31  della
Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  13,
comma 2, della legge 18 ottobre 2001, n. 383 (Primi interventi per il
rilancio dell'economia), nella parte in cui non  include  gli  affini
nel  novero  dei  soggetti  per  i  quali  e'  escluso  il  pagamento
dell'imposta da esso disciplinata. 
    La  disposizione  censurata,  applicabile  ratione  temporis  nel
giudizio principale, prevede che: a) «[i]  trasferimenti  di  beni  e
diritti per donazione o  altra  liberalita'  tra  vivi,  compresa  la
rinuncia pura e semplice agli stessi,  fatti  a  favore  di  soggetti
diversi dal coniuge, dai parenti in linea retta e dagli altri parenti
fino al quarto grado, sono soggetti alle  imposte  sui  trasferimenti
ordinariamente applicabili per le operazioni a titolo oneroso, se  il
valore della quota spettante  a  ciascun  beneficiario  e'  superiore
all'importo di 350 milioni di lire» (primo periodo); b) «[i]n  questa
ipotesi si applicano, sulla parte di valore della  quota  che  supera
l'importo di 350  milioni  di  lire,  le  aliquote  previste  per  il
corrispondente atto  di  trasferimento  a  titolo  oneroso»  (secondo
periodo). 
    2.- Le questioni sono sorte nell'ambito di un giudizio  che  trae
origine dal  ricorso  proposto  dal  donatario  avverso  l'avviso  di
liquidazione  dell'imposta  complementare  di  registro,  determinata
dall'Agenzia delle entrate, al netto della  suddetta  franchigia,  in
misura   proporzionale   all'importo   della   donazione   di    euro
7.830.000,00, stipulata il 22 giugno 2006. 
    Secondo quanto riferito dal  rimettente,  l'impugnato  avviso  di
liquidazione era stato adottato perche' tra il donante e il donatario
intercorreva un rapporto  di  affinita'  di  terzo  grado  e  non  di
parentela. La Commissione tributaria provinciale di Campobasso  aveva
rigettato   il   ricorso   -   inteso   ad   ottenere    l'estensione
dell'esclusione dal pagamento dell'imposta prevista per le  donazioni
tra parenti -, ribadendo le motivazioni dell'avviso. Il  contribuente
aveva quindi appellato la sentenza di primo grado  davanti  alla  CTR
del Molise. 
    3.- In punto di rilevanza,  il  giudice  a  quo  in  primo  luogo
osserva che l'atto di donazione oggetto dell'avviso  di  liquidazione
risale al 22 giugno 2006 ed e' stato registrato il  28  giugno  2006,
con la conseguenza che la legittimita' del  provvedimento  impositivo
deve essere vagliata alla luce del censurato art. 13, comma 2,  della
legge n. 383 del 2001. 
    La successiva abrogazione di questa norma, disposta dall'art.  2,
comma 52, lettera d),  del  decreto-legge  3  ottobre  2006,  n.  262
(Disposizioni  urgenti  in   materia   tributaria   e   finanziaria),
convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n.  286,
ha infatti effetto, secondo quanto previsto dal successivo  comma  53
del medesimo art. 2, soltanto «per gli atti  pubblici  formati  [...]
dalla data di entrata in vigore della  legge  di  conversione»  dello
stesso d.l. n. 262 del 2006, ovvero dal 29 novembre 2006. 
    In secondo luogo, il Collegio rimettente rileva che  il  rapporto
intercorrente tra il donante e l'appellante donatario e' di affinita'
e non di parentela, sicche' il contribuente, sulla scorta del  tenore
testuale  della  denunciata  disposizione,  non  avrebbe  diritto  al
«beneficio» da questa previsto. 
    3.1.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la CTR ritiene  che
l'art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001  arrechi  un  vulnus,
innanzitutto,  all'art.  3  Cost.,  in  relazione  al  principio   di
eguaglianza. 
    L'omessa inclusione degli affini nel novero dei soggetti che  non
sono obbligati al pagamento dell'imposta di cui alla norma  censurata
determinerebbe, infatti, una  ingiustificata  discriminazione  e  una
irragionevole disparita' di trattamento rispetto ai parenti. 
    L'irragionevolezza  sarebbe  apprezzabile  anche  alla  luce   di
«alcuni elementi ordinamentali»  che  riserverebbero  un  trattamento
identico,  o  comunque  omogeneo,  ai  parenti  e   agli   affini   e
deporrebbero,   pertanto,   nel   senso   della   loro    «necessaria
parificazione». 
    Al  riguardo,  il  giudice   a   quo   argomenta,   innanzitutto,
richiamando l'art. 7, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 31
ottobre 1990, n. 346 (Approvazione del testo unico delle disposizioni
concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni), come modificato
dall'art. 69, comma 1, lettera c), della legge 21 novembre  2000,  n.
342 (Misure in materia fiscale), il quale prevedeva - prima della sua
abrogazione - che  l'imposta  sulle  successioni  e  donazioni  fosse
determinata nella stessa misura percentuale  sia  per  i  parenti  in
linea collaterale fino al quarto grado, sia per gli affini  in  linea
retta e  per  quelli  in  linea  collaterale  fino  al  terzo  grado:
disposizione, questa, che sarebbe significativa  della  volonta'  del
legislatore di «accomunare» i parenti e gli affini. 
    Quindi, la CTR del Molise elenca una nutrita serie di  previsioni
normative  parimenti  sintomatiche,  a  suo  avviso,  della   dedotta
necessaria identita' di trattamento tra le due categorie di familiari
(parenti e affini). 
    Tali sarebbero,  segnatamente,  le  norme  recate  dall'art.  87,
quarto comma, del  codice  civile,  che  include  gli  affini  tra  i
soggetti per quali e' vietato unirsi  reciprocamente  in  matrimonio;
dall'art. 433, quinto comma (recte: primo comma, numeri 4 e 5),  cod.
civ., che impone agli affini, accanto  al  coniuge  e  a  determinati
parenti, l'obbligo di prestare gli alimenti; dall'art. 230-bis, terzo
comma,  cod.  civ.,  che,  nel  disciplinare   l'impresa   familiare,
considera anche gli affini, appunto, come familiari; dagli artt.  348
e 417 cod. civ., i quali, rispettivamente, prevedono che  gli  affini
possono essere scelti per  rivestire  la  figura  di  tutore  e  sono
legittimati a proporre istanza di interdizione o  di  inabilitazione;
dall'art. 2399 cod. civ., che pone una causa d'ineleggibilita'  e  di
decadenza alla carica di sindaco sia per gli affini che per i parenti
degli amministratori della societa' per  azioni,  o  di  societa'  da
questa controllate, nonche' di quelle che la controllano e di  quelle
sottoposte a comune controllo; dall'art. 51 del codice  di  procedura
civile,  che  disciplina  le  ipotesi  di  astensione  del   giudice;
dall'art.  33,  comma  3,  della  legge  5  febbraio  1992,  n.   104
(Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale  e  i  diritti
delle persone handicappate), il quale riconosce anche agli affini  il
diritto a fruire di tre giorni di  permesso  mensile  retribuito  per
l'assistenza al familiare portatore  di  handicap  in  situazione  di
gravita'; infine, dall'art. 74 del decreto legislativo  10  settembre
2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia  di  occupazione  e
mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30),  che,
con  specifico  riguardo  alle   attivita'   agricole,   esclude,   a
determinate condizioni, la configurabilita' di un rapporto di  lavoro
autonomo o subordinato in relazione alle prestazioni svolte tanto dai
parenti quanto dagli affini sino al quarto grado. 
    3.1.1.- Ad avviso del rimettente,  risulterebbero  violati  anche
gli artt. 29 e 31 Cost., «posti in relazione» all'art. 2  Cost.,  «in
considerazione del favore espresso  dalla  Carta  Costituzionale  nei
confronti della famiglia e dei rapporti che ivi si esplicano». 
    I precetti di cui  agli  artt.  29  e  31  Cost.  appresterebbero
difatti   una   «particolare   e   specifica   tutela»    dell'intera
collettivita' familiare che, alla luce  delle  considerazioni  dianzi
svolte, dovrebbe comprendere non solo i parenti ma anche gli affini. 
    3.1.2.-  A  conforto  degli  assunti  posti  a  fondamento  delle
questioni sollevate, la CTR richiama, infine, la sentenza n. 203  del
2013, con  la  quale  questa  Corte  ha  dichiarato  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 42, comma  5,  del  decreto  legislativo  26
marzo 2001, n. 151 (Testo unico  delle  disposizioni  legislative  in
materia di tutela e sostegno della maternita' e paternita',  a  norma
dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non
includeva nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo da
esso previsto, e alle condizioni  ivi  stabilite,  i  parenti  e  gli
affini entro il terzo grado conviventi con il familiare  versante  in
situazione di grave disabilita', in caso di mancanza,  decesso  o  in
presenza di patologie invalidanti degli  altri  soggetti  individuati
dalla disposizione censurata, idonei a prendersi cura  della  persona
disabile. 
    4.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo  che  le  questioni  siano  dichiarate   inammissibili   e,
comunque, infondate. 
    4.1.-   L'eccezione   d'inammissibilita'   e'   argomentata   con
l'asserito difetto di motivazione della non manifesta infondatezza. 
    Sarebbe stata, in particolare, omessa qualsiasi motivazione sulle
ragioni del contrasto, affermato in via meramente assertiva,  tra  la
norma censurata e gli artt. 2, 29 e 31 Cost. 
    Analoga  carenza  minerebbe  la  prospettata  compromissione  del
principio  di  eguaglianza  di  cui  all'art.  3  Cost.  Il  Collegio
rimettente, pur avendo  elencato  diverse  disposizioni  dalle  quali
intende desumere l'uniformita' di trattamento tra le due categorie di
familiari, non avrebbe, infatti, addotto alcuno  specifico  argomento
diretto a illustrare l'irragionevolezza della diversa disciplina  che
questa norma riserva agli affini rispetto  ai  parenti.  Ne'  sarebbe
stata effettuata alcuna analisi in ordine  agli  interessi  tutelati,
tanto dalla disposizione denunciata quanto dalle  disposizioni  dalle
quali sarebbe, in tesi, deducibile la  necessita'  della  parita'  di
trattamento tra i parenti e gli affini. 
    4.2.-   Nel   merito,   poi,   l'Avvocatura   generale    ritiene
insussistente la denunciata violazione  dell'art.  3  Cost.,  dovendo
escludersi che la categoria degli affini sia omogenea, e  tanto  meno
identica, a quella dei parenti. 
    Il vincolo di affinita' lega,  infatti,  il  coniuge  ai  parenti
dell'altro coniuge, sicche' sarebbe meno «solido e stabile» di quello
di parentela, che  lega  invece  soggetti  discendenti  dalla  stessa
persona. Del resto, aggiunge la difesa  statale,  il  legislatore  ha
previsto una  disciplina  differenziata  finanche  nell'ambito  della
stessa parentela,  dal  momento  che  nella  materia  successoria  «i
parenti piu' prossimi escludono quelli di grado piu' lontano». 
    Anche  le  numerose  fattispecie   indicate   nell'ordinanza   di
rimessione sarebbero del tutto eterogenee, sia tra loro  stesse,  sia
rispetto alla norma censurata. 
    Dovrebbe quindi escludersi che la discrezionalita' di cui gode il
legislatore  si  sia  tradotta,   nella   specie,   in   una   scelta
irragionevole. 
    4.2.1.- La disposizione denunciata non contrasterebbe,  sempre  a
parere dell'Avvocatura generale, nemmeno con l'art. 29 Cost. 
    Da un lato, infatti, nell'ordinamento sarebbero  ravvisabili  due
nozioni di famiglia: quella «allargata», che comprende  i  parenti  e
gli affini, e quella «nucleare», alla quale appartengono  soltanto  i
coniugi e i figli. Dall'altro, la scelta di tutelare in modo  piu'  o
meno ampio l'uno o l'altro tipo di famiglia nonche' i soggetti che ne
fanno parte sarebbe rimessa alla  discrezionalita'  del  legislatore,
particolarmente ampia nella materia tributaria  e,  segnatamente,  in
quella delle agevolazioni e dei benefici tributari. 
    Conclude nel senso che «il concetto  di  famiglia»  non  potrebbe
essere ricondotto,  contrariamente  a  quanto  sostenuto  dalla  CTR,
«all'interno di un perimetro prestabilito». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Commissione tributaria regionale (CTR) del Molise  dubita,
in riferimento agli artt. 2, 3, 29, e 31  della  Costituzione,  della
legittimita' costituzionale dell'art. 13, comma  2,  della  legge  18
ottobre  2001,   n.   383   (Primi   interventi   per   il   rilancio
dell'economia), nella parte in cui non include gli affini nel  novero
dei soggetti per i quali e' escluso il pagamento dell'imposta da esso
disciplinata. 
    La  disposizione  censurata,  applicabile  ratione  temporis  nel
giudizio principale, prevede che: a) «[i]  trasferimenti  di  beni  e
diritti per donazione o  altra  liberalita'  tra  vivi,  compresa  la
rinuncia pura e semplice agli stessi,  fatti  a  favore  di  soggetti
diversi dal coniuge, dai parenti in linea retta e dagli altri parenti
fino al quarto grado, sono soggetti alle  imposte  sui  trasferimenti
ordinariamente applicabili per le operazioni a titolo oneroso, se  il
valore della quota spettante  a  ciascun  beneficiario  e'  superiore
all'importo di 350 milioni di lire» (primo periodo); b) «[i]n  questa
ipotesi si applicano, sulla parte di valore della  quota  che  supera
l'importo di 350  milioni  di  lire,  le  aliquote  previste  per  il
corrispondente atto  di  trasferimento  a  titolo  oneroso»  (secondo
periodo). 
    Ad avviso del  Collegio  rimettente,  la  disposizione  censurata
lederebbe, in primo luogo, l'art. 3 Cost., in relazione al  principio
di eguaglianza, dal momento che la disciplina da essa dettata per gli
affini sarebbe ingiustificatamente diversa  da  quella  riservata  ai
parenti. 
    Risulterebbero, inoltre, violati gli artt. 29 e 31 Cost.,  «posti
in relazione» all'art. 2 Cost. 
    2.-  Occorre  qui  incidentalmente  rilevare  che   il   notevole
intervallo temporale tra la data di deliberazione  dell'ordinanza  di
rimessione (21 settembre 2015) e quella della sua pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica (4 settembre 2019) e'  dovuto  al
rilevante ritardo nel deposito dell'ordinanza nella segreteria  della
CTR (avvenuto l'11 marzo 2019), pervenuta a questa Corte il 27 giugno
2019 e, quindi, trasmessa il giorno successivo per  la  pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale. 
    3.- L'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito preliminarmente
l'inammissibilita'  delle  questioni   sollevate   per   difetto   di
motivazione sulla non manifesta infondatezza. La CTR molisana avrebbe
difatti omesso qualsiasi argomentazione in merito  alle  ragioni  del
contrasto tra la norma denunciata e gli artt. 2, 29 e 31 Cost. 
    L'ordinanza di rimessione  sarebbe,  d'altra  parte,  affetta  da
analoga carenza anche per quanto concerne la denunciata  lesione  del
principio di eguaglianza di cui  all'art.  3  Cost.,  non  avendo  il
Collegio rimettente  addotto  argomenti  sufficienti  per  illustrare
l'irragionevolezza  del  differente   trattamento   riservato   dalla
disposizione censurata agli affini rispetto ai parenti. 
    3.1.- L'eccezione sollevata in relazione alla questione afferente
alla violazione dell'art. 3 Cost.  non  e'  fondata,  giacche'  dalle
deduzioni svolte dal giudice a quo emergono  chiaramente  le  ragioni
che  lo  inducono  a  dubitare  della   legittimita'   costituzionale
dell'art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001. 
    A parere della  CTR  del  Molise,  questa  norma  contrasterebbe,
infatti, con il principio di eguaglianza, in quanto -  nel  prevedere
che, oltre al coniuge, soltanto i parenti in linea retta e gli  altri
parenti fino  al  quarto  grado  non  siano  obbligati  al  pagamento
dell'imposta da essa introdotta - determinerebbe  una  disparita'  di
trattamento del tutto ingiustificata rispetto  agli  affini.  Con  la
riserva a  questi  ultimi  di  un  trattamento  impositivo  deteriore
rispetto a quello previsto  per  i  parenti,  malgrado  l'omogeneita'
delle due categorie  di  familiari,  il  legislatore  avrebbe  quindi
operato una distinzione  irragionevole.  L'irragionevolezza  di  tale
diversificazione emergerebbe anche alla luce della disciplina  recata
da una pluralita' di norme che - riservando un trattamento  identico,
o comunque  uniforme,  ai  suddetti  familiari  -  esprimerebbero  un
principio di «necessaria parificazione» tra gli stessi. 
    Sulla scorta delle considerazioni  che  precedono,  la  questione
supera il vaglio di  ammissibilita',  dal  momento  che  il  giudizio
negativo espresso dal giudice rimettente circa la compatibilita'  tra
il censurato art. 13, comma 2, della legge n. 383 del 2001 e l'art. 3
Cost.   e'   stato   compiutamente   motivato.   Resta,   ovviamente,
impregiudicato il merito della questione. 
    3.2.-  Risulta,   invece,   evidente   l'inammissibilita'   della
questione sollevata in riferimento agli artt. 29 e 31  Cost.,  «posti
in relazione» all'art. 2 Cost. 
    Il giudice a quo si limita, infatti, ad affermare che  l'asserito
vulnus sarebbe apprezzabile «in considerazione  del  favore  espresso
dalla  Carta  Costituzionale  nei  confronti  della  famiglia  e  dei
rapporti che ivi si esplicano», aggiungendo poi che gli artt. 29 e 31
Cost. «apprestano alla famiglia una particolare e specifica tutela di
rango costituzionale, nell'ambito della  quale  sono  riconosciuti  e
tutelati i diritti propri della collettivita' familiare che non e', e
non puo' essere considerata, come ristretta ai soli parenti,  laddove
in altri settori ordinamentali il concetto di famiglia  viene  esteso
anche agli affini». 
    E' palese il  carattere  generico  e  meramente  assertivo  della
prospettazione della CTR, che non consente di comprendere le  ragioni
per cui l'omissione  censurata  si  porrebbe  in  contrasto  con  gli
evocati parametri costituzionali. 
    Il rimettente, infatti, richiama cumulativamente e  genericamente
gli artt. 2, 29 e 31 Cost., senza indicare alcuno specifico nesso tra
questi  parametri  e  la  norma  denunciata,   omettendo   anche   di
individuare quale precetto costituzionale sarebbe stato  in  concreto
leso. 
    E', d'altro canto, inidoneo a colmare le evidenziate  carenze  il
richiamo, contenuto nell'ordinanza di rimessione,  alla  sentenza  n.
203  del  2013,   con   la   quale   questa   Corte   ha   dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 42, comma  5,  del  decreto
legislativo 26 marzo 2001, n. 151  (Testo  unico  delle  disposizioni
legislative in materia di tutela e sostegno della maternita' e  della
paternita', a norma dell'articolo 15 della legge  8  marzo  2000,  n.
53), nella parte in cui, al ricorrere di determinate condizioni,  non
includeva tra i soggetti legittimati a fruire  del  congedo  da  esso
previsto,  anche  i  parenti  e  gli  affini  entro  il  terzo  grado
conviventi  con  il  familiare  che  versa  in  situazione  di  grave
disabilita'. Il giudice a quo non chiarisce, infatti, la  connessione
tra  l'essenziale  ruolo  -  valorizzato  nella  sentenza  citata   e
garantito dalla fruizione del diritto al menzionato congedo - che  la
famiglia svolge al fine di assicurare «una tutela piena dei  soggetti
deboli» e la denunciata omissione. 
    Il  descritto   difetto   motivazionale   sulla   non   manifesta
infondatezza comporta l'inammissibilita' delle questioni in esame, in
quanto prive «di un'adeguata ed autonoma illustrazione delle  ragioni
per le quali la normativa censurata integrerebbe una  violazione  del
parametro costituzionale evocato [...]» (ex plurimis, sentenza n.  33
del 2019). 
    4.- Nel merito, la questione inerente alla violazione dell'art. 3
Cost. non e' fondata. 
    4.1.- Come dianzi chiarito, l'art. 13, comma 2,  della  legge  n.
383 del 2001 e' censurato nella parte in cui non include  gli  affini
nel  novero  dei  soggetti  che  non  sono  obbligati  al   pagamento
dell'imposta da esso prevista per i  trasferimenti  per  donazione  o
altra liberalita' tra vivi. 
    Tale disposizione violerebbe il principio di eguaglianza  di  cui
all'art. 3 Cost., dal momento  che  la  disciplina  dettata  per  gli
affini sarebbe ingiustificatamente diversa da quella prevista  per  i
parenti,  esclusi  dalla  tassazione  in  relazione   alla   medesima
fattispecie,  nonostante  l'omogeneita'  tra  le  due  categorie   di
familiari. A supporto dell'asserita uniformita', il rimettente indica
quali tertia comparationis una nutrita serie di previsioni  normative
- segnatamente contenute  nell'art.  7,  comma  1,  lettera  b),  del
decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346 (Approvazione  del  testo
unico delle disposizioni concernenti l'imposta  sulle  successioni  e
donazioni),  cosi'  come  modificato  dall'art.  69  della  legge  21
novembre 2000, n. 342 (Misure in materia fiscale);  negli  artt.  87,
quarto comma, 230-bis, terzo  comma,  348,  417,  433,  quinto  comma
(recte: primo comma, numeri  4  e  5),  e  2399  del  codice  civile;
nell'art. 51 del codice di procedura civile; nell'art. 33,  comma  3,
della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro  per  l'assistenza,
l'integrazione sociale  e  i  diritti  delle  persone  handicappate);
infine, nell'art. 74 del decreto legislativo 10  settembre  2003,  n.
276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del
lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003,  n.  30)  -  dalle  quali
sarebbe deducibile un principio di «necessaria parificazione»  tra  i
parenti e gli affini. 
    4.2.-  Al  fine  di  inquadrare  correttamente   la   prospettata
questione e' opportuno premettere che la norma censurata si inserisce
all'interno di un intervento normativo che ha costituito una  isolata
parentesi nell'ambito dello sviluppo dell'ordinamento tributario. 
    Il comma 1 dell'art. 13 della legge n. 383 del  2001  ha  infatti
disposto che l'imposta sulle successioni e donazioni di cui al d.lgs.
n. 346 del 1990, cosi' come modificata dall'art. 69  della  legge  n.
342 del 2000, «e' soppressa» e il comma 2 del medesimo articolo 13 ha
limitato  l'imposizione  ai  trasferimenti  di  beni  e  diritti  per
donazione o altre liberalita' tra vivi  solo  ove  siano  disposti  a
favore dei parenti in linea collaterale oltre il quarto grado,  degli
affini e degli estranei. 
    Si e' trattato di un cambiamento  radicale  rispetto  al  sistema
dell'imposta  sulle  successioni  e  donazioni:   uno   dei   tributi
patrimoniali (in senso lato)  piu'  antichi  del  nostro  ordinamento
tributario, fondato su ragioni redistributive e applicabile a  carico
di qualsiasi beneficiario. 
    Tale intervento normativo non si e' pero' consolidato all'interno
dell'ordinamento. Con l'art. 2, commi da 47 a 54, del decreto-legge 3
ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in  materia  tributaria  e
finanziaria), cosi' come sostituito  in  sede  di  conversione  dalla
legge 24 novembre 2006, n. 286, il  legislatore,  per  un  verso,  ha
abrogato il suddetto art.  13  e,  per  l'altro,  ha  sostanzialmente
"reintrodotto" la soppressa imposta sulle  successioni  e  donazioni,
che e' giustificata dall'arricchimento dell'erede o del  beneficiario
e quindi in ragione della capacita' contributiva  di  questi  ultimi,
che risulta nuova e autonoma anche rispetto alle imposte a suo  tempo
versate dal dante causa. 
    4.3.-  Va  peraltro  sottolineato  che  nel  descritto   sviluppo
normativo l'imposizione  e'  sempre  risultata  strutturata  in  modo
graduato in rapporto alla prossimita' familiare tra il  disponente  e
il beneficiario, senza che a cio' abbia fatto  eccezione  nemmeno  la
riforma  del  2001:  nell'imposta  sulle  successioni   e   donazioni
attraverso  aliquote  differenziate;  in  quella  del  2001  con   la
selezione dei soggetti passivi. 
    Infatti, il censurato comma 2 dell'art. 13 della legge n. 383 del
2001 ha individuato nei parenti in linea collaterale oltre il  quarto
grado, negli affini e negli estranei i soggetti passivi  rispetto  ai
quali i trasferimenti  di  beni  e  diritti  per  donazioni  e  altre
liberalita' tra  vivi,  eccedenti  i  350  milioni  di  lire,  devono
considerarsi imponibili nella stessa misura stabilita  per  gli  atti
traslativi a titolo oneroso. 
    4.4.- E' questa discriminazione soggettiva (segnatamente tra  gli
affini e i parenti esclusi  dall'imposizione)  a  costituire  oggetto
dell'odierna questione di costituzionalita',  poiche'  il  rimettente
assume che essa «non trova alcuna giustificazione se riguardata  alla
luce di alcuni elementi ordinamentali». 
    La norma e' dunque indubbiata nella parte in cui non include  gli
affini, equiparandoli ai parenti, nel novero dei soggetti non  tenuti
al pagamento dell'imposta. 
    4.5.-  Tanto  premesso,  la  descritta  selezione  dei   soggetti
passivi,   in   quanto   coerente   con   il   presupposto,   rientra
nell'esercizio del potere discrezionale  del  legislatore  tributario
(su tale discrezionalita', ex multis, sentenze n. 288 del 2019  e  n.
269 del 2017), che ha  costantemente  graduato,  come  si  e'  visto,
l'imposizione  in  ragione  della  prossimita'   familiare   tra   il
disponente e il beneficiario. La selezione dei soggetti passivi trova
inoltre, nel caso di specie, una  non  irragionevole  giustificazione
anche nell'esigenza di limitare l'impatto finanziario  della  riforma
del 2001, come risulta dai lavori preparatori. 
    Dagli stessi, infatti, emerge che tale riforma non  nutriva  -  a
differenza della prospettiva da cui sembra muovere  il  rimettente  -
alcuna  ambizione  di  qualificarsi  come  attuativa   della   tutela
costituzionale della famiglia: nessuno specifico riferimento  a  tale
valore viene  mai  evocato;  si  rimarcano  piuttosto  altre  e  piu'
generiche finalita', come quelle della semplificazione e del rilancio
dell'economia. 
    Il che appare  comprensibile,  perche'  l'indistinta  esclusione,
senza alcun limite di importo, del  coniuge,  dei  parenti  in  linea
retta e degli altri parenti  in  linea  collaterale  fino  al  quarto
grado, dall'imposizione delle donazioni e delle  liberalita'  risulta
difficilmente inquadrabile nella struttura  dei  principali  precetti
costituzionali (artt. da 29 a 31 Cost.) posti a tutela della famiglia
e, in particolare, delle situazioni di potenziale fragilita' in  essa
ravvisabili. 
    Non risulta, dunque, superato  il  confine  della  non  manifesta
irragionevolezza,  nel  cui  ambito  soltanto   puo'   legittimamente
esercitarsi la discrezionalita' del  legislatore:  il  fatto  che  la
norma abbia inteso selezionare i soggetti  passivi  del  prelievo  in
esame  in  ragione   della   prossimita'   dei   vincoli   familiari,
individuando il grado e  i  limiti  di  tale  prossimita'  e  tenendo
adeguatamente  conto  dell'impatto  finanziario  di  tale  selezione,
esclude l'arbitrarieta' della disciplina censurata (in  generale  sul
confine della non manifesta irragionevolezza,  sentenze  n.  153  del
2017 e n. 111 del 2016). 
    4.6.- Quanto  all'assunto  del  rimettente  secondo  cui  diversi
«elementi ordinamentali» dimostrerebbero l'omogeneita' tra parenti  e
affini, e'  sufficiente  qui  rilevare  che  i  tertia  comparationis
indicati nell'ordinanza non sono  adeguati,  essendo  considerati  in
modo del tutto decontestualizzato dagli  istituti  regolati  e  dalle
specifiche rationes a essi sottesi. 
    Proprio l'esame delle numerose disposizioni indicate a  raffronto
dal giudice a quo rende, anzi, evidente la mancanza di  elementi  che
dimostrino la necessita' sistematica di garantire  una  ricorrente  e
generalizzata omogeneita' di trattamento tra parenti e  affini  dalla
quale si possa dedurre la rottura della coerenza dell'ordinamento  ad
opera della norma censurata. 
    4.6.1.- In particolare, l'art. 87, quarto comma,  cod.  civ.  non
effettua quella piena  assimilazione  sostenuta  dal  rimettente,  ma
attua, al contrario, una differenziazione normativa  in  ragione  sia
della linea che del grado:  basti  considerare  che  mentre  per  gli
affini in linea collaterale in secondo grado il divieto di  contrarre
matrimonio puo' essere rimosso  dal  tribunale,  non  altrettanto  e'
previsto per i parenti  in  linea  collaterale  nel  medesimo  grado,
essendo cio' consentito soltanto per quelli in linea  collaterale  in
terzo grado. 
    Anche  l'art.  230-bis  cod.  civ.  -  parimenti  richiamato  dal
rimettente -, pur considerando, con riguardo  all'impresa  familiare,
ambedue le categorie di parenti e affini, comunque le  distingue  nel
grado, confermando ulteriormente la loro eterogeneita'. 
    L'evocato art. 74 del d.lgs. n. 276 del 2003 e' poi  relativo  ad
aspetti privatistici e previdenziali che riguardano le prestazioni di
lavoro accessorio, senza che  la  norma  possa  estendersi  ad  «ogni
rilievo lavoristico» (sentenza n. 50 del  2005):  il  che  denota  un
elevato grado di settorialita' della disciplina in parola e  consente
di escludere che essa possa essere assunta a  elemento  ordinamentale
da cui desumere un principio generale. 
    Anche gli evocati artt. 348, 417  e  433,  quinto  comma  (recte:
primo comma, numeri 4 e 5), cod. civ., non solo  non  rafforzano,  ma
indeboliscono l'assunto del rimettente, giacche' confermano la scelta
legislativa di un trattamento non del tutto equiparato dei parenti  e
degli  affini.  Gli   istituti   della   tutela,   dell'interdizione,
dell'inabilitazione e dell'obbligo alimentare oggetto di  tali  norme
rispondono, infatti,  a  uno  scopo  ben  specifico  e  unitariamente
riconducibile a un sistema efficiente di tutela di soggetti "deboli":
essi nulla hanno a che vedere con gli interessi  sottesi  alla  norma
ambita in via di addizione, sicche'  nemmeno  dalle  disposizioni  in
discorso e' inferibile il principio di necessaria parita' assunto dal
giudice a quo a fondamento della dedotta violazione dell'art. 3 Cost. 
    Analogamente, l'art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, se
disciplina in modo effettivamente uniforme i parenti  e  gli  affini,
nondimeno  riguarda  l'assistenza  alle  persone  disabili   ed   e',
pertanto, riconducibile alla predetta ratio di protezione di  persone
che versano in un particolare stato di fragilita': tanto dimostra che
il legislatore ha parificato i parenti e gli affini non in  forza  di
un principio ordinamentale di necessaria equiparazione degli  stessi,
ma in considerazione dei peculiari interessi da tutelare,  presidiati
a livello costituzionale e non ravvisabili invece nella  disposizione
oggetto dell'odierno scrutinio. 
    Nella medesima direzione  conducono  le  argomentazioni  poste  a
fondamento  della  sentenza  di  questa  Corte  n.  203   del   2013,
espressamente menzionata invece dal rimettente a sostegno  della  non
manifesta infondatezza delle censure. Con  tale  pronuncia  e'  stata
dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 42, comma 5, del
d.lgs. n.  151  del  2001,  nella  parte  in  cui,  al  ricorrere  di
determinate  condizioni,  non  includeva,  nel  novero  dei  soggetti
legittimati  a  fruire  del  congedo  straordinario  per  la  cura  e
l'assistenza di  persona  in  situazione  di  disabilita'  grave,  il
parente o l'affine entro il terzo grado convivente. Anche l'addizione
operata in siffatta occasione da  questa  Corte,  risponde,  infatti,
come dianzi chiarito, alla stringente e specifica esigenza di  tutela
sottesa all'istituto del congedo, la cui automatica  applicazione  ad
altri ambiti ordinamentali non pare dunque ne'  necessitata  ne',  di
per se', ragionevole. 
    Nemmeno pertinenti, infine, risultano gli artt. 2399 cod. civ.  e
l'art. 51 cod. proc. civ., richiamati dalla CTR. In  particolare,  la
prima disposizione individua alcune  categorie  di  soggetti,  tra  i
quali  i  parenti  e  gli  affini  entro  il   quarto   grado   degli
amministratori  della  societa'   (o   delle   societa'   da   questa
controllate, delle societa' che la controllano e di quelle sottoposte
a comune controllo), che non possono ricoprire la carica di  sindaco,
al  fine  di  preservare  tale  delicato   incarico   da   potenziali
condizionamenti da parte di familiari piu' stretti che  rivestono  la
carica di amministratore.  La  seconda  mira  a  garantire  il  pieno
rispetto del canone di imparzialita' del giudice  per  assicurare  il
corretto esercizio della funzione giurisdizionale. 
    Si tratta, dunque, anche in questo caso, di previsioni in cui  la
scelta legislativa di equiparazione del  parente  e  dell'affine  non
discende dall'applicazione di un principio  generale  di  assoluta  e
necessaria parificazione, in ogni ipotesi, del trattamento  giuridico
di parenti e affini, ma  dalla  concreta  valutazione  dell'interesse
sotteso alla specifica disciplina  e  dal  conseguente  obiettivo  di
impedire lo sviamento dal corretto esercizio di determinate funzioni. 
    4.6.2.- Del  resto,  neppure  nella  legislazione  tributaria  e'
rinvenibile una nozione predeterminata e  generale  di  famiglia  (si
pensi, tra le moltissime ipotesi,  alle  diverse  norme  sui  carichi
fiscali di famiglia in  tema  di  imposte  dirette;  sul  trattamento
fiscale dell'impresa familiare; sulla nozione di nucleo familiare  in
tema di determinazione sintetica del reddito o in tema di  abitazione
principale nei tributi locali; sulle agevolazioni in tema di  piccola
proprieta'  contadina),  poiche'  gli  interventi   del   legislatore
risultano modulati in modo differenziato, a seconda dei casi presi in
considerazione e dei singoli interessi di volta in volta perseguiti. 
    4.6.3.- E' appena il caso, infine, di  rilevare  che  il  tertium
comparationis indicato dal rimettente nell'art. 7, comma  1,  lettera
b), del d.lgs. n. 346 del 1990, come modificato dall'art.  69,  comma
1, lettera c), della legge n. 342 del 2000,  relativo  alle  aliquote
dell'imposta sulle successioni e donazioni differenziate  in  ragione
del grado di parentela e di affinita', non costituisce idoneo termine
di raffronto, trattandosi di norma gia' «soppressa», in quel momento,
dalla stessa legge n. 383 del 2001.  Cio'  assorbe  ogni  altra,  pur
possibile, considerazione. 
    4.7.- In conclusione, non e' ravvisabile, in  relazione  all'art.
13, comma 2, della legge n. 383 del 2001, una lesione  del  principio
di eguaglianza: le situazioni e le rationes delle normative poste  in
comparazione risultano, infatti, eterogenee, sia intrinsecamente, sia
in rapporto con la fattispecie del giudizio principale (ex  plurimis,
sulla necessaria  omogeneita'  dei  termini  da  porre  a  raffronto,
sentenza n. 236 del 2017).