ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  55-quater,
comma 3-quater, ultimo periodo,  del  decreto  legislativo  30  marzo
2001,  n.  165  (Norme  generali  sull'ordinamento  del  lavoro  alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche),  inserito  dall'art.  1,
comma 1, lettera b), del decreto legislativo 20 giugno 2016, n.  116,
recante «Modifiche all'articolo 55-quater del decreto legislativo  30
marzo 2001, n. 165, ai sensi dell'articolo 17, comma 1,  lettera  s),
della legge 7 agosto  2015,  n.  124,  in  materia  di  licenziamento
disciplinare»,   promosso   dalla   Corte    dei    conti,    sezione
giurisdizionale regionale per l'Umbria, nel giudizio vertente tra  il
Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale  della  Corte
dei conti per l'Umbria e C. S. con  ordinanza  del  9  ottobre  2018,
iscritta al n. 180 del registro ordinanze  2018  e  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  51,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2018. 
    Visti l'atto di costituzione, fuori termine, di  C.  S.,  nonche'
l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 9  ottobre  2019  il  Giudice
relatore Aldo Carosi; 
    deliberato nella camera di consiglio del 9 gennaio 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con sentenza non definitiva e ordinanza del 9  ottobre  2018,
la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale  per  l'Umbria,
nel giudizio di responsabilita' promosso dalla Procura regionale  nei
confronti  di  C.  S.,  ha  sollevato   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 55-quater, comma 3-quater,  ultimo  periodo,
del decreto  legislativo  30  marzo  2001,  n.  165  (Norme  generali
sull'ordinamento del lavoro  alle  dipendenze  delle  amministrazioni
pubbliche), inserito dall'art. 1, comma 1, lettera  b),  del  decreto
legislativo 20 giugno 2016, n. 116, recante  «Modifiche  all'articolo
55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001,  n.  165,  ai  sensi
dell'articolo 17, comma 1, lettera s), della legge 7 agosto 2015,  n.
124,  in  materia  di  licenziamento  disciplinare»,  in   attuazione
dell'art. 17, comma 1, lettera s) della legge 7 agosto 2015,  n.  124
(Deleghe  al   Governo   in   materia   di   riorganizzazione   delle
amministrazioni  pubbliche),  in   riferimento   all'art   76   della
Costituzione, nonche' all'art. 3 Cost., anche in combinazione con gli
artt. 23 e 117, primo comma, Cost., in  relazione  all'art.  6  della
Convenzione, firmata a Roma il 4 novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU) e  all'art.  4
del Protocollo n. 7 di detta Convenzione fatto  a  Strasburgo  il  22
novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9  aprile  1990,
n. 98. 
    1.1.- Il giudice a quo riferisce che la Procura  regionale  aveva
convenuto in giudizio la sig.ra C.  S.  per  sentirla  condannare  al
pagamento di euro  20.064,81  in  quanto,  in  qualita'  di  pubblica
dipendente,  aveva  falsamente  attestato  la  propria  presenza   in
servizio in quattro giornate tra le ore 17:00 e le ore 18:00. 
    Piu' specificamente, la Procura regionale aveva  contestato  alla
convenuta un danno patrimoniale pari a 64,81  euro,  derivante  dalla
percezione indebita della retribuzione nei periodi per  i  quali  era
mancata la prestazione lavorativa. Aveva chiesto inoltre la  condanna
al  pagamento  del  danno  all'immagine  da   determinarsi   in   via
equitativa, per un importo ritenuto congruo e pari a 20.000,00  euro,
tanto ai sensi dell'art. 55-quater, comma 3-quater, del d.lgs. n. 165
del 2001, come modificato dal d.lgs. n. 116 del 2016,  in  attuazione
dell'art. 17, comma 1, lettera s), della legge n. 124 del 2015. 
    Il giudice a  quo  riferisce  ancora  che  la  causa,  in  quanto
ritenuta matura,  e'  stata  trattenuta  in  decisione  ed  e'  stata
definita nella camera di consiglio del 19 luglio  2018,  tenutasi  al
termine della complessiva udienza pubblica. 
    Il Collegio, con sentenza non  definitiva,  ha  ritenuto  fondata
l'azione  risarcitoria  promossa  nei  confronti   della   convenuta,
condannandola al risarcimento del danno  patrimoniale  da  percezione
indebita della retribuzione in mancanza di prestazione lavorativa  e,
limitatamente all'an  debeatur,  anche  a  risarcire  il  pregiudizio
recato all'immagine della pubblica amministrazione di appartenenza. 
    In particolare, il giudice contabile umbro ha ritenuto  integrata
dalla convenuta la condotta di falsa attestazione della  presenza  in
servizio mediante l'alterazione dei sistemi di  rilevamento  e  altre
modalita' fraudolente di cui all'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del
2001, introdotto dall'art. 69, comma 1, del  decreto  legislativo  27
ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 115, in
materia di ottimizzazione della produttivita' del lavoro  pubblico  e
di efficienza e trasparenza delle pubbliche  amministrazioni),  nella
formulazione in vigore al tempo dei fatti in questione, in quanto  la
condotta era stata accertata attraverso strumenti di  sorveglianza  e
di registrazione. 
    Il  giudice  rimettente  rammenta  che  gli  artt.  55-quater   e
55-quinquies del d.lgs. n. 165 del 2001 prevedono,  inoltre,  che  la
Procura  regionale  della  Corte  dei  conti   debba   perseguire   i
responsabili richiedendo la condanna al risarcimento sia  del  «danno
patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo  di  retribuzione
nei periodi per i quali sia accertata la  mancata  prestazione»,  che
del  danno  all'immagine,  la  cui  liquidazione  e'   rimessa   alla
«valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza
del  fatto  per  i  mezzi  di  informazione  [fermo   restando   che]
l'eventuale condanna non  puo'  essere  inferiore  a  sei  mensilita'
dell'ultimo stipendio  in  godimento,  oltre  interessi  e  spese  di
giustizia». 
    Osserva che i dipendenti pubblici tenuti al rispetto di un orario
di lavoro, in quanto la prestazione puo' essere  svolta  solo  presso
l'ufficio pubblico, sono obbligati a prestarla secondo le  modalita',
le forme e i tempi stabiliti dal datore di  lavoro  pubblico,  avendo
l'utenza un vero e proprio diritto pubblico soggettivo  all'esercizio
del potere e al disbrigo delle  pratiche  di  ufficio  per  tutto  il
periodo di apertura della struttura. 
    La convenuta, invece, in  violazione  delle  predette  regole  di
condotta e degli obblighi di presenza in servizio,  aveva  modificato
l'orario di uscita, anticipandolo di un'ora rispetto a quello da  lei
dichiarato   e   attestato,    disvelando    una    predeterminazione
intenzionale. 
    Per tali ragioni, il giudice a quo ha condannato la convenuta  al
pagamento  di  euro  64,81,  pari  alle  retribuzioni   indebitamente
percepite in assenza di prestazione lavorativa. 
    Quanto al danno all'immagine, il Collegio ha ritenuto sussistenti
nella fattispecie tutti gli elementi oggettivi, soggettivi e  sociali
della posta risarcitoria avendo  avuto  la  vicenda  risonanza  nella
stampa locale allegata agli atti del giudizio. 
    Osserva che le nuove previsioni normative applicabili alla specie
presenterebbero  funzioni  sanzionatorie  e  deterrenti  per  rendere
efficace  il  contrasto  dei  comportamenti  assenteistici.   Sicche'
l'azione  di  responsabilita'  contabile   intestata   alla   procura
regionale, ontologicamente compensativa, tendendo al  ripristino  del
patrimonio pubblico danneggiato, come anche riconosciuto dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo nella sentenza 13 maggio 2014,  Rigolio
contro Italia, subirebbe nella norma impugnata una evidente «torsione
sanzionatoria» che, comunque, secondo il giudice rimettente,  non  si
presenterebbe,   sotto   questo   specifico    profilo    funzionale,
costituzionalmente irragionevole, in  considerazione  delle  condotte
che tende a contrastare. 
    Tuttavia, il giudice a quo ritiene  che  la  quantificazione  del
danno all'immagine come introdotta dalla riforma del 2016, renderebbe
rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimita'
costituzionale secondo i seguenti profili. 
    1.2.- Il giudice a  quo  ritiene  che  sia  innanzitutto  violato
l'art. 76 Cost. 
    Espone il  rimettente  che  la  norma  e'  stata  introdotta  dal
legislatore delegato (art. 1, comma 1, del d.lgs. n.  116  del  2016,
rubricato «Modifiche all'art. 55-quater del  decreto  legislativo  30
marzo 2001, n. 165»), in attuazione dell'art. 17,  comma  1,  lettera
s), della legge n. 124 del 2015, il quale fissa il seguente principio
e  criterio  direttivo:  «introduzione  di  norme   in   materia   di
responsabilita' disciplinare dei pubblici dipendenti  finalizzate  ad
accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e  di
conclusione l'esercizio dell'azione disciplinare». 
    Secondo il Collegio rimettente, il decreto delegato  non  avrebbe
potuto  incidere  sulla  disciplina  dell'azione  di  responsabilita'
amministrativa intestata  alla  Procura  regionale  della  Corte  dei
conti, ne' tanto meno avrebbe potuto porre regole finalizzate  a  far
assumere ai criteri di computo del danno  all'immagine  una  funzione
sanzionatoria, comunque  non  confondibile,  sia  funzionalmente  che
strutturalmente, con il procedimento disciplinare che il  legislatore
delegato aveva posto a oggetto della delega. 
    Anche in ragione della natura  di  mero  «riordino»  del  decreto
legislativo in materia disciplinare, fissata espressamente  dall'art.
17 della legge n. 124 del 2015, il giudice  a  quo  sostiene  che  il
legislatore delegato non avrebbe potuto introdurre norme  di  diritto
sostanziale  volte  a  fissare  criteri  di  liquidazione  del  danno
all'immagine  da  falsa  attestazione  della  presenza  in   servizio
fissando  una  soglia  sanzionatoria  inderogabile  nel  minimo,  che
potrebbe essere sproporzionata rispetto al caso concreto. 
    Osserva che nell'ordinamento italiano sarebbe ampiamente ammesso,
nella materia del rapporto di lavoro alle dipendenze delle  pubbliche
amministrazioni, il cumulo di sanzioni civili, penali, amministrative
e contabili (viene citata la sentenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo, Grande camera, 15 novembre 2016, A. e B. contro  Norvegia;
nonche' la sentenza di questa Corte n. 43 del 2018). 
    Cio'  posto,  secondo  il  giudice   rimettente,   la   descritta
eterogeneita'  e  non  confondibilita'  tra  i  poteri   sanzionatori
disciplinari del datore di lavoro  pubblico  e  i  poteri  di  azione
nell'interesse generale intestati alla Procura regionale della  Corte
dei conti, renderebbe palese  l'eccesso  di  delega  in  cui  sarebbe
incorso il legislatore. 
    1.3.- La Corte dei conti ritiene violato altresi' l'art. 3 Cost.,
anche in combinazione con gli art. 23 e 117, primo comma,  Cost.,  in
relazione all'art. 6 della CEDU e all'art. 4 del Protocollo n. 7,  in
quanto norme interposte, per violazione dei principi di gradualita' e
proporzionalita' sanzionatoria. 
    Secondo   il   rimettente   la   previsione   normativa   sarebbe
manifestamente  irragionevole  in  quanto  obbligherebbe  il  giudice
contabile a infliggere una condanna sanzionatoria senza  tener  conto
dell'offensivita' in concreto della condotta posta in essere. 
    Obietta, inoltre, che l'obbligatorieta' del minimo  sanzionatorio
(«sei mensilita' dell'ultimo stipendio in godimento, oltre  interessi
e spese di giustizia»), in ipotesi di fondatezza della  contestazione
relativa al danno  all'immagine,  impedirebbe  al  Collegio  di  dare
rilevanza ad altre circostanze peculiari e  caratterizzanti  il  caso
concreto, imponendo al giudicante un verdetto  condannatorio  pur  in
presenza di condotte  marginali  e  tenui  che  abbiano  prodotto  un
pregiudizio minimo, violando sia il principio di proporzionalita' che
quello della gradualita' sanzionatoria. 
    La disposizione violerebbe pertanto  i  principi  fondamentali  e
generali  in  materia   sanzionatoria   impedendo   una   valutazione
appropriata della fattispecie concreta ponendosi in contrasto con  la
citata giurisprudenza sovranazionale convenzionale ed eurounitaria. 
    Evidenzia infine il giudice a quo che la  formulazione  normativa
precluderebbe    ogni    margine    all'interpretazione    giudiziale
costituzionalmente orientata, in  quanto  obbligherebbe  comunque  il
giudice, in caso di fondatezza dell'azione risarcitoria pubblicistica
esperita dalla procura regionale, a  condannare  il  convenuto  nella
misura minima non inferiore a sei mensilita' dell'ultimo stipendio in
godimento. 
    L'obbligatorieta' del minimo  edittale  sanzionatorio  renderebbe
pertanto impossibile ogni adeguamento al caso  concreto,  precludendo
l'operativita' del principio di proporzionalita' della  sanzione  che
impone l'adeguamento  della  tipologia  e  consistenza  della  misura
sanzionatoria  al  grado,  natura  e   carattere   della   violazione
riscontrata. 
    Il Collegio  rimettente  osserva  ulteriormente  che,  stante  la
fondatezza dell'azione e  nonostante  la  tenuita'  del  fatto  e  il
carattere lieve delle violazioni riscontrate (pochissime ore di falsa
attestazione in relazione a quattro giornate non reiterate), dovrebbe
applicare il minimo  sanzionatorio  che,  a  giudizio  del  medesimo,
apparirebbe eccessivo, sproporzionato e irragionevole. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, deducendo l'infondatezza delle questioni sollevate. 
    In riferimento alla violazione dei principi e  criteri  direttivi
di cui all'art. 76 Cost., il Presidente del Consiglio rammenta che la
Corte ha affermato  in  piu'  occasioni  che  la  determinazione  dei
principi e dei  criteri  direttivi,  ai  sensi  dell'art.  76  Cost.,
soprattutto ove riguardi interi settori  di  disciplina  od  organici
complessi normativi, non osta all'emanazione da parte del legislatore
delegato di  norme  che  rappresentino  un  coerente  sviluppo  e  un
completamento delle scelte espresse dal  legislatore  delegante,  non
essendo il suo compito limitato a una  «mera  scansione  linguistica»
delle previsioni contenute nella delega (sono richiamate le  sentenze
n. 10 del 2018, n. 278 del 2016, n. 194 e n. 146 del 2015, n. 47 e n.
229 del 2014, n. 426  del  2008).  Il  legislatore  delegato  sarebbe
quindi libero  di  individuare  e  tracciare  i  necessari  contenuti
attuativi,   secondo   l'ordinaria   sfera   della   discrezionalita'
legislativa (e' richiamata  la  sentenza  n.  44  del  1993)  e,  pur
nell'ambito  invalicabile  dei  confini   dati   dalle   possibilita'
applicative desumibili dalle  norme  di  delega,  sarebbe  ugualmente
libero di interpretare e scegliere fra  le  alternative  che  gli  si
offrono, di valutare le specifiche situazioni da  disciplinare  e  di
effettuare le  conseguenti  scelte  nella  fisiologica  attivita'  di
riempimento che lega i due  livelli  normativi  (sono  richiamate  le
sentenze n. 229 del 2014, n. 98 del 2008 e  n.  163  del  2000).  Ove
cosi' non  fosse,  si  prosegue,  al  legislatore  delegato  verrebbe
riservata  una  funzione  di  rango  quasi  regolamentare,  priva  di
autonomia precettiva, in aperto contrasto con il carattere pur sempre
primario del provvedimento legislativo delegato. 
    Il controllo di  conformita'  della  norma  delegata  alla  norma
delegante richiederebbe un confronto tra gli esiti  di  due  processi
ermeneutici paralleli: l'uno, relativo  alle  norme  che  determinano
l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, da
svolgere tenendo conto  del  complessivo  contesto  in  cui  esse  si
collocano e individuando le ragioni e le finalita' poste a fondamento
della stessa; l'altro, relativo  alle  norme  poste  dal  legislatore
delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi
e i criteri direttivi della delega. Il contenuto della delega  e  dei
relativi principi e criteri direttivi dovrebbe  essere  identificato,
dunque, accertando il complessivo contesto normativo e  le  finalita'
che la ispirano, tenendo conto che i principi posti  dal  legislatore
delegante costituiscono non solo la base  e  il  limite  delle  norme
delegate, ma strumenti  per  l'interpretazione  della  loro  portata.
Queste, fintanto che sia possibile, andrebbero lette nel  significato
compatibile con detti principi, i quali,  a  loro  volta,  dovrebbero
essere interpretati avendo riguardo alla  ratio  della  delega  e  al
complessivo quadro di riferimento. 
    2.1.- Tanto premesso, osserva l'interveniente che la disposizione
impugnata,  alla  luce   della   giurisprudenza   sopra   richiamata,
risulterebbe pienamente riconducibile nell'ambito della delega di cui
alla legge n. 124 del 2015, costituendo un  coerente  sviluppo  e  un
completamento dei principi e dei criteri direttivi impartiti  con  la
legge delega, essendo funzionale alla tutela di  un  bene-valore,  il
buon   andamento   della   pubblica   amministrazione,   coessenziale
all'esercizio dei poteri e delle funzioni pubbliche. 
    Secondo   il   Presidente   del   Consiglio   dei   ministri   la
responsabilita' per danno all'immagine, sebbene non si sovrapponga  a
quella disciplinare, si inserirebbe nella piu' ampia  definizione  di
responsabilita' amministrativa, di cui  costituirebbe  una  ulteriore
declinazione,  sostanziandosi  nella  responsabilita'  con  carattere
evidentemente anche sanzionatorio per la grave perdita  di  prestigio
della personalita' pubblica e nel pregiudizio arrecato al rapporto di
fiducia  intercorrente   tra   cittadini   e   amministrazione,   che
affievolisce il  desiderio  di  partecipazione  e  il  sentimento  di
appartenenza e di affidamento  alle  istituzioni  (e'  richiamata  la
sentenza n. 355 del 2010). 
    Proprio gli interessi lesi, riconducibili al buon andamento della
pubblica amministrazione, consentirebbero di ritenerla una  forma  di
responsabilita'   strettamente   connessa   a   quella   disciplinare
conseguente alla violazione degli obblighi comportamentali propri del
dipendente, considerata la peculiarita' del lavoro presso la pubblica
amministrazione. 
    Posto  che  nei  riguardi  del  dipendente  incombe   un   dovere
costituzionale di servire la Repubblica con impegno e responsabilita'
e  di  rispettare  i  principi  di  buon  andamento  e  imparzialita'
dell'attivita'  che  svolge,  la   funzione   della   responsabilita'
disciplinare,  non  diversamente  da  quella  della   responsabilita'
amministrativa  posta   a   tutela   dell'immagine   della   pubblica
amministrazione  nell'ambito  dei  rapporti  tra  amministrazione   e
cittadino, consisterebbe nell'assicurare  il  rispetto  del  pubblico
interesse al buon andamento dell'amministrazione seppure  all'interno
del rapporto lavorativo. 
    Il danno all'immagine sarebbe, dunque, intrinsecamente  correlato
alla condotta fraudolenta realizzata dal dipendente pubblico  e  alle
sanzioni  disciplinari  che  da  questa   derivano   in   quanto   si
sostanzierebbe, seppure sotto un  diverso  aspetto,  nel  pregiudizio
arrecato  al  medesimo  bene  giuridico  tutelato,  ovvero  il   buon
andamento e l'imparzialita' che l'apparato pubblico  e'  chiamato  ad
assicurare ai sensi dell'art. 97 Cost. 
    L'interdipendenza intercorrente tra la sanzione disciplinare  del
licenziamento e l'azione di responsabilita' per il  risarcimento  del
danno all'immagine della  pubblica  amministrazione  deriverebbe,  in
sintesi, dalla particolarita' del rapporto lavorativo considerato, il
pubblico impiego, e dalla specificita' e  rilevanza  attribuita  alla
finalita' di contrasto dei comportamenti di falsa attestazione  della
presenza, in ragione della quale e'  stata  disposta  una  disciplina
singolare comprensiva di un procedimento disciplinare accelerato e di
un licenziamento in assenza di preavviso e la  previsione  del  danno
all'immagine secondo una quantificazione minima. 
    Nonostante la fattispecie della falsa attestazione della presenza
in servizio  si  muova  nell'ambito  del  rapporto  di  lavoro,  essa
giungerebbe necessariamente a coinvolgere quello sociale. 
    La   tutela   del    diritto    all'immagine    della    pubblica
amministrazione, introdotta con  il  d.lgs.  n.  116  del  2016,  non
confliggerebbe,  pertanto,  con  l'art.  76  Cost.   in   quanto   si
inquadrerebbe coerentemente con l'introduzione nel sistema  di  norme
in materia di responsabilita' disciplinare dei  pubblici  dipendenti,
attesa  la  comune  finalita',  in  ambiti  diversi  ma  strettamente
contigui, di assicurare il prestigio, la credibilita' e  il  corretto
funzionamento degli uffici della pubblica amministrazione. 
    La peculiarita'  del  pubblico  impiego,  unita  all'esigenza  di
costruire un sistema di responsabilita'  in  grado  di  coniugare  le
finalita'    richiamate,    potrebbe    indubbiamente    giustificare
l'introduzione di una  sanzione  non  propriamente  disciplinare,  ma
capace di completarne la funzione perche' indirizzata a  fronteggiare
gli attuali gravi e frequenti fenomeni di assenteismo  che  la  legge
delega intendeva reprimere, considerato soprattutto  l'ampio  clamore
mediatico suscitato da tali violazioni. 
    L'obiettivo che la legge delega  n.  124  del  2015  mirerebbe  a
conseguire sarebbe, in altre parole, quello di un  potenziamento  del
livello di efficienza dei pubblici uffici finalizzato a contrastare i
fenomeni di scarsa produttivita' e di  assenteismo  -  proposito  che
anche il decreto attuativo ha perseguito  mediante  un  potenziamento
dei meccanismi di repressione - e,  conseguentemente,  l'introduzione
di un'azione di responsabilita' per il danno  all'immagine  cagionato
dal dipendente con la sua condotta. 
    Il legislatore  delegato  avrebbe  cosi'  posto  l'accento  sulla
volonta' del legislatore delegante di introdurre regole stringenti in
ordine all'esercizio del potere disciplinare da  parte  dei  soggetti
pubblici,  declinandone  la  volonta',  implicita  e   connessa,   di
perseguire il previsto rafforzamento dell'efficienza  della  pubblica
amministrazione  anche  attraverso  l'azione  richiamata,  avente  un
evidente effetto deterrente rispetto alle  condotte  fraudolente  dei
dipendenti pubblici. 
    L'intervento normativo censurato dai giudici rimettenti  sarebbe,
dunque, rigorosamente in linea con le esigenze  di  efficienza  e  di
salvaguardia  del  prestigio  dell'amministrazione   perseguite   dal
legislatore. Sarebbe, infatti, indubbio che  la  perpetrata  condotta
infedele del dipendente  incida  negativamente  sull'efficienza,  sul
decoro, sulla reputazione e sul buon  andamento  dell'amministrazione
di appartenenza, non solo all'interno  del  rapporto  di  lavoro,  ma
anche   negli   stessi   amministrati,   generando   sfiducia   verso
l'amministrazione statuale. 
    2.2.-  In  relazione  all'ulteriore  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 55-quater, comma 3-quater, del d.lgs. n. 165
del 2001, nella parte in cui prevede che l'eventuale condanna per  il
danno all'immagine non possa essere  inferiore  alle  sei  mensilita'
dell'ultimo stipendio  in  godimento,  il  Presidente  del  Consiglio
ritiene innanzitutto opportuno vagliare la  natura  cosiddetta  mista
della responsabilita' per danno all'immagine, che  presenterebbe  sia
profili sanzionatori che risarcitori. 
    Per un verso, sussisterebbe la finalita'  anche  risarcitoria  di
tale responsabilita', volta  al  ristoro  della  screditata  immagine
della pubblica amministrazione, con conseguente danno suscettibile di
valutazione economica in quanto lesivo  del  principio  di  legittimo
affidamento   del   cittadino   nei    confronti    della    pubblica
amministrazione, che secondo la giurisprudenza di  questa  Corte,  in
ragione della natura della situazione  giuridica  lesa,  non  avrebbe
valenza patrimoniale. Il riferimento alla patrimonialita'  del  danno
dovrebbe essere inteso come attinente alla quantificazione  monetaria
del  pregiudizio  subito  e  non  all'individuazione   della   natura
giuridica di esso (e' richiamata la sentenza n. 355 del 2010). 
    Per altro verso, posto  che  la  responsabilita'  amministrativa,
rispetto   alle   altre    forme    di    responsabilita'    previste
dall'ordinamento,   presenta   una   peculiare   connotazione    data
dall'accentuazione  dei  profili  sanzionatori  rispetto   a   quelli
risarcitori (sono richiamate le sentenze n. 355 del 2010, n. 453 e n.
371 del 1998), la responsabilita' qui considerata  assumerebbe  anche
natura sanzionatoria. 
    Pertanto, considerata la natura anche punitiva della condanna  al
risarcimento, secondo l'interveniente la fissazione di un criterio di
determinazione del quantum dovuto per la violazione posta  in  essere
dal dipendente risulterebbe ragionevole e in armonia con  un  sistema
che guarda all'efficienza dell'azione amministrativa. 
    La   disposizione   impugnata   non    prescinderebbe,    invero,
dall'identificazione   di   un    puntuale    pregiudizio    arrecato
all'amministrazione danneggiata, ma,  a  monte,  tenderebbe  a  porre
riparo a un comportamento contraddistinto da un  elevato  livello  di
offensivita', prevedendo un minimo di  danno  in  considerazione  del
fatto che la stessa sussistenza della violazione rappresenterebbe  un
fatto grave, che il legislatore  delegato  ha  inteso  in  ogni  caso
sanzionare secondo un minimo ragionevolmente stabilito. 
    Si tratterebbe di una violazione presuntivamente  grave  che  non
precluderebbe, peraltro, dato un minimo di condanna  in  ragione  del
vulnus che il comportamento illecito in se' comporta, una valutazione
giudiziale  di  proporzionalita'  in   relazione   alla   fattispecie
concreta, tanto che lo stesso  art.  55-quater,  comma  3-quater  del
d.lgs. n. 165 del 2001, presuppone sempre una valutazione  equitativa
del giudice nel caso di condotte che meritino una  maggiore  condanna
da parte del dipendente. 
    Pertanto,  secondo  il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri
dovrebbe escludersi che la citata disposizione configuri  tout  court
un automatismo nell'indicazione del  danno  minimo  risarcibile,  ne'
questa  potrebbe  essere  ritenuta  irragionevole   data   anche   la
difficolta' di quantificazione di un pregiudizio di tal  tipo,  vista
la specificita' della sanzione connessa alla gravita' di una condotta
dolosa  indubbiamente  grave,  immediatamente  lesiva   del   vincolo
fiduciario intercorrente non solo tra il  lavoratore  e  la  pubblica
amministrazione, quale datore di lavoro, ma anche tra quest'ultima  e
l'intera collettivita'. 
    Inoltre, secondo il Presidente del Consiglio la  proporzionalita'
nella quantificazione del danno minimo sarebbe anche  assicurata  dal
riferimento espresso  della  disposizione  all'ultimo  stipendio  del
dipendente a cui e' ascritta la violazione, tenuto  conto  del  fatto
che lo stipendio varia  in  ragione  della  posizione  ricoperta  dal
dipendente  nell'ambito  dell'amministrazione  e  del  rilievo  delle
relative  mansioni,  cui  conseguentemente  e'  ancorata   anche   la
lesivita'  della  condotta  in  relazione  al  buon  andamento  e  al
prestigio di cui all'art. 97 Cost. 
    Il danno minimo predefinito  cosi'  determinato  sarebbe  congruo
rispetto   alla   lesione   perpetrata   dalla   condotta   infedele,
qualificabile  in  termini  di  lesione   dei   principi   di   rango
costituzionale  ed  eurounitario,   quali   il   buon   andamento   e
l'imparzialita' della pubblica amministrazione, atteso  l'alto  grado
di discredito sociale che intrinsecamente  connota  la  condotta  del
dipendente. 
    La predeterminazione della misura  minima  del  risarcimento  del
danno all'immagine, contenuta nell'art.  55-quater,  comma  3-quater,
ultimo periodo, non sarebbe,  quindi,  manifestamente  irragionevole,
poiche' corrisponde alla natura polifunzionale di questa  ipotesi  di
responsabilita'. 
    Piu'  precisamente,  la   norma   costituirebbe   il   necessario
riconoscimento a livello di fonte primaria  dell'interesse  non  solo
compensativo, ma anche sanzionatorio,  sotteso  alla  responsabilita'
amministrativa (e' richiamata la pronuncia della Corte di cassazione,
sezioni unite civili, 5 luglio 2017, n. 16601). 
    In altri  termini,  si  prosegue,  la  disposizione  risulterebbe
costituzionalmente legittima poiche' verrebbe a soddisfare l'esigenza
di esplicitare, mediante la predeterminazione della misura minima del
risarcimento,  il   carattere   al   tempo   stesso   riparatorio   e
sanzionatorio  della   responsabilita'   amministrativa   per   danno
all'immagine, realizzando in questo modo un adeguato  contemperamento
tra le  diverse  funzioni  dell'istituto,  che  non  apparirebbe  ne'
manifestatamente  irragionevole,  ne'  confliggente  con  alcuno  dei
parametri evocati dal giudice rimettente. 
    L'episodicita' del comportamento o la sua limitazione  ad  alcune
ore o a un'unica  giornata  lavorativa  non  costituirebbero  ragioni
sufficienti per negare la sussistenza di un inadempimento cosi' grave
e le conseguenze, poiche' anche  in  tali  ipotesi  non  si  potrebbe
giustificare chi  commette  una  violazione  connotata  da  un  cosi'
peculiare disvalore disciplinare e sociale. 
    Il limite minimo inderogabile risulterebbe, quindi,  conforme  al
principio di proporzionalita' riconosciuto nel nostro ordinamento, in
quanto finalizzato a garantire un minimo e giusto equilibrio tra  gli
interessi giuridici coinvolti anche in presenza della  violazione  di
minore offensivita'. 
    3.- Si e' costituita in giudizio C.  S.  con  memoria  spedita  a
mezzo posta l'8 maggio 2019 e pervenuta in data 9 maggio 2019. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte dei conti,  sezione  giurisdizionale  regionale  per
l'Umbria, con sentenza non definitiva e ordinanza del 9 ottobre 2018,
pronunciata nel giudizio di responsabilita'  promosso  dalla  Procura
regionale  nei  confronti  di  C.  S.,  ha  sollevato  questioni   di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  55-quater,  comma  3-quater,
ultimo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165  (Norme
generali  sull'ordinamento   del   lavoro   alle   dipendenze   delle
amministrazioni pubbliche), inserito dall'art. 1,  comma  1,  lettera
b), del  decreto  legislativo  20  giugno  2016,  n.  116  (Modifiche
all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165,
ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera s, della legge  7  agosto
2015,  n.  124,  in  materia  di  licenziamento   disciplinare),   in
attuazione dell'art. 17, comma 1, lettera s), della  legge  7  agosto
2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni  pubbliche),  in  riferimento   all'art.   76   della
Costituzione, nonche' all'art. 3 Cost., anche in  combinato  disposto
con gli artt. 23 e 117, primo comma, Cost., in relazione  all'art.  6
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con  legge  4  agosto  1955,  n.  848,  e
all'art. 4  del  Protocollo  n.  7  di  detta  Convenzione,  fatto  a
Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge
9 aprile 1990, n. 98. 
    1.1.- Espone il giudice a quo  che  la  Procura  regionale  aveva
esercitato l'azione di responsabilita' amministrativa  nei  confronti
di una dipendente comunale  che,  per  quattro  giorni,  pur  uscendo
effettivamente alle ore 17:00, aveva attestato falsamente la  propria
presenza in servizio sino alle ore 18:00. 
    La Procura regionale aveva contestato  alla  convenuta  un  danno
patrimoniale pari a 64,81 euro, derivante dalla  percezione  indebita
della retribuzione nei periodi per i quali e' mancata la  prestazione
lavorativa. Aveva chiesto, inoltre, la condanna al  risarcimento  del
danno all'immagine, determinato in  via  equitativa  nell'importo  di
euro 20.000,00, ai sensi dell'art.  55-quater,  comma  3-quater,  del
d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dal d.lgs. n. 116 del 2016. 
    Il rimettente, con sentenza non definitiva, ha  ritenuto  fondata
l'azione  risarcitoria  promossa  nei  confronti   della   convenuta,
condannandola al risarcimento del danno patrimoniale derivante  dalla
percezione indebita della retribuzione  in  mancanza  di  prestazione
lavorativa e, limitatamente all'an debeatur, condannandola altresi' a
risarcire  il  pregiudizio   recato   all'immagine   della   pubblica
amministrazione di appartenenza, ritenendo integrata la  condotta  di
falsa attestazione della presenza in servizio mediante  l'alterazione
dei sistemi  di  rilevamento  e  altre  modalita'  fraudolente,  come
previsto dall'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del  2001,  introdotto
dall'art. 69, comma 1, del decreto legislativo 27  ottobre  2009,  n.
150 (Attuazione della legge 4  marzo  2009,  n.  15,  in  materia  di
ottimizzazione  della  produttivita'  del  lavoro   pubblico   e   di
efficienza e  trasparenza  delle  pubbliche  amministrazioni),  nella
formulazione in vigore al tempo dei fatti in questione. 
    Con particolare riferimento al danno all'immagine, il  giudice  a
quo  ritiene  sussistenti  nella  fattispecie  tutti   gli   elementi
oggettivi, soggettivi e  sociali  della  posta  risarcitoria,  avendo
avuto la vicenda risonanza nella  stampa  locale,  come  risulterebbe
dagli atti del giudizio. 
    Osserva poi che le nuove previsioni  normative  applicabili  alla
fattispecie presenterebbero valenza sanzionatoria e  deterrente  onde
rendere  efficace  il  contrasto  dei  comportamenti   assenteistici.
Sicche',   aggiunge,   l'azione   di    responsabilita'    contabile,
ontologicamente compensativa, tendendo al ripristino  del  patrimonio
pubblico danneggiato - come anche riconosciuto  dalla  Corte  europea
dei diritti dell'uomo nella sentenza 13 maggio 2014,  Rigolio  contro
Italia - subirebbe  con  la  norma  impugnata  un'evidente  «torsione
sanzionatoria» che, comunque,  non  si  presenterebbe,  sotto  questo
specifico profilo funzionale,  costituzionalmente  irragionevole,  in
considerazione delle condotte che tende a contrastare. 
    Nondimeno, il giudice a quo ritiene che  la  quantificazione  del
danno  all'immagine,  come  introdotta  dalla   riforma   del   2016,
renderebbe non manifestamente infondate le questioni di  legittimita'
costituzionale secondo i seguenti profili. 
    1.2.- Il giudice a quo ritiene anzitutto violato l'art. 76 Cost. 
    Espone il  rimettente  che  la  norma  e'  stata  introdotta  dal
legislatore delegato (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 116 del 2016) in
attuazione dell'art. 17, comma 1, lettera s), della legge n. 124  del
2015, il quale fissa il  seguente  principio  e  criterio  direttivo:
«introduzione di norme in materia di responsabilita' disciplinare dei
pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e  rendere  concreto  e
certo  nei  tempi  di  espletamento  e  di  conclusione   l'esercizio
dell'azione disciplinare». 
    Secondo il rimettente, il decreto  delegato  non  avrebbe  potuto
incidere   sulla   disciplina    dell'azione    di    responsabilita'
amministrativa,  ne'  tanto  meno   avrebbe   potuto   porre   regole
finalizzate  a  far  assumere  ai  criteri  di  computo   del   danno
all'immagine una valenza sanzionatoria,  comunque  non  confondibile,
sia  funzionalmente  che   strutturalmente,   con   il   procedimento
disciplinare che il legislatore delegato aveva posto a oggetto  della
delega. 
    Anche in ragione della natura  di  mero  «riordino»  del  decreto
legislativo in materia disciplinare, espressamente prevista dall'art.
17 della legge  n.  124  del  2015,  secondo  il  giudice  a  quo  il
legislatore delegato non avrebbe potuto introdurre norme  di  diritto
sostanziale  volte  a  fissare  criteri  di  liquidazione  del  danno
all'immagine  da  falsa  attestazione  della  presenza  in  servizio,
fissando  una  soglia  sanzionatoria  inderogabile  nel  minimo,  che
potrebbe essere sproporzionata rispetto al caso concreto. 
    1.3.- La Corte dei conti ritiene violato altresi' l'art. 3 Cost.,
anche in combinato disposto con gli  artt.  2  e  117,  primo  comma,
Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU e all'art. 4 del Protocollo
n.  7  di  detta  Convenzione,  in   quanto   la   norma   denunciata
obbligherebbe  il  giudice  contabile  a  infliggere   una   condanna
sanzionatoria senza tener conto dell'offensivita' in  concreto  della
condotta posta in essere. 
    L'obbligatorieta' del minimo sanzionatorio, imponendo al  giudice
di condannare il  responsabile  nella  misura  non  inferiore  a  sei
mensilita' dell'ultimo stipendio in  godimento,  gli  impedirebbe  di
dare rilevanza ad altre circostanze peculiari  e  caratterizzanti  il
caso concreto, anche in presenza di condotte marginali  e  tenui  che
avessero prodotto un pregiudizio minimo, violando sia il principio di
proporzionalita' che quello della gradualita' sanzionatoria. 
    2.-   Anzitutto   deve   essere   dichiarata   inammissibile   la
costituzione in giudizio di C. S., avvenuta con atto spedito a  mezzo
posta l'8 maggio 2019 e pervenuto in data 9 maggio 2019, in quanto il
termine di venti giorni previsto dall'art. 3 delle Norme  integrative
per i giudizi davanti  alla  Corte  costituzionale,  computato  dalla
pubblicazione dell'ordinanza sulla Gazzetta ufficiale del 27 dicembre
2018, n. 51, scadeva il 16 gennaio 2019. 
    3.- Giova poi riassumere sinteticamente il quadro normativo,  sia
in relazione alla piu' generale fattispecie del  danno  all'immagine,
sia in riferimento alla specifica configurazione di quello causato da
indebite assenze realizzate mediante  l'alterazione  dei  sistemi  di
rilevamento  della  presenza  in  servizio  o  con  altre   modalita'
fraudolente. 
    3.1.-  Il   danno   all'immagine,   frutto   di   un'elaborazione
giurisprudenziale del giudice contabile  come  categoria  particolare
del danno erariale, ha trovato una  sua  normazione  con  l'art.  17,
comma 30-ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78  (Provvedimenti
anticrisi,   nonche'   proroga   di   termini),    convertito,    con
modificazioni, nella legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato, in
pari  data,  dall'art.  1,  comma  1,  lettera  c),  numero  1),  del
decreto-legge 3 agosto 2009,  n.  103  (Disposizioni  correttive  del
decreto-legge  anticrisi   n.   78   del   2009),   convertito,   con
modificazioni, nella legge 3 ottobre 2009,  n.  141  (Conversione  in
legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 agosto  2009,  n.  103,
recante disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del
2009). 
    Stabilisce il citato art. 17, comma  30-ter,  che  «[l]e  procure
della Corte dei conti esercitano l'azione  per  il  risarcimento  del
danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo  7
della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento
penale e procedimento disciplinare ed effetti  del  giudicato  penale
nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche). A tale
ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2
dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e'  sospeso  fino
alla conclusione del procedimento penale [...]». 
    L'art. 7 della legge n. 97 del 2001 prevedeva che «[l]a  sentenza
irrevocabile di condanna pronunciata  nei  confronti  dei  dipendenti
indicati  nell'articolo  3  per  i   delitti   contro   la   pubblica
amministrazione previsti nel capo I del titolo II del  libro  secondo
del codice penale e' comunicata al competente  procuratore  regionale
della  Corte  dei  conti  affinche'  promuova  entro  trenta   giorni
l'eventuale procedimento di responsabilita' per  danno  erariale  nei
confronti del condannato. Resta salvo quanto  disposto  dall'articolo
129 delle norme di attuazione, di  coordinamento  e  transitorie  del
codice di procedura penale,  approvate  con  decreto  legislativo  28
luglio 1989, n. 271». 
    Tale fattispecie e'  stata  identificata  da  questa  Corte  come
«danno derivante dalla lesione del diritto  all'immagine  della  p.a.
nel pregiudizio recato alla rappresentazione che essa ha  di  se'  in
conformita' al modello delineato dall'art. 97 Cost.» (sentenza n. 355
del 2010). 
    In  ordine  alla  tipizzazione   delle   fattispecie   di   danno
all'immagine e' stato anche affermato che «il  legislatore  non  [ha]
inteso prevedere una  limitazione  della  giurisdizione  contabile  a
favore di altra giurisdizione, e segnatamente  di  quella  ordinaria,
bensi' circoscrivere oggettivamente i casi in cui e'  possibile,  sul
piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento  del  danno
in  presenza   della   lesione   dell'immagine   dell'amministrazione
imputabile a un dipendente  di  questa.  In  altri  termini,  non  e'
condivisibile una interpretazione della normativa censurata nel senso
che il legislatore abbia voluto  prevedere  una  responsabilita'  nei
confronti  dell'amministrazione  diversamente  modulata   a   seconda
dell'autorita' giudiziaria competente a pronunciarsi in  ordine  alla
domanda risarcitoria. La norma deve essere univocamente interpretata,
invece, nel senso che,  al  di  fuori  delle  ipotesi  tassativamente
previste di responsabilita' per danni all'immagine dell'ente pubblico
di  appartenenza,  non  e'  configurabile  siffatto  tipo  di  tutela
risarcitoria» (sentenza n. 355 del 2010). 
    Successivamente, l'art. 51, comma 7, del decreto  legislativo  26
agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi
dell'articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), ha previsto  che
«[l]a sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni  di  cui  all'articolo  1,
comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonche' degli
organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi  a
danno delle stesse, e' comunicata al competente procuratore regionale
della Corte dei conti affinche' promuova l'eventuale procedimento  di
responsabilita' per danno  erariale  nei  confronti  del  condannato.
Resta  salvo  quanto  disposto  dall'articolo  129  delle  norme   di
attuazione, di coordinamento e transitorie del  codice  di  procedura
penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271». 
    Inoltre, l'art. 4, comma 1, lettera g),  dell'allegato  3  (Norme
transitorie e abrogazioni) al medesimo codice di giustizia  contabile
ha abrogato l'art. 7 della legge n. 97 del 2001. Sul punto, tuttavia,
questa Corte ha affermato che «il giudice a quo non  ha  vagliato  la
possibilita'  che  il  dato  normativo   di   riferimento   legittimi
un'interpretazione secondo cui, nonostante l'abrogazione dell'art.  7
della legge n. 97 del 2001, che si  riferisce  ai  soli  delitti  dei
pubblici ufficiali contro la PA, non  rimanga  privo  di  effetto  il
rinvio ad esso operato da parte dell'art. 17, comma 30-ter, del  d.l.
n. 78 del 2009, e non si e' chiesto se si tratta di  rinvio  fisso  o
mobile. L'ordinanza, quindi, trascura di approfondire la  natura  del
rinvio, per stabilire se e' tuttora operante  o  se,  essendo  venuto
meno, la norma di riferimento  e'  oggi  interamente  costituita  dal
censurato art. 51, comma 7» (sentenza n. 191 del 2019). 
    Ancora, la Corte europea dei diritti dell'uomo, con  la  sentenza
13 maggio 2014, nella causa Rigolio contro Italia, nel respingere  il
ricorso   ha   affermato   che   il   giudizio   di   responsabilita'
amministrativa davanti alla Corte dei conti  per  danno  all'immagine
cagionato all'amministrazione non attiene a un'accusa penale ai sensi
dell'art. 6 della Convenzione (paragrafi 38 e 46)  e  che,  pertanto,
non puo' essere applicato, nella fattispecie, il  paragrafo  3  dello
stesso art. 6.  Analogamente,  non  sono  state  accolte  le  censure
formulate in riferimento all'art. 7  della  CEDU  e  all'art.  2  del
Protocollo 7, sulla base della considerazione che  la  somma  che  il
ricorrente e' stato condannato a pagare ha natura di  risarcimento  e
non di pena (paragrafo 46). 
    3.2.-  Relativamente  alla  particolare  fattispecie  del   danno
all'immagine  prodotto  in  conseguenza  di  indebite   assenze   dal
servizio, l'art.  7  (Principi  e  criteri  in  materia  di  sanzioni
disciplinari e responsabilita' dei dipendenti pubblici) della legge 4
marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo  finalizzata  all'ottimizzazione
della  produttivita'  del  lavoro  pubblico  e  alla   efficienza   e
trasparenza  delle  pubbliche  amministrazioni  nonche'  disposizioni
integrative  delle  funzioni  attribuite   al   Consiglio   nazionale
dell'economia e del lavoro e alla  Corte  dei  conti),  stabiliva  al
comma 1, primo periodo, che «[l]'esercizio della delega nella materia
di cui al presente articolo e' finalizzato a modificare la disciplina
delle sanzioni disciplinari e della  responsabilita'  dei  dipendenti
delle amministrazioni pubbliche ai sensi dell'articolo 55 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e delle norme speciali vigenti  in
materia, al fine di potenziare il livello di efficienza degli  uffici
pubblici  contrastando  i  fenomeni  di   scarsa   produttivita'   ed
assenteismo».  Il  comma  2  di  tale  disposizione  disponeva   che,
nell'esercizio della delega di cui al citato articolo, il Governo  si
attenesse ai seguenti principi e criteri direttivi: «[...] lettera e)
prevedere,  a  carico  del  dipendente  responsabile,  l'obbligo  del
risarcimento del danno patrimoniale, pari al compenso  corrisposto  a
titolo di retribuzione nei periodi  per  i  quali  sia  accertata  la
mancata  prestazione,   nonche'   del   danno   all'immagine   subito
dall'amministrazione». 
    In attuazione di detta delega, il  d.lgs.  n.  150  del  2009  ha
introdotto nel d.lgs. n. 165  del  2001  l'art.  55-quinquies  (False
attestazioni  o  certificazioni),  secondo  cui:  «1.  Fermo   quanto
previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una  pubblica
amministrazione  che  attesta  falsamente  la  propria  presenza   in
servizio, mediante l'alterazione dei  sistemi  di  rilevamento  della
presenza  o  con  altre  modalita'  fraudolente,  ovvero   giustifica
l'assenza dal servizio mediante una  certificazione  medica  falsa  o
falsamente  attestante  uno  stato  di  malattia  e'  punito  con  la
reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro  400  ad  euro
1.600. La medesima pena si applica  al  medico  e  a  chiunque  altro
concorre nella commissione del delitto. 2. Nei casi di cui  al  comma
1, il lavoratore, ferme la responsabilita' penale e disciplinare e le
relative sanzioni, e' obbligato a risarcire  il  danno  patrimoniale,
pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per
i quali sia  accertata  la  mancata  prestazione,  nonche'  il  danno
all'immagine» subiti dall'amministrazione. 
    In seguito, l'art. 16 (Procedure e criteri comuni per l'esercizio
di deleghe legislative di semplificazione), comma 1, della  legge  n.
124 del 2015 ha  delegato  il  Governo  ad  adottare  «[...]  decreti
legislativi di semplificazione dei seguenti settori [...]  a)  lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e connessi profili di
organizzazione amministrativa». Quindi,  l'art.  17  (Riordino  della
disciplina  del  lavoro   alle   dipendenze   delle   amministrazioni
pubbliche), comma 1, lettera s), della  legge  n.  124  del  2015  ha
previsto  che  «[i]  decreti  legislativi  per  il   riordino   della
disciplina in materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche e connessi profili di  organizzazione  amministrativa  sono
adottati  [...]  nel  rispetto  dei  seguenti  principi   e   criteri
direttivi, che si aggiungono a quelli di cui all'articolo  16:  [...]
s) introduzione di norme in materia di  responsabilita'  disciplinare
dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere  concreto
e certo nei  tempi  di  espletamento  e  di  conclusione  l'esercizio
dell'azione disciplinare [...]». 
    In attuazione di tale delega l'art. 1, comma 1, lettera  b),  del
d.lgs. n. 116  del  2016  ha  inserito  il  comma  3-quater  all'art.
55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale prevede che, nel  caso
in cui la falsa attestazione della  presenza  in  servizio,  mediante
l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o  con  altre
modalita'  fraudolente  (comma  1,  lettera  a),  sia  accertata   in
flagranza  ovvero   mediante   strumenti   di   sorveglianza   o   di
registrazione degli  accessi  o  delle  presenze  (comma  3-bis),  la
denuncia al pubblico ministero  e  la  segnalazione  alla  competente
procura regionale della Corte  dei  conti  avvengono  entro  quindici
giorni dall'avvio del procedimento  disciplinare.  La  procura  della
Corte dei conti, quando ne ricorrono i presupposti, emette  invito  a
dedurre per danno d'immagine entro tre mesi dalla  conclusione  della
procedura  di   licenziamento.   L'azione   di   responsabilita'   e'
esercitata, con le modalita' e nei termini  di  cui  all'art.  5  del
decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (Disposizioni  in  materia  di
giurisdizione e controllo della Corte dei conti)  -  convertito,  con
modificazioni,  nella  legge  14  gennaio  1994,  n.  19  -  entro  i
centoventi giorni successivi alla  denuncia,  senza  possibilita'  di
proroga.  L'ammontare  del  danno   risarcibile   e'   rimesso   alla
valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla  rilevanza
del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna
non puo' essere inferiore a sei mensilita' dell'ultimo  stipendio  in
godimento, oltre interessi e spese di giustizia. 
    Questa Corte,  con  sentenza  n.  251  del  2016,  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale, tra l'altro, dell'art. 17, comma  1,
lettera s), della legge n. 124 del  2015,  nella  parte  in  cui,  in
combinato disposto con l'art. 16, commi 1 e 4, della medesima  legge,
prevede  che  il  Governo  adotti  i  relativi  decreti   legislativi
attuativi previo parere in sede  di  Conferenza  unificata,  anziche'
previa intesa  in  sede  di  Conferenza  Stato-Regioni.  La  medesima
sentenza ha precisato inoltre che «[l]e  pronunce  di  illegittimita'
costituzionale, contenute in questa decisione, sono circoscritte alle
disposizioni di delegazione della legge n. 124 del 2015, oggetto  del
ricorso, e non si estendono alle relative disposizioni attuative. Nel
caso di  impugnazione  di  tali  disposizioni,  si  dovra'  accertare
l'effettiva lesione delle competenze regionali, anche alla luce delle
soluzioni correttive che il Governo riterra' di apprestare al fine di
assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione». 
    In seguito,  il  Governo,  nell'ambito  dei  decreti  legislativi
adottati  dopo  aver  acquisito  l'intesa  in  sede   di   Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato,  le  Regioni  e  le  Province
autonome di Trento e Bolzano - al fine  di  porre  rimedio  al  vizio
accertato dalla sentenza n. 251 del 2016 - con il decreto legislativo
20 luglio 2017, n. 118  (Disposizioni  integrative  e  correttive  al
decreto  legislativo  20  giugno  2016,  n.  116,  recante  modifiche
all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165,
ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera s, della legge  7  agosto
2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare), ha  previsto
all'art. 1 che «[i]l decreto legislativo 20 giugno 2016, n.  116,  e'
modificato e integrato secondo le disposizioni del presente  decreto.
Per quanto non disciplinato dal presente decreto,  restano  ferme  le
disposizioni del decreto legislativo n. 116 del 2016» e,  all'art.  5
(Disposizioni finali), che  «[s]ono  fatti  salvi  gli  effetti  gia'
prodotti dal decreto legislativo n. 116 del 2016». 
    Infine, deve  evidenziarsi  che,  con  altro  analogo  precedente
provvedimento (art. 16, comma 1, lettera a, del  decreto  legislativo
25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni  al  decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16,  commi
1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma  1,  lettere
a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7
agosto  2015,  n.  124,  in   materia   di   riorganizzazione   delle
amministrazioni  pubbliche»),  e'  stato  modificato   anche   l'art.
55-quinquies del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilendo che «al comma  2,
le parole "il danno all'immagine  subiti  dall'amministrazione"  sono
sostituite dalle seguenti: "il danno d'immagine di  cui  all'articolo
55-quater, comma 3-quater"», in tal modo uniformando  pro  futuro  la
fattispecie del danno  all'immagine  considerata  dai  due  articoli,
attraverso la regola gia' introdotta con il precedente d.lgs. n.  116
del 2016. 
    L'ulteriore fattispecie di danno erariale introdotta  con  l'art.
1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n.  116  del  2016,  enucleata  da
quella piu' generale  gia'  prevista  dall'art.  55-quater,  presenta
indubbi aspetti peculiari, in ragione del venir meno della cosiddetta
pregiudizialita' penale - in quanto  sono  dettate  disposizioni  che
impongono  al  Procuratore  presso  la  Corte  dei  conti  di   agire
sollecitamente  entro  ristrettissimi  tempi,  senza  attendere   ne'
l'instaurazione del processo penale ne' la sentenza che lo  definisce
- nonche' della  predeterminazione  legislativa  di  criteri  per  la
determinazione del danno in via equitativa, salva la fissazione di un
minimo  risarcibile  pari  a  sei  mensilita'  dell'ultimo  stipendio
percepito dal responsabile. 
    4.- Tanto premesso, la questione di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 55-quater, comma 3-quater, del  d.lgs.  n.  165  del  2001,
inserito dall'art. 1, comma 1, lettera b),  del  d.lgs.  n.  116  del
2016, sollevata in riferimento all'art. 76 Cost., e' fondata. 
    4.1.- A differenza di quanto avvenuto con la precedente legge  n.
15 del 2009, laddove il legislatore aveva espressamente  delegato  il
Governo a prevedere, a carico del dipendente responsabile,  l'obbligo
del  risarcimento  sia  del  danno   patrimoniale   che   del   danno
all'immagine subiti dall'amministrazione, tanto non si rinviene nella
legge di delegazione n. 124 del 2015. 
    L'art. 17, comma 1, lettera s), di detta legge prevede unicamente
l'introduzione di norme in materia  di  responsabilita'  disciplinare
dei pubblici dipendenti, finalizzate ad accelerare e rendere concreto
e certo nei  tempi  di  espletamento  e  di  conclusione  l'esercizio
dell'azione disciplinare. 
    Tale particolare disposizione di delega, come risulta dagli  atti
preparatori, non era presente nel testo iniziale del disegno di legge
(A.S. n. 1577), ma e' stata introdotta con  emendamento  (n.  13.500)
del relatore  nel  corso  dell'esame  in  Senato.  Nella  discussione
parlamentare la questione della  responsabilita'  amministrativa  non
risulta essere mai stata oggetto di trattazione. 
    Quindi, la materia delegata e'  unicamente  quella  attinente  al
procedimento  disciplinare,  senza  che  possa  ritenersi   in   essa
contenuta l'introduzione di nuove fattispecie sostanziali in  materia
di responsabilita' amministrativa. 
    Deve  essere  ulteriormente  sottolineato  che  detta  delega  e'
ricompresa  in  una  piu'  ampia,  diretta   a   dettare   norme   di
semplificazione. In tale contesto  e'  particolarmente  significativa
l'espressa prescrizione (art. 16, comma 2, della  legge  n.  124  del
2015) che, «[n]ell'esercizio della delega  di  cui  al  comma  1,  il
Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi generali:
a) elaborazione di un testo  unico  delle  disposizioni  in  ciascuna
materia,  con   le   modifiche   strettamente   necessarie   per   il
coordinamento delle disposizioni stesse, salvo quanto previsto  nelle
lettere successive; b) coordinamento formale e sostanziale del  testo
delle  disposizioni  legislative  vigenti,  apportando  le  modifiche
strettamente necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e
sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare
il linguaggio normativo; [...]», in tal modo lasciando al legislatore
delegato ridottissimi margini innovativi, tanto che, nella fissazione
degli ulteriori principi e criteri direttivi (come previsto dall'art.
16, comma 3), il successivo art. 17 definisce i decreti delegati come
espressamente finalizzati al «riordino della disciplina in materia di
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche». 
    In proposito, questa Corte ha affermato piu' volte che, in quanto
delega per il riordino,  essa  concede  al  legislatore  delegato  un
limitato margine di discrezionalita' per l'introduzione di  soluzioni
innovative,  le  quali  devono  comunque  attenersi  strettamente  ai
principi e ai criteri direttivi enunciati dal  legislatore  delegante
(ex multis, sentenze n. 94, n. 73 e n. 5 del 2014, n. 80 del 2012, n.
293 e n. 230 del 2010). 
    Non   puo'   dunque   ritenersi   compresa   la   materia   della
responsabilita'  amministrativa  e,  in  particolare,  la   specifica
fattispecie del danno all'immagine arrecato  dalle  indebite  assenze
dal servizio dei dipendenti pubblici. 
    4.2.- La disposizione in  esame,  gia'  testualmente  richiamata,
prevede una nuova fattispecie di natura  sostanziale  intrinsecamente
collegata con l'avvio, la prosecuzione e la  conclusione  dell'azione
di responsabilita' da parte del procuratore della Corte dei conti. 
    Applicando ad essa il criterio di stretta  inerenza  alla  delega
precedentemente enunciato, risulta inequivocabile  il  suo  contrasto
con l'art. 76 Cost. 
    Sebbene  le  censure  del  giudice  rimettente   siano   limitate
all'ultimo  periodo  del  comma  3-quater  dell'art.  55-quater,  che
riguarda  le  modalita'  di  stima  e   quantificazione   del   danno
all'immagine, l'illegittimita' riguarda anche il secondo e  il  terzo
periodo di detto comma perche' essi sono funzionalmente  inscindibili
con l'ultimo, cosi' da costituire, nel  loro  complesso,  un'autonoma
fattispecie di responsabilita' amministrativa  non  consentita  dalla
legge di delega. 
    5.-  Devono   essere,   dunque,   dichiarati   costituzionalmente
illegittimi il secondo, terzo e quarto  periodo  del  comma  3-quater
dell'art. 55-quater del d.lgs.  n.  165  del  2001,  come  introdotto
dall'art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 116 del 2016. 
    Restano assorbiti i rimanenti profili di censura.