ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  4  della
legge 8 luglio  1980,  n.  319  (Compensi  spettanti  ai  periti,  ai
consulenti  tecnici,  interpreti  e  traduttori  per  le   operazioni
eseguite a richiesta dell'autorita' giudiziaria), e degli artt. 50  e
54 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle  disposizioni
legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia -  Testo
A), promosso dal  Tribunale  ordinario  di  Torino  nel  procedimento
vertente tra M. C. e il Ministero della giustizia, con ordinanza  del
22 gennaio 2019, iscritta al n. 97  del  registro  ordinanze  2019  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  26,  prima
serie speciale, dell'anno 2019. 
    Visto  l'atto  d'intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito il Giudice relatore Nicolo' Zanon nelle camere di consiglio
del 10 marzo 2020 e dell'8 aprile 2020, quest'ultima svolta ai  sensi
del decreto della Presidente della Corte del 24 marzo 2020, punto 1),
lettera a); 
    deliberato nella camera di consiglio dell'8 aprile 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 22 gennaio 2019 (r.o. n. 97  del  2019)  il
Tribunale ordinario di Torino ha sollevato, in riferimento all'art. 3
della  Costituzione,   questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 4 della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti  ai
periti,  ai  consulenti  tecnici,  interpreti  e  traduttori  per  le
operazioni eseguite a richiesta dell'autorita' giudiziaria), e  degli
artt. 50 e 54 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115  (Testo  unico  delle
disposizioni legislative e  regolamentari  in  materia  di  spese  di
giustizia - Testo A), nella parte in cui non prevedono che,  in  caso
di omesso adeguamento periodico degli  onorari  mediante  il  decreto
dirigenziale di cui all'art. 54 del citato d.P.R.,  tale  adeguamento
possa essere effettuato dal  giudice  in  sede  di  liquidazione  del
compenso. 
    Il rimettente opera quale giudice dell'opposizione proposta da un
professionista,  gia'  consulente  tecnico  del  pubblico   ministero
nell'ambito  di  un  procedimento  penale,  avverso  il  decreto   di
liquidazione dei compensi richiesti per l'opera da lui prestata. 
    Al consulente, in particolare, era stato chiesto  di  ricostruire
la dinamica di un sinistro stradale, evidenziando  eventuali  profili
di colpa e di efficienza causale nella condotta della  conducente  di
un  veicolo  che  aveva  investito  un   pedone,   rimasto   vittima,
nell'occasione,  di  lesioni  personali.  Espletato  l'incarico,   il
consulente aveva chiesto il pagamento di un onorario a tempo, secondo
il disposto dell'art. 4 della legge n. 319 del 1980, indicando  quale
base  per  il  computo  del  compenso  una  durata  delle  operazioni
corrispondente a trecentododici  vacazioni.  Il  pubblico  ministero,
dopo aver rilevato l'assenza di profili di complessita' nei  fatti  e
nel relativo accertamento, aveva con decreto  liquidato  un  onorario
misurato in rapporto a centoventi vacazioni. 
    Nel giudizio di opposizione, promosso a norma dell'art.  170  del
d.P.R. n. 115 del 2002, il consulente  aveva  tra  l'altro  insistito
sulla  presunta  complessita'  del  compito  affidatogli,  pur  senza
quantificare  il  tempo  impiegato  per  l'espletamento,  e  si   era
riferito, nel contempo, a esigenze di «decoro della professione». 
    2.- In via  preliminare,  dopo  aver  riferito  della  ritualita'
dell'opposizione e della correttezza del ricorso alla disciplina  del
compenso su base oraria (con conseguente limite del riconoscimento di
quattro  vacazioni  per  giornata),  il   rimettente   osserva   come
l'indicazione di durata del lavoro sottesa  all'originaria  richiesta
dell'opponente   appaia   «sproporzionata   e    inverosimile».    Si
tratterebbe,  infatti,  di  una  durata  non   compatibile   con   le
caratteristiche dell'incarico ricevuto, con la consolidata esperienza
del consulente, con il modesto numero degli adempimenti da lui stesso
elencati nel descrivere l'espletamento della consulenza, con  l'assai
ridotta complessita' della relazione  finale.  Tutti  profili  che  -
osserva incidentalmente il giudice  a  quo  -  precluderebbero  nella
specie l'aumento del compenso orario a norma dell'art. 52,  comma  1,
del  d.P.R.  n.  115  del  2002,  riservato   alle   prestazioni   di
«eccezionale  importanza,  complessita'  e   difficolta'»;   aumento,
comunque, neppure richiesto dall'interessato. 
    Sarebbe,  in  definitiva,  congrua  la  liquidazione  fondata  su
centoventi vacazioni, pur sempre  corrispondenti  a  duecentoquaranta
ore di lavoro. Non sarebbe pero' congrua  la  somma  liquidata  sulla
base della tariffa stabilita per gli onorari a tempo (euro 14,68  per
la  prima  vacazione  ed  euro  8,15  per  ciascuna  delle  vacazioni
successive), pari complessivamente ad euro 984,53. 
    Il rimettente ricorda come il valore  orario  della  retribuzione
sia stato stabilito da ultimo  con  il  decreto  del  Ministro  della
giustizia 30 maggio  2002  (Adeguamento  dei  compensi  spettanti  ai
periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni
eseguite su disposizione dell'autorita' giudiziaria in materia civile
e penale), ed assume che  -  sebbene  si  tratti  di  un  valore  non
direttamente correlabile alle  vigenti  tariffe  professionali  -  il
compenso esigibile da periti e  consulenti  sia  divenuto  ormai  del
tutto inadeguato. Non a caso, con l'art. 54 del  d.P.R.  n.  115  del
2002, il legislatore ha stabilito che la  misura  degli  onorari  sia
aggiornata con cadenza  triennale,  in  base  alla  variazione  degli
indici ISTAT dei prezzi al  consumo  per  le  famiglie  di  operai  e
impiegati, mediante  un  decreto  dirigenziale  del  Ministero  della
giustizia di concerto col Ministero dell'economia e delle finanze. Se
l'autorita' amministrativa avesse dato corso alla prescrizione  della
legge  -  prosegue  il  giudice  a  quo  -  l'importo  orario   della
retribuzione sarebbe piu' alto di circa  il  26  per  cento.  Poiche'
pero'  i  decreti  dirigenziali  in  questione  non  sono  stati  mai
adottati, la base di calcolo resta quella definita dal d.m. 30 maggio
2002. 
    Lo stato di  cose  descritto  costringerebbe  il  rimettente  «ad
operare in un contesto del tutto irragionevole  e  quindi  in  aperta
violazione dell'art. 3 Cost.». La stessa Corte costituzionale avrebbe
riconosciuto  al  decreto  ministeriale  di  adeguamento   un   ruolo
essenziale  nella  fisionomia  della  disciplina  dei  compensi  agli
ausiliari  del  giudice,  e  ripetutamente  stigmatizzato   l'inerzia
amministrativa al proposito (sono citate le sentenze n. 224 del 2018,
n. 178 del 2017 e n. 192 del 2015). 
    L'irragionevolezza della disciplina sottoposta a  censura,  della
quale sarebbe conferma proprio l'omissione dei  decreti  dirigenziali
previsti dalla legge,  consisterebbe  nel  ricorso  ad  un  complesso
meccanismo amministrativo per un obiettivo di adeguamento perseguito,
in realta', mediante un criterio obiettivo ed automatico. 
    Considerato che il rimedio  talvolta  prospettato  per  l'inerzia
dell'amministrazione (un atto di  messa  in  mora  e  una  successiva
impugnazione dell'eventuale rigetto) costituirebbe un rimedio gravoso
e sproporzionato rispetto alle esigenze e al beneficio ricavabile dal
singolo ausiliario, il rimettente ritiene che la disciplina censurata
recupererebbe razionalita' se, nel caso di mancanza  dell'adeguamento
triennale disposto dal Ministero,  fosse  consentito  al  giudice  di
applicare direttamente l'aumento implicato  dagli  indici  del  costo
della vita. 
    Tale soluzione, ritiene il giudice a quo, non sarebbe praticabile
in forza dell'interpretazione costituzionalmente orientata,  dato  il
carattere chiaro e tassativo della previsione censurata. 
    L'accoglimento della  censura  prospettata  varrebbe  inoltre  ad
escludere l'irrazionalita' denunciata anche dal punto  di  vista  del
buon  andamento  della  pubblica  amministrazione  (art.  97  Cost.),
consentendo   di   avvalersi   nei   procedimenti    giudiziari    di
professionisti  di  buon  livello,  non  disponibili  ad   «accettare
compensi di importo sempre piu' misero e mortificante». 
    La  questione  sollevata  sarebbe   dunque   non   manifestamente
infondata  e,  al  tempo  stesso,  rilevante.  Mentre  in  base  alla
disciplina   vigente   l'opposizione   del   consulente   interessato
risulterebbe  priva   di   fondamento,   l'eventuale   decisione   di
accoglimento implicherebbe per il rimettente «almeno» la possibilita'
di liquidare un  compenso  piu'  alto  per  le  centoventi  vacazioni
riconosciute all'opponente. 
    3.- Il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel
giudizio con atto depositato il 16 luglio 2019. 
    Secondo la difesa dello Stato,  la  questione  sollevata  sarebbe
manifestamente     infondata,     considerato     che     l'omissione
dell'adeguamento   prescritto   dalla   legge    non    implicherebbe
l'illegittimita'  della  normativa  censurata,  quanto  piuttosto  la
necessita' di attivare rimedi in altra sede (e' citata la sentenza n.
41  del  1996).  L'inerzia  degli  uffici  ministeriali,  cioe',  non
potrebbe invalidare la previsione normativa che gli stessi dovrebbero
osservare. 
    La materia in discussione, d'altro canto,  sarebbe  rimessa  alla
piena discrezionalita' del legislatore, cui spetta la scelta  tra  le
varie possibili opzioni utili a  garantire,  per  gli  ausiliari  del
giudice, l'adeguamento tra lavoro svolto ed entita' del compenso  (e'
citata l'ordinanza n.  234  del  2001).  La  soluzione  proposta  dal
rimettente (affidare al giudice il compito di  applicare  un  aumento
correlato agli indici del costo della vita) si risolverebbe,  quindi,
in una addizione non imposta dalla Costituzione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Torino ha sollevato, in riferimento
all'art.   3   della   Costituzione,   questione   di    legittimita'
costituzionale  dell'art.  4  della  legge  8  luglio  1980,  n.  319
(Compensi spettanti ai periti, ai consulenti  tecnici,  interpreti  e
traduttori per le  operazioni  eseguite  a  richiesta  dell'autorita'
giudiziaria), e degli artt. 50 e 54 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115
(Testo  unico  delle  disposizioni  legislative  e  regolamentari  in
materia di spese di giustizia - Testo A),  nella  parte  in  cui  non
prevedono che, in caso di omesso adeguamento periodico degli  onorari
mediante il decreto  dirigenziale  di  cui  all'art.  54  del  citato
d.P.R., tale adeguamento possa essere effettuato dal giudice in  sede
di liquidazione del compenso. 
    Il  rimettente  censura  cumulativamente  le   disposizioni   che
concorrono a disciplinare la  liquidazione  degli  onorari  richiesti
dagli ausiliari del giudice, con riguardo ai casi in cui tali onorari
debbano  essere  commisurati  al  tempo  impiegato  per  rendere   la
prestazione. 
    Oggetto della questione risultano, cosi', l'art. 4 della legge n.
319 del 1980, che,  per  questo  genere  di  onorari,  stabilisce  il
sistema delle vacazioni (unita' di tempo della durata di due ore) e i
criteri per la relativa remunerazione; l'art. 50 del  d.P.R.  n.  115
del 2002, in virtu' del quale la fissazione dei  livelli  retributivi
e' demandata a un decreto interministeriale, da  predisporsi  secondo
criteri generali indicati nella stessa disposizione;  infine,  l'art.
54 del medesimo d.P.R. n. 115 del  2002,  secondo  cui  l'adeguamento
della misura degli onorari commisurati a tempo deve avvenire ogni tre
anni, in relazione alla variazione, accertata dall'Istituto nazionale
di statistica (ISTAT), dell'indice  dei  prezzi  al  consumo  per  le
famiglie di operai e impiegati, verificatasi nel triennio precedente,
attraverso un decreto dirigenziale  del  Ministero  della  giustizia,
adottato di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze. 
    L'art. 50 del d.P.R. n. 115 del 2002, come si  e'  appena  visto,
non provvede direttamente a determinare  il  quantum  degli  onorari,
rimettendo  piuttosto  il  compito  a  un  decreto  ministeriale.  Il
relativo provvedimento e' stato adottato nella stessa data del citato
d.P.R. (30 maggio 2002), e da allora non e'  stato  piu'  aggiornato,
come pure richiede l'art. 54 del medesimo testo unico. Sono dunque  i
valori originari del decreto del Ministro della giustizia  30  maggio
2002  (Adeguamento  dei  compensi  spettanti  ai  periti,  consulenti
tecnici, interpreti  e  traduttori  per  le  operazioni  eseguite  su
disposizione dell'autorita' giudiziaria in materia civile e  penale),
indicati al comma 1 dell'art. 1, a regolare ancor oggi i  decreti  di
liquidazione  degli  onorari  a  tempo  (euro  14,68  per  la   prima
vacazione, euro 8,15 per ciascuna delle vacazioni successive). 
    Ritiene il rimettente, in tale situazione, che i magistrati siano
costretti a compensare le prestazioni a tempo degli ausiliari secondo
criteri di computo ormai gravemente inadeguati per difetto. L'oggetto
delle sue censure, tuttavia, non e', direttamente, il  quantum  delle
tariffe stabilito per le vacazioni,  nella  dimensione  risultante  a
seguito   dell'integrazione   apportata   dal    ricordato    decreto
ministeriale  alle  disposizioni  di  legge.  Il  rimettente  assume,
piuttosto, che tutte le disposizioni indicate violerebbero  l'art.  3
Cost.,   sotto   il   profilo   della    irragionevolezza,    poiche'
contrasterebbe con la natura obiettiva ed automatica dei parametri di
adeguamento triennale indicati dal legislatore la previsione che tale
adeguamento possa avere  luogo  solo  in  esito  ad  un  procedimento
amministrativo  complesso,  e  non  anche,  in  mancanza  di  questo,
mediante un provvedimento giudiziale fondato sugli indici pubblici di
aumento del costo della vita. 
    In altri termini, il giudice a quo non contesta  direttamente  la
ragionevolezza  di  un  meccanismo  obbligatorio  e   automatico   di
adeguamento dei livelli  di  remunerazione  delle  prestazioni  degli
ausiliari, ne' lamenta che l'attuazione di un meccanismo siffatto sia
affidata all'autorita' di governo, competente a gestire le  spese  in
materia di  giustizia.  Censura,  invece,  in  quanto  manifestamente
irragionevole, l'assenza di un meccanismo alternativo e  sussidiario,
affidato a ciascun giudice caso per caso, che consenta  l'adeguamento
degli  onorari  agli  indici  del  costo  della  vita,   laddove   il
procedimento disegnato dal legislatore resti inattuato. 
    In definitiva, esaminando la "storia"  del  meccanismo  normativo
censurato (e in particolare dell'art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002),
il rimettente assume che  la  mancata  attuazione  degli  adeguamenti
periodici, protratta ormai dal 2002, sia prova  dell'irragionevolezza
lamentata. 
    2.- La questione non e' fondata. 
    2.1.-  L'attenzione  per  il  problema  dell'aggiornamento  degli
onorari attribuiti agli ausiliari del magistrato si  e'  manifestata,
nella giurisprudenza di questa Corte, gia'  nel  periodo  di  vigenza
della legge 1° dicembre 1956, n. 1426 (Compensi spettanti ai  periti,
consulenti  tecnici,  interpreti  e  traduttori  per  le   operazioni
eseguite a richiesta dell'autorita'  giudiziaria).  Questa  normativa
regolava la remunerazione a tempo  con  il  sistema  delle  vacazioni
(art. 3) e la distingueva a seconda del titolo  di  studio  richiesto
per la prestazione (art. 4), ma  non  contemplava  un  meccanismo  di
adeguamento  periodico  dei  parametri  retributivi.  Rigettando   la
censura che lamentava tale mancanza (per inconferenza  del  parametro
invocato,  l'art.  36  Cost.),  questa   Corte   nondimeno   suggeri'
«iniziative o modifiche sul terreno legislativo» (sentenza n. 88  del
1970). Il monito fu ripetuto nelle successive  ordinanze  n.  69  del
1979 e n. 102 del 1980, sottolineandosi  che  il  decorso  del  tempo
aveva reso «inadeguate le tariffe fissate dalle norme  impugnate,  il
che  richiederebbe  un   tempestivo   intervento   del   legislatore,
nell'esercizio della sua discrezionalita' politica». 
    Il monito fu raccolto dal legislatore con la gia' ricordata legge
n. 319 del 1980, che - rideterminando i compensi  all'art.  4,  ancor
oggi vigente  e  ricompreso  dal  rimettente  nella  sua  complessiva
censura - inseri' al successivo art.  10,  oggi  abrogato,  sotto  la
rubrica «Adeguamento  periodico  degli  onorari»,  un  meccanismo  di
adeguamento,  il  cui  utilizzo  risultava  peraltro   rimesso   alla
discrezionale decisione dell'amministrazione,  per  cui  «[o]gni  tre
anni, con decreto del Presidente della Repubblica,  su  proposta  del
Ministro di grazia e giustizia,  di  concerto  con  il  Ministro  del
tesoro, potra' essere adeguata la misura degli onorari  di  cui  agli
articoli 2 e 4 in relazione alla  variazione,  accertata  dall'ISTAT,
dell'indice dei prezzi al  consumo  per  le  famiglie  di  operai  ed
impiegati verificatisi nel triennio precedente». 
    Nel periodo immediatamente successivo - connotato, del resto,  da
forte  inflazione  -  un  adeguamento  tariffario  fu  effettivamente
disposto in due occasioni, dapprima con il d.P.R. 30 marzo  1984,  n.
103 (Adeguamento degli onorari commisurati  al  tempo,  spettanti  ai
periti,  consulenti  tecnici,  interpreti  e   traduttori,   per   le
operazioni  eseguite  su  richiesta  dell'autorita'  giudiziaria   in
materia penale e civile), poi con il d.P.R. 27 luglio  1988,  n.  352
(Adeguamento dei compensi spettanti ai  periti,  consulenti  tecnici,
interpreti e traduttori per le operazioni  eseguite  su  disposizione
dell'autorita' giudiziaria in materia civile e penale). 
    In progresso di  tempo  -  a  fronte  di  una  rinnovata  censura
d'inadeguatezza  degli  onorari  a   causa   dell'ulteriore   periodo
trascorso senza nuovi aggiornamenti - la sentenza n. 41 del 1996, pur
rigettando la questione,  sottolineo'  il  rilievo  della  disciplina
chiamata ad assicurare la congruenza  dei  livelli  di  remunerazione
rispetto al costo della vita. E, nel sottolineare come non si facesse
ricorso a quel meccanismo da quasi otto anni, questa  Corte  osservo'
che l'inadeguatezza degli onorari commisurati alla durata e  il  loro
divario  rispetto  agli  onorari  a  percentuale  si   erano   andati
«notevolmente aggravando  col  passare  del  tempo  non  per  difetto
legislativo,  ma  bensi'  per  il  deplorevole  inadempimento   delle
autorita' indicate». 
    La sentenza concluse con «l'auspicio che -  in  attesa  di  norme
migliori - le autorita' indicate dalla legge impugnata  provvedano  a
rispettare le scadenze triennali di adeguamento dei  compensi  dovuti
in base alle variazioni accertate dall'ISTAT». 
    Il monito, questa volta  rivolto  non  gia'  al  legislatore,  ma
all'amministrazione,  fu  raccolto.  E  un   ulteriore   (il   terzo)
adeguamento fu adottato con il  decreto  del  Ministro  di  grazia  e
giustizia del 5 dicembre 1997 (Adeguamento della misura degli onorari
a vacazione spettanti ai periti,  consulenti  tecnici,  interpreti  e
traduttori), non essendo piu'  richiesta  la  forma  del  d.P.R.,  in
virtu' dell'art. 2 della legge 12 gennaio 1991, n. 13 (Determinazione
degli atti amministrativi da adottarsi nella forma  del  decreto  del
Presidente della Repubblica). 
    In quel  torno  di  tempo  non  mancarono,  altresi',  di  essere
sollevate questioni di legittimita' costituzionale  che  ponevano  in
discussione   la   scelta   legislativa   di   attribuire   carattere
facoltativo, e non obbligatorio, al decreto di adeguamento  triennale
dei compensi. Tali questioni furono decise con ordinanze di manifesta
inammissibilita' (per  ragioni  processuali:  ordinanza  n.  356  del
1999), ovvero di manifesta infondatezza (ordinanza n. 234 del  2001);
ma in ciascuna di esse fu ribadito che l'inadeguatezza degli  onorari
non dipendeva «da un difetto legislativo, bensi'  dall'inerzia  delle
autorita' deputate a provvedere a siffatto adeguamento». Si osservo',
in definitiva, che  il  problema  non  risiedeva  nel  carattere  non
automatico della indicizzazione, ma nei ritardi dell'amministrazione,
cui «puo' ovviarsi, nella materia in esame, non con l'intervento  del
giudice delle leggi, ma con  altri  rimedi»  (ordinanza  n.  234  del
2001). 
    2.2.- Al  maggio  2002,  come  e'  noto,  risale  il  piu'  volte
ricordato testo unico  sulle  spese  di  giustizia.  Coevo  alla  sua
approvazione, il d.m. 30 maggio 2002 aveva risolto (transitoriamente)
il problema dell'aggiornamento  degli  onorari,  mediante  una  nuova
fissazione dei relativi parametri di remunerazione. Al tempo  stesso,
il testo unico pareva aver dato soluzione anche alla questione  degli
adeguamenti futuri,  poiche'  l'art.  54,  qui  pure  censurato,  non
condiziona piu' l'adeguamento a una valutazione dell'amministrazione,
bensi' impone alla stessa di effettuarlo periodicamente (come  meglio
si dira'  infra),  prevedendo  che  i  parametri  remunerativi  siano
aggiornati (debbano, percio', esserlo) con cadenza triennale. 
    Ciononostante, l'adeguamento, di fatto, non e'  piu'  intervenuto
dopo l'entrata in vigore del d.m. 30 maggio 2002. 
    Nel frattempo, i giudici comuni avevano sollevato varie questioni
di legittimita' costituzionale  sulla  disposizione  (il  nuovo  art.
106-bis del t.u. spese di giustizia, inserito dall'art. 1, comma 606,
lettera  b,  della  legge  27  dicembre   2013,   n.   147,   recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato - Legge di  stabilita'  2014»)  che  ha  introdotto,  nei
procedimenti penali in cui vi sia stata ammissione  al  patrocinio  a
spese  dell'Erario,  una  notevole  riduzione  degli  onorari   degli
ausiliari. In tali ordinanze  di  rimessione,  si  sottolineava,  tra
l'altro, come la disposizione censurata si inserisse in un quadro  di
forte svalutazione dei  livelli  remunerativi,  dovuto  proprio  alla
mancata  adozione  periodica  dei   provvedimenti   ministeriali   di
adeguamento dei valori base. 
    Cio'  ha  consentito  alla  giurisprudenza  di  questa  Corte  di
sottolineare   nuovamente   la   mancata   attuazione,    ad    opera
dell'amministrazione, del disposto di cui all'art. 54 del t.u.  spese
di giustizia, e di  considerare  tale  omissione  come  significativa
premessa "di contesto" per ritenere  costituzionalmente  illegittima,
per manifesta irragionevolezza, la scelta di riduzione  compiuta  dal
legislatore. 
    Con  le  sentenze  n.  192  del  2015  e  n.  178  del  2017,  in
particolare,  e'  stata  dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 nella parte in  cui  non
esclude che la diminuzione di un terzo degli importi, rispettivamente
spettanti all'ausiliario del magistrato e ai  consulenti  tecnici  di
parte, sia operata in caso di applicazione di  previsioni  tariffarie
non adeguate a norma dell'art. 54 del medesimo d.P.R. 
    Anche  in  queste  pronunce  non  si  trascura  di  ribadire   la
connessione  tra  il  livello  ormai  insufficiente  dei  compensi  e
l'inadempienza   amministrativa,   confermandosi   che    non    gia'
l'intervento  sulla  legge,  quanto   piuttosto   "rimedi   diversi",
dovrebbero consentire di ovviare a tale situazione. E  si  sottolinea
l'irragionevolezza di  un  intervento  di  riduzione  adottato  senza
attenzione a che la stessa «operi su tariffe realmente congruenti con
le stesse linee di fondo del  d.P.R.  n.  115  del  2002:  dunque  su
tariffe, da un lato, proporzionate (sia  pure  per  difetto,  tenendo
conto del connotato pubblicistico) a quelle libero-professionali (che
per parte loro, nell'ambito di una riforma complessiva dei criteri di
liquidazione, sono state aggiornate) e, dall'altro, preservate  nella
loro elementare consistenza in rapporto  alle  variazioni  del  costo
della vita» (cosi', in particolare, la sentenza n. 192 del 2015). 
    Da ultimo, nel contesto di una pronuncia di inammissibilita'  per
incompleta ricognizione del quadro  normativo,  e'  stato  nuovamente
sottolineato  che  la  questione  dell'asserita  inadeguatezza  degli
onorari  stabiliti  per  gli  ausiliari  del  magistrato   non   puo'
trascurare proprio il mancato adeguamento periodico imposto dall'art.
54 del d.P.R. n. 115 del 2002, «piu' volte  stigmatizzato  da  questa
Corte» (sentenza n. 224 del 2018). 
    3.-  Due  chiari  assunti  si   ricavano   dalla   giurisprudenza
costituzionale fin qui richiamata. 
    Il primo e' che questa  Corte  -  salvo  il  periodo  in  cui  la
legislazione non prevedeva alcun meccanismo  di  aggiornamento  -  ha
sempre ritenuto che il mancato adeguamento periodico dei compensi per
gli ausiliari del magistrato e' dipeso da  omissioni  amministrative,
non risolvibili attraverso un intervento del giudice delle leggi,  ma
con "altri rimedi", tra i quali, ora, ben puo' indicarsi lo strumento
del  ricorso  avverso  il  silenzio  dell'amministrazione,   regolato
dall'art. 117 del decreto legislativo  2  luglio  2010,  n.  104,  di
«Attuazione dell'articolo 44 della  legge  18  giugno  2009,  n.  69,
recante  delega   al   governo   per   il   riordino   del   processo
amministrativo». 
    La disponibilita' del rimedio giudiziale non perde  rilievo  alla
luce  dell'osservazione   del   rimettente,   che   ne   ridimensiona
l'importanza rimarcando una sorta di  inesigibilita'  dell'iniziativa
giudiziaria   individuale   verso    l'amministrazione,    a    causa
dell'asserita   modestia   degli   interessi    singolarmente    lesi
dall'omissione dei periodici decreti di  adeguamento,  comparata  con
l'attuale (in effetti non trascurabile)  onerosita'  del  ricorso  al
giudice. Per quanto non sfugga a questa Corte che si  presenta  nella
specie il rischio di una selezione nella platea dei soggetti disposti
a ricorrere al rimedio, la stessa  possibilita'  di  attivare  questo
strumento di tutela documenta l'origine della  situazione  denunciata
dal rimettente. Resta cioe'  evidente  che  l'odierna  esiguita'  dei
compensi per gli ausiliari - in disparte  ogni  considerazione  sulla
inadeguatezza degli stessi valori di partenza,  cioe'  degli  onorari
previsti per ciascuna vacazione, peraltro non direttamente  censurati
dal rimettente - non dipende dal meccanismo normativo di  adeguamento
previsto dalla legge, ma dalla  sua  mancata  applicazione  ad  opera
dell'amministrazione,  che  quei  valori  di  partenza  ha   lasciato
immutati dal 2002. Pertanto,  anche  a  riconoscere  che  la  mancata
adozione periodica dei decreti interministeriali  previsti  dall'art.
54 del d.P.R. n.  115  del  2002  comporti,  quale  conseguenza,  una
regolazione manifestamente irragionevole dei compensi degli ausiliari
del   magistrato,   risulterebbe   incongrua   una    pronuncia    di
illegittimita' costituzionale sulla disposizione di legge, perche' e'
proprio  quest'ultima  a  prevedere  il   rimedio   alla   situazione
lamentata. 
    Inoltre, e soprattutto, a prescindere  dal  tradizionale  rilievo
per cui l'omissione dell'amministrazione potrebbe  considerarsi  mero
inconveniente  di  fatto,  come  tale  irrilevante  nei  giudizi   di
legittimita' costituzionale sulle leggi (ex multis: sentenze n. 249 e
n. 114 del 2017, n. 219 del 2016; ordinanze n. 122 del 2016 e n.  123
del 2007), risulterebbe carico di paradossali conseguenze  dichiarare
costituzionalmente illegittima una  disposizione  di  legge  solo  in
quanto disapplicata, e proprio ad opera dell'autorita' gravata da  un
onere  particolarmente  qualificato  di   adempimento   del   comando
legislativo. 
    Il secondo chiaro assunto ricavabile dalla  giurisprudenza  sopra
richiamata consiste in cio', che questa Corte  non  ha  mai  espresso
valutazioni  negative  sul  meccanismo  legislativo  di  adeguamento,
idonee a sorreggere  le  censure  di  irragionevolezza  avanzate  dal
rimettente, nemmeno nelle decisioni che hanno accolto censure in cui,
sia pur indirettamente, tale meccanismo risultava coinvolto. 
    Cio' vale, in  particolare,  per  le  due  sentenze,  gia'  sopra
ricordate (n. 178 del 2017 e n. 192 del 2015), che  hanno  dichiarato
la illegittimita' costituzionale dell'art. 106-bis del t.u. spese  di
giustizia nella parte in cui non esclude che  la  diminuzione  di  un
terzo degli importi,  rispettivamente  spettanti  all'ausiliario  del
magistrato e ai consulenti tecnici di parte, sia operata in  caso  di
applicazione di previsioni tariffarie non adeguate a norma  dell'art.
54 del medesimo d.P.R. n.  115  del  2002.  In  queste  sentenze,  il
meccanismo normativo di adeguamento  dei  compensi  e'  accuratamente
conservato,  e  fornisce  sostegno   allo   stesso   dispositivo   di
accoglimento. Le due pronunce, infatti, subordinano la portata  della
propria  "addizione"  al   persistere   dell'atteggiamento   omissivo
dell'amministrazione, al punto che la diminuzione richiesta dall'art.
106-bis del t.u. spese di giustizia potra' essere nuovamente  operata
qualora l'adeguamento richiesto dall'art. 54 del medesimo testo unico
trovasse,  infine,   applicazione.   Al   congegno   previsto   dalla
disposizione  in  esame  viene  cosi'  assegnata  valenza  capace  di
assicurare la  ragionevolezza  del  sistema,  pur  a  fronte  di  una
riduzione delle tariffe: l'art.  54  del  t.u.  spese  di  giustizia,
insomma, va considerato non gia' come fonte  di  squilibrio,  ma,  al
contrario, come elemento di stabilizzazione del sistema. 
    Rilievi analoghi valgono a fronte della sentenza n. 224 del 2018:
se, da una parte, in essa si  contesta  al  rimettente  di  non  aver
valorizzato la disapplicazione  del  meccanismo  di  adeguamento  per
dimostrare l'asserita irragionevolezza, per difetto,  delle  tariffe,
dall'altra  proprio  questa  motivazione  conferma  la  potenzialita'
riequilibratice del meccanismo in  esame.  Implicitamente,  anche  in
tale pronuncia si riconosce, che, se applicato, esso varrebbe appunto
ad evitare le incongruenze denunciate. 
    4.- Il rimettente, come si  e'  visto,  mira  ad  affiancare,  al
meccanismo  di  adeguamento  delineato  dalla   legge,   l'intervento
alternativo  e  sussidiario  del  singolo  giudice  investito   della
richiesta di liquidazione. Denuncia  percio',  per  irragionevolezza,
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 54 del d.P.R.  n.  115  del
2002, e delle ulteriori norme poste ad oggetto  della  questione,  in
quanto un tale intervento non prevedono. 
    Fermo  restando  che  in   una   materia   connotata   da   ampia
discrezionalita' legislativa (ex multis, sentenze n. 3 del  2019,  n.
265 del 2009 e n. 98 del 1998; ordinanza n. 122 del 2016), una simile
addizione non avrebbe certamente  carattere  vincolato,  e'  comunque
l'erroneita' di alcuni presupposti  da  cui  muove  il  rimettente  a
orientare piuttosto questa Corte, sul  piano  del  merito,  verso  un
giudizio di non fondatezza. 
    Osserva il giudice a quo, anche basandosi sulla pregressa mancata
attuazione del meccanismo, che sarebbe irragionevole non  consentire,
appunto  per  questi  casi,  l'intervento  sussidiario  del  giudice,
considerando che alla fine si tratterebbe di quantificare, sulla base
di  un  calcolo  matematico,  un  semplice  adeguamento   tariffario,
obbligatorio nell'an, nel quando  e,  secondo  il  rimettente,  nello
stesso quantum.  Un'operazione  meccanica,  insomma,  che  renderebbe
addirittura superfluo l'intervento dell'amministrazione. 
    Il rilievo  non  coglie  nel  segno,  per  una  molteplicita'  di
ragioni. 
    In primo luogo, spettando all'amministrazione la  competenza  per
la  determinazione  degli  onorari  in  questione,   non   e'   certo
irragionevole  che  questa  possa   valutare,   preliminarmente,   se
procedere attraverso l'art. 54 del d.P.R.  n.  115  del  2002  ad  un
adeguamento che consenta il mero recupero dell'inflazione, o invece a
piu' consistenti modifiche tariffarie, eventualmente incidenti  anche
sulla base di calcolo sulla quale operare la rivalutazione periodica,
secondo criteri di apprezzamento di natura politica, in base  a  cio'
che consente l'art. 50 del medesimo testo unico. 
    In secondo luogo, la circostanza che l'adeguamento  previsto  dal
citato art. 54 scaturisca da un procedimento  che  coinvolge  diverse
amministrazioni  e  risulti  incorporato  in  un   atto   di   natura
regolamentare  ben  si  giustifica  considerando   che   il   decreto
dirigenziale di cui ragiona la disposizione provvede a  disciplinare,
in  via  generale  e  astratta,   la   remunerazione   di   attivita'
professionali   doverose,   fornendo   i   necessari   parametri   di
riferimento.  Cosi'   come   previsto,   l'intervento   regolamentare
presuppone, inoltre, una diretta interlocuzione con  l'ISTAT,  mentre
il  decreto  finale  certifica  che  e'  stata  compiuta  la   dovuta
ricognizione, con riferimento ai  pertinenti  indici  dei  prezzi  al
consumo. L'intervento regolamentare individua inoltre, anche qui  con
effetto erga omnes, il periodo di riferimento per la  quantificazione
delle variazioni del costo della vita, operazione che,  tra  l'altro,
mal si presterebbe  ad  essere  svolta  dai  giudici  caso  per  caso
(facendo dipendere tale quantificazione dalla durata del  giudizio  o
anche dello stesso procedimento di liquidazione dei compensi). 
    E' decisivo, infine, osservare che la stessa lettera dell'art. 54
del d.P.R. n. 115 del 2002 rende discutibile l'assunto del giudice  a
quo, secondo il quale  l'adeguamento  tariffario  sarebbe  vincolato,
oltre che nell'an e nel quando, anche nel  quantum.  In  verita',  la
disposizione  in  esame  ragiona  di  un  adeguamento  triennale  «in
relazione» alla variazione dell'indice dei prezzi  al  consumo:  cio'
che non esclude,  quantomeno,  che  residuino  per  l'amministrazione
margini  discrezionali  riguardo  alla  puntuale  corrispondenza  tra
indici ISTAT e percentuale di adeguamento degli onorari. 
    Sono  tutti  argomenti  che   mostrano,   in   definitiva,   come
l'intervento del giudice, caso per caso, non  sia  affatto  fungibile
rispetto a quello  dell'amministrazione,  e  comunque  come  non  sia
congruo prevedere l'intervento del primo,  in  funzione  sussidiaria,
quando manchi il secondo. 
    5.- La pronuncia di non fondatezza non  esime  questa  Corte  dal
rilevare,  per  l'ennesima  volta,   la   deplorevole   e   reiterata
inadempienza dell'amministrazione nell'applicazione dell'art. 54  del
d.P.R. n. 115 del 2002. D'altra parte,  la  ben  nota  disponibilita'
(sopra  accennata)  di  altri  mezzi  giurisdizionali,  diversi   dal
giudizio sulle  leggi,  pone  gli  interessati  nella  condizione  di
ottenere rimedio alla violazione dei propri diritti e interessi, come
del resto esige e consente la Costituzione.