ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  263  del
codice civile, promosso dalla Corte d'appello di Torino, sezione  per
la famiglia, nel procedimento vertente tra A. C., nella  qualita'  di
curatore speciale di R.F. A., e M. A. e altro, con  ordinanza  del  4
ottobre 2017, iscritta al  n.  245  del  registro  ordinanze  2019  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  3,  prima
serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito  il  Giudice  relatore  Giuliano  Amato  nella  camera   di
consiglio del 26 maggio 2020,  svolta  ai  sensi  del  decreto  della
Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a); 
    deliberato nella camera di consiglio del 26 maggio 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Nel corso di un giudizio di impugnazione  del  riconoscimento
di figlio naturale per difetto di veridicita', la Corte d'appello  di
Torino, sezione per la famiglia, con ordinanza del 4 ottobre 2017  ha
sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 263  del
codice civile, nella parte in cui non esclude  la  legittimazione  ad
impugnare il riconoscimento del figlio in  capo  a  colui  che  abbia
compiuto tale atto nella consapevolezza della sua non veridicita'. 
    Ad avviso  del  giudice  a  quo,  la  disposizione  censurata  si
porrebbe in contrasto innanzitutto con l'art. 3  della  Costituzione,
per  l'irragionevole  disparita'  di  trattamento   tra   chi   abbia
consapevolmente effettuato il riconoscimento non veridico e chi abbia
prestato il consenso alla fecondazione assistita  eterologa:  mentre,
nel  primo  caso,  l'art.  263  cod.  civ.  consente  all'autore  del
riconoscimento di proporre l'impugnazione per difetto di veridicita',
invece l'art. 9, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40  (Norme
in materia di  procreazione  medicalmente  assistita)  preclude  tale
impugnazione a chi abbia prestato consenso al  concepimento  mediante
fecondazione medicalmente assistita. 
    L'irragionevolezza  della  disposizione  censurata  risiederebbe,
inoltre,  nel  consentire  a  chi  abbia  consapevolmente  scelto  di
instaurare un rapporto di filiazione di sacrificare  l'interesse  del
soggetto  riconosciuto  come  figlio  sulla  base  di  una  personale
riconsiderazione dei propri interessi, «accampando quale causa quello
di cui fin dal principio egli era perfettamente consapevole, ossia la
non veridicita' del riconoscimento medesimo». 
    La disposizione censurata si porrebbe in contrasto, altresi', con
l'art. 2 Cost., per la violazione  dei  principi  di  responsabilita'
individuale, di  solidarieta'  sociale  e  di  tutela  dell'identita'
personale del figlio. 
    2.- Il giudizio a quo ha ad  oggetto  l'appello,  proposto  dalla
curatela di una minore, avverso la  sentenza  con  cui  il  Tribunale
ordinario  di  Torino  -  in  accoglimento  della  domanda   proposta
dall'autore del riconoscimento della stessa minore quale figlia -  ha
annullato per difetto di veridicita' tale riconoscimento,  effettuato
nel 2004, disponendo le relative annotazioni sui registri dello stato
civile.  Il  giudice  a  quo  riferisce  che  non  forma  oggetto  di
contestazione tra le parti la piena consapevolezza della falsita' del
riconoscimento da parte del suo autore. 
    2.1.- Il giudice a quo premette che nel caso in esame non  e'  in
discussione nemmeno il rispetto  del  termine  di  decadenza  per  la
proposizione dell'azione, posto che  la  domanda  e'  stata  proposta
nella  vigenza  della  precedente   disciplina   che   ne   prevedeva
l'imprescrittibilita'.  In  ogni  caso,  il  decreto  legislativo  28
dicembre 2013,  n.  154  (Revisione  delle  disposizioni  vigenti  in
materia di  filiazione,  a  norma  dell'articolo  2  della  legge  10
dicembre 2012, n. 219), all'art.  104,  comma  10,  consente  in  via
transitoria di beneficiare del termine di  un  anno  dall'entrata  in
vigore dello stesso d.lgs. n. 154 del 2013. 
    Dopo avere disatteso l'eccezione di nullita' della  sentenza  per
il  mancato  interpello  della  minore,  il  rimettente  dichiara  di
condividere la  ricostruzione  normativa  e  l'interpretazione  fatta
propria dal giudice di primo grado,  non  potendo  essere  accolti  i
rilievi  dell'appellante,  nel   senso   di   attribuire   prevalenza
all'interesse della minore alla propria identita' familiare, comunque
realizzatasi. 
    La questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  263  cod.
civ. sarebbe, dunque, rilevante nel caso in esame, poiche' la riforma
della sentenza impugnata potrebbe  avere  luogo  solo  laddove  fosse
accolta   la   questione   di   legittimita'   costituzionale   della
disposizione censurata. 
    2.2.- Quanto al merito  delle  questioni,  la  Corte  di  appello
premette che non e' in discussione la pienezza della discrezionalita'
legislativa nella disciplina delle diverse situazioni, fermo restando
il limite della non manifesta irragionevolezza. 
    Peraltro, le situazioni fattuali alle quali fanno riferimento sia
la disposizione censurata, come ridisegnata dal  d.lgs.  n.  154  del
2013, sia l'art. 9 della legge n. 40 del  2004  -  sotto  il  profilo
soggettivo di colui che pone in  essere  l'atto  determinativo  dello
"status" del nato, quale figlio  proprio  -  sarebbero  assolutamente
identiche. In entrambi i casi, infatti, sussistono la  consapevolezza
di non essere il padre biologico del riconosciuto e  la  volonta'  di
assumere la paternita' e la responsabilita', quale  genitore,  di  un
figlio che non e' biologicamente il proprio. 
    In entrambi i casi, alla base del riconoscimento, vi  sarebbe  un
atto consapevole e contra legem: nel caso dell'art. 9 della legge  n.
40 del 2004, il consenso alla pratica di  procreazione  assistita  di
tipo  eterologo  e,  nel  caso  del  riconoscimento  cosiddetto   "di
compiacenza",  la  violazione  dell'art.  567  del   codice   penale.
Tuttavia, mentre l'art.  9  della  legge  n.  40  del  2004  preclude
l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicita',  l'art.
263 cod. civ. legittima l'autore  del  riconoscimento  non  veritiero
all'azione di impugnazione dello stesso. 
    Osserva il  giudice  a  quo  che  la  ratio  sottesa  al  divieto
dell'art. 9, comma 1, della legge n. 40  del  2004  e'  rappresentata
dalla   necessita'   di   rispettare   il    principio,    deducibile
dall'ordinamento  comunitario  e  dagli  obblighi  internazionali   e
entrato a far parte integrante dell'ordinamento italiano, secondo  il
quale in ogni provvedimento legislativo, amministrativo o giudiziario
riguardante un minore l'interesse di quest'ultimo deve sempre  essere
considerato preminente. Il rimettente richiama, a questo riguardo, la
Convenzione sui diritti  del  fanciullo,  fatta  a  New  York  il  20
novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio  1991,
n.  176;  la  Convenzione  europea  sull'esercizio  dei  diritti  dei
fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata  e  resa
esecutiva con legge 20 marzo  2003,  n.  77;  la  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata  a  Nizza  il  7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 
    Dovrebbe, quindi, escludersi che  colui  che,  consapevole  della
difformita'  dalla  realta'  biologica,  altrettanto  consapevolmente
abbia scelto di instaurare con un minore un rapporto  di  filiazione,
possa successivamente sacrificare lo status del figlio  solo  perche'
la riconsiderazione dei propri interessi, la natura dei quali neanche
e' tenuto  a  rappresentare,  lo  avrebbe  indotto  a  ritrattare  il
riconoscimento gia' prestato, adducendo una circostanza  di  cui  fin
dal principio  egli  era  perfettamente  consapevole,  ossia  la  non
veridicita' del riconoscimento medesimo. 
    Ad avviso della Corte d'appello, la situazione in  esame  sarebbe
sostanzialmente identica a quella considerata dall'art. 9,  comma  1,
della legge n. 40 del 2004. Tuttavia, la tutela accordata  al  minore
in quest'ultimo caso e' viceversa negata nel caso dell'art. 263  cod.
civ. 
    Il rimettente dubita, quindi, della legittimita' della disparita'
di trattamento derivante dall'art. 263 cod. civ., sia in relazione al
principio di uguaglianza e ragionevolezza sancito dall'art. 3  Cost.,
sia in relazione ai principi  di  responsabilita'  individuale  e  di
solidarieta' sociale, nonche' di tutela dell'identita' personale, che
trovano espressione nell'art. 2 Cost. 
    Al riguardo, il  rimettente  osserva  che  l'identita'  personale
trova  il  suo  elemento  caratterizzante  proprio  nel  nome,  quale
autonomo segno distintivo di  tale  identita',  e  che  nel  contesto
sociale l'acquisizione  del  nome  e'  l'effetto  di  piu'  immediata
percezione  del  riconoscimento  di  paternita'  (e'  richiamata   la
sentenza di questa Corte n. 13 del 1994). Nel caso di specie, sia  in
considerazione della minore eta' del soggetto riconosciuto, sia della
sua volonta' di  non  rinunciare  allo  status  di  figlia,  sia  del
considerevole arco di tempo durante il quale,  pubblicamente,  si  e'
manifestata la paternita' dell'autore del riconoscimento, il  cognome
paterno  e'  divenuto  autonomo   segno   distintivo   dell'identita'
personale della minore. 
    2.3.- Si osserva,  inoltre,  che  la  questione  di  legittimita'
costituzionale sollevata non sarebbe riconducibile ai precedenti gia'
esaminati dalla Corte costituzionale nelle pronunce n. 134 del  1985,
n. 158 del 1991 e n. 7 del 2012, tutte relative alla modulazione  del
termine per la proposizione dell'impugnazione  di  cui  all'art.  263
cod. civ., perche' nel  caso  in  esame  il  dubbio  di  legittimita'
costituzionale   attiene   alla    legittimazione    all'azione    di
impugnazione. 
    D'altra parte, ad avviso del rimettente, l'art. 9 sarebbe  idoneo
a rappresentare il tertium comparationis, ai fini  della  valutazione
di omogeneita' rispetto alla fattispecie disciplinata  dall'art.  263
cod. civ. Invero, come affermato dalla indicata ordinanza  n.  7  del
2012,  il  divieto  del  disconoscimento  della   paternita'   o   di
impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicita',  in  caso
di procreazione  medicalmente  assistita  eterologa,  «configura  una
ipotesi di intangibilita' ex lege dello status, la quale (come  tale)
incide non gia' sul profilo della imprescrittibilita' dell'azione  di
cui alla norma censurata, quanto piuttosto  su  quello  completamente
diverso (e qui non censurato) della legittimazione alla  impugnazione
medesima».  Il  giudice  a  quo  fa  rilevare  che  e'   proprio   la
legittimazione di colui che impugna il riconoscimento  che  viene  in
considerazione nel caso in esame,  non  gia'  la  imprescrittibilita'
dell'azione. 
    2.3.1.- Il rimettente osserva, infine, che il petitum  rivolto  a
questa Corte non sarebbe volto a una pronuncia additiva di principio,
ne' alla  mera  abrogazione  dell'art.  263  cod.  civ.  Infatti,  la
fattispecie dell'art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 coincide
con quella del riconoscimento per compiacenza sotto il profilo  della
consapevolezza della non corrispondenza tra il rapporto di filiazione
dichiarato e la  effettiva  relazione  biologica.  L'eliminazione  di
questa irragionevole  disparita'  di  trattamento  dovrebbe  avvenire
mediante l'esclusione della legittimazione all'azione di cui all'art.
236 cod. civ. del solo soggetto  che  ha  operato  un  riconoscimento
cosiddetto  "compiacente",  mentre  rimarrebbe  intatto  il  restante
contenuto   normativo   della   disposizione   censurata,   ne'    si
verificherebbe alcun vuoto normativo. 
    3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri e'  intervenuto  nel
giudizio  per  il  tramite  dell'Avvocatura  generale  dello   Stato,
chiedendo che le questioni di legittimita'  costituzionale  sollevate
dal  giudice  a  quo  siano  dichiarate  inammissibili   e   comunque
manifestamente non fondate. 
    3.1.-  Preliminarmente,  e'  eccepita  l'inammissibilita'   delle
questioni poiche'  volte  a  ottenere  una  pronuncia  additiva  che,
sostituendosi alla discrezionalita'  del  legislatore,  attribuirebbe
rilevanza esclusiva all'interesse del minore,  vietando  l'azione  di
impugnazione del riconoscimento  a  chi  lo  abbia  effettuato  nella
consapevolezza della sua non veridicita'. 
    L'Avvocatura   generale   dello   Stato    eccepisce,    inoltre,
l'inammissibilita' delle questioni  per  insufficiente  ricostruzione
del quadro normativo, tale da riflettersi nel difetto di  motivazione
sulla non manifesta  infondatezza.  Il  giudice  a  quo  non  avrebbe
considerato la portata delle modifiche introdotte dal d.lgs.  n.  154
del  2013,  che  ha   sostituito   l'originaria   imprescrittibilita'
dell'impugnazione dell'autore del riconoscimento con la previsione di
un rigoroso limite temporale (un anno dal giorno dell'annotazione del
riconoscimento sull'atto di nascita). L'art. 104 dello stesso  d.lgs.
n. 154 del 2013 ha poi previsto che, per i riconoscimenti  effettuati
in precedenza, i termini decorrano dalla data di  entrata  in  vigore
dello stesso d. lgs. n. 154 del 2013, ossia dal 7 febbraio  2014.  Il
rimettente non avrebbe,  quindi,  spiegato  perche'  la  sostituzione
dell'originaria imprescrittibilita' con  un  limite  temporale  assai
ristretto non valga ad attuare  un  bilanciamento  ragionevole  degli
interessi   contrapposti:   quello   del   figlio   alla   stabilita'
dell'assetto familiare e quello dell'autore  del  riconoscimento  non
veritiero al ristabilimento della verita'  e  all'esclusione  di  una
falsa relazione parentale. 
    3.2.- Nel merito, non sussisterebbe la denunciata  disparita'  di
trattamento, poiche' le situazioni poste a raffronto  dal  rimettente
non sarebbero equiparabili. 
    Ad avviso della difesa statale, l'art. 9, comma 1, della legge n.
40 del  2004,  laddove  vieta  il  disconoscimento  della  paternita'
qualora si ricorra a tecniche di procreazione medicalmente  assistita
di tipo eterologo, sarebbe una norma  speciale,  che  disciplina  una
situazione  particolare.  Con  essa  il  legislatore  ha  scelto   di
privilegiare la tutela del figlio nato dalla fecondazione  eterologa,
la quale si fonda sul preventivo consenso di coloro che, per  effetto
di essa, risulteranno genitori. 
    Diverso sarebbe il caso contemplato dall'art. 263 cod.  civ.,  in
cui il nato ha acquisito lo status di figlio per filiazione naturale.
Rispetto a esso, rimarrebbe la  volonta'  legislativa  di  attribuire
prevalenza al favor veritatis e  di  consentire  il  disconoscimento,
sebbene entro limiti temporali ben circoscritti. Questo bilanciamento
tra veridicita' del riconoscimento e interesse superiore  del  minore
e' riservato alla discrezionalita' legislatore  (sono  richiamate  le
sentenze n. 158 del 1991 e n. 134 del 1985 e  l'ordinanza  n.  7  del
2012). 
    Inoltre, l'Avvocatura generale  dello  Stato  richiama  anche  la
sentenza n. 272 del 2017, che proprio  con  riferimento  all'art.  9,
comma 1, della legge n. 40 del 2004, nel  raffronto  con  l'art.  263
cod. civ., constata che «in questo caso, in un'ipotesi di  divergenza
tra  genitorialita'   genetica   e   genitorialita'   biologica,   il
bilanciamento e' stato  effettuato  dal  legislatore  attribuendo  la
prevalenza al principio di conservazione dello status filiationis». 
    L'Avvocatura  generale  dello  Stato  fa  notare  che  anche   la
giurisprudenza di legittimita', di recente, ha rilevato che  l'azione
di cui all'art. 263 cod. civ.  possiede  la  peculiare  natura  delle
azioni di stato, le quali incidono in materia dominata  da  interessi
pubblici e sono percio' sottratte  alla  disponibilita'  dei  privati
«senza che cio' violi l'art. 3 Cost.» (Corte di  cassazione,  sezione
prima civile, sentenza 21 febbraio 2019, n. 5242). 
    Le situazioni disciplinate dagli artt. 263 cod. civ. e  9,  comma
1, della legge n. 40 del 2004 sarebbero dunque basate su  presupposti
fattuali non coincidenti,  tali  da  giustificare,  sul  piano  della
ragionevolezza, la previsione di discipline differenti. 
    Ed invero, si  osserva  che  la  prestazione  del  consenso  alla
procreazione assistita di tipo  eterologo  costituisce  una  conditio
della nascita stessa, ossia presume una scelta di genitorialita'  che
precede l'esistenza del soggetto che  nascera'  ed  e'  diretta  alla
formazione di un embrione. In questo caso, l'irretrattabilita'  della
scelta e la preclusione dell'impugnazione di cui  all'art.  263  cod.
civ. sono volte a proteggere il  nascituro,  evitando  di  esporlo  a
eventuali ripensamenti successivi e imponendo la responsabilizzazione
di chi sceglie di farlo venire al mondo. 
    La difesa statale fa, inoltre, rilevare che  l'esclusione  di  un
legame parentale fra il donatore dei gameti e il nascituro  (prevista
dall'art. 9, comma 3, della legge n. 40 del  2004)  sarebbe  coerente
con questa impostazione. La preclusione di azioni di contestazione  o
di rivendicazione della genitorialita', in contrasto con la  volonta'
manifestata dagli attori della vicenda nel momento in  cui  vi  hanno
dato avvio, sarebbe volta a prevenire i possibili  conflitti  che  la
particolare  situazione  della   fecondazione   assistita   eterologa
potrebbe determinare. 
    Con la disciplina dell'art. 263 cod. civ., invece, il legislatore
ha ritenuto di lasciare uno spazio al favor veritatis, sulla base del
rilievo che nel breve arco di tempo indicato (un anno  o  al  massimo
cinque), l'identita' personale potrebbe non essere  considerevolmente
incisa,  ferma  l'eventuale  diversa  valutazione  giudiziale  basata
sull'interesse del minore, che e' comunque sempre sotteso e immanente
alla materia delle  azioni  di  stato,  come  chiarito  dalla  citata
sentenza n. 272  del  2017.  In  questo  caso,  l'accertamento  della
verita'  naturale,   anche   attraverso   l'impugnazione   da   parte
dell'autore di un riconoscimento non veritiero, appare un  mezzo  non
irragionevole per prevenire successivi conflitti e  per  stabilizzare
gli stati personali dei soggetti coinvolti. 
    Le scelte sottese alle discipline  in  esame  sarebbero  di  peso
diverso: l'una (quella del consenso alla  procreazione  assistita  di
tipo eterologo) investe profili di genitorialita' che  riguardano  il
nascituro sin da un momento antecedente  al  concepimento  e  sarebbe
connotata dalla consapevolezza dell'irretrattabilita' della decisione
(al pari della genitorialita' naturale) e della recisione  definitiva
di  ogni  legame  con  il  donatore  di   gameti,   con   conseguente
impossibilita' di individuare in  futuro  altre  figure  genitoriali;
l'altra (quella del  riconoscimento  consapevolmente  non  veritiero)
riguarda lo status di un soggetto esistente,  la  cui  genitorialita'
naturale potrebbe peraltro essere appurata anche successivamente,  in
virtu' dell'esercizio delle opportune azioni di  stato  da  parte  di
altri legittimati. Gli elementi caratterizzanti le diverse situazioni
giustificano scelte normative  diverse,  non  censurabili  sul  piano
della ragionevolezza. 
    3.3.- Quanto alla lamentata  violazione  dell'art.  2  Cost.,  la
difesa statale ribadisce che i diversi regimi impugnatori muovono  da
situazioni fattuali diverse ed hanno  una  ratio  che  poggia  su  un
bilanciamento di valori,  di  competenza  del  legislatore,  che  non
appare irragionevole. Da cio' discenderebbe la manifesta infondatezza
della questione di costituzionalita' dell'art. 263 cod. civ. anche in
riferimento all'art. 2 Cost. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte d'appello di Torino, sezione  per  la  famiglia,  ha
sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 263  del
codice civile, nella parte in cui non esclude  la  legittimazione  ad
impugnare il riconoscimento del figlio  da  parte  di  chi  lo  abbia
effettuato nella consapevolezza della sua non veridicita'. 
    Ad avviso  del  giudice  a  quo,  la  disposizione  censurata  si
porrebbe in contrasto innanzitutto con l'art. 3  della  Costituzione,
per  l'irragionevole  disparita'  di  trattamento   tra   chi   abbia
consapevolmente effettuato il riconoscimento non veridico e chi abbia
prestato il consenso alla fecondazione assistita  eterologa:  mentre,
nel  primo  caso,  l'art.  263  cod.  civ.  consente  all'autore  del
riconoscimento di proporre l'impugnazione per difetto di veridicita',
l'art. 9, comma 1, della legge 19 febbraio  2004,  n.  40  (Norme  in
materia  di  procreazione  medicalmente  assistita)   preclude   tale
impugnazione a chi abbia prestato consenso al  concepimento  mediante
fecondazione medicalmente assistita. 
    L'irragionevolezza della  disposizione  censurata  consisterebbe,
inoltre, nel  consentire,  a  chi  abbia  consapevolmente  scelto  di
instaurare un rapporto di filiazione, di sacrificare l'interesse  del
soggetto riconosciuto  come  figlio,  sulla  base  di  una  personale
riconsiderazione dei propri interessi, «accampando quale causa quello
di cui fin dal principio egli era perfettamente consapevole, ossia la
non veridicita' del riconoscimento medesimo». 
    La disposizione censurata si porrebbe in contrasto, altresi', con
l'art. 2 Cost., per la violazione  dei  principi  di  responsabilita'
individuale, di  solidarieta'  sociale  e  di  tutela  dell'identita'
personale del figlio. 
    2.- In via preliminare, occorre esaminare le eccezioni  formulate
dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto  nel  giudizio
incidentale per mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato. La difesa
statale ha eccepito  l'inammissibilita'  delle  questioni  in  quanto
volte a ottenere  una  pronuncia  additiva  che,  sostituendosi  alla
discrezionalita' del legislatore, attribuisca  rilevanza  allo  stato
soggettivo di mala fede dell'autore del riconoscimento e  ne  escluda
la  legittimazione   ad   impugnare.   Spetterebbe,   viceversa,   al
legislatore stabilire se l'accoglimento di  tale  impugnazione  debba
essere  subordinato   all'interesse   del   minore   all'appartenenza
familiare. 
    Questa eccezione e' priva di fondamento. 
    Il petitum del rimettente mira a  precludere  l'impugnazione  del
riconoscimento a chi lo abbia effettuato nella  consapevolezza  della
sua non veridicita'. L'obiettivo perseguito  dal  giudice  a  quo  e'
volto a delimitare  l'ambito  dei  soggetti  legittimati  a  proporre
l'azione,  escludendone  chi  abbia  consapevolmente  effettuato   un
riconoscimento falso. L'intervento  richiesto  e',  dunque,  limitato
alla verifica del fondamento costituzionale di questa legittimazione,
che, ove risultasse manifestamente irragionevole e contraria all'art.
2 Cost., cosi' come  ipotizzato  dal  rimettente,  sarebbe  per  cio'
stesso estranea alle scelte discrezionali rimesse al legislatore. Del
resto,  sono  rinvenibili  nell'ordinamento  altre   fattispecie   di
preclusione dell'azione ex art. 263 cod. civ., in  considerazione  di
interessi  ritenuti  meritevoli  di  tutela.  Nessuna   manipolazione
creativa deriverebbe,  pertanto,  dall'eventuale  accoglimento  delle
questioni (in questo senso, ex plurimis, sentenze n. 212 e n. 113 del
2019). 
    2.1.-  Non  e'   fondata   neppure   l'ulteriore   eccezione   di
inammissibilita'  sollevata  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,
relativa all'insufficiente ricostruzione del  quadro  normativo,  per
l'omessa  considerazione  delle  modifiche  introdotte  dal   decreto
legislativo 28 dicembre 2013, n. 154  (Revisione  delle  disposizioni
vigenti in materia di filiazione, a norma dell'articolo 2 della legge
10 dicembre 2012, n. 219). 
    In particolare, ad avviso dell'interveniente, il  giudice  a  quo
non  avrebbe  spiegato  perche'  la  previsione  di  rigorosi  limiti
temporali per l'impugnazione del  riconoscimento,  proposta  dal  suo
autore, non valga  a  realizzare  un  ragionevole  bilanciamento  tra
l'esigenza  di  accertamento  della  verita'   e   l'interesse   alla
stabilita' degli status personali. 
    Tuttavia, il giudice  rimettente,  dopo  avere  dato  atto  delle
modifiche apportate dal d.lgs. n. 154 del 2013,  ha  evidenziato  che
nel giudizio a quo l'impugnazione di cui all'art. 263  cod.  civ.  e'
stata proposta prima dell'entrata in vigore dello  stesso  d.lgs.  n.
154 del 2013. Pertanto, come riconosciuto anche dalla  giurisprudenza
di legittimita' (Corte di cassazione, sezione prima civile,  sentenza
14 febbraio 2017, n. 3834), a questo giudizio non era applicabile  la
disciplina dell'art. 263, secondo e quarto  comma,  cod.  civ.,  come
novellato dall'art. 28 del d.lgs. n. 154 del 2013, in  vigore  dal  7
febbraio 2014 e,  in  particolare,  non  erano  applicabili  i  nuovi
termini per la proposizione dell'azione.  In  quanto  proposta  nella
vigenza  della   disciplina   precedente,   l'impugnazione   proposta
dall'autore del riconoscimento non era soggetta a termini.  Pertanto,
nel caso oggetto del  giudizio  a  quo,  l'impugnazione  -  ancorche'
proposta a distanza di otto anni dal riconoscimento - era tempestiva. 
    La  rilevanza  della  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 263 cod.  civ.  non  e'  dunque  scalfita  dalle  modifiche
introdotte dal d.lgs.  n.  154  del  2013,  ne'  la  motivazione  del
rimettente denota lacune nella ricostruzione del quadro normativo. 
    Va, inoltre, rilevato che le modifiche  introdotte  dall'art.  28
del d.lgs. n. 154 del 2013 sono intervenute  sulle  disposizioni  dei
commi secondo e quarto dell'art.  263  cod.  civ.  e  non  su  quella
oggetto di  censura.  Infatti,  mentre  la  previsione  dei  soggetti
legittimati ad impugnare e' contenuta nel primo comma  dell'art.  263
cod. civ., le condizioni e i termini per la proposizione dell'azione,
invece, sono disciplinate nei successivi commi e sono proprio  questi
ad essere stati profondamente modificati dal disegno riformatore  del
2013. E' vero  che  tali  modifiche  non  possono  non  incidere  sul
significato attuale dello stesso primo comma, rimasto per  parte  sua
immutato, ma cio' attiene al merito della  questione,  non  alla  sua
ammissibilita'. 
    3.- Nel merito, non  e'  fondata  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 263  cod.  civ.,  sollevata  in  riferimento
all'art. 3 Cost. e alla  denunciata  disparita'  di  trattamento  con
l'art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004. 
    3.1.- La prospettazione del giudice a quo fa leva sulla  ritenuta
affinita'   della   situazione   dell'autore    del    riconoscimento
consapevolmente falso rispetto a quella  di  chi  abbia  prestato  il
consenso alla procreazione medicalmente assistita di tipo  eterologo.
L'art.  9  della  legge  n.  40  del  2004   preclude   espressamente
l'impugnazione di cui all'art. 263 cod. civ. - oltre che l'azione  di
disconoscimento della paternita', nei casi  previsti  dall'art.  235,
primo comma, numeri 1) e 2), cod. civ. - al coniuge o  al  convivente
che abbia prestato il proprio consenso  a  tecniche  di  procreazione
medicalmente assistita. E' siffatta preclusione  ad  essere  indicata
dal rimettente come tertium comparationis, al fine di evidenziare  la
disparita' di trattamento rispetto alla disposizione censurata. 
    Il giudice a quo richiama l'ordinanza  n.  7  del  2012,  in  cui
questa Corte ha ritenuto che la  previsione  dell'art.  9,  comma  1,
della legge n. 40 del 2004 configura «una ipotesi  di  intangibilita'
ex lege dello status» e ravvisa delle significative analogie  tra  la
dichiarazione di riconoscimento consapevolmente falsa e  il  consenso
prestato  alla  procreazione   medicalmente   assistita.   L'elemento
unificante delle due situazioni e'  individuato  nella  volontaria  e
consapevole instaurazione del rapporto di filiazione, con conseguente
assunzione  della  responsabilita'  genitoriale.   La   ratio   della
preclusione di cui al suddetto art.  9,  comma  1,  sarebbe  pertanto
estensibile all'impugnazione del riconoscimento per compiacenza. 
    3.2.-  Tuttavia,  nel  caso  del   ricorso   alle   tecniche   di
procreazione  medicalmente  assistita,  il  divieto  d'impugnare   il
riconoscimento e' riferito a particolari  situazioni,  specificamente
qualificate dal legislatore, e riveste carattere eccezionale. Esso e'
volto a sottrarre il destino giuridico del figlio ai mutamenti di una
volonta' che, in  alcuni  casi  particolari  e  a  certe  condizioni,
tassativamente previste, rileva ai fini del suo concepimento. E'  per
questo stesso motivo che la legge  speciale  nega  -  sempre  in  via
d'eccezione - il diritto di anonimato della madre (art. 9,  comma  2,
della legge n. 40 del 2004). Si tratta, dunque, di eccezioni rispetto
al regime generale della filiazione e  il  carattere  derogatorio  si
accentua  nell'ambito  di  una  disciplina   che   connette   effetti
giuridicamente rilevanti a tecniche altrimenti espressamente vietate. 
    Ne'  possono  essere  equiparate  la  volonta'  di  generare  con
materiale biologico altrui e la volonta'  di  riconoscere  un  figlio
altrui: nel primo caso, la volonta' porta alla  nascita  una  persona
che altrimenti non sarebbe nata; nel secondo caso,  la  volonta'  del
dichiarante si esprime rispetto a  una  persona  gia'  nata.  Invero,
anche la  condizione  giuridica  del  soggetto  riconosciuto  risulta
differente:  mentre  per  la  persona  nata  attraverso  procreazione
medicalmente assistita eterologa un eventuale  accertamento  negativo
della paternita' non potrebbe essere la  premessa  di  un  successivo
accertamento positivo della paternita' biologica, stante  l'anonimato
del  donatore  di  gameti  e  l'esclusione  di  qualsiasi   relazione
giuridica parentale con quest'ultimo (art. 9, comma 3, della legge n.
40 del 2004). Viceversa, nel caso del falso riconoscimento esiste  un
genitore "biologico", la cui responsabilita' puo' venire in gioco. 
    D'altra parte, il divieto  di  impugnazione  del  riconoscimento,
previsto dall'art. 9, comma  1,  della  legge  n.  40  del  2004,  si
riferisce a un contesto in cui operano alcune garanzie associate alla
figura e all'intervento del medico.  Viceversa,  la  fattispecie  del
riconoscimento  per  compiacenza  e'  destinata  a   realizzarsi   in
situazioni  "opache",  al  di  fuori  del  circuito  medico-sanitario
disegnato dalla legge speciale, talora addirittura  per  aggirare  la
disciplina dell'adozione, come dimostra la previsione di cui all'art.
74 della legge 4 maggio 1983, n.  184  (Diritto  del  minore  ad  una
famiglia), che prevede, infatti, l'attivazione di poteri ufficiosi di
segnalazione, accertamento e di impugnazione,  ove  ricorrano  indici
del carattere fraudolento del riconoscimento. 
    Dal divieto di disconoscimento della paternita' per il coniuge  o
il convivente che abbia prestato il proprio consenso non e',  dunque,
desumibile  un  principio  generale  in  base  al  quale,   ai   fini
dell'instaurazione del rapporto di filiazione, e' sufficiente il solo
elemento volontaristico o intenzionale,  rappresentato  dal  consenso
prestato alla procreazione, ovvero dall'adesione a un comune progetto
genitoriale.  E'  pur  vero  che  lo  sviluppo  scientifico  ha  reso
possibili forme di procreazione svincolate dal legame genetico e  che
l'ordinamento ne ha preso atto. Tuttavia, la disciplina del  rapporto
di filiazione rimane tuttora strettamente connessa  all'esistenza  di
un rapporto biologico tra il nato ed i genitori. 
    Non  e'  possibile,   pertanto,   fondare   la   valutazione   di
irragionevolezza postulata dal giudice  a  quo  sulla  disparita'  di
trattamento con la disciplina di cui all'art. 9, comma 1, della legge
n. 40 del 2004. La differente  natura  delle  fattispecie  impedisce,
infatti, di considerare la scelta normativa dell'indicato art. 9 come
un idoneo tertium  comparationis  ai  fini  della  valutazione  della
ragionevolezza estrinseca della disposizione dell'art. 263 cod.  civ.
Si tratta di fattispecie differenti e la diversita' delle  rispettive
discipline  si  sottrae  ai  dubbi  di  legittimita'   costituzionale
sollevati in nome del principio d'eguaglianza. 
    4.- La questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  263
cod. civ. non e'  fondata  neppure  in  riferimento  alla  violazione
dell'art. 2  Cost.,  nonche'  all'irragionevolezza  intrinseca  della
disposizione in esame. 
    4.1.- Occorre premettere che, per quanto  le  argomentazioni  del
giudice a  quo  ruotino  principalmente  attorno  all'art.  3  Cost.,
sussiste un'intima connessione tra le censure che evocano  il  canone
di ragionevolezza e  quelle  relative  alla  violazione  del  diritto
all'identita' personale, garantito dall'art. 2 Cost. 
    Nella prospettiva del rimettente, la norma censurata si  porrebbe
in contrasto con i richiamati principi costituzionali nella parte  in
cui essa consente l'impugnazione per difetto di veridicita'  anche  a
chi abbia effettuato il riconoscimento, pur essendo consapevole della
sua   falsita'.   L'irragionevolezza   consisterebbe,   quindi,   nel
consentire a chi abbia instaurato un rapporto  di  filiazione,  nella
consapevolezza della sua falsita', di vanificare  il  riconoscimento,
sacrificando gli interessi del soggetto riconosciuto  sulla  base  di
una esclusiva riconsiderazione dei propri. 
    L'assunto del rimettente riflette la tradizionale interpretazione
dell'art. 263 cod. civ. offerta dalla giurisprudenza di  legittimita'
nei  casi  di  riconoscimento   consapevolmente   falso   (Corte   di
cassazione, sezione prima civile, sentenze 14 febbraio 2017, n. 3834,
e 24 maggio 1991, n. 5886; ordinanza 21 febbraio 2019, n. 5242). Essa
si fonda sulla assoluta prevalenza da  attribuire  all'interesse,  di
natura pubblicistica,  all'accertamento  della  verita',  rispetto  a
qualsiasi altro interesse che con esso venga in  conflitto  e  quindi
anche  rispetto   al   diritto,   anch'esso   dotato   di   copertura
costituzionale,  all'identita'  sociale  del  soggetto  riconosciuto,
nonche' alla necessita' di far valere  le  responsabilita',  inerenti
alla qualita' di genitore, assunte con il riconoscimento. 
    4.2.- Si tratta,  tuttavia,  di  un'impostazione  ormai  superata
dall'evoluzione normativa e giurisprudenziale, anche di questa Corte. 
    Sul rilievo che l'art. 30  Cost.  non  ha  attribuito  un  valore
indefettibilmente preminente alla verita' biologica rispetto a quella
legale, siffatta evoluzione ha portato a negare l'assoluta preminenza
del  favor  veritatis  e  ad  affermare  la  necessita'   della   sua
ragionevole comparazione con altri valori costituzionali. 
    In piu' occasioni, infatti, il legislatore, cui l'art. 30, quarto
comma, Cost. demanda il potere di fissare limiti e condizioni per far
valere la genitorialita' biologica nei confronti di quella legale, ha
attribuito   prevalenza   al   consenso   alla    genitorialita'    e
all'assunzione della conseguente responsabilita'  rispetto  al  favor
veritatis. 
    4.2.1.- E' certo un significativo passaggio di questa  evoluzione
il richiamato art. 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004 che, in  un
caso di  divergenza  tra  genitorialita'  genetica  e  genitorialita'
giuridica, tanto specifico e peculiare da  non  valere,  come  si  e'
detto, come tertium comparationis, fa comunque prevalere  l'interesse
alla  conservazione  dello  status,   cosi'   riconoscendo   che   la
corrispondenza tra lo stato di figlio e  la  verita'  biologica,  pur
auspicabile, non e' elemento indispensabile dello status filiationis. 
    Anche le novita' apportate dal d.lgs. n. 154 del 2013 si  pongono
nella direzione indicata. Se, da un lato, e'  stato  garantito  senza
limiti di tempo l'interesse primario  ed  inviolabile  del  figlio  a
ottenere   l'accertamento   della    mancata    corrispondenza    tra
genitorialita' legale e  genitorialita'  biologica,  dall'altro  lato
sono  stati  introdotti  rigorosi   termini   per   la   proposizione
dell'azione da  parte  degli  altri  legittimati,  assicurando  cosi'
tutela  al  diritto  alla  stabilita'  dello  status  acquisito,   in
particolare laddove ad impugnare il riconoscimento sia il suo  stesso
autore. Il nuovo testo dell'art. 263 cod. civ. prevede, infatti,  che
il termine per proporre l'azione di  impugnazione  -  originariamente
imprescrittibile - e' di  un  anno,  se  ad  agire  e'  l'autore  del
riconoscimento, e di cinque anni per gli altri legittimati. 
    Cio' dimostra la volonta' di tutelare gli interessi  del  figlio,
evitando il protrarsi di un'incertezza  potenzialmente  lesiva  della
solidita' degli affetti e dei  rapporti  familiari.  E'  stata  cosi'
riconosciuta e garantita la tendenziale  stabilita'  dello  stato  di
filiazione, in connessione con il consolidamento in capo al figlio di
una propria identita' affettiva, relazionale, sociale, da cui  deriva
l'interesse  a  mantenere  il  legame  genitoriale  acquisito,  anche
eventualmente  in  contrasto   con   la   verita'   biologica   della
procreazione. 
    In questa prospettiva, va anche notata la decorrenza del  termine
per la proposizione dell'azione: non dalla nascita, ma da un  momento
successivo, quello dell'annotazione del riconoscimento  nell'atto  di
nascita. In questo modo e' stato attribuito rilievo,  ai  fini  della
proponibilita'  dell'azione  e   del   consolidamento   del   diritto
all'identita' personale che essa  ha  di  fronte,  non  all'eta'  del
figlio - in genere, ma non necessariamente, un minore -  bensi'  alla
durata del rapporto di filiazione, anche se iniziato  in  un  momento
successivo alla nascita. 
    4.2.2.- D'altra parte, l'assolutezza del principio di  prevalenza
dell'interesse  all'accertamento  della   verita'   biologica   della
procreazione  e'  stata  superata  anche  dalla   giurisprudenza   di
legittimita' che, da tempo,  ha  riconosciuto  come  l'equazione  tra
"verita' naturale" e "interesse del minore" non  sia  predicabile  in
termini assoluti, essendo viceversa necessario bilanciare la  verita'
del  concepimento  con   l'interesse   concreto   del   figlio   alla
conservazione dello status acquisito (Corte  di  cassazione,  sezione
prima civile, ordinanza 21 febbraio 2020, n. 4791; sentenze 3  aprile
2017, n. 8617, 15 febbraio 2017, n. 4020, 22 dicembre 2016, n. 26767,
8 novembre 2103, n. 25213 e 19 ottobre 2011, n. 21651; sezione  sesta
civile, sentenza 23 settembre 2015, n. 18817). 
    4.2.3.- Anche la giurisprudenza di questa Corte ha preso atto  di
questa evoluzione, non solo con il riconoscimento che «il dato  della
provenienza genetica non  costituisce  un  imprescindibile  requisito
della  famiglia»  (sentenza  n.  162  del   2014),   ma   anche   con
l'affermazione dell'immanenza dell'interesse del  figlio,  specie  se
minore, nell'ambito delle azioni volte alla  rimozione  dello  status
(sentenze n. 272 del 2017, n.  494  del  2002,  n.  170  del  1999  e
ordinanza n. 7 del 2012). 
    In  particolare,  proprio  con  riferimento  alla  questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 263 cod. civ., questa Corte  ha
sottolineato che «[l]'affermazione della necessita' di considerare il
concreto interesse del minore in tutte le decisioni che lo riguardano
e'   fortemente   radicata   nell'ordinamento   sia   interno,    sia
internazionale [...]. Non si vede conseguentemente  perche',  davanti
all'azione di cui all'art. 263 cod. civ., fatta salva quella proposta
dallo stesso figlio, il giudice non debba valutare: se l'interesse  a
far valere la verita' di  chi  la  solleva  prevalga  su  quello  del
minore; se tale azione sia davvero idonea  a  realizzarlo  [...];  se
l'interesse alla verita' abbia anche natura pubblica [...] ed imponga
di tutelare l'interesse del minore  nei  limiti  consentiti  da  tale
verita'» (sentenza n. 272 del 2017). 
    In  definitiva,  la  necessita'  di  valutare  l'interesse   alla
conservazione   della   condizione   identitaria   acquisita,   nella
comparazione con altri valori costituzionalmente rilevanti,  e'  gia'
contenuta nel giudizio di cui all'art. 263 cod. civ. ed e'  immanente
a esso. Si  tratta,  infatti,  di  una  valutazione  comparativa  che
attiene ai presupposti per l'accoglimento della domanda  proposta  ai
sensi dell'art. 263 cod. civ. e non alla  legittimazione  dell'autore
del riconoscimento inveridico. 
    4.3.- Pertanto, nel  caso  dell'impugnazione  del  riconoscimento
consapevolmente falso da parte del suo autore, il  bilanciamento  tra
il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il  favore  per  la
verita' del rapporto di filiazione non puo' costituire  il  risultato
di una valutazione astratta e predeterminata e non puo' implicare  ex
se il sacrificio dell'uno in nome dell'altro. L'esigenza  di  operare
una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce  della
concreta situazione dei soggetti  coinvolti,  impone  al  giudice  di
tenere conto di tutte le variabili del caso  concreto,  sotteso  alla
domanda di rimozione dello status di cui all'art. 263 cod. civ. 
    E' appena  il  caso  di  aggiungere  che  di  tale  apprezzamento
giudiziale non puo'  non  far  parte  la  stessa  considerazione  del
diritto all'identita' personale, correlato non soltanto alla  verita'
biologica, ma anche ai  legami  affettivi  e  personali  sviluppatisi
all'interno della famiglia. 
    In  conclusione,  anche  nell'impugnazione   del   riconoscimento
proposta da chi lo abbia effettuato nella  consapevolezza  della  sua
falsita', «la  regola  di  giudizio  che  il  giudice  e'  tenuto  ad
applicare in questi casi [deve] tenere conto di variabili molto  piu'
complesse della rigida alternativa vero o falso» (sentenza n. 272 del
2017). Tra queste variabili,  rientra  sia  il  legame  del  soggetto
riconosciuto con l'altro genitore, sia la possibilita' di  instaurare
tale legame con il genitore biologico, sia la durata del rapporto  di
filiazione  e  del  consolidamento   della   condizione   identitaria
acquisita per effetto del falso riconoscimento (in particolare  nelle
azioni, come quella oggetto del  giudizio  a  quo,  esercitate  prima
dell'entrata in vigore del d.lgs. n.  154  del  2013),  sia,  infine,
l'idoneita' dell'autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo
di genitore.