ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  709-ter,
secondo comma, numero 4), del codice di  procedura  civile,  promosso
dal Tribunale ordinario di Treviso nel procedimento vertente  tra  G.
S. e M. P., con ordinanza del 16 luglio 2019, iscritta al n. 219  del
registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell'anno 2019. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito il  Giudice  relatore  Giovanni  Amoroso  nella  camera  di
consiglio del 26 maggio 2020,  svolta  ai  sensi  del  decreto  della
Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1), lettera a); 
    deliberato nella camera di consiglio del 26 maggio 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario  di  Treviso,  con  ordinanza  del  16
luglio 2019, iscritta al n.  219  del  registro  ordinanze  2019,  ha
sollevato  tre  distinte  questioni  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 709-ter, secondo comma, numero 4), del codice di  procedura
civile,  per  violazione:   dell'art.   117,   primo   comma,   della
Costituzione,  in  relazione  al  divieto  di  bis  in  idem  sancito
dall'art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,  adottato  a
Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge
9 aprile 1990, n. 98; dell'art. 25, secondo comma, Cost., nella parte
in cui la disposizione impugnata  sanziona  «gli  atti  che  comunque
arrechino  pregiudizio  al   minore»   assumendo   una   carenza   di
determinatezza della fattispecie; dell'art. 3,  primo  comma,  Cost.,
laddove stabilisce irragionevolmente il limite massimo della sanzione
ivi prevista nell'importo di euro 5.000,00, in quanto di  gran  lunga
superiore alla «sanzione pecuniaria» contemplata  dall'art.  570  del
codice penale per il reato di violazione degli obblighi di assistenza
familiare. 
    2.- Il  giudice  rimettente  riferisce  che,  nell'ambito  di  un
giudizio per la cessazione degli effetti civili  del  matrimonio,  la
ricorrente, oltre alla domanda principale sullo  status  e  a  quelle
sulle questioni economiche, aveva chiesto  la  condanna  del  coniuge
separato al pagamento di una  sanzione  pecuniaria  in  favore  della
Cassa delle ammende ai sensi dell'art. 709-ter, secondo comma, numero
4), cod.  proc.  civ.,  per  l'inadempimento  dello  stesso  rispetto
all'obbligo  di  mantenimento  della  figlia  minore  sancito   nella
sentenza di separazione. 
    All'udienza  di  precisazione  delle  conclusioni,  peraltro,  il
resistente produceva la sentenza della sezione penale  del  Tribunale
ordinario di Treviso n. 651 del 2017, depositata in  data  30  maggio
2017, mediante la quale ne era  stata  accertata  la  responsabilita'
penale per aver omesso di versare il contributo al mantenimento della
figlia nella  misura  di  cui  alla  pronuncia  di  separazione,  con
l'applicazione della pena di cui all'art. 570 cod. pen. 
    Per tale ragione, come riferisce lo  stesso  giudice  a  quo,  il
resistente chiedeva negli scritti conclusivi il rigetto della domanda
avente ad  oggetto  la  condanna  dello  stesso  al  pagamento  della
sanzione pecuniaria in favore  della  Cassa  delle  ammende  ex  art.
709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc.  civ.,  in  quanto  sui
medesimi fatti era gia' intervenuta la predetta sentenza di condanna,
n. 651 del 2017, divenuta irrevocabile. 
    In punto di rilevanza, il giudice rimettente evidenzia, in  primo
luogo, che la domanda proposta dalla ricorrente volta  alla  condanna
del coniuge separato al pagamento della sanzione pecuniaria  ex  art.
709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ., dovrebbe  trovare
accoglimento a fronte del  pacifico  e  reiterato  inadempimento  del
padre agli obblighi di mantenimento sanciti in  favore  della  figlia
nella  sentenza  di  separazione,  condotta   che   integrerebbe   la
fattispecie prevista dal medesimo secondo comma di tale  disposizione
normativa  nella  parte  in  cui  sanziona  gli  «atti  che  comunque
arrechino pregiudizio al minore». 
    In particolare, il Tribunale rimettente assume la rilevanza delle
questioni ritenendo applicabili  -  pur  consapevole  dell'esistenza,
anche  nella  giurisprudenza  di  merito,  di  diverse   impostazioni
interpretative sulla problematica - le sanzioni contemplate dall'art.
709-ter,  secondo  comma,  cod.  proc.  civ.,  anche   in   relazione
all'inadempimento agli obblighi di mantenimento dei figli, in quanto:
a) sul piano  letterale  la  formula  «atti  che  comunque  arrechino
pregiudizio al minore» e' di ampiezza tale da ricomprendere una vasta
categoria di fattispecie tra le quali deve essere annoverato anche il
pregiudizio derivante dalla mancata contribuzione economica in favore
della prole; b) sul piano teleologico-sistematico,  tale  conclusione
sarebbe corroborata dalla circostanza che il mantenimento  dei  figli
minori rientra nel dovere  di  assistenza  materiale  disposto  dagli
artt. 30 Cost. e 147 del  codice  civile  ed  e'  indispensabile  per
l'esplicazione e lo sviluppo della personalita'  del  minore  nonche'
per l'indipendenza del  genitore  collocatario  nell'esercizio  delle
proprie facolta' genitoriali; c) sotto il profilo della ratio  legis,
l'esclusione dall'ambito applicativo delle sanzioni di  cui  all'art.
709-ter, secondo comma,  cod.  proc.  civ.,  dell'inadempimento  agli
obblighi  di  mantenimento  avrebbe   dovuto   essere   espressamente
contemplata, stante l'importanza della questione. 
    Il  rimettente,  con  riferimento,  poi,   alla   non   manifesta
infondatezza della prima  questione  di  legittimita'  costituzionale
avente ad oggetto l'art. 709-ter,  secondo  comma,  numero  4),  cod.
proc. civ., rispetto al parametro di cui all'art. 117,  primo  comma,
Cost., in relazione al divieto di bis in  idem  sancito  dall'art.  4
Prot. n. 7 CEDU, premette che, in conformita'  ai  criteri  enunciati
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo sin dalla sentenza 8 giugno
1976, Engel e altri contro Paesi Bassi, la sanzione di  cui  all'art.
709-ter, secondo comma, numero 4), cod. proc. civ.,  pur  qualificata
come amministrativa,  e'  in  realta'  una  sanzione  sostanzialmente
penale, poiche': a) si tratta di una trasgressione significativa,  al
punto che le stesse condotte sono punite dall'art. 570 cod. pen.;  b)
la struttura dell'illecito e' analoga sotto il profilo strutturale  a
un illecito penale atteso  che,  a  fronte  del  verificarsi  di  una
fattispecie  tipica,  la  stessa  contempla  una   cornice   edittale
assimilabile  a  quelle  stabilite  dai  precetti  penali;  c)   deve
ritenersi grave, stante l'importo massimo della stessa, pari ad  euro
5.000,00, importo superiore a quello previsto  da  numerose  multe  e
ammende in materia penale nonche' alla stessa multa  comminabile  per
il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare; d)  e'
irrogata nell'ambito di un procedimento di carattere  giurisdizionale
nel contraddittorio tra le parti; e) lo scopo della  stessa,  infine,
condivide le finalita' di natura preventiva del reato  di  violazione
degli obblighi di assistenza familiare di cui all'art. 570 cod. pen. 
    In virtu' di tale premessa, il giudice rimettente sottolinea  che
la disposizione impugnata non e' suscettibile  di  un'interpretazione
costituzionalmente orientata,  dovendo  ritenersi  applicabile,  come
evidenziato in punto  di  rilevanza,  anche  all'inadempimento  degli
obblighi di natura economica, e che  nella  fattispecie  processuale,
considerata la gravita' di tale inadempimento, la sanzione  richiesta
dovrebbe essere comminata. 
    Il Tribunale di Treviso, premessa la  qualificazione  in  termini
sostanzialmente penali della  sanzione  in  questione,  dubita  della
legittimita' costituzionale dello stesso art. 709-ter, secondo comma,
numero 4), cod. proc. civ., in relazione al parametro di cui all'art.
25,  secondo  comma,   Cost.,   con   riferimento   alla   necessaria
determinatezza dei precetti penali. In particolare, quanto  alla  non
manifesta infondatezza  di  tale  questione,  il  giudice  rimettente
sottolinea che la disposizione  censurata,  nella  parte  in  cui  fa
riferimento,   ai   fini   dell'applicabilita'   di   una    sanzione
sostanzialmente penale,  anche  agli  «atti  che  comunque  arrechino
pregiudizio al minore», finisce  con  il  demandare  l'individuazione
delle   condotte   sanzionate   a   una   valutazione   discrezionale
dell'autorita' giudiziaria, non  potendosi  ritenere  che  tali  atti
debbano ricondursi alle ipotesi contemplate  dal  primo  comma  dello
stesso art.  709-ter  cod.  proc.  civ.,  in  ragione  di  un'assunta
autonomia tra i due commi. 
    Il  giudice  a  quo,  infine,  in  ordine   alla   questione   di
legittimita' costituzionale dello stesso art. 709-ter, secondo comma,
numero 4), cod. proc. civ., rispetto al parametro di cui all'art.  3,
primo comma, Cost., in punto di manifesta infondatezza sottolinea che
la medesima contempla un  trattamento  sanzionatorio  di  gran  lunga
superiore, nella misura massima, a quello previsto,  per  i  medesimi
fatti, dall'art. 570 cod. pen., con cio' integrando  un'irragionevole
disparita' di trattamento tra soggetti puniti per una stessa condotta
nell'ambito dei due procedimenti. 
    3.- Nel giudizio incidentale non si sono costituite le parti  del
giudizio a quo. 
    4.- Con atto del 31  dicembre  2019,  e'  invece  intervenuto  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello  Stato,  chiedendo  il  rigetto  delle
questioni di legittimita' costituzionale sollevate dall'ordinanza  di
rimessione. 
    In particolare, quanto alla  dedotta  violazione  dell'art.  117,
primo comma, Cost., in relazione al divieto di bis  in  idem  sancito
dall'art. 4 Prot. n. 7 CEDU, l'Avvocatura sottolinea che il Tribunale
rimettente parte da un erroneo presupposto interpretativo,  ossia  da
quello dell'applicabilita' delle sanzioni previste dal secondo  comma
dell'art. 709-ter cod. proc. civ. (e tra esse di  quella  contemplata
al numero 4 di tale disposizione  normativa)  anche  in  presenza  di
violazioni di carattere meramente economico, e cio' in contrasto  sia
con  la  formulazione  letterale  e  la  ratio   della   disposizione
normativa, sia con la giurisprudenza di  legittimita'  (viene  citata
Corte di Cassazione, sezione prima civile, ordinanza 27 giugno  2018,
n. 16980). 
    Rileva, inoltre, il Presidente del Consiglio dei ministri che  la
sanzione in questione non e' in ogni caso qualificabile come sanzione
penale, poiche'  non  e'  paragonabile  per  gravita'  alle  sanzioni
amministrative    qualificate    sostanzialmente     penali     dalla
giurisprudenza europea. 
    Sottolinea, altresi', la  difesa  statale  che,  a  escludere  la
fondatezza della censura, e quindi l'integrazione del ne bis in  idem
come configurato dall'art. 4 Prot. n. 7 CEDU, concorre la circostanza
che le condotte punite dall'art. 570 cod. pen.  non  sono  costituite
dal mero inadempimento agli obblighi di mantenimento, richiedendo  un
quid pluris, ossia  l'aver  fatto  mancare  i  mezzi  di  sussistenza
all'avente diritto, non ricorrendo,  dunque,  l'identita'  dei  fatti
sanzionati. 
    Il Presidente del Consiglio dei  ministri  evidenzia,  per  altro
verso, l'infondatezza anche della seconda questione  di  legittimita'
costituzionale  della  disposizione  censurata,  in  riferimento   al
parametro di cui  all'art.  25,  secondo  comma,  Cost.,  poiche'  le
condotte sanzionabili ex art. 709-ter, secondo comma, cod. proc. civ.
possono essere determinate in base alle  disposizioni  normative  che
regolano l'esercizio della responsabilita' genitoriale o  in  ragione
del contenuto  dei  provvedimenti  giurisdizionali  che  si  assumono
violati. 
    Con   riferimento   alla   terza   questione   di    legittimita'
costituzionale  sollevata   dal   giudice   a   quo,   afferente   la
compatibilita' dell'art. 709-ter,  secondo  comma,  numero  4),  cod.
proc. civ., con l'art. 3, primo  comma,  Cost.,  l'Avvocatura  rileva
infine che l'ordinanza di  rimessione,  nell'assumere  quale  tertium
comparationis la sola sanzione pecuniaria contemplata  dall'art.  570
cod. pen., non considera ne' il maggiore stigma sociale  correlato  a
una condanna in sede penale ne' che lo  stesso  art.  570  cod.  pen.
prevede, al primo comma, in via alternativa rispetto alla  multa,  la
pena  della  reclusione  sino  a  un  anno  e,  al   secondo   comma,
congiuntamente sia la pena detentiva che quella  pecuniaria,  con  un
trattamento sanzionatorio  complessivamente  piu'  grave  rispetto  a
quello stabilito dalla disposizione censurata. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario  di  Treviso,  con  ordinanza  del  16
luglio 2019, iscritta al n.  219  del  registro  ordinanze  2019,  ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25,  secondo  comma,  e  117,
primo  comma,  della  Costituzione,   tre   distinte   questioni   di
legittimita' costituzionale dell'art. 709-ter, secondo comma,  numero
4), del codice di procedura civile, nella parte in cui  prevede  che,
nell'ambito di un giudizio di cessazione  degli  effetti  civili  del
matrimonio, il genitore che abbia posto in essere atti che  arrechino
pregiudizio al minore sia passibile  della  «sanzione  amministrativa
pecuniaria» da un minimo di 75 euro a un massimo di  5.000  euro,  in
favore della Cassa delle ammende, per l'inadempimento all'obbligo  di
corrispondere  l'assegno  di  mantenimento,  previsto,  nel  caso  di
specie, dalla sentenza di  separazione  coniugale,  in  favore  della
figlia minorenne. 
    In primo  luogo,  il  giudice  rimettente  assume  la  violazione
dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in  relazione  al   parametro
interposto di cui all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali,
adottato  a  Strasburgo  il  22  novembre  1984,  ratificato  e  reso
esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98, sul divieto di bis in idem,
poiche' la sanzione pecuniaria contemplata dalla previsione censurata
avrebbe, in virtu' dei  canoni  enunciati  dalla  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo sin dalla sentenza 8 giugno  1976,  Engel  e  altri
contro Paesi Bassi, natura sostanzialmente penale, e dovrebbe  essere
comminata  per  il  medesimo  fatto,  ossia  per  l'omesso  pagamento
dell'assegno di mantenimento disposto nella pronuncia di  separazione
coniugale in favore della figlia minore, per il  quale  il  convenuto
era stato gia' condannato in sede penale. 
    Il giudice a quo assume, inoltre, che  lo  stesso  art.  709-ter,
secondo comma, numero  4),  cod.  proc.  civ.,  nella  parte  in  cui
consente di comminare una  «sanzione  amministrativa  pecuniaria»  in
favore della Cassa delle ammende per  «atti  che  comunque  arrechino
pregiudizio al minore», violi anche l'art. 25, secondo comma,  Cost.,
in ragione dell'indeterminatezza delle condotte censurabili  con  una
sanzione di carattere sostanzialmente penale. 
    Il Tribunale rimettente ritiene, poi,  violato  anche  l'art.  3,
primo  comma,  Cost.,  in  riferimento   al   tertium   comparationis
costituito dal trattamento sanzionatorio previsto dall'art.  570  del
codice penale, ritenendo irragionevole che la sanzione pecuniaria per
un identico fatto sia determinata dalla disposizione censurata  nella
misura massima di euro 5.000, di  gran  lunga  superiore  alla  multa
prevista dall'art. 570, primo comma, cod. pen., pari, nel massimo, ad
euro 1.032. 
    2.- L'Avvocatura generale dello Stato non ha formulato  eccezioni
di inammissibilita';  appare,  tuttavia,  opportuno  un  breve  esame
preliminare di due profili  attinenti  alla  sufficiente  motivazione
dell'ordinanza di rimessione quanto rispettivamente alla rilevanza  e
alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate. 
    2.1.- Sotto un primo profilo, sebbene l'ordinanza  di  rimessione
faccia riferimento a una sentenza di condanna in sede penale «ex art.
570  cod.  pen.»,  si  comprende  agevolmente,  dalla  lettura  della
medesima, ove si riferisce che tale condanna  e'  correlata  al  mero
mancato  pagamento  dell'assegno  di  mantenimento  per   la   figlia
minorenne disposto in  sede  di  separazione  dei  coniugi,  che,  in
realta',  si  tratta  del  reato  (in  conformita'   alla   normativa
applicabile ratione temporis) introdotto dall'art. 3  della  legge  8
febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni  in  materia  di  separazione  dei
genitori e affidamento condiviso dei figli), che  -  estendendo  alla
separazione coniugale la tutela penale a tal  fine  gia'  contemplata
per i provvedimenti pronunciati  nel  giudizio  di  cessazione  degli
effetti civili del matrimonio  dall'art.  12-sexies  della  legge  1°
dicembre 1970, n.  898  (Disciplina  dei  casi  di  scioglimento  del
matrimonio) - ha individuato come condotta penalmente  sanzionata  la
«violazione   degli   obblighi   di   natura   economica»    mediante
l'applicazione di tale ultima disposizione,  che  gia'  prevedeva  le
pene stabilite dall'art. 570 cod. pen. per il coniuge  che  si  fosse
sottratto all'obbligo di corresponsione dell'assegno, in particolare,
per il mantenimento, l'istruzione  e  l'educazione  dei  figli.  Tale
delitto e' oggi confluito nell'art. 570-bis cod. pen.  in  attuazione
della «riserva di codice» (sentenza n. 189 del 2019), che continua  a
prevedere l'applicazione delle pene di cui all'art. 570 cod. pen.  al
coniuge  che  si  sottrae  all'obbligo  di  corresponsione  di   ogni
tipologia di assegno dovuto in caso di  scioglimento,  di  cessazione
degli effetti civili o di nullita' del matrimonio  ovvero  viola  gli
obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi  e
di affidamento condiviso dei figli. 
    Quindi, benche' il giudice rimettente non si sia confrontato  con
tale piu' ampio quadro  normativo,  e'  ben  chiaro  che  il  "fatto"
penalmente rilevante e per il quale il genitore  resistente  e'  gia'
stato condannato con l'applicazione delle pene di  cui  all'art.  570
cod.  pen.,  consiste  nell'inadempimento  dell'obbligo   di   natura
economica fissato dal giudice per il mantenimento della prole. Ed  e'
lo stesso "fatto"  che  il  giudice  rimettente  assume  a  possibile
presupposto della sanzione amministrativa pecuniaria  prevista  dalla
disposizione censurata. 
    Di qui la rilevanza delle questioni. 
    2.2.- Sotto un distinto profilo, neppure puo'  ritenersi  -  come
invece e' avvenuto in altre fattispecie nelle quali era stato dedotto
dinanzi a questa Corte il mancato rispetto del divieto di bis in idem
sancito dall'art. 4 Prot. n. 7 CEDU (da ultimo, sentenza n.  222  del
2019; ordinanza n. 114 del 2020) -  che  l'ordinanza  di  rimessione,
nell'argomentare la non manifesta infondatezza, in particolare, della
prima questione di legittimita' costituzionale,  abbia  descritto  in
modo  insufficiente  il  quadro  normativo  e  giurisprudenziale   di
riferimento  poiche',  sebbene  la  stessa  non  abbia  espressamente
richiamato la piu'  recente  evoluzione  della  giurisprudenza  della
Corte europea  dei  diritti  dell'uomo,  ha  comunque  effettuato  un
sufficiente vaglio delle  relative  condizioni,  non  limitandosi  ad
assumere,  sic  et  simpliciter,  una  violazione  del   divieto   in
questione, concepito in una prospettiva meramente processuale. 
    3.- Nel merito, la prima questione di legittimita' costituzionale
- con la quale il Tribunale rimettente assume la violazione da  parte
dell'art.  709-ter,  secondo  comma,  numero  4),  cod.  proc.  civ.,
dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in  relazione  al   parametro
interposto di cui all'art. 4 Prot. n. 7 CEDU sul divieto  di  bis  in
idem - non e' fondata,  in  quanto  e'  possibile  un'interpretazione
costituzionalmente orientata della disposizione censurata. 
    4.- Giova  premettere  una  sintetica  ricostruzione  del  quadro
normativo  di  riferimento  in   cui   si   inserisce   la   medesima
disposizione. 
    L'art. 709-ter, secondo comma, cod. proc.  civ.,  stabilisce:  «A
seguito  del  ricorso,  il  giudice  convoca  le  parti  e  adotta  i
provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti  che
comunque arrechino pregiudizio al minore od  ostacolino  il  corretto
svolgimento  delle  modalita'  dell'affidamento,  puo'  modificare  i
provvedimenti in vigore e puo', anche congiuntamente: 1) ammonire  il
genitore inadempiente; 2)  disporre  il  risarcimento  dei  danni,  a
carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre  il
risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori,  nei  confronti
dell'altro; 4) condannare il genitore inadempiente  al  pagamento  di
una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a  un
massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende». 
    Tale disposizione e' stata inserita, nelle norme  del  codice  di
procedura civile dedicate alla  separazione  coniugale,  dall'art.  2
della legge n. 54 del 2006,  che  ha  contestualmente  introdotto  la
regola generale dell'affidamento condiviso della prole  della  coppia
parentale in regime di separazione,  regola  che  e'  subito  apparsa
foriera di piu' frequenti controversie tra i genitori sulle modalita'
di attuazione di questo nuovo istituto con un maggiore coinvolgimento
del giudice per dirimere ogni genere di contrasto. 
    La  collocazione  della  norma   nell'ambito   della   disciplina
processuale della separazione coniugale non ne limita  l'operativita'
a questo solo ambito, in quanto l'art. 4, comma 2, della stessa legge
n. 54 del 2006 stabilisce espressamente  che  le  nuove  disposizioni
dettate per la separazione giudiziale si applicano anche ai  casi  di
«scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di  nullita'  del
matrimonio, nonche' ai procedimenti relativi ai figli di genitori non
coniugati». 
    L'art. 709-ter cod. proc.  civ.  demanda,  nel  primo  comma,  al
giudice  del  procedimento  in  corso  il  potere  di  risolvere   le
controversie insorte tra i genitori  in  ordine  all'esercizio  della
potesta' genitoriale ovvero  alle  modalita'  dell'affidamento.  Tali
"controversie"  sono  costituite  da  disaccordi  e   contrasti   che
insorgono di frequente tra i genitori quando si tratta di individuare
le modalita' attuative dell'affidamento, ossia le forme di  esercizio
della  responsabilita'  genitoriale  ogni  qual   volta   sia   stato
pronunciato un provvedimento di affidamento. 
    Nelle ipotesi in cui vengano accertate, poi,  gravi  inadempienze
rispetto agli obblighi  contenuti  nei  provvedimenti  sull'esercizio
della potesta' genitoriale  o  sull'affidamento  della  prole  o,  in
alternativa, il compimento  di  atti  che  arrechino  pregiudizio  al
minore ovvero ostacolino il corretto svolgimento delle  modalita'  di
affidamento, il medesimo  giudice  puo'  non  soltanto  modificare  i
provvedimenti in vigore, ma anche pronunciare, a carico del  genitore
inadempiente, le misure sanzionatorie di cui ai numeri  da  1)  a  4)
della stessa disposizione. 
    Proprio da questi poteri demandati all'autorita' giudiziaria  dal
secondo comma dell'art. 709-ter cod. proc.  civ.  si  evince  che  lo
scopo principale della norma e' quello di superare le difficolta'  da
lungo  tempo  emerse   nella   prassi   applicativa   rispetto   alla
possibilita' di assicurare l'effettivita' del diritto della prole  ad
un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori  -  in
linea con le finalita' generali della stessa legge  n.  54  del  2006
sull'affidamento condiviso - anche ove tale diritto sia  riconosciuto
in un provvedimento di carattere giurisdizionale  che  disciplina  le
modalita' di affidamento, per tutti gli  aspetti  diversi  da  quelli
economici,  e  il  diritto/dovere  di   visita   del   genitore   non
collocatario, ossia profili afferenti  a  obbligazioni  complesse  di
carattere  infungibile,  incidenti  su  diritti  di   carattere   non
patrimoniale. 
    Le  evidenziate  difficolta'  si  correlavano  soprattutto   alla
sostanziale inidoneita' del modello dell'esecuzione forzata delineato
dal Terzo libro del codice di procedura civile per l'attuazione delle
decisioni  giudiziarie  in  tema  di  affidamento  e  responsabilita'
genitoriale nei confronti dei figli minori (o  maggiorenni  portatori
di handicap) -  inidoneita'  riconosciuta,  pur  incidentalmente,  da
questa Corte (ordinanza n. 68  del  1987)  -  almeno  per  tutti  gli
aspetti diversi dalle questioni di carattere  economico.  Per  queste
ultime, invece, oltre all'esecuzione per espropriazione forzata, sono
previsti vari meccanismi volti ad assicurare una adeguata tutela  del
diritto di credito quali, ad esempio, il  sequestro  o  il  pagamento
diretto da parte di terzi ai sensi dell'art. 156 del codice civile, e
la  possibilita'  ex  art.  545  cod.  proc.  civ.  di  pignorare  il
trattamento stipendiale anche al  di  la'  del  limite  generale  del
cosiddetto quinto, oltre alla tutela penale di cui, attualmente, agli
artt. 570 e 570-bis cod. pen. 
    In questo contesto deve collocarsi l'introduzione nel  codice  di
procedura civile dell'art. 709-ter ad opera della  legge  n.  54  del
2006   sull'affidamento   condiviso,   quale    disposizione    volta
principalmente a colmare oggettive lacune  che  si  erano  registrate
nell'assicurare una tutela effettiva dei diritti della prole  di  una
coppia  genitoriale  disgregata,  correlati  a  obblighi  di   natura
infungibile pur consacrati in provvedimenti giudiziari. 
    In particolare, si e' consentito al giudice  della  cognizione  -
adito con il ricorso di cui  all'art.  709-ter  cod.  proc.  civ.,  a
fronte di violazioni dei provvedimenti concernenti  le  modalita'  di
esercizio della  responsabilita'  genitoriale  ovvero  di  quelle  di
affidamento  -  di  modificare  o  integrare  il  contenuto  di  tali
provvedimenti.  Il  legislatore,  quindi,  al  fine  di  superare  il
problema derivante dall'inidoneita' dell'esecuzione forzata,  ha  per
un verso demandato al giudice di merito una nuova competenza, che  si
svincola da  moduli  rigidi  come  quelli  esecutivi,  per  sfruttare
pienamente la maggiore flessibilita' della tutela giurisdizionale  di
cognizione, e risponde alla finalita' di individuare l'autorita' piu'
adatta a risolvere le questioni che possono  sorgere  nella  fase  di
attuazione della misura; per un altro, ha attribuito a tale  giudice,
accertato   l'inadempimento   alle    statuizioni    contenute    nei
provvedimenti gia' emanati nei confronti della coppia  parentale,  il
potere di comminare, ove richiesto con ricorso ai sensi  del  secondo
comma  della  stessa  disposizione,  le  misure   sanzionatorie   ivi
contemplate. 
    Quanto alla «sanzione  amministrativa  pecuniaria»,  dell'importo
ricompreso tra un minimo di 75 euro ed un massimo di  5.000  euro  in
favore  della  Cassa  delle  ammende,  prevista  dalla   disposizione
censurata in parte qua,  la  stessa  realizza  innanzi  tutto  -  sul
modello di  altri  sistemi  processuali  -  una  forma  di  indiretto
rafforzamento  dell'esecuzione  delle   obbligazioni   di   carattere
infungibile. Si tratta di obbligazioni il cui adempimento dipende  in
via esclusiva dalla volonta' dell'obbligato e l'esecuzione  indiretta
si realizza,  previa  necessaria  istanza  di  parte,  attraverso  un
sistema  di  compulsione  all'adempimento  spontaneo  prevedendo,  in
mancanza dello stesso, l'obbligo di corrispondere una somma in favore
dello Stato. In cio' tale modello si accosta nella  finalita'  -  pur
divergendo nel meccanismo processuale -  alle  misure  di  attuazione
degli  obblighi  di  fare  infungibile  o  di  non  fare   introdotte
successivamente dall'art. 614-bis cod. proc.  civ.,  ad  opera  della
legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo  economico,
la semplificazione, la competitivita' nonche' in materia di  processo
civile), che - poi divenute misure di coercizione indiretta  -  hanno
invece  vocazione  generale,  consentono  l'esercizio  di  un  potere
d'ufficio del giudice  e  prevedono  la  corresponsione  delle  somme
liquidate in favore dell'altra parte. 
    5.-  Cio'  premesso  quanto  al  contenuto   della   disposizione
censurata, va ora chiarita la portata dell'invocato parametro. 
    5.1.-  L'ordinanza  di  rimessione  richiama,   quale   parametro
interposto ai sensi dell'art. 117, primo comma, Cost., il divieto  di
bis in  idem  sancito  dall'art.  4  Prot.  n.  7  CEDU  secondo  cui
«[n]essuno puo'  essere  perseguito  o  condannato  penalmente  dalla
giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il  quale  e'  gia'
stato assolto o condannato  a  seguito  di  una  sentenza  definitiva
conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato». 
    Tale garanzia - operante anche per l'Italia stante l'invalidita',
ritenuta dalla giurisprudenza della Corte EDU, della  riserva  a  suo
tempo presentata - e' stata interpretata dalla Corte di Strasburgo in
modo  da  non  correlarsi  esclusivamente  alla  qualificazione,  nel
diritto interno degli Stati contraenti, di una sanzione come  penale,
nel senso che possono assumere rilievo, in via alternativa, la natura
della misura e  la  gravita'  delle  conseguenze  in  cui  l'accusato
rischia di incorrere (Corte europea  dei  diritti  dell'uomo,  grande
camera, sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri  contro  Paesi  Bassi).
Una sanzione puo' pertanto essere  qualificata  come  sostanzialmente
penale, ove cio'  possa  desumersi,  alternativamente,  dalla  natura
dell'infrazione (rispetto alla quale occorre considerare il carattere
e la struttura della norma trasgredita,  ad  esempio  verificando  se
essa si caratterizza in termini  di  generalita'  dei  destinatari  o
valutando la caratura degli interessi che essa tutela), ovvero  dalla
natura  e  dalla  gravita'  della   sanzione   (con   riferimento   a
quest'ultimo profilo, come  evidenziato  nella  giurisprudenza  della
Corte di Strasburgo, possono ad esempio assumere rilevanza: lo  scopo
punitivo-deterrente della sanzione: sentenza 21 febbraio 1984, Ozturk
contro Repubblica federale tedesca; il grado di  afflittivita'  della
sanzione: sentenza 24 febbraio 1994,  Bendenoun  contro  Francia;  la
pertinenzialita' rispetto ad un fatto di reato: sentenza 23 settembre
1998, Malige contro Francia). 
    E' noto che inizialmente la Corte europea dei  diritti  dell'uomo
ha  declinato  in  una  prospettiva  prevalentemente  processuale  il
principio del ne bis in idem di cui  all'art.  4  Prot.  n.  7  CEDU,
affermando che lo stesso  tutela  l'individuo  non  tanto  contro  la
possibilita' di essere sanzionato due volte per il medesimo reato, ma
ancor prima di essere sottoposto una seconda volta a processo per  un
reato per il quale e' stato gia' giudicato, non importa se con  esito
assolutorio o di  condanna  (Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,
grande camera, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia). 
    In seguito, tuttavia, nella giurisprudenza della stessa Corte  si
e' registrata una significativa evoluzione nell'interpretazione della
portata  del  divieto  convenzionale  di  bis  in  idem  rispetto  ai
procedimenti sanzionatori misti, evoluzione che e'  stata  suggellata
dalla pronuncia della grande camera, resa  il  15  novembre  2016  in
relazione al caso A. e B. contro Norvegia, la quale  -  avvicinandosi
armonicamente a quelle  che,  nella  giurisprudenza  della  Corte  di
giustizia (sentenza  26  febbraio  2013,  causa  C-617/10,  Åklagaren
contro Fransson), erano le declinazioni  del  medesimo  divieto,  per
come espresso dall'art.  50  della  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000  e
adattata a  Strasburgo  il  12  dicembre  2007  -  ha  affermato  che
sottoporre a processo penale una persona gia'  sanzionata  a  livello
amministrativo con l'applicazione  di  una  sanzione  sostanzialmente
penale non viola di per se' il divieto di bis in idem, purche' tra  i
due procedimenti vi  sia  una  connessione  sostanziale  e  temporale
sufficientemente stretta, nel  quadro  di  un  approccio  unitario  e
coerente e le  risposte  sanzionatorie  cumulate  non  comportino  un
sacrificio  eccessivo  per  l'interessato.  Ne  deriva  che   i   due
procedimenti possono non solo essere avviati,  ma  anche  concludersi
con  l'irrogazione  di  due  distinte  sanzioni  purche'   ricorrano,
congiuntamente,  le  seguenti  condizioni:  le  sanzioni   perseguano
finalita' differenti  ed  abbiano  in  concreto  ad  oggetto  profili
diversi  della  medesima  condotta  antisociale;  la  duplicita'  dei
procedimenti costituisca una conseguenza prevedibile della  condotta;
vi sia  un'interazione  probatoria  tra  i  procedimenti,  realizzata
mediante la collaborazione tra le autorita' preposte alla definizione
degli stessi; ricorra una stretta connessione sul piano temporale tra
i due procedimenti, pur  non  strettamente  paralleli,  tale  da  non
assoggettare l'incolpato ad un  "eterno  giudizio"  per  il  medesimo
fatto; la sanzione comminata nel primo  procedimento  sia  tenuta  in
considerazione  nell'altro,  in  modo  che   venga   rispettata   una
proporzionalita' complessiva della pena. 
    Pertanto, la previsione di un duplice binario  sanzionatorio  per
il medesimo fatto non viola il principio di ne bis in idem  allorche'
si tratti di procedimenti paralleli e integrati sotto  l'aspetto  sia
sostanziale che temporale. 
    5.2.- A fronte di tale decisione, questa  stessa  Corte,  con  la
sentenza n. 43 del 2018, in ragione del  «mutamento  del  significato
della normativa interposta, sopravvenuto all'ordinanza di  rimessione
per effetto di una pronuncia  della  grande  camera  della  Corte  di
Strasburgo, che esprime il diritto vivente  europeo»,  ha  restituito
gli atti al giudice a quo che aveva  denunciato  una  violazione  del
principio del ne bis in idem nell'accezione convenzionale a fronte di
una fattispecie normativa di cosiddetto doppio binario sanzionatorio,
attraverso il parametro interposto dell'art. 117, primo comma, Cost.,
per  una  necessaria  rivalutazione  della  questione  sollevata.  In
proposito, nella stessa sentenza n. 43  del  2018,  questa  Corte  ha
sottolineato che, a fronte della decisione resa dalla  grande  camera
della Corte di Strasburgo nel caso A. e B.  contro  Norvegia,  si  e'
passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo
stesso  fatto   illecito   due   procedimenti   che   si   concludono
indipendentemente l'uno dall'altro, alla facolta' di  coordinare  nel
tempo e nell'oggetto tali procedimenti,  in  modo  che  essi  possano
reputarsi  come  preordinati   ad   un'unica,   prevedibile   e   non
sproporzionata, risposta punitiva. 
    Il principio del ne bis in idem ha quindi finito con  l'acquisire
una  forte  connotazione  sostanziale   pur   non   perdendo   quella
processuale,  posto  che  presuppone  l'esistenza   di   un   duplice
procedimento. 
    Inoltre, come piu' volte affermato da questa Corte, il  principio
del ne bis in idem trova, sebbene ivi non espressamente  contemplato,
saldo fondamento nella Costituzione (sentenze n. 381 del 2006, n. 230
del 2004 e n. 284 del 2003). 
    Come incisivamente sottolineato dalla sentenza n. 200  del  2016,
tale principio si correla agli artt. 24 e 111 Cost.,  in  quanto  «e'
immanente alla funzione ordinante cui la Carta ha dato vita,  perche'
non e' compatibile con tale funzione dell'ordinamento  giuridico  una
normativa nel cui  ambito  la  medesima  situazione  giuridica  possa
divenire oggetto di statuizioni giurisdizionali in perpetuo divenire»
ed e' volto a evitare che il singolo  possa  essere  esposto  ad  una
spirale di reiterate iniziative penali per il medesimo fatto. 
    Sotto   un   distinto   profilo,   non   puo'   trascurarsi   che
nell'ordinamento nazionale il medesimo principio, inteso  secondo  un
connotato anche sostanziale, si salda, seppur a livello di normazione
primaria, con il generale canone di specialita' espresso non solo per
i reati dall'art. 15 cod. pen., ma, con riferimento ai  rapporti  tra
sanzioni amministrative e sanzioni penali dall'art. 9 della legge  24
novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale),  finalizzato  ad
impedire tendenzialmente una "doppia incriminazione" sostanziale  per
il  medesimo  fatto.  Il  principio  di  specialita'   tra   sanzioni
amministrative e penali e' inoltre ribadito dall'art. 19 del  decreto
legislativo 10 marzo 2000, n.  74  (Nuova  disciplina  dei  reati  in
materia di imposte  sui  redditi  e  sul  valore  aggiunto,  a  norma
dell'articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), avente anch'esso
lo scopo di evitare che un identico fatto venga punito due  volte  in
capo al medesimo soggetto, tanto come illecito amministrativo, quanto
come illecito penale. 
    Pertanto, costituisce principio cardine del nostro sistema quello
per il quale un doppio binario sanzionatorio rappresenta non gia' una
regola, bensi' un'eccezione, che pero' deve  trovare  giustificazione
in esigenze di complementarita' del trattamento punitivo complessivo. 
    5.3.- Mette conto anche ricordare che il principio del ne bis  in
idem, oltre ad assurgere a principio interno di rango costituzionale,
trova tutela, come accennato, anche nell'art. 50  CDFUE  secondo  cui
«[n]essuno puo' essere perseguito o condannato per un  reato  per  il
quale e' gia' stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una
sentenza penale definitiva conformemente  alla  legge»;  disposizione
che, stante la clausola di equivalenza contenuta  nel  terzo  periodo
dell'art. 52, incorpora il contenuto minimo dell'art. 4 del Prot.  n.
7 CEDU, cosi' come interpretato dalla Corte di Strasburgo. 
    Anche alla stregua della giurisprudenza della Corte di  giustizia
dell'Unione  europea,   la   previsione   di   un   duplice   binario
sanzionatorio non confligge con il principio di ne bis in  idem  ove:
la normativa  di  riferimento  persegua  un  obiettivo  di  interesse
generale, tale  da  giustificare  il  cumulo  di  procedimenti  e  di
sanzioni, che devono avere uno scopo  complementare;  contenga  norme
che garantiscano un coordinamento che limiti  a  quanto  strettamente
necessario l'onere supplementare derivante per i soggetti interessati
da un  cumulo  di  procedimenti;  preveda  norme  che  consentano  di
garantire che la severita' del complesso delle sanzioni  imposte  sia
limitata a quanto strettamente necessario in relazione alla  gravita'
del reato di cui si tratti (grande sezione, sentenza 20  marzo  2018,
in causa C-524/15, Menci; sentenza 20 marzo 2018, in causa  C-537/16,
Garlsson Real Estate e  altri;  sentenza  20  marzo  2018,  in  cause
C-596/16 e C-597/16, Di Puma e altri). 
    Pertanto, sulla portata del principio del divieto di bis in  idem
si registra ormai una convergenza coerente,  in  una  prospettiva  di
tutela multilivello dei diritti, della giurisprudenza di questa Corte
con quella delle Corti europee. 
    6.- L'applicazione nella fattispecie in esame di tale principio e
dei limiti  in  cui  possa  ritenersi  legittimo  il  doppio  binario
sanzionatorio, secondo la richiamata giurisprudenza tanto della Corte
europea dei  diritti  dell'uomo  che  di  questa  Corte,  che  ne  ha
condiviso gli ultimi sviluppi (sentenze n. 222 del 2019 e n.  43  del
2018),  da'  fondamento   e   corpo   al   dubbio   di   legittimita'
costituzionale  espresso  dal  giudice  rimettente   con   la   prima
questione. 
    Ed infatti, da una  parte  alla  sanzione  contemplata  dall'art.
709-ter,  secondo  comma,  numero  4),  cod.  proc.  civ.,  anche  se
espressamente  definita  amministrativa,  deve  riconoscersi   natura
sostanzialmente penale al fine del rispetto del  divieto  di  bis  in
idem, in virtu' dei criteri  enunciati  dalla  Corte  EDU  sin  dalla
pronuncia Engel contro Paesi Bassi. 
    Assume rilievo in tal senso, in primo luogo,  la  gravita'  della
sanzione pecuniaria irrogabile sino ad un importo  massimo  di  5.000
euro; gravita'  che  deve  essere  invero  valutata  nello  specifico
contesto di misure irrogate in ambito familiare,  diverso  da  quello
del diritto  dell'impresa  o  altresi'  da  quello  di  significative
violazioni in materia tributaria. 
    La natura pubblicistica e deterrente della  sanzione  e'  inoltre
evidente per la circostanza che la stessa e' disposta non  in  favore
dell'altra parte, bensi' della Cassa delle ammende. 
    Inoltre,  sussisterebbe  anche  l'idem  factum   della   condotta
sanzionata in sede penale, con le pene di cui all'art. 570 cod. pen.,
e  di  quella  sanzionata  in   sede   civile,   con   la   «sanzione
amministrativa pecuniaria», ove appunto  si  ritenesse  -  come,  pur
plausibilmente, assume il giudice rimettente - che tra gli «atti  che
comunque arrechino  pregiudizio  al  minore»  possa  rientrare  anche
l'inadempimento   dell'obbligo   di   pagamento    dell'assegno    di
mantenimento della prole. 
    6.1.- Se cosi', la legittimita' della doppia sanzione per  l'idem
factum dovrebbe, in tal caso, confrontarsi -  nella  prospettiva  del
giudice a quo - con il rispetto del canone della "stretta connessione
nella sostanza e nel tempo", enunciato dalla citata sentenza A. e  B.
contro Norvegia della Corte EDU e recepito, come limite  al  generale
principio del ne bis in idem, anche dalla  giurisprudenza  di  questa
Corte. 
    Benche' rientri nella discrezionalita' del legislatore prevedere,
in deroga del principio di  specialita',  un  apparato  sanzionatorio
articolato  su  piu'  misure  complementari  e  integrate  -  penali,
amministrative,  civili  -  il  cui  controllo  di  legittimita'  sia
affidato a giudici diversi, occorre  pero'  che  sussista  un  "nesso
sufficientemente stretto in sostanza e in tempo" (un  «lien  materiel
et temporel suffisamment etroit», secondo la  citata  sentenza  della
Corte EDU) tale da formare un "insieme coerente"  in  una  logica  di
complementarieta' per il raggiungimento di un  obiettivo  complessivo
di repressione dell'idem factum. 
    Invece nella fattispecie in esame si  avrebbe,  in  primo  luogo,
che, sul piano della sussistenza del nesso sostanziale,  non  sarebbe
identificabile una funzione differenziata, quand'anche  parzialmente,
nelle due sanzioni previste, le quali invece risulterebbero parimenti
accomunate  dalla  stessa  finalita'  di  deterrenza,   a   carattere
special-preventivo,  volta  a  indurre  il  genitore   al   pagamento
dell'assegno di mantenimento in favore della  prole,  senza  che  sia
necessario attivare gli strumenti del processo esecutivo  civile.  Le
sanzioni, penale e "amministrativa", risulterebbero essere del  tutto
sovrapponibili e non gia' complementari. 
    Inoltre mal si concilia con il criterio  di  stretta  connessione
nella sostanza un completamento solo eventuale - e quindi, in  fondo,
casuale - del trattamento sanzionatorio complessivo  perche'  da  una
parte, a fronte della perseguibilita'  d'ufficio  del  reato  di  cui
all'art. 3 della legge n. 54 del  2006  (e  oggi  di  quello  di  cui
all'art. 570-bis  cod.  pen.:  Corte  di  cassazione,  sezione  sesta
penale,   sentenza   30   gennaio-24   febbraio   2020,   n.   7277),
l'applicazione della sanzione amministrativa presuppone che ci sia un
ricorso del genitore che, nel contesto di una controversia insorta in
ordine  all'esercizio  della  responsabilita'  genitoriale  o   delle
modalita'  dell'affidamento,   lamenti   l'inadempimento   dell'altro
genitore obbligato al pagamento dell'assegno di mantenimento  per  la
prole. D'altra parte il giudice, pur  a  fronte  di  tale  comprovato
inadempimento, non sarebbe comunque obbligato ad irrogare la sanzione
pecuniaria "amministrativa", potendo  limitarsi  -  come  prevede  la
disposizione censurata - ad ammonire il  genitore  inadempiente  o  a
condannarlo al risarcimento del danno; misure  che,  pur  avendo  una
connotazione latamente punitiva,  non  hanno  natura  sostanzialmente
penale al fine del rispetto del divieto di bis in idem. 
    In secondo luogo, la sanzione  "amministrativa"  contemplata  dal
secondo comma, numero 4), dell'art. 709-ter cod. proc. civ., per come
e' costruita, non consente di ritenere prevedibile, per  il  soggetto
che pone in essere la condotta, la duplice risposta sanzionatoria  in
applicazione  di  norme  chiare  e  precise;  cio'  implica  che  non
dev'esservi discrezionalita' nell'irrogazione delle sanzioni, potendo
solo in tal modo il soggetto agente sapere che, se porra'  in  essere
una condotta illecita, incorrera' non soltanto nella sanzione penale,
ma  anche  in  quella  pecuniaria  "amministrativa".  Al   contrario,
l'irrogazione della sanzione "amministrativa" di cui all'art. 709-ter
cod. proc. civ. dipende da una  serie  di  variabili  correlate  alla
volonta'  del  genitore  che   lamenti   l'inadempimento   dell'altro
genitore. Solo a seguito del ricorso del primo, nel contesto  di  una
procedura di separazione o  scioglimento  degli  effetti  civili  del
matrimonio, e' possibile per il giudice  adito  l'emanazione  di  una
misura   di   contrasto   dell'inadempimento   nell'esercizio   della
responsabilita'  genitoriale  o  nelle  modalita'   dell'affidamento;
misura che, peraltro, nel quadro di quelle  contemplate  dal  secondo
comma dell'art.  709-ter  cod.  proc.  civ.,  potrebbe  -  come  gia'
sottolineato - essere, anche  a  fronte  di  una  medesima  condotta,
quella diversa dell'ammonimento o del risarcimento del danno. 
    Ne' la  rilevata  assenza  di  una  stretta  connessione  tra  le
sanzioni penale e "amministrativa", potrebbe  essere  superata  dalla
sola  possibilita'  di   comminare   un   trattamento   sanzionatorio
complessivo   proporzionale   alla    gravita'    del    fatto.    La
proporzionalita' di quest'ultimo,  pur  costituendo  un  criterio  di
preminente  importanza,  non  puo'  rappresentare   l'unica   ragione
giustificatrice, in assenza  di  una  stretta  connessione  sotto  il
profilo sostanziale, della duplice repressione di un medesimo  fatto.
La possibilita' di irrogare una sanzione  proporzionata  costituisce,
invero,  un  posterius  rispetto  alla  valutazione  in  ordine  alla
connessione stretta tra diverse sanzioni per lo stesso fatto. 
    7.- Si ha quindi che il possibile contrasto tra  la  disposizione
censurata e il principio del ne bis in idem -  che,  per  le  ragioni
appena indicate, insorgerebbe ove la  prima  fosse  interpretata  nei
termini indicati dal giudice rimettente - conduce univocamente  verso
un'interpretazione alternativa che sia  costituzionalmente  orientata
nel senso di  escludere  la  duplice  sanzione  dell'idem  factum  in
assenza di una "stretta connessione in sostanza e nel tempo". 
    Nella fattispecie in esame puo' ben  ritenersi  che  la  sanzione
pecuniaria "amministrativa" introdotta dall'art. 2 della legge n.  54
del 2006 (con la previsione dell'art. 709-ter cod.  proc.  civ.)  sia
simmetrica e parallela a quella prevista dal successivo art. 3 e  non
gia' complementare a quest'ultima. 
    Come gia' sopra anticipato, tale legge ha previsto,  all'art.  1,
la  regola  generale  dell'affidamento   condiviso   dei   minori   e
dell'esercizio tendenzialmente congiunto della  potesta'  genitoriale
rimettendo al giudice ogni decisione in caso di disaccordo. La stessa
disposizione ha novellato l'art.  155  cod.  civ.  sui  provvedimenti
riguardo ai figli e ha introdotto,  in  particolare,  l'art.  155-bis
cod.  civ.,  che  regola  l'affidamento  a   un   solo   genitore   e
l'opposizione all'affidamento condiviso, e l'art. 155-ter  cod.  civ.
sulla revisione  delle  disposizioni  concernenti  l'affidamento  dei
figli. 
    A fronte di nuovi  diritti  e  nuovi  obblighi,  spesso  di  fare
infungibile,  e  in  assenza  (all'epoca)  di  misure  indirette  per
favorirne l'esecuzione (le misure di  coercizione  indiretta  di  cui
all'art. 614-bis cod. proc.  civ.  sarebbero  state  introdotte  solo
alcuni anni dopo), lo stesso legislatore ha approntato,  all'art.  2,
uno specifico e mirato strumento processuale  di  tutela,  costituito
appunto dall'art. 709-ter cod. proc. civ. La ratio di tale  norma  e'
ben posta in evidenza dalla giurisprudenza  di  legittimita'  che  ha
affermato che «l'intento del legislatore appare palesemente quello di
fornire uno strumento per la soluzione  di  conflitti  tra  genitori,
riguardo ai figli, che, a seguito della nuova  normativa,  potrebbero
presentarsi piu' frequentemente» (Corte di cassazione, sezione  prima
civile, sentenza 22 ottobre 2010, n. 21718). In altra pronuncia si e'
fatta applicazione dell'art. 709-ter cod. proc. civ. con  riferimento
alla violazione delle prescrizioni date dal  giudice  nel  calendario
delle visite del minore (Corte di cassazione, sezione  prima  civile,
sentenza 27 giugno  2018,  n.  16980).  Parimenti  -  nell'escludersi
l'applicabilita' dell'art. 614-bis cod. proc.  civ.  -  si  e'  pero'
precisato come la disposizione  censurata  possa  offrire  tutela  al
diritto di visita del figlio minore del genitore non  collocatario  a
fronte  delle  condotte  pregiudizievoli  poste  in  atto  dall'altro
genitore (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 6 marzo
2020, n. 6471). 
    Parallelamente lo stesso legislatore ha rafforzato,  all'art.  3,
la gia' esistente tutela penale a fronte di una  tipica  obbligazione
pecuniaria suscettibile di esecuzione forzata,  oltre  che  di  altre
misure di  garanzia  della  responsabilita'  patrimoniale,  quale  e'
quella avente ad oggetto l'assegno di mantenimento della prole  nelle
procedure di separazione dei coniugi e di scioglimento degli  effetti
civili del matrimonio. L'art. 3, infatti, prevede per la  «violazione
degli  obblighi  di  natura   economica»   l'applicazione   dell'art.
12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina  dei  casi
di  scioglimento  del  matrimonio)  e  quindi  le  pene   contemplate
dall'art. 570 cod. pen. 
    Questo parallelismo  tra  l'art.  2,  che  ha  introdotto  l'art.
709-ter cod. proc.  civ.,  e  l'art.  3,  che  ha  rafforzato  l'art.
12-sexies  citato,  consente  di  escludere,  in  forza  del   canone
dell'interpretazione conforme, che le due norme si intersechino e che
la condotta sanzionata come reato dall'art. 3 della legge n.  54  del
2006 con le pene dell'art. 570  cod.  pen.  possa  essere  sanzionata
anche con la pena pecuniaria "amministrativa" dell'art. 2. 
    La disposizione censurata  ha  dunque  la  sua  ratio  e  la  sua
giustificazione nell'esigenza  di  assicurare  una  tutela  effettiva
rispetto all'adempimento  di  una  serie  di  obblighi  di  carattere
prevalentemente infungibile nei confronti della prole,  per  i  quali
prima dell'emanazione della stessa mancavano  efficaci  strumenti  di
attuazione e di coazione. 
    Per converso gli aspetti patrimoniali del rapporto tra i genitori
e la prole, relativi all'assegno di mantenimento, non hanno mai posto
significativi problemi attuativi, in quanto le relative pronunce sono
eseguibili nelle forme  del  processo  esecutivo  per  espropriazione
(anche  mediante  un  pignoramento  dei  crediti  del   debitore)   e
presidiate in sede penale dal reato di cui all'art. 570-bis cod. pen.
(sentenza n. 189 del 2019) e finanche  -  ove  il  mancato  pagamento
dell'assegno di mantenimento ridondi in  deprivazione  dei  mezzi  di
sussistenza - da quello di cui all'art. 570,  secondo  comma,  numero
2), cod. pen. 
    L'art. 709-ter, secondo  comma,  cod.  proc.  civ.,  deve  quindi
essere interpretato nel senso che il mancato  pagamento  dell'assegno
di mantenimento della prole, nella misura in cui e'  gia'  sanzionato
penalmente, non e' compreso nel novero  delle  condotte  inadempienti
per le quali puo' essere irrogata dall'autorita' giudiziaria adita la
sanzione  pecuniaria   "amministrativa"   in   esame.   Le   condotte
suscettibili di tale sanzione sono infatti "altre",  ossia  le  tante
condotte, prevalentemente di fare infungibile, che possono costituire
oggetto degli obblighi relativi alla  responsabilita'  genitoriale  e
all'affidamento di minori. 
    Pertanto, nei termini sopra precisati, la  prima  questione  deve
ritenersi non fondata. 
    8.-   L'ordinanza   di   rimessione,    assumendo    la    natura
sostanzialmente penale, in virtu' dei criteri  elaborati  dalla  gia'
ricordata giurisprudenza della Corte EDU,  della  misura  contemplata
dalla disposizione censurata, dubita, inoltre,  della  compatibilita'
della stessa con l'art. 25, secondo comma, Cost., nella parte in  cui
sanziona anche  gli  «atti  che  comunque  arrechino  pregiudizio  al
minore», per violazione del canone di determinatezza in  ordine  alla
individuazione dei comportamenti sanzionabili. 
    8.1.- La questione non e' fondata. 
    Il  principio  di  legalita'  di   cui   all'invocato   parametro
costituzionale,  che  trova  applicazione  anche  per   le   sanzioni
amministrative di natura sostanzialmente punitiva  (sentenze  n.  139
del 2019 e n. 223 del 2018), non risulta violato  dalla  disposizione
censurata. 
    Il secondo comma dell'art. 709-ter cod. proc. civ.  -  come  gia'
rilevato - individua in  via  alternativa  le  condotte  che  possono
giustificare l'applicazione delle sanzioni  ivi  previste,  le  quali
possono consistere in gravi inadempienze, da riferirsi agli  obblighi
concernenti   l'esercizio   della   responsabilita'   genitoriale   o
l'affidamento dei minori;  ovvero  in  atti  che  comunque  arrechino
pregiudizio al minore; o anche in atti  che  ostacolino  il  corretto
svolgimento delle modalita' dell'affidamento. 
    La censura del Tribunale rimettente si appunta,  in  particolare,
sulla ritenuta indeterminatezza dell'espressione «atti  che  comunque
arrechino pregiudizio al minore». 
    La giurisprudenza di legittimita' - premesso che  l'art.  709-ter
cod. proc. civ. attribuisce al giudice la facolta' di applicare una o
piu' tra le misure previste dalla  stessa  norma  nei  confronti  del
genitore responsabile di gravi inadempienze o di atti  «che  comunque
arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento
delle modalita' dell'affidamento» -  ha  precisato  che  l'uso  della
congiunzione disgiuntiva evidenzia che avere ostacolato  il  corretto
svolgimento delle prescrizioni giudiziali relative alle modalita'  di
affidamento  dei  figli  e'  un  fatto  che  giustifica  di  per  se'
l'applicazione di una  o  piu'  tra  le  misure  previste,  anche  in
mancanza di un pregiudizio in concreto accertato a carico del  minore
(sentenza della Corte di cassazione n. 16980 del 2018). 
    E' possibile quindi individuare i comportamenti  sanzionabili  in
quelle condotte - da ricondurre  a  "inadempienze  o  violazioni"  di
prescrizioni dettate in un  provvedimento  giurisdizionale,  pur  non
apparentemente "gravi" - che abbiano arrecato alla  prole  un  danno,
anche non patrimoniale, accertabile e valutabile secondo gli ordinari
criteri. 
    Questa Corte ha del resto  costantemente  ribadito  il  principio
secondo cui  il  ricorso  a  un'enunciazione  sintetica  della  norma
incriminatrice,  piuttosto  che  a  un'analitica   enumerazione   dei
comportamenti sanzionati, non comporta,  di  per  se',  un  vizio  di
indeterminatezza  purche',  mediante   l'interpretazione   integrata,
sistemica e teleologica,  sia  possibile  attribuire  un  significato
chiaro, intelligibile e preciso alla previsione  normativa  (sentenze
n. 25 e n. 24 del 2019 e n. 172 del 2014). 
    E' peraltro compatibile con il principio di determinatezza l'uso,
nella formula descrittiva dell'illecito sanzionato,  di  una  tecnica
esemplificativa oppure di concetti extragiuridici diffusi o,  ancora,
di dati di esperienza comune o tecnica (cosi' gia' la sentenza n.  42
del 1972),  tanto  piu'  ove,  come  nella  fattispecie  considerata,
l'opera  maieutica  della  giurisprudenza,  specie  di  legittimita',
consenta di specificare il  precetto  legale  (sentenza  n.  139  del
2019). 
    9.- Il Tribunale  ordinario  di  Treviso  dubita,  infine,  della
legittimita' costituzionale dell'art. art.  709-ter,  secondo  comma,
numero 4), cod. proc. civ., nella parte in cui stabilisce  il  limite
massimo dell'importo della sanzione pecuniaria "amministrativa" nella
somma di euro 5.000. La censura e' posta in riferimento  all'art.  3,
primo comma, Cost., indicando come tertium comparationis  l'art.  570
cod. pen., che prevede, per una condotta che  costituisce  reato,  la
pena della multa in una misura massima pari a euro 1.032. 
    9.1.- La questione non e' fondata. 
    Il reato che viene in rilievo ai fini  della  comparazione  posta
dal giudice rimettente, non esclusa di per  se'  dall'interpretazione
conforme della disposizione censurata, nei termini sopra indicati, e'
quello avente ad oggetto la condotta costituita dall'omesso pagamento
dell'assegno di mantenimento della  prole  disposto  nell'ambito  del
giudizio di separazione. Avendo riguardo alla  normativa  applicabile
ratione temporis, il reato - come gia' rilevato - e'  quello  di  cui
all'art. 3 della  legge  n.  54  del  2006,  che  aveva  esteso  alla
separazione tale tutela penale gia' contemplata  dall'art.  12-sexies
della legge n. 898 del 1970 per il mancato pagamento dell'assegno  di
mantenimento dei figli disposto  dalla  sentenza  di  divorzio  o  di
cessazione degli effetti civili del matrimonio. 
    La pena applicabile e' quella di cui al primo comma dell'art. 570
cod. pen., al quale il predetto art.  12-sexies  rinvia  per  la  sua
determinazione (Corte di cassazione, sezioni unite  penali,  sentenza
31 gennaio-31 maggio 2013, n. 23866) e quindi la pena della multa  e'
alternativa e non congiunta a quella della reclusione. 
    Vi e' pero' pur sempre il maggiore stigma sociale che si  correla
alla comminazione di sanzioni anche solo pecuniarie,  ma  formalmente
qualificate come penali, al di la' dell'importo concreto  della  pena
irrogata, non senza considerare che  comunque  e'  prevista,  in  via
alternativa, la pena della reclusione, che  di  per  se'  connota  la
maggiore gravita' del trattamento sanzionatorio. 
    Non   sussiste   quindi    alcun    ingiustificato    trattamento
differenziato. 
    10.- Le questioni di legittimita' costituzionale,  sollevate  dal
giudice rimettente con riferimento all'art. 709-ter,  secondo  comma,
numero 4), cod. proc. civ., sono quindi tutte infondate  nei  termini
sopra indicati.