ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 7,
della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo  in  materia
di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro  e
delle  politiche  attive,  nonche'  in  materia  di  riordino   della
disciplina dei rapporti di lavoro e  dell'attivita'  ispettiva  e  di
tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di  lavoro),
e degli artt. 1, 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015,  n.  23
(Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato
a tutele crescenti, in attuazione della legge 10  dicembre  2014,  n.
183), promosso dalla Corte  d'appello  di  Napoli,  nel  procedimento
instaurato da C. R. contro B. srl, con  ordinanza  del  18  settembre
2019, iscritta al n. 39 del  registro  ordinanze  2020  e  pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  20,  prima   serie
speciale, dell'anno 2020. 
    Visto l'atto di costituzione di C. R.; 
    udito nell'udienza  pubblica  del  3  novembre  2020  il  Giudice
relatore Silvana Sciarra; 
    uditi gli avvocati Maria Matilde Bidetti e Arcangelo Zampella per
C. R.; 
    deliberato nella camera di consiglio del 4 novembre 2020. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 18 settembre 2019, iscritta al  n.  39  del
registro ordinanze 2020, la Corte d'appello di  Napoli  ha  sollevato
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 7,  della
legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe  al  Governo  in  materia  di
riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi  per  il  lavoro  e
delle  politiche  attive,  nonche'  in  materia  di  riordino   della
disciplina dei rapporti di lavoro e  dell'attivita'  ispettiva  e  di
tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e
degli artt. 1, 3 e 10 del decreto legislativo 4  marzo  2015,  n.  23
(Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato
a tutele crescenti, in attuazione della legge 10  dicembre  2014,  n.
183). 
    La Corte rimettente espone di dovere decidere sul ricorso  di  C.
R., una lavoratrice che  ha  impugnato  il  licenziamento  collettivo
intimato il 1° luglio 2016 «per  violazione  dei  criteri  di  scelta
[...]  e  comunque  per  violazione  della  procedura».  Alla   parte
ricorrente nel giudizio principale, assunta dopo il 7 marzo 2015,  si
applicherebbe la disciplina dell'art. 10 del d.lgs. n. 23  del  2015,
nella   versione   antecedente   alle   innovazioni   apportate   dal
decreto-legge 12 luglio 2018, n.  87  (Disposizioni  urgenti  per  la
dignita'  dei  lavoratori   e   delle   imprese),   convertito,   con
modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96. 
    1.1.- In primo luogo, la Corte d'appello di Napoli  ha  sollevato
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 7,  della
legge n. 183 del 2014 e degli artt. 1 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015,
quest'ultimo «sia unitariamente inteso che nel combinato disposto con
l'art. 3 del medesimo decreto legislativo», in riferimento agli artt.
3, 4, 24, 35, 38,  41  e  111  della  Costituzione.  Le  disposizioni
censurate irragionevolmente introdurrebbero un  regime  sanzionatorio
differenziato «a seconda della data di assunzione» nell'ipotesi della
«stessa violazione dei criteri di scelta, avvenuta contestualmente in
una medesima  procedura  di  licenziamento  collettivo  tra  omogenei
rapporti di lavoro». 
    Il giudice a quo denuncia, anzitutto, la violazione del principio
di eguaglianza (art. 3 Cost.). 
    Il rimettente assume che «una medesima violazione realizzatasi in
un medesimo momento, afferente ai criteri di  scelta  di  una  stessa
procedura» conduca a «forme  di  tutela  profondamente  difformi  per
misura di indennizzo, per tipologia di provvedimento e per  capacita'
dissuasiva». Solo per i rapporti di lavoro instaurati fino al 7 marzo
2015, sarebbe riconosciuta una tutela reintegratoria, «all'interno di
un modello processuale caratterizzato da efficace celerita'» e con la
«ricostituzione  integrale  della  posizione  previdenziale».  Per  i
rapporti  di  lavoro  sorti  a  decorrere  dal  7  marzo   2015,   la
reintegrazione sarebbe esclusa. 
    Il fluire del tempo non potrebbe legittimare  «l'applicazione  di
sanzioni adeguate e dissuasive per alcuni e non effettive per altri».
Ne', con riguardo a una procedura  di  licenziamento  collettivo,  la
finalita' di incentivare l'occupazione potrebbe giustificare in  modo
plausibile un trattamento difforme di vecchi e nuovi assunti. 
    Il rimettente  prospetta,  inoltre,  la  violazione  dell'art.  3
Cost., sotto un distinto profilo, correlato agli artt. 4 e  35  Cost.
Il sistema di tutela delineato dal  legislatore  sarebbe  inidoneo  a
ristorare il danno subito per effetto di un licenziamento  collettivo
illegittimo e non presenterebbe un'adeguata capacita' di  deterrenza.
Il  riconoscimento  di  una  tutela  eminentemente  indennitaria  non
salvaguarderebbe il «diritto del prestatore  alla  conservazione  del
posto di lavoro, che costituisce la fonte del proprio sostentamento». 
    Per le medesime ragioni, la disciplina in  esame  sarebbe  lesiva
anche dell'art. 41 Cost., in quanto comprometterebbe il «rispetto dei
valori  della  dignita'  umana  e  dell'utilita'  sociale,  che  deve
caratterizzare   l'iniziativa   economica   privata,   anche    nella
particolare espressione che connota il riconosciuto potere del datore
di lavoro di recedere (legittimamente) dal contratto di lavoro». 
    L'inadeguatezza caratterizzerebbe anche il profilo  previdenziale
e processuale. 
    Ad avviso del rimettente, solo  la  reintegrazione,  limitata  ai
lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, tutelerebbe  «la  pienezza
della   posizione   previdenziale».    La    disciplina    censurata,
nell'escludere la reintegrazione, contrasterebbe con l'art. 38 Cost. 
    Per  quel  che  attiene  alle  implicazioni   processuali   della
disciplina, l'eliminazione del "rito Fornero" (art. 1, commi da 47  a
68, della legge 28 giugno  2012,  n.  92,  recante  «Disposizioni  in
materia di riforma del mercato  del  lavoro  in  una  prospettiva  di
crescita»), introdotto allo scopo di garantire in maniera piu' rapida
i    diritti    del    lavoratore    illegittimamente     licenziato,
pregiudicherebbe  l'effettivita'  della  tutela  giurisdizionale.  In
contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., il nuovo modello processuale,
applicabile ai lavoratori assunti  a  decorrere  dal  7  marzo  2015,
differirebbe il ristoro del pregiudizio subito, «peraltro limitato, e
non assistito dalla ricostruzione del presupposto pensionistico». 
    1.2.- La Corte d'appello di Napoli,  in  secondo  luogo,  censura
l'art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, «sia  unitariamente  inteso  che
nel  combinato  disposto  con  l'art.  3  del  d.lgs.   23/15»,   sul
presupposto  che  la  materia  dei   licenziamenti   collettivi   sia
riconducibile alle «competenze normative dell'Unione» e che dunque si
possano invocare le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000  e
adattata a Strasburgo il  12  dicembre  2007.  L'introduzione  di  un
sistema sanzionatorio  inefficace  violerebbe  i  «vincoli  derivanti
dall'adesione all'Unione Europea e ai trattati  internazionali»,  che
presentano una «diretta incidenza costituzionale per il  tramite  del
contenuto normativo degli artt. 10 e 117, 1° co., Cost.». 
    Le disposizioni censurate, «nell'ambito di una  stessa  procedura
di licenziamento collettivo», introdurrebbero per i  soli  lavoratori
assunti a far  data  dal  7  marzo  2015  «un  sistema  sanzionatorio
peggiorativo  in  quanto  privo  dei  caratteri   di   efficacia   ed
effettivita' della sanzione, che le  fonti  internazionali  impongono
quale necessaria tutela di un  diritto  sociale  fondamentale».  Esse
violerebbero, anzitutto, gli artt. 10  e  117,  primo  comma,  Cost.,
attraverso l'interposizione dell'art. 30 CDFUE, che riconoscerebbe il
diritto di  ogni  lavoratore  alla  tutela  contro  il  licenziamento
ingiustificato,  in  conformita'  al  diritto  dell'Unione   e   alle
legislazioni e alle prassi nazionali. 
    Secondo il rimettente, la previsione citata non  rappresenterebbe
«una disposizione meramente programmatica priva di un proprio  nucleo
precettivo specifico attuabile nel  giudizio»,  ma  vincolerebbe  «la
potesta' normativa» dei singoli Stati in base agli artt.  10  e  117,
primo comma, Cost., a prescindere «dalla integrazione eteronoma degli
interventi  rimessi  ai  singoli  Stati».  Il  contenuto   precettivo
dell'art. 30 CDFUE sarebbe definito dall'art. 24 della Carta  sociale
europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio  1996,
ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30. Tale
fonte internazionale, richiamata nelle Spiegazioni  che  accompagnano
l'art. 30 CDFUE, identificherebbe la tutela del lavoratore,  in  caso
di licenziamento illegittimo, in un congruo indennizzo o in  un'altra
misura adeguata. 
    Le disposizioni in esame  determinerebbero  «un  arretramento  di
tutela», che porrebbe «l'assetto  normativo  censurato  in  conflitto
anche con gli artt. 20, 21 e 47 della Carta dei Diritti  Fondamentali
dell'Unione», rilevanti nell'ordinamento interno per il tramite degli
artt. 10  e  117,  primo  comma,  Cost.  L'applicazione  di  sanzioni
difformi per «violazioni del tutto equiparabili», nel pregiudicare «i
lavoratori piu' giovani», si porrebbe in contrasto con i principi  di
eguaglianza (art. 20 CDFUE) e di non discriminazione (art. 21 CDFUE). 
    L'apparato sanzionatorio introdotto dalle disposizioni  censurate
non sarebbe neppure compatibile con l'art. 47 CDFUE,  che  imporrebbe
di «assicurare un rimedio efficace,  effettivo  e  con  capacita'  di
inibire la violazione di un diritto fondamentale». 
    1.3.- L'art. 10 del d.lgs. n. 23  del  2015,  «sia  unitariamente
inteso che nel combinato disposto con l'art.  3  del  d.lgs.  23/15»,
sarebbe lesivo, infine, degli artt. 76 e  117,  primo  comma,  Cost.,
«nella parte in  cui  ha  introdotto  in  assenza  di  una  specifica
attribuzione normativa e comunque in violazione dei  principi  e  dei
criteri direttivi della legge delega,  una  disciplina  sanzionatoria
per i licenziamenti collettivi, statuendo un modello sanzionatorio in
contrasto con i principi e i diritti fondamentali dell'Unione  e  con
le Convenzioni internazionali». 
    L'estensione   ai   licenziamenti    collettivi    del    sistema
sanzionatorio   «previsto   per    i    "licenziamenti    economici"»
confliggerebbe «con l'oggetto, i principi e i criteri direttivi della
legge  che  ha  conferito  al  Governo  il   temporaneo   potere   di
legiferare».  La   legge   di   delega   riguarderebbe   soltanto   i
licenziamenti individuali, senza estendersi alla diversa materia  dei
licenziamenti collettivi, come dimostrerebbero i lavori  parlamentari
(sedute del 17 febbraio 2015 della Commissione  lavoro  della  Camera
dei  deputati  e  dell'11  febbraio  2015  della  Commissione  lavoro
pubblico e privato, previdenza sociale del Senato della Repubblica). 
    Una delega destinata a  incidere  «profondamente  su  materie  di
rilevanza dell'Unione» avrebbe richiesto  «una  chiara  ed  esplicita
enunciazione». Per garantire «il raccordo tra l'ordinamento  italiano
e  i  processi  normativi   dell'UE»,   sarebbe   necessaria   quella
«articolata procedura di elaborazione», prevista dall'art.  30  della
legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali  sulla  partecipazione
dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e  delle
politiche dell'Unione europea). 
    La disciplina in esame si porrebbe,  inoltre,  in  contrasto  con
l'art. 76 Cost.  anche  sotto  un  differente  profilo,  strettamente
connesso con la violazione dell'art. 117, primo  comma,  Cost.  Essa,
nell'apprestare un «modello inadeguato di tutela», violerebbe  l'art.
1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 e l'obbligo ivi prescritto di
rispettare  il  diritto  dell'Unione   europea   e   le   convenzioni
internazionali. 
    2.- Con atto depositato il 15 maggio 2020, si  e'  costituita  C.
R.,  parte  ricorrente  nel  giudizio  principale,   e   ha   chiesto
l'accoglimento  delle  questioni   di   legittimita'   costituzionale
sollevate dalla Corte d'appello di Napoli. 
    Le questioni in esame sarebbero ammissibili,  perche'  suffragate
da una motivazione adeguata in  merito  alla  rilevanza  e  alla  non
manifesta  infondatezza  e  accompagnate  dalla  formulazione  di  un
petitum inequivocabile. 
    Esse, inoltre, sarebbero fondate,  anzitutto  in  riferimento  ai
«principi  direttamente  posti  dalla  Costituzione  italiana»,   che
assicurano una «tutela piu' ampia e completa». 
    La  disciplina  censurata  sarebbe  lesiva   del   principio   di
eguaglianza (art. 3 Cost.). 
    A fronte della violazione  dei  criteri  di  scelta,  nell'ambito
della medesima procedura coesisterebbero forme di tutela  quanto  mai
eterogenee, distinte in base alla data dell'assunzione. Ai lavoratori
assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, sarebbe riconosciuta una tutela
meramente indennitaria, con esclusione  della  reintegrazione  e  del
pieno ripristino della posizione  previdenziale,  garantiti  ai  soli
lavoratori assunti in epoca anteriore. Ne' il fluire del tempo ne' la
finalita'  di  incentivare  l'occupazione,   estranea   all'area   di
licenziamenti collettivi, potrebbero  giustificare  la  contemporanea
applicazione di due regimi diversificati a soggetti che si trovano in
una identica situazione di fatto. 
    Una sanzione di tipo meramente indennitario non  rappresenterebbe
un  adeguato  ristoro  del   pregiudizio   sofferto   e   un'efficace
dissuasione, in contrasto  con  gli  artt.  3,  4  e  35  Cost.,  che
impongono di  assicurare  piena  tutela  ai  diritti  del  lavoratore
illegittimamente licenziato. 
    Sarebbe violato  anche  l'art.  38  Cost.  Al  venir  meno  della
contribuzione obbligatoria,  correlata  alla  perdita  del  posto  di
lavoro,  non  potrebbe  sopperire  la  contribuzione  figurativa,  di
importo  minore,  associata  alla  Nuova  assicurazione  sociale  per
l'impiego (NASpI). 
    L'eliminazione del  "rito  Fornero"  determinerebbe  «un  ritardo
nella erogazione di un indennizzo [...] gia' decurtato ab origine»  e
vanificherebbe    quel     simultaneus     processus,     «necessario
particolarmente per le violazioni dei criteri  di  scelta».  In  base
alla data di assunzione, difatti, muterebbero i riti applicabili, con
violazione dell'art. 24 Cost. 
    Il  descritto  sistema  sanzionatorio,  in   quanto   inefficace,
colliderebbe con l'art. 30 CDFUE, che si  ispira  all'art.  24  della
Carta sociale europea. Le decisioni del Comitato europeo dei  diritti
sociali, nell'interpretare tale ultima previsione anche con  riguardo
alla    disciplina    italiana    dei    licenziamenti    collettivi,
attribuirebbero rilievo primario alla tutela specifica. 
    La compresenza di regimi sanzionatori sperequati in una procedura
unitaria si porrebbe in contrasto anche con i principi di eguaglianza
(art. 20 CDFUE) e di non discriminazione (art. 21 CDFUE). 
    La disciplina dettata dall'art. 10 del  d.lgs.  n.  23  del  2015
lederebbe, da ultimo, l'art. 76 Cost. La legge n. 183  del  2014  non
avrebbe conferito al legislatore delegato il potere  di  regolare  la
materia  dei  licenziamenti  collettivi,  che  non  potrebbe   essere
ricondotta all'ambito dei licenziamenti economici e sarebbe da sempre
assoggettata   a   «una   disciplina   differenziata   rispetto    ai
licenziamenti individuali». 
    2.1.- In vista dell'udienza, la parte ha depositato  una  memoria
illustrativa, per ribadire  le  conclusioni  formulate  nell'atto  di
costituzione. 
    La parte osserva, in linea preliminare, che, con l'ordinanza  del
4 giugno 2020 (causa C-32/20, TJ  contro  Balga  srl),  la  Corte  di
giustizia   dell'Unione   europea   ha   dichiarato    manifestamente
irricevibili le questioni pregiudiziali poste dalla  Corte  d'appello
di Napoli. 
    A sostegno della fondatezza  delle  restanti  censure,  la  parte
richiama la decisione  del  Comitato  europeo  dei  diritti  sociali,
pubblicata l'11 febbraio 2020, sul  reclamo  collettivo  n.  158/2017
proposto dalla Confederazione generale  italiana  del  lavoro  (CGIL)
contro l'Italia, e invoca l'autorevolezza peculiare di tali decisioni
e la necessita' di tenerne conto (si richiama la sentenza  di  questa
Corte n. 194 del 2018). 
    Il Comitato, in particolare, avrebbe ritenuto  incompatibile  con
l'art. 24 della Carta sociale europea un sistema di tutela  meramente
indennitaria, con  la  predeterminazione  di  un  limite  massimo,  e
avrebbe sottolineato che un rimedio risarcitorio potrebbe  costituire
una   adeguata   forma   di   riparazione,   in   alternativa    alla
reintegrazione,  soltanto  se  assicurasse  l'integrale  ristoro  del
pregiudizio derivante dal licenziamento illegittimo. 
    La parte ha rilevato che il fulcro delle censure «non e' tanto, e
non e' solo, la diversita' di  regimi  applicati  contestualmente  in
ragione del tempo», ma «la diversa portata protettiva dei due  rimedi
globalmente considerati», quello meramente  indennitario,  da  ultimo
introdotto con le disposizioni censurate, e quello reintegratorio, il
solo efficace e dissuasivo. 
    Sarebbe,  inoltre,  irragionevole  la   scelta   legislativa   di
accordare  la  tutela  reintegratoria  per  la   sola   ipotesi   del
licenziamento orale e di negarla per quella, altrettanto  grave,  del
licenziamento intimato in violazione dei criteri di scelta,  definiti
dalla legge o dalla contrattazione  collettiva,  nel  rispetto  delle
previsioni  inderogabili  della  legge  e   dei   principi   di   non
discriminazione e di razionalita'. Alla  violazione  dei  criteri  di
scelta  dovrebbe  essere  ricondotta   anche   la   fattispecie   del
licenziamento collettivo «intimato in violazione delle percentuali di
manodopera femminile e  di  lavoratori  appartenenti  alle  categorie
protette». 
    Alla luce di  tali  rilievi,  la  parte  auspica  «una  pronuncia
ablativa  o  manipolativa»  di  questa  Corte,   che   riconduca   ad
legitimitatem le previsioni censurate. 
    3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri non  e'  intervenuto
in giudizio. 
    All'udienza del 3 novembre 2020, la parte costituita ha insistito
per  l'accoglimento  delle  conclusioni  rassegnate   negli   scritti
difensivi. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe (reg.  ord.  n.  39  del
2020),  la  Corte  d'appello  di  Napoli  dubita  della  legittimita'
costituzionale - per violazione degli artt. 3, 4,  24,  35,  38,  41,
111, 10 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi due  in
relazione agli artt.  20,  21,  30  e  47  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata  a  Nizza  il  7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 e  all'art.
24 della Carta  sociale  europea,  riveduta,  con  annesso,  fatta  a
Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge
9 febbraio 1999, n. 30 -,  dell'art.  1,  comma  7,  della  legge  10
dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli
ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e  delle  politiche
attive, nonche' in materia di riordino della disciplina dei  rapporti
di lavoro e dell'attivita' ispettiva  e  di  tutela  e  conciliazione
delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 1, 3 e  10
del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in  materia
di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele  crescenti,  in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183). 
    Le questioni sono sorte in  un  giudizio  di  appello  avente  ad
oggetto l'impugnazione di un licenziamento collettivo. 
    Il rimettente afferma  di  dover  applicare  l'art.  10,  secondo
periodo,  del  d.lgs.  n.  23  del  2015.  Tale   disposizione,   per
l'inosservanza dei criteri di scelta che il giudice a quo ritiene  di
ravvisare  nel  caso  di  specie,  richiama  a  sua  volta  quel  che
stabilisce l'art. 3, comma 1, del medesimo decreto legislativo per  i
licenziamenti intimati in difetto di giustificato motivo, oggettivo o
soggettivo, o di giusta causa. 
    Il citato art. 3, comma 1, statuisce  che  il  giudice  «dichiara
estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e  condanna
il datore di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata  a
contribuzione  previdenziale  di  importo  pari  a   due   mensilita'
dell'ultima  retribuzione  di  riferimento   per   il   calcolo   del
trattamento di fine rapporto  per  ogni  anno  di  servizio»,  in  un
intervallo originariamente compreso tra un minimo  di  quattro  e  un
massimo di ventiquattro mensilita'. 
    Con una motivazione che supera il vaglio di non  implausibilita',
il giudice a quo argomenta che, per un licenziamento intimato  il  1°
luglio 2016, non viene in rilievo  l'incremento  dell'indennita'  nel
minimo  (sei  mensilita')  e  nel  massimo  (trentasei   mensilita'),
successivamente disposto dall'art. 3, comma 1, del  decreto-legge  12
luglio  2018,  n.  87  (Disposizioni  urgenti  per  la  dignita'  dei
lavoratori e delle imprese),  convertito,  con  modificazioni,  nella
legge 9 agosto 2018, n. 96. 
    L'art.  1  del  d.lgs.  n.  23  del  2015  individua  nella  data
dell'assunzione il discrimine temporale tra la  vecchia  e  la  nuova
disciplina, applicabile ai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo
2015 o per  i  quali  a  decorrere  dal  7  marzo  2015  l'originario
contratto a tempo determinato sia stato  convertito  in  contratto  a
tempo indeterminato. 
    Quanto alla disciplina che opera per i lavoratori assunti fino al
7 marzo 2015, a regolare le conseguenze della violazione dei  criteri
di scelta interviene l'art. 5, comma 3, terzo periodo, della legge 23
luglio  1991,  n.  223  (Norme  in  materia  di  cassa  integrazione,
mobilita', trattamenti di  disoccupazione,  attuazione  di  direttive
della Comunita' europea, avviamento al lavoro ed  altre  disposizioni
in materia di mercato del lavoro), cosi' come modificato dall'art. 1,
comma 46, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in  materia
di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita). 
    La  previsione  citata  dispone  che  il   giudice   annulli   il
licenziamento e condanni il datore di lavoro alla reintegrazione  nel
posto di lavoro e al pagamento  di  un'indennita'  risarcitoria,  non
superiore a dodici mensilita', «commisurata  all'ultima  retribuzione
globale  di  fatto  dal  giorno  del  licenziamento  sino  a   quello
dell'effettiva  reintegrazione,  dedotto  quanto  il  lavoratore   ha
percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di  altre
attivita'  lavorative,  nonche'  quanto  avrebbe   potuto   percepire
dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione». 
    Le censure si incentrano sulla  complessiva  inadeguatezza  della
tutela, esclusivamente indennitaria,  ora  prevista  nell'ipotesi  di
licenziamenti  collettivi  intimati  in  violazione  dei  criteri  di
scelta. Le  questioni  possono  essere  aggregate  in  alcuni  nuclei
essenziali, nei termini di seguito esposti. 
    1.1.- Le disposizioni censurate contrasterebbero, anzitutto,  con
l'art. 3 Cost., in quanto, nel contesto della medesima  procedura  di
licenziamento   collettivo,   introdurrebbero   «un    ingiustificato
differente  regime  sanzionatorio»  nell'ipotesi  di  violazione  dei
criteri di scelta. 
    Pur in presenza di «identiche violazioni relative  a  fattispecie
del  tutto  omogenee,  intervenute  simultaneamente  nella   medesima
procedura comparativa», sarebbero previsti  due  regimi  sanzionatori
«del tutto disomogenei per livelli di tutela»,  con  una  conseguente
«irragionevole disparita' di trattamento». 
    Il fluire del tempo non giustificherebbe una tale disomogeneita',
nell'ambito di un medesimo licenziamento collettivo, ne' si  potrebbe
invocare la finalita' di «favorire l'ingresso nel  mondo  del  lavoro
dei nuovi assunti  attraverso  una  flessibilizzazione  dell'uscita»,
finalita'  che  di  per  se'  si  contrappone  alla  disciplina   dei
licenziamenti collettivi. 
    Il giudice a quo denuncia, inoltre, il  contrasto  con  l'art.  3
Cost., sotto un distinto profilo, correlato con  gli  artt.  4  e  35
Cost. 
    Il legislatore avrebbe attuato un irragionevole bilanciamento tra
gli interessi di rilievo costituzionale, coinvolti  nella  disciplina
dei licenziamenti collettivi. I lavoratori assunti a decorrere dal  7
marzo 2015  vedrebbero  fortemente  compresso  il  diritto,  tutelato
costituzionalmente, a restare occupati, mentre un'ampia flessibilita'
sarebbe riconosciuta al datore di lavoro  nell'effettuare  scelte  di
riduzione del personale. 
    Il sistema cosi' congegnato,  «del  tutto  svincolato  dal  danno
effettivo» e parametrato alla retribuzione utile ai fini del  calcolo
del  trattamento  di  fine  rapporto  (TFR),  che  la  contrattazione
collettiva potrebbe perfino  azzerare,  sarebbe  privo  di  efficacia
dissuasiva e non contribuirebbe a orientare il datore di lavoro verso
un esercizio responsabile del potere di recesso. 
    Le medesime considerazioni  inducono  il  rimettente  a  ritenere
violato anche l'art. 41 Cost.: la disciplina in esame sacrificherebbe
i «valori della dignita'  umana  e  dell'utilita'  sociale»,  che  il
datore di lavoro non puo' ignorare, neanche quando esercita la scelta
di ridurre il personale occupato. 
    L'inadeguatezza della tutela si coglierebbe  anche  guardando  al
profilo previdenziale, come pure a quello processuale. 
    Per il profilo previdenziale, la Corte  rimettente  sostiene  che
solo la reintegrazione  assicura  «[i]l  ripristino  della  posizione
previdenziale effettiva». La  tutela  indennitaria  implicherebbe  la
«perdita della posizione contributiva», che  non  sarebbe  compensata
dal sistema degli ammortizzatori sociali. Vi sarebbe dunque contrasto
con l'art. 38 Cost. 
    Nel considerare il profilo processuale, le censure si  incentrano
sulla scelta del legislatore di eliminare lo speciale e  piu'  celere
"rito Fornero" (art. 1, commi da 47 a  68,  della  legge  n.  92  del
2012), applicabile «alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa
dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 della legge
20 maggio 1970, n. 300,  e  successive  modificazioni,  anche  quando
devono essere risolte  questioni  relative  alla  qualificazione  del
rapporto di lavoro». 
    Le controversie in esame sarebbero ora trattate secondo  il  meno
spedito rito ordinario di cognizione. Il legislatore avrebbe  violato
gli artt. 24 e 111 Cost., rendendo «meno efficace, perche'  privo  di
immediatezza», il rimedio giurisdizionale. 
    1.2.- L'inefficace sistema sanzionatorio infrangerebbe anche  gli
«obblighi derivanti  dall'adesione  ai  Trattati  dell'Unione»  e  la
«normativa interposta», in particolare la Carta sociale europea,  che
prevedono sanzioni effettive «quale necessaria tutela di  un  diritto
sociale fondamentale». 
    La Corte d'appello di  Napoli  muove  dal  presupposto  che,  per
effetto della direttiva 98/59/CE del Consiglio del  20  luglio  1998,
concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli  Stati  membri
in materia di licenziamenti collettivi, tale  disciplina  sia  «ormai
"attratta"  nelle  competenze   concretamente   attuate   dall'Unione
Europea» e che tanto basti per ricondurla nell'ambito di applicazione
della CDFUE. 
    Le previsioni censurate  lederebbero  il  diritto  a  una  tutela
effettiva, efficace, adeguata e  dissuasiva  contro  i  licenziamenti
ingiustificati, in violazione degli artt.  10  e  117,  primo  comma,
Cost., in relazione all'art. 30  CDFUE  e  all'art.  24  della  Carta
sociale europea. 
    Secondo la Corte rimettente, l'art. 30 CDFUE non rappresenterebbe
«una disposizione meramente programmatica priva di un proprio  nucleo
precettivo specifico attuabile nel giudizio», ma porrebbe «un vincolo
nei confronti del Legislatore nazionale», poiche', interpretato  alla
luce dell'art. 24 della Carta sociale europea, dovrebbe comportare un
congruo indennizzo o altre misure adeguate nel caso di  licenziamento
ingiustificato. 
    Il giudice a quo denuncia il contrasto con gli  art.  10  e  117,
primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20 e 21 CDFUE, in  quanto
«un sistema sanzionatorio, suscettibile di  generare  per  violazioni
del tutto equiparabili  una  sostanziale  difformita'  di  disciplina
rispetto alla misura applicabile in  capo  al  soggetto  responsabile
dell'illecito»  rischierebbe  di  penalizzare  «i   lavoratori   piu'
giovani» e di introdurre disparita' di trattamento. 
    Gli artt. 10 e 117, primo comma, Cost.  sarebbero  violati  anche
per il tramite dell'art. 47 CDFUE, che sancisce il diritto  a  rimedi
adeguati, poiche' il legislatore non avrebbe assicurato  «un  rimedio
efficace, effettivo e con capacita' di inibire la  violazione  di  un
diritto fondamentale». 
    1.3.- La scelta del legislatore delegato di  estendere  il  nuovo
regime sanzionatorio anche ai  licenziamenti  collettivi  violerebbe,
infine, l'art. 76 Cost. 
    La Corte d'appello di Napoli denuncia il contrasto con l'oggetto,
i principi e i criteri direttivi della legge delega che, nel citare i
licenziamenti economici, farebbe riferimento alle  sole  «ipotesi  di
recesso individuale per motivo oggettivo». 
    L'inadeguato  modello  di  tutela   delineato   dal   legislatore
contrasterebbe con l'art. 76 Cost. e con  l'art.  117,  primo  comma,
Cost., per violazione dei criteri direttivi  enunciati  dall'art.  1,
comma 7, della legge n. 183 del 2014, che  vincolano  il  legislatore
delegato al «puntuale rispetto dei principi e  dei  diritti  sanciti»
dalla   normativa   dell'Unione   europea   e    dalle    convenzioni
internazionali. 
    2.- Occorre preliminarmente evidenziare taluni  tratti  peculiari
che contraddistinguono la vicenda oggi sottoposta al vaglio di questa
Corte e  dare  conto  delle  novita'  sopravvenute  all'ordinanza  di
rimessione. 
    Con riguardo alla violazione delle norme della Carta di Nizza, il
giudice a quo  ha  ritenuto  di  proporre  contemporaneamente  rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione europea e incidente
di costituzionalita'. La questione proposta in via  pregiudiziale  si
prefigge, nell'ottica del doppio rinvio che il rimettente  esperisce,
di chiarire il «contenuto della Carta dei Diritti fondamentali»,  per
assumere   poi   «una   diretta    rilevanza    nel    giudizio    di
costituzionalita'» 
    2.1.- Come questa Corte ha ribadito di recente (sentenze n. 63  e
n. 20 del 2019 e ordinanze n. 182  del  2020  e  n.  117  del  2019),
l'attuazione di un sistema integrato di garanzie ha il suo  caposaldo
nella   leale   e   costruttiva   collaborazione   tra   le   diverse
giurisdizioni,  chiamate  -  ciascuna  per  la  propria  parte  -   a
salvaguardare i diritti fondamentali nella prospettiva di una  tutela
sistemica e non frazionata. 
    A  tale  riguardo,  non  e'  senza  significato  che  l'art.  19,
paragrafo 1,  del  Trattato  sull'Unione  europea  (TUE),  firmato  a
Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993,
consideri nel medesimo  contesto  -  cosi'  da  rivelarne  il  legame
inscindibile  -  il  ruolo  della  Corte  di  giustizia,  chiamata  a
salvaguardare  «il  rispetto  del  diritto   nell'interpretazione   e
nell'applicazione dei trattati» (comma 1), e il  ruolo  di  tutte  le
giurisdizioni nazionali, depositarie del compito  di  garantire  «una
tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto
dell'Unione» (comma 2). 
    2.2.- A seguito del  rinvio  pregiudiziale  avviato  dall'odierno
rimettente, si  e'  pronunciata  per  prima  la  Corte  di  giustizia
dell'Unione europea che, con  ordinanza  del  4  giugno  2020  (causa
C-32/20,  TJ  contro  Balga  srl),   ha   dichiarato   manifestamente
irricevibili le questioni proposte. 
    Tale decisione e' incentrata sull'assenza «di un collegamento tra
un atto di diritto dell'Unione e la misura nazionale  in  questione»,
collegamento richiesto dall'art. 51,  paragrafo  1,  della  Carta  di
Nizza. Esso non si identifica nella mera  affinita'  tra  le  materie
prese in esame e nell'indiretta influenza che  una  materia  esercita
sull'altra (punto 26). 
    In consonanza con tali indicazioni, anche questa Corte opera  una
rigorosa  ricognizione  dell'ambito  di  applicazione   del   diritto
dell'Unione europea ed e' costante nell'affermare che la  CDFUE  puo'
essere invocata,  quale  parametro  interposto,  in  un  giudizio  di
legittimita' costituzionale soltanto quando la fattispecie oggetto di
legislazione interna sia disciplinata dal diritto  europeo  (sentenza
n. 194 del 2018, punto 8. del  Considerato  in  diritto  e,  gia'  in
precedenza, sentenza n. 80 del 2011, punto 5.5.  del  Considerato  in
diritto). 
    La direttiva 98/59/CE istituisce una procedura  di  consultazione
dei rappresentanti dei lavoratori e  di  informazione  dell'autorita'
pubblica competente, al fine di limitare il ricorso a  riduzioni  del
personale e attenuarne le conseguenze  mediante  «misure  sociali  di
accompagnamento   intese   in    particolare    a    facilitare    la
riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati» (Corte
di giustizia, ordinanza 4 giugno 2020, gia' citata, punto 30). Questa
fonte di diritto secondario ha dato luogo, per la natura  procedurale
delle disposizioni ora richiamate, a una  «armonizzazione  parziale»,
che  tuttavia  «non  si  propone  di  realizzare  un  meccanismo   di
compensazione economica generale a livello  dell'Unione  in  caso  di
perdita  del  posto  di  lavoro  ne'  armonizza  le  modalita'  della
cessazione definitiva delle attivita' di un'impresa» (punto 31). 
    La violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare,
cosi' come le modalita' adottate dal datore di lavoro nel dar seguito
ai licenziamenti, sono materie che, nella ricostruzione fornita dalla
Corte di Lussemburgo, non si collegano con gli obblighi di notifica e
di consultazione derivanti dalla direttiva 98/59  CE  e  restano,  in
quanto tali, affidate alla competenza degli Stati membri (punto 32). 
    Da questi rilievi discende  che  la  situazione  giuridica  della
ricorrente nel procedimento principale «non  rientra  nell'ambito  di
applicazione del diritto dell'Unione» e che  l'interpretazione  delle
disposizioni della Carta dunque «non ha alcun rapporto con  l'oggetto
del procedimento principale» (punto 23). 
    3.- Sulle vicende ora richiamate questa Corte non ha  ragione  di
esprimersi.    Sussistono,    infatti,    molteplici    profili    di
inammissibilita' da esaminare d'ufficio. 
    4.- Il primo di  tali  profili  attiene  alla  descrizione  della
fattispecie concreta e alla motivazione in ordine al requisito  della
rilevanza. 
    4.1.- La parte ricorrente nel giudizio principale ha impugnato il
licenziamento collettivo, intimato il 1° luglio 2016, «per violazione
dei criteri di scelta ai sensi  dell'art.  5  della  legge  223/91  e
comunque per violazione della procedura» (punto 4.), come  confermano
anche le argomentazioni svolte nell'atto di costituzione della parte. 
    La Corte rimettente  riferisce  di  dover  decidere  sull'appello
proposto  contro  la  sentenza  di  primo  grado,  che  ha  rigettato
l'impugnazione  del  licenziamento  collettivo  «per  genericita'  ed
infondatezza dei motivi» (punto 3.). 
    In  ordine  alla  rilevanza,  il  giudice  a  quo  si  limita   a
puntualizzare che un rapporto di lavoro sorto dopo il 7 marzo 2015 e'
assoggettato alla disciplina dell'art. 3 del d.lgs. n. 23  del  2015,
che regola le «conseguenze sanzionatorie  nel  caso  di  accoglimento
delle domande» (punto 8.). 
    La declaratoria di  illegittimita'  costituzionale  implicherebbe
«un cambiamento del quadro normativo assunto dal giudice  rimettente»
e, in  tale  prospettiva,  troverebbe  conferma  la  rilevanza  delle
questioni  proposte,  che  il  giudice  a  quo  sarebbe  chiamato   a
illustrare con «una motivazione non implausibile» (punto 7.). 
    4.2.-  La  rilevanza  del  dubbio  di  costituzionalita'  non  si
identifica nell'utilita' concreta di cui le parti in causa potrebbero
beneficiare (sentenza n. 174 del 2019, punto 2.1. del Considerato  in
diritto). Essa presuppone la necessita' di applicare la  disposizione
censurata nel percorso argomentativo che conduce alla decisione e  si
riconnette all'incidenza della pronuncia di questa Corte su qualsiasi
tappa di tale percorso. 
    4.3.- A fronte di un'impugnazione che investe l'inosservanza  dei
criteri di scelta e, in via subordinata, il  mancato  rispetto  delle
procedure, la Corte d'appello di Napoli non illustra in alcun modo le
ragioni che inducono a  privilegiare  l'inquadramento  della  vicenda
controversa nella prima delle  fattispecie  dedotte  nel  ricorso  e,
pertanto,  a  censurare   la   relativa   disciplina   sanzionatoria,
comparandola, quanto a efficacia dissuasiva, a quella antecedente. 
    E' proprio con riguardo alla violazione dei  criteri  di  scelta,
difatti, che appare netta la  cesura  tra  la  tutela  reintegratoria
assicurata dall'art. 5, comma 3, terzo periodo, della  legge  n.  223
del 1991 e la tutela meramente indennitaria introdotta  dall'art.  10
del d.lgs. n. 23 del 2015. Per  la  violazione  delle  procedure,  al
contrario, non si riscontra una apprezzabile discontinuita',  poiche'
anche la disciplina anteriore (art.  5,  comma  3,  secondo  periodo,
della  legge  n.  223  del  1991)  contempla  una  tutela   meramente
indennitaria, pur se diversamente configurata. 
    L'onere di motivazione si rivela, peraltro, ancor piu'  pregnante
in un giudizio di  appello,  chiamato  a  sindacare,  sulla  base  di
specifici motivi di gravame, la correttezza di una decisione di primo
grado che ha rigettato integralmente il ricorso. 
    La Corte rimettente non offre alcun ragguaglio sulle ragioni  che
fondano l'illegittimita' del licenziamento collettivo per  violazione
dei  criteri  di  scelta  e  inducono,  dunque,  a  disattendere   le
valutazioni di segno contrario espresse dal giudice di primo grado. 
    Con riguardo  alla  disciplina  sanzionatoria  dei  licenziamenti
individuali viziati sotto il profilo sostanziale (sentenza n. 194 del
2018) o dal punto di vista formale o procedurale (sentenza n. 150 del
2020), questa Corte ha potuto  scrutinare  il  merito  delle  censure
anche alla luce dell'argomentazione  esaustiva  svolta  in  punto  di
rilevanza  dai  giudici  a  quibus,  che  hanno  di  volta  in  volta
illustrato il ricorrere di una ipotesi di illegittimita', sostanziale
o formale, dei licenziamenti impugnati e la necessita'  di  applicare
la corrispondente disciplina di protezione. 
    Pur consapevole del fatto  che  il  dubbio  di  costituzionalita'
verte sulle conseguenze  sanzionatorie  previste  solo  nel  caso  di
accoglimento delle domande (punto  8  citato),  l'odierno  rimettente
trascura di descrivere la fattispecie concreta e di allegare elementi
idonei a corroborare l'accoglimento dell'impugnazione  in  virtu'  di
una violazione dei criteri di scelta, gia'  esclusa  dal  giudice  di
prime cure. 
    L'applicazione della disciplina sanzionatoria, che il  giudice  a
quo  sospetta  di   incostituzionalita',   richiede   preventivamente
l'individuazione  dei  vizi  del   licenziamento   collettivo.   Tale
presupposto   riveste   un   rilievo   cruciale   alla    luce    sia
dell'alternativa che la parte delinea tra inosservanza dei criteri di
scelta e inosservanza della procedura,  sia  dell'intervento  di  una
pronuncia di primo grado che ha  escluso  ogni  vizio  dell'impugnato
licenziamento collettivo. 
    Su tale ineludibile antecedente  logico,  il  rimettente  non  si
sofferma e omette, anche solo con un'argomentazione non implausibile,
di   avvalorare   la   rilevanza    dei    prospettati    dubbi    di
costituzionalita'. 
    Tali  lacune  nella  descrizione   della   fattispecie   concreta
impediscono, dunque, a questa Corte di valutare  la  rilevanza  delle
questioni sollevate. 
    5.- A determinare l'inammissibilita'  delle  questioni  concorre,
inoltre, l'incertezza in ordine  all'intervento  richiesto  a  questa
Corte. 
    5.1.- Dalla formulazione delle censure, non e'  dato  comprendere
se il rimettente prefiguri l'integrale caducazione dell'art.  10  del
d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui sanziona la violazione  dei
criteri di scelta,  o  una  pronuncia  sostitutiva,  che  allinei  il
contenuto  precettivo  di  tale  previsione  alle  soluzioni  dettate
dall'art. 5, comma 3, terzo periodo, della legge  n.  223  del  1991,
come ridefinito dall'art. 1, comma 46, della legge n. 92 del 2012. 
    E'  la  stessa  parte  ricorrente  nel  giudizio  principale  che
auspica,  nella  memoria  illustrativa  depositata   in   prossimita'
dell'udienza,  «una  pronuncia  ablativa  o  manipolativa»,  con  una
indicazione perplessa, di per  se'  rivelatrice  dell'ambiguita'  del
petitum. 
    Ne' spetta a questa Corte sciogliere l'alternativa descritta,  in
difetto di indicazioni univoche da parte del rimettente. 
    5.2.- Egualmente irrisolta permane  l'alternativa,  che  comunque
investe le scelte eminentemente discrezionali del legislatore, tra il
ripristino  puro  e  semplice  della  tutela  reintegratoria   o   la
rimodulazione della  tutela  indennitaria,  in  una  piu'  accentuata
chiave deterrente. 
    Dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 150  del  2020,
punto 9. del Considerato in diritto, n. 194 del 2018, punto 9.2.  del
Considerato in diritto, e n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in
diritto) e dalle stesse fonti internazionali evocate  dal  giudice  a
quo (art. 24 della Carta sociale europea), si  ricava,  difatti,  che
molteplici possono essere i rimedi idonei a  garantire  una  adeguata
compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato. 
    Sia la tutela reintegratoria sia la tutela  indennitaria  possono
essere diversamente modulate e ampio e' il margine  di  apprezzamento
che spetta al legislatore nell'attuazione dei diritti  sanciti  dagli
artt. 4 e 35 Cost. e, in una prospettiva  convergente,  dall'art.  24
della Carta sociale europea. 
    A fronte di una vasta gamma di soluzioni, la Corte rimettente non
enuncia in termini nitidi l'intervento idoneo a  sanare  le  numerose
sperequazioni censurate, sulla base di precisi punti  di  riferimento
gia' presenti nella trama normativa. 
    Anche per tali ulteriori ragioni, le  questioni  di  legittimita'
costituzionale devono essere dichiarate inammissibili. 
    6.-  Tali   profili   assorbono   ogni   ulteriore   ragione   di
inammissibilita'.