ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 11, commi 1,
lettera a), e 4, del decreto legislativo 31  dicembre  2012,  n.  235
(Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita'  e  di
divieto di ricoprire cariche elettive  e  di  Governo  conseguenti  a
sentenze definitive di condanna per  delitti  non  colposi,  a  norma
dell'articolo 1, comma 63, della legge  6  novembre  2012,  n.  190),
promossi dal Tribunale ordinario  di  Genova  con  ordinanza  del  24
settembre 2020, dal Tribunale ordinario di Catania con ordinanza  del
25 novembre 2020 e dal Tribunale ordinario di  Genova  con  ordinanza
del 24 settembre 2020, iscritte, rispettivamente, ai numeri 205 e 207
del registro ordinanze 2020 e al n. 10 del registro ordinanze 2021, e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri  5  e  6,
prima serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visti l'atto di costituzione  di  G.  G.,  nonche'  gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udita nell'udienza pubblica del 19 ottobre 2021 e nella camera di
consiglio del 20 ottobre 2021 la Giudice relatrice Daria de Pretis; 
    uditi l'avvocato Daniele Granara per G.  G.  e  l'avvocato  dello
Stato Agnese Soldani per il Presidente del Consiglio dei ministri, la
seconda in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del  decreto
del Presidente della Corte del 18 maggio 2021; 
    deliberato nella camera di consiglio del 20 ottobre 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta al n.  205  del
registro  ordinanze  2020,  il  Tribunale  ordinario  di  Genova   ha
sollevato, in riferimento agli artt. 24  e  113  della  Costituzione,
questioni di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  11,  commi  1,
lettera a), e 4, del decreto legislativo 31 dicembre  2012,  n.  235,
recante   «Testo   unico   delle   disposizioni   in    materia    di
incandidabilita' e di divieto di  ricoprire  cariche  elettive  e  di
Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non
colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della  legge  6  novembre
2012, n. 190» (di seguito, anche: "legge Severino"). 
    Le disposizioni censurate  dispongono,  rispettivamente:  «[s]ono
sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell'articolo 10
[...] coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per  uno
dei delitti indicati all'articolo 10, comma 1, lettere a), b)  e  c)»
(comma 1, lettera  a);  e  «[l]a  sospensione  cessa  di  diritto  di
produrre effetti decorsi diciotto mesi. Nel  caso  in  cui  l'appello
proposto  dall'interessato  avverso  la  sentenza  di  condanna   sia
rigettato anche con sentenza non  definitiva,  decorre  un  ulteriore
periodo di sospensione che cessa di  produrre  effetti  trascorso  il
termine di dodici mesi dalla sentenza di rigetto» (comma 4). 
    1.1.- Il rimettente descrive la controversia oggetto del processo
principale nei seguenti termini. 
    Con decreto del 31 maggio 2019 il Prefetto di Genova ha accertato
nei confronti di G. G., ai sensi dell'art. 11, comma 5, del d.lgs. n.
235 del 2012, la sospensione di diritto dalla carica di  sindaco  del
Comune di C., in conseguenza della sentenza  non  definitiva  con  la
quale il 30 maggio 2019 il Tribunale di Genova lo ha condannato  alla
pena della reclusione per il reato continuato di  peculato,  commesso
tra il 2010 e il 2012, nella qualita' di consigliere regionale  della
Regione Liguria. 
    Con ricorso presentato al Tribunale di Genova nei  confronti  del
Ministro dell'interno e del Prefetto di Genova, ai sensi dell'art. 22
del decreto legislativo  1°  settembre  2011,  n.  150  (Disposizioni
complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e
semplificazione dei  procedimenti  civili  di  cognizione,  ai  sensi
dell'articolo 54 della legge  18  giugno  2009,  n.  69),  G.  G.  ha
impugnato il  decreto  prefettizio  di  sospensione,  assumendone  la
nullita' e chiedendone la disapplicazione. 
    Nel processo principale il  ricorrente  lamenta  l'illegittimita'
del provvedimento impugnato, in quanto adottato  prima  del  deposito
della motivazione della sentenza  di  condanna  e  comunque,  in  via
derivata, in quanto l'art. 11, commi 1, lettera a), e 4, della  legge
Severino, che ne costituisce la fonte normativa, violerebbe gli artt.
2, 3, 24, 25, secondo comma, 27, secondo comma, 51,  76,  77  e  117,
primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 7  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con legge  4  agosto  1955,  n.  848.  Le
medesime disposizioni contrasterebbero inoltre con gli artt. 47, 48 e
49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea  (CDFUE),
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo  il  12
dicembre 2007, in  riferimento  ai  quali  lo  stesso  ricorrente  ha
presentato, in via subordinata, istanza di rinvio pregiudiziale  alla
Corte di giustizia dell'Unione europea. 
    1.2.-  Dopo  avere  affermato  la   sussistenza   della   propria
giurisdizione e la titolarita' in capo al  ricorrente  dell'interesse
concreto e attuale a una decisione che  accerti  il  suo  diritto  di
elettorato passivo, il rimettente  ritiene  rilevanti  le  questioni,
stante  che  la  controversia  non  potrebbe  essere  definita  senza
applicare  la  disposizione  censurata.   Contrariamente   a   quanto
sostenuto dal ricorrente, la sospensione di diritto contestata opera,
infatti, a prescindere dal deposito della motivazione della sentenza,
con la conseguenza  che  il  provvedimento  impugnato  sarebbe  stato
emesso nel rispetto delle condizioni previste dal citato art. 11, non
diversamente interpretabile, anche alla luce della giurisprudenza  di
questa Corte. 
    Il  giudice  a  quo   osserva,   altresi',   che   questioni   di
costituzionalita'  dell'art.  8  del  d.lgs.   n.   235   del   2012,
parzialmente analoghe a quelle oggi all'esame di  questa  Corte  sono
state promosse  dallo  stesso  Tribunale  di  Genova  con  precedente
ordinanza del 27 dicembre 2019, ma che il loro eventuale accoglimento
non  produrrebbe  effetti  nel  processo  principale,  in  cui  trova
applicazione la diversa disposizione dell'art. 11 del d.lgs.  n.  235
del 2012. 
    1.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni,  il
rimettente ne ravvisa la sussistenza in riferimento agli artt.  24  e
113 Cost., mentre ritiene prive  di  tale  requisito,  considerati  i
precedenti di questa Corte (sono citate le sentenze n. 236 del 2015 e
n. 276 del 2016), le censure formulate dal ricorrente in relazione ad
altri parametri. 
    Non    consentendo    un    sindacato    giurisdizionale    sulla
proporzionalita' tra la condanna  non  definitiva  e  la  sospensione
dalla carica - configurata come conseguenza automatica della condanna
- l'art. 11, commi 1, lettera a), e 4, del d.lgs.  n.  235  del  2012
contrasterebbe con il  diritto  di  difesa  e  con  il  principio  di
effettivita' della tutela giurisdizionale nei  confronti  degli  atti
della pubblica amministrazione. 
    Le norme censurate si connoterebbero per un rigido automatismo  e
qualificherebbero de iure come pericolosa la permanenza in carica del
condannato in forza di una valutazione di indegnita' operata ex  ante
dal legislatore, in contrasto «con la ritenuta natura cautelare e non
sanzionatoria della misura della sospensione». 
    Essendo precluso - al giudice penale e  a  chiunque  altro  -  di
apprezzare in concreto la gravita' delle condotte  per  le  quali  e'
intervenuta la condanna, l'anzidetta  misura  conseguirebbe  anche  a
condanne per «fattispecie minori di peculato e di  corruzione»,  alle
quali, in quanto sanzionate con la reclusione superiore  nel  massimo
edittale a cinque anni, non puo' essere applicata  la  causa  di  non
punibilita' di cui allo «art. 133-bis» del codice  penale.  Sarebbero
dunque assoggettati alla sospensione anche gli autori di «condotte di
peculato e corruzione lievi», che, in ipotesi, abbiano conseguito  la
loro carica «con larghissimo consenso nella consapevolezza  da  parte
dell'elettorato dell'esistenza di un procedimento penale e dei  fatti
[...] ascritti all'eletto». La volonta' dell'elettorato  risulterebbe
cosi' modificata sulla base di un'astratta valutazione ex lege, senza
possibilita' di un apprezzamento da parte dell'autorita'  giudiziaria
del fatto  accertato  in  sede  penale.  E  cio'  nonostante  che  le
presunzioni legali (assolute)  di  pericolosita'  siano  state  ormai
generalmente "espulse" dall'ambito delle  misure  cautelari  e  delle
misure di sicurezza personali. 
    La possibilita' di impugnare avanti al giudice  il  provvedimento
accertativo della causa di sospensione non  consentirebbe,  comunque,
un sindacato di proporzionalita' della  misura,  sicche'  il  vigente
assetto normativo  comporterebbe  la  «mancanza  di  giustiziabilita'
della  sospensione»,  anche  in  sede  cautelare,  «allo   scopo   di
riesaminare gli accertamenti del giudice penale». 
    2.- Con atto depositato il 23 febbraio 2021 si e'  costituito  in
giudizio G. G., ricorrente nel processo principale, che ha chiesto di
accogliere  le  questioni,  aderendo   alle   considerazioni   svolte
nell'ordinanza di rimessione sulla  lesione  del  diritto  di  difesa
(art.  24  Cost.)  e  del  principio  di  effettivita'  della  tutela
giurisdizionale (art. 113 Cost.). 
    2.1.- La parte lamenta inoltre  la  violazione,  ad  opera  delle
disposizioni denunciate, degli artt. 3, 48, 51 e  117,  primo  comma,
Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU e all'art. 47
CDFUE. 
    La sospensione potrebbe infatti  operare  anche  in  mancanza  di
esigenze di tutela del buon andamento della pubblica amministrazione,
con evidente  lesione  del  diritto  di  elettorato  passivo  di  cui
all'art. 51 Cost. (che sarebbe ingiustificatamente limitato  in  caso
di riforma della condanna in  appello),  del  diritto  di  elettorato
attivo di  cui  all'art.  48  Cost.  (potendo  il  condannato  essere
rieletto, pur nella consapevolezza degli elettori delle imputazioni a
suo carico) e del principio di proporzionalita' (art.  3  Cost.).  La
parte sottolinea, inoltre, che il  principio  di  effettivita'  della
tutela giurisdizionale e'  desumibile  anche  dall'art.  47  CDFUE  e
ribadisce che la disposizione censurata, introducendo una presunzione
assoluta di pericolosita',  preclude  sia  la  tutela  cautelare  che
quella di merito. 
    2.2.- La parte chiede, altresi', che questa Corte sollevi davanti
a se' questione di legittimita' costituzionale dello stesso art.  11,
commi 1, lettera a), e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012  per  violazione
degli artt. 76 e 77 Cost., in relazione all'art. 1, commi  63  e  64,
della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la  prevenzione
e la repressione della corruzione e dell'illegalita`  nella  pubblica
amministrazione),  assumendone  la  pregiudizialita'  rispetto   alle
questioni promosse dal rimettente. 
    2.3.- Infine, e in via subordinata, G. G. invita questa  Corte  a
proporre domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte  di  giustizia
dell'Unione  europea  ai  sensi  dell'art.  267  del   Trattato   sul
funzionamento dell'Unione europea (TFUE), come modificato dall'art. 2
del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge
2  agosto  2008,  n.  130,  sulla   compatibilita'   della   prevista
sospensione automatica con l'art. 47 della Carta di Nizza, in tema di
effettivita' della tutela giurisdizionale, e  con  la  giurisprudenza
della Corte di giustizia in tema di proporzionalita'. 
    3.- Con atto depositato il 22 febbraio  2021  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso  per  la
non fondatezza delle questioni. 
    3.1.-  In  via  preliminare,  l'interveniente  osserva  che   non
sarebbero chiare le ragioni della censura del comma  4  dell'art.  11
del d.lgs. n. 235 del 2012, sorgendo  il  dubbio  che  il  rimettente
volesse invece  riferirsi  al  comma  5  della  stessa  disposizione,
secondo cui  «[a]  cura  della  cancelleria  del  tribunale  o  della
segreteria del pubblico  ministero  i  provvedimenti  giudiziari  che
comportano la sospensione sono  comunicati  al  prefetto,  il  quale,
accertata la sussistenza di una  causa  di  sospensione,  provvede  a
notificare  il  relativo  provvedimento   agli   organi   che   hanno
convalidato l'elezione o deliberato la nomina». 
    3.2.- Nel merito - premesso che il d.lgs.  n.  235  del  2012  ha
riordinato la disciplina delle cariche elettive, allargando il novero
delle ipotesi che possono dare luogo a incandidabilita', decadenza  e
sospensione, inizialmente  limitate  all'ambito  delle  infiltrazioni
della  criminalita'  organizzata  e  in   seguito   estese   sino   a
ricomprendere  i  reati  contro   la   pubblica   amministrazione   -
l'interveniente  osserva  che,  secondo  la  costante  giurisprudenza
costituzionale, la sospensione dalla carica  elettiva  per  un  tempo
determinato a fronte di una condanna non definitiva per  reati  quali
il peculato non ha natura  sanzionatoria  bensi'  cautelare,  essendo
diretta a prevenire o comunque a limitare il pericolo  della  perdita
d'immagine degli apparati pubblici. 
    Inoltre,   un'esigenza   di    proporzionalita'    non    sarebbe
prospettabile rispetto al fatto commesso, ma piuttosto «rispetto alla
possibile lesione dell'interesse pubblico  causata  dalla  permanenza
dell'eletto  nell'organo  elettivo»,  sicche'  non  si  porrebbe   un
problema di adeguatezza della misura rispetto alla gravita' del fatto
(sono citate le sentenze di questa Corte n. 276 del 2016 e n. 25  del
2002,  quest'ultima  riferita  alla  previgente  disciplina  di   cui
all'art. 15, comma 4, della legge  19  marzo  1990,  n.  55,  recante
«Nuove disposizioni per la  prevenzione  della  delinquenza  di  tipo
mafioso e di altre gravi forme  di  manifestazione  di  pericolosita'
sociale»). 
    La stessa mancanza  di  discrezionalita'  in  capo  all'autorita'
amministrativa  chiamata  ad   accertare   l'intervenuta   causa   di
sospensione - e dunque lo stesso  automatismo  applicativo  censurato
dal  rimettente   -   costituirebbe   invece,   sempre   secondo   la
giurisprudenza costituzionale, «un indice  ulteriore  del  fatto  che
l'incapacita' giuridica temporanea di cui si discute non  consegue  a
un giudizio di riprovazione personale, ma e' semplicemente diretta  a
garantire l'oggettiva onorabilita' di chi riveste la funzione di  cui
si tratta» (e' citata, ancora, la sentenza n. 276 del 2016). 
    Sarebbe pertanto inconferente il richiamo a  parametri  quali  la
proporzionalita' della sospensione rispetto alla gravita' del fatto o
l'accertamento in concreto della pericolosita' del condannato in  via
non definitiva, tipici delle misure cautelari penali, che  rispondono
a esigenze processuali o a finalita' di prevenzione speciale. 
    Come affermato ancora da questa Corte (sono citate le sentenze n.
25 del 2002 e n. 206 del 1999), non si potrebbe  comunque  negare  al
legislatore la facolta' di operare il necessario bilanciamento  degli
interessi coinvolti, identificando ipotesi circoscritte  nelle  quali
l'esigenza cautelare e' apprezzata in via generale e  astratta  dalla
stessa legge.  Cosi'  come  rientra  nella  sua  discrezionalita'  la
definizione in via generale e astratta  dell'ambito  di  applicazione
della misura cautelare in relazione ai soggetti coinvolti e al  nesso
tra la condanna non definitiva e le funzioni elettive svolte. 
    3.3.- Quanto al lamentato "tradimento" della volonta' elettorale,
si  tratterebbe  di  una  censura  inammissibile,  sia  perche'   non
accompagnata dall'indicazione del parametro  costituzionale  violato,
sia  perche'  ne  difetterebbe  la  rilevanza,  essendo  la  condanna
intervenuta, nel caso di  specie,  dopo  l'elezione  alla  carica  di
sindaco, onde la sospensione non produrrebbe alcuna "modifica"  della
volonta' dell'elettorato,  tutt'al  piu'  potenzialmente  consapevole
della pendenza del processo. 
    3.4.- In conclusione, non sussisterebbe la violazione degli artt.
24 e 113 Cost., poiche' l'interessato puo'  far  valere  in  giudizio
eventuali  doglianze  relative  all'insussistenza   dei   presupposti
stabiliti  dalla  legge   per   l'adozione   del   provvedimento   di
sospensione. L'impossibilita' di ottenere in  tale  sede  il  riesame
degli  accertamenti  compiuti  dal  giudice  penale  non  sarebbe  in
contrasto   con   il   principio   di   effettivita'   della   tutela
giurisdizionale,  in  quanto  il  diritto  di  difesa,   secondo   la
giurisprudenza costituzionale, concerne la possibilita' di far valere
in  giudizio  posizioni  soggettive  giuridicamente  protette  e  non
riguarda l'esistenza e il contenuto di queste ultime  (e'  citata  la
sentenza n. 206 del 1999). 
    4.- Il ricorrente nel processo principale ha  depositato,  il  28
settembre  2021,  una  memoria  illustrativa  in  cui   sviluppa   le
considerazioni gia' svolte e ribadisce le istanze di autorimessione e
di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia avanzate nell'atto di
costituzione in giudizio. 
    5.- Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato,
il 27 settembre 2021, una memoria illustrativa,  in  cui,  insistendo
per  l'accoglimento  delle  conclusioni  gia'  assunte,  richiama  le
considerazioni svolte da questa Corte nella sopravvenuta sentenza  n.
35 del 2021 - con riferimento all'analoga misura prevista all'art. 8,
comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 e  sotto  il  profilo
della sua compatibilita' con l'art. 3 del Protocollo addizionale alla
CEDU, firmato a Parigi  il  20  marzo  1952  -  in  ordine  alla  non
irragionevolezza,  e  comunque  non   arbitrarieta',   della   scelta
legislativa, nonche' in ordine alla non sproporzione della misura  in
esame. 
    Dalle medesime considerazioni si desumerebbe anche l'infondatezza
dell'istanza di rinvio pregiudiziale  alla  Corte  di  giustizia  UE,
comunque inammissibile per difetto di rilevanza, poiche' la questione
interpretativa del diritto europeo e' posta solo in  via  subordinata
al   mancato   accoglimento   della   questione    di    legittimita'
costituzionale, rispetto alla quale non  avrebbe,  dunque,  carattere
pregiudiziale. 
    Sarebbero inammissibili anche le altre  censure  formulate  dalla
parte costituita - di violazione degli artt. 3, 48, 57 e  117,  primo
comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU  -  in
quanto  fondate  su   parametri   diversi   da   quelli   individuati
nell'ordinanza di rimessione,  nonche'  l'istanza  di  autorimessione
della questione concernente il vizio di eccesso  di  delega,  perche'
avrebbe per oggetto le stesse disposizioni censurate  dal  rimettente
e, in ogni caso,  non  supererebbe  il  vaglio  della  non  manifesta
infondatezza. 
    6.- Con ordinanza del 25 novembre 2020, iscritta al  n.  207  del
registro  ordinanze  2020,  il  Tribunale  ordinario  di  Catania  ha
sollevato questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  11,
commi 1 e 4,  del  d.lgs.  n.  235  del  2012,  in  riferimento  agli
«articoli 3, comma 1, 48, commi 1 e 2, 51, comma 1,  e  97,  comma  1
della  Costituzione,  tenuto  in  considerazione  il   principio   di
incolpevolezza [recte: non  colpevolezza]  sancito  all'articolo  27,
comma 1, Costituzione». 
    6.1.- Le questioni sono sorte durante  un  giudizio  promosso  da
S.D.A. P. ai sensi dell'art. 22 del d.lgs. n. 150 del  2011.  Oggetto
di impugnazione e' il decreto del 24 luglio 2020, con cui il Prefetto
di Catania ha accertato la sospensione di diritto dalla sua carica di
sindaco  del  Comune  di  C.,  in  conseguenza  della  sentenza   non
definitiva,  pronunciata  dal  Tribunale  ordinario  di  Palermo,  di
condanna dello stesso S.D.A. P. alla pena di quattro anni e tre  mesi
di reclusione per il reato continuato di peculato. 
    In corso di causa il ricorrente ha presentato  istanza  cautelare
di sospensione degli effetti del provvedimento impugnato. 
    6.2.-   Dopo   avere   affermato   la   sussistenza   della   sua
giurisdizione, il rimettente esclude, in primo luogo, il  fumus  boni
iuris delle censure di incompetenza, eccesso di  potere,  difetto  di
istruttoria e motivazione, nonche' di omessa comunicazione dell'avvio
del procedimento. 
    6.2.1.-  Il  rimettente  ritiene,   invece,   rilevanti   e   non
manifestamente infondate, in riferimento agli indicati parametri,  le
questioni che investono i commi 1 e 4 dell'art. 11 del d.lgs. n.  235
del 2012, «nella parte in cui stabiliscono la  sospensione  cautelare
nella misura fissa di 18 mesi, invece che in misura graduale "sino  a
18 mesi"». 
    Ad  avviso  del  giudice  a   quo,   l'esigenza   di   protezione
dell'amministrazione  presso  la  quale  il  condannato  esercita  la
funzione   elettiva,   sottesa   alla   sospensione   dalla   carica,
richiederebbe una verifica in concreto dell'entita'  del  pregiudizio
causato dai comportamenti per i quali  e'  intervenuta  la  condanna,
nonche' una valutazione complessiva  dei  contrapposti  interessi  in
gioco, tutti di valenza costituzionale. 
    La vigente formulazione dell'art. 11, commi 1 e 4, del d.lgs.  n.
235 del 2012 escluderebbe la possibilita' di ponderare tali interessi
ai fini della determinazione della  durata  della  misura  «entro  un
limite massimo stabilito dal  legislatore»  da  parte  dell'autorita'
«deputata a decretare la sospensione», e cio' comporterebbe il dubbio
di violazione dell'art. 3, primo comma, Cost. sotto  un  profilo  non
ancora esaminato da questa Corte  nelle  pronunce  gia'  adottate  in
materia (sono citate le sentenze n. 276 del 2016 e n. 36 del 2019). 
    La misura fissa della sospensione, che  non  consente  di  tenere
conto «della tipologia del fatto  e  dell'entita'  del  comportamento
illecito accertato»,  ne'  «dell'entita'  del  pregiudizio  che  puo'
derivare all'ente», introdurrebbe, infatti, un regime illogicamente e
ingiustificatamente uguale per «comportamenti ontologicamente diversi
oppure posti in essere con minore  o  maggiore  gravita'  e,  quindi,
notevolmente disomogenei»,  in  contrasto  con  i  principi  di  pari
dignita' sociale e di uguaglianza. 
    Sulla necessita'  di  riferire  la  congruita'  della  misura  al
comportamento  del  suo  autore,  in  applicazione  dei  principi  di
adeguatezza e di proporzionalita', il rimettente cita le sentenze  di
questa Corte n. 222 del 2018 in tema di sanzione accessoria  prevista
dall'art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n.  267
(Disciplina    del    fallimento,    del    concordato    preventivo,
dell'amministrazione  controllata   e   della   liquidazione   coatta
amministrativa), e n. 24 del 2020 sul provvedimento di  revoca  della
patente  di  guida  di  cui  all'art.  120,  comma  2,  del   decreto
legislativo 30 aprile 1992,  n.  285  (Nuovo  codice  della  strada),
nonche'  la  disciplina   sulla   durata   delle   misure   cautelari
interdittive contenuta nel codice di procedura penale. 
    6.2.2.-  Ad  avviso  del  rimettente,  le  questioni   andrebbero
esaminate in base al «combinato disposto» dell'art. 3,  primo  comma,
Cost., sotto il profilo appena esposto, con gli «articoli  [...]  97,
comma 1, 51, comma 1, e 48, commi 1 e 2», Cost. 
    Il    pregiudizio    dell'interesse     al     buon     andamento
dell'amministrazione  protetto  dall'art.  97  Cost  potrebbe  mutare
sensibilmente  caso  per  caso,  a   seconda   della   gravita'   del
comportamento illecito, e richiederebbe  dunque  una  valutazione  in
concreto. E cio' tanto piu' in seguito all'ampliamento  della  platea
dei  reati  per  cui  e'  prevista  la  sospensione   dalla   carica,
originariamente limitata ai reati di criminalita'  organizzata  (onde
la  sentenza  n.  206  del  1999,  sulla  sospensione  dalla   carica
disciplinata dall'art. 15 della legge n. 55  del  1990,  si  dovrebbe
considerare superata) ed estesa poi ad altri, come quelli  contro  la
pubblica amministrazione. 
    6.2.3.- La valutazione in concreto del tipo di reato  commesso  e
della maggiore o minore gravita' del comportamento  illecito  sarebbe
imposta anche dalla considerazione  degli  interessi  tutelati  dagli
artt. 48 e 51 Cost., tenuto conto (quanto all'elettorato passivo) del
grave  e  irreparabile  pregiudizio  all'esercizio   della   funzione
elettiva che  deriverebbe  al  titolare  della  carica  nel  caso  di
proscioglimento  successivo   alla   sospensione,   nonche'   (quanto
all'elettorato   attivo)   del   pregiudizio   all'interesse    della
«comunita'» alla continuazione dell'esercizio della funzione da parte
dell'eletto. 
    La mancata previsione di un potere di valutazione in concreto  si
risolverebbe in un non corretto bilanciamento tra  gli  interessi  in
gioco. 
    6.2.4.-   Le   questioni   sarebbero    rilevanti,    riguardando
disposizioni sulla  cui  base  e'  stato  adottato  il  provvedimento
prefettizio impugnato, e  ammissibili,  giacche',  ove  accolte,  non
sarebbero necessari interventi del legislatore. Al comma 1  dell'art.
11 del d.lgs. n. 235 del 2012 si  dovrebbero  infatti  sostituire  le
parole «[s]ono sospesi di diritto» con le parole «sono sospesi sino a
18 mesi», mentre al comma 4 dello stesso art. 11 sarebbe  sufficiente
sopprimere il primo periodo, secondo cui «[l]a sospensione  cessa  di
diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi». 
    6.2.5.- Con la stessa ordinanza, il  giudice  a  quo  ha  accolto
l'istanza cautelare, sospendendo  provvisoriamente  gli  effetti  del
decreto prefettizio impugnato fino alla definizione dell'incidente di
legittimita' costituzionale. 
    7.- Con atto depositato il 22 febbraio  2021  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso  per  la
non fondatezza delle questioni. 
    L'Avvocatura offre  argomenti  analoghi,  anche  testualmente,  a
quelli gia' svolti nell'atto di intervento nel giudizio promosso  con
l'ordinanza iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2020. 
    A suo giudizio, inoltre, non sarebbero conferenti le pronunce  di
questa Corte invocate dal giudice a quo (sentenze n. 222 del  2018  e
n. 24 del  2020),  poiche'  la  necessita',  in  esse  affermata,  di
procedere a una valutazione in concreto e caso per caso riguarderebbe
istituti aventi natura sanzionatoria o finalita' rieducative. 
    Secondo l'Avvocatura, l'automatismo  insito  nella  durata  fissa
della misura non esclude un corretto bilanciamento tra  il  principio
di buon andamento e  il  diritto  di  elettorato  attivo  e  passivo,
bilanciamento in effetti operato a monte dall'art. 11 del  d.lgs.  n.
235 del 2012. 
    Deporrebbero in tal senso la gradualita' dell'applicazione  della
misura, non prevista per qualunque condanna, e la diversa  disciplina
riservata a delitti particolarmente gravi attinenti  al  traffico  di
stupefacenti, alla criminalita'  organizzata  e  contro  la  pubblica
amministrazione (art. 11, comma 1, lettera a, del d.lgs. n.  235  del
2012) e a delitti "comuni" non colposi situati al  di  sopra  di  una
determinata soglia di gravita', in quanto puniti in concreto con  una
condanna a una pena non inferiore a due anni di reclusione (art.  11,
comma 1, lettera b, del d.lgs. n. 235 del 2012). Per  questi  ultimi,
l'incidenza della condanna sul  mandato  elettivo  e'  subordinata  a
requisiti molto piu' stringenti, quali la conferma della condanna  in
appello e la sopravvenienza della stessa condanna all'elezione o alla
nomina,  cio'  che  rivelerebbe  il  «maggior  peso»  attribuito  dal
legislatore al diritto di elettorato attivo e passivo nei  casi  meno
gravi. 
    7.1.- Quanto alla durata fissa, l'equilibrio tra gli interessi in
gioco sarebbe garantito dal carattere interinale  della  sospensione,
oltre che dalla sua «limitata severita', sia in termini oggettivi  di
durata, sia in termini soggettivi di  detrimento  della  reputazione»
(e' citata la sentenza n. 276 del 2016). 
    In conclusione, nessuno dei  parametri  invocati  dal  rimettente
sarebbe violato dalle disposizioni censurate. 
    8.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato il  28
settembre 2021 una  memoria  illustrativa  nella  quale  richiama  le
considerazioni svolte da questa Corte nella sopravvenuta sentenza  n.
35 del 2021. 
    9.- Con una seconda ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta  al
n. 10 del registro ordinanze 2021, il Tribunale ordinario  di  Genova
ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale  coincidenti  -
per oggetto (art. 11, commi 1, lettera a, e 4, del d.lgs. n. 235  del
2012), parametri invocati (artt. 24 e 113 Cost.) e motivi di  censura
- con quelle  sollevate  con  l'ordinanza  iscritta  al  n.  205  del
registro ordinanze  2020  e  sorte  nel  corso  di  una  controversia
analoga. 
    Nel giudizio a quo M. L. ha impugnato il decreto  del  31  maggio
2019, con cui il Prefetto di Genova ha accertato nei  suoi  confronti
la sospensione di diritto dalla carica di sindaco del Comune di C., a
seguito della sentenza non definitiva con la quale il 30 maggio  2019
il Tribunale di Genova lo ha condannato alla  pena  di  tre  anni  di
reclusione per fatti di peculato commessi tra il 2010 e il 2015 nella
qualita' di consigliere regionale della Regione Liguria. 
    9.1.- Anche in questa controversia il ricorrente  ha  chiesto  la
disapplicazione del decreto  prefettizio  impugnato,  assumendone  la
nullita' per  ragioni  sostanzialmente  identiche  a  quelle  dedotte
nell'altro giudizio citato, e il rimettente ha considerato  rilevanti
e non manifestamente infondate le sole questioni riferite agli  artt.
24 e 113 Cost. 
    10.- Con atto depositato il  1°  marzo  2021  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che   le
questioni siano dichiarate non fondate per le stesse  ragioni  svolte
nell'atto di intervento nell'altro giudizio originato  dall'ordinanza
iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2020. La difesa erariale ha
poi depositato il 28  settembre  2021  una  memoria  illustrativa  di
contenuto analogo a quelle depositate negli altri due giudizi. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta al n.  205  del
registro ordinanze 2020, il  Tribunale  ordinario  di  Genova  dubita
della legittimita' costituzionale dell'art. 11, commi 1, lettera  a),
e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, recante «Testo
unico delle disposizioni in materia di incandidabilita' e di  divieto
di ricoprire cariche elettive e di  Governo  conseguenti  a  sentenze
definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo
1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190» (di seguito, anche:
"legge  Severino"),  in  riferimento  agli  artt.  24  e  113   della
Costituzione. 
    Le questioni sono sorte nel  corso  di  un  giudizio  avente  per
oggetto il decreto con cui il Prefetto di  Genova  ha  dichiarato  la
sussistenza in capo a G. G. di una causa di  sospensione  di  diritto
dalla carica di sindaco del Comune di C. ai sensi dell'art. 11, comma
1, lettera a),  del  d.lgs.  n.  235  del  2012.  In  base  a  questa
disposizione, «[s]ono sospesi di diritto dalle  cariche  indicate  al
comma 1  dell'articolo  10  [...]  coloro  che  hanno  riportato  una
condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all'articolo 10,
comma 1, lettere a), b) e c)». 
    Il giudice a quo riferisce che la sospensione  si  fonda  su  una
sentenza di condanna non  definitiva  pronunciata  dal  Tribunale  di
Genova per fatti di peculato commessi da  G.  G.  nella  qualita'  di
consigliere della Regione Liguria. 
    1.1.- Secondo il rimettente, l'art. 11, commi 1, lettera a), e 4,
del d.lgs. n. 235 del 2012 contrasterebbe con il diritto di difesa  e
con il principio di effettivita'  della  tutela  giurisdizionale  nei
confronti degli atti della pubblica amministrazione, non  consentendo
all'autorita' giudiziaria di sindacare  la  proporzionalita'  tra  la
condanna non  definitiva  e  la  sospensione  dalla  carica,  che  e'
configurata  dal  legislatore  come  conseguenza   automatica   della
condanna  in  forza  di  un'astratta  valutazione  di  pericolosita',
preclusiva di qualsiasi apprezzamento del  fatto  accertato  in  sede
penale. Sarebbero in tal modo assoggettati alla sospensione anche gli
autori di «condotte di peculato e corruzione lievi» e ne risulterebbe
modificata la volonta' dell'elettorato. 
    Il vigente  assetto  normativo  si  risolverebbe,  dunque,  nella
«mancanza  di  giustiziabilita'   della   sospensione»,   anche   per
l'impossibilita' di ottenere tutela giurisdizionale in via  cautelare
«allo scopo di riesaminare gli accertamenti del giudice penale». 
    2.- Con ordinanza del 25 novembre 2020, iscritta al  n.  207  del
registro ordinanze 2020, anche  il  Tribunale  ordinario  di  Catania
dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 11, commi 1  e  4,
del d.lgs. n. 235 del 2012, in riferimento agli «articoli 3, comma 1,
48, commi 1 e 2, 51, comma 1,  e  97,  comma  1  della  Costituzione,
tenuto in considerazione il principio di incolpevolezza  [recte:  non
colpevolezza] sancito all'articolo 27, comma 1, Costituzione». 
    Oggetto del giudizio a quo e' in questo caso il decreto  con  cui
il Prefetto di Catania ha accertato nei confronti  di  S.D.A.  P.  la
sospensione di diritto dalla sua carica di sindaco del Comune di  C.,
in  conseguenza  della  sentenza  non  definitiva,  pronunciata   dal
Tribunale ordinario di Palermo, di condanna dello  stesso  S.D.A.  P.
per il reato continuato di peculato. 
    L'art. 11, commi 1 e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012  e'  censurato
«nella parte in  cui  stabilisc[e]  la  sospensione  cautelare  nella
misura fissa di 18 mesi, invece che in misura  graduale  "sino  a  18
mesi"». 
    Secondo  il  rimettente,  l'esigenza   cautelare   sottesa   alla
sospensione dalla  carica  richiederebbe  una  verifica  in  concreto
dell'entita'  del  pregiudizio   causato   all'amministrazione,   che
potrebbe  mutare  sensibilmente  caso  per  caso,  in  ragione  della
tipologia  del  reato  e  della  maggiore  o  minore   gravita'   del
comportamento illecito accertato in sede penale. 
    Prevedendo una durata fissa  della  sospensione,  il  legislatore
avrebbe dunque introdotto un regime  ingiustificatamente  uguale  per
«comportamenti ontologicamente diversi oppure  posti  in  essere  con
minore o maggiore gravita' e, quindi, notevolmente  disomogenei»,  in
contrasto con il principio di uguaglianza, di cui all'art.  3,  primo
comma, Cost. 
    Le questioni andrebbero esaminate in base al «combinato disposto»
del citato art. 3, primo comma, Cost. con  gli  «articoli  [...]  97,
comma 1, 51, comma 1, e 48, commi 1 e 2», Cost., tenendo conto  anche
del principio di non  colpevolezza  sino  alla  condanna  definitiva,
«sancito all'articolo 27, comma 1», Cost., in quanto la  disposizione
censurata sarebbe il frutto di  un  non  corretto  bilanciamento  tra
l'interesse  al  buon  andamento  dell'azione  amministrativa   e   i
contrapposti interessi dell'eletto al  mantenimento  della  carica  e
degli elettori a che esso continui a svolgere la sua funzione. 
    3.- Con una seconda ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta  al
n. 10  del  registro  ordinanze  2021,  il  Tribunale  di  Genova  ha
sollevato questioni di legittimita' costituzionale coincidenti -  per
oggetto (art. 11, commi 1, lettera a, e 4,  del  d.lgs.  n.  235  del
2012), parametri invocati (artt. 24 e 113 Cost.) e motivi di  censura
- con  quelle  sollevate  dallo  stesso  rimettente  con  l'ordinanza
iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2020 e sorte nel  corso  di
una controversia analoga. 
    Nel giudizio a quo, infatti, M. L. ha impugnato  il  decreto  con
cui il  Prefetto  di  Genova  ha  accertato  nei  suoi  confronti  la
sospensione di diritto dalla carica di sindaco del Comune  di  C.,  a
seguito della sentenza non definitiva con la quale  il  Tribunale  di
Genova lo ha condannato per fatti di peculato commessi nella qualita'
di consigliere regionale della Regione Liguria. 
    4.- I giudizi vanno riuniti e decisi con unica sentenza, giacche'
le  questioni  sollevate  dai  Tribunali  di  Genova  e  di   Catania
coincidono per l'oggetto e si fondano su motivi di censura  in  parte
analoghi, anche se riferiti a parametri diversi. 
    5.- In via preliminare, va rilevato che la  parte  costituita  in
giudizio G. G., ricorrente in uno dei  processi  principali  pendenti
davanti al Tribunale di Genova, ha dedotto anche la violazione  degli
artt. 3, 48, 51 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in  relazione
agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n.  848,  e  all'art.  47  della  Carta  dei   diritti   fondamentali
dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000  e
adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Si tratta di questioni  in
parte gia' eccepite dal medesimo ricorrente davanti al giudice a  quo
- e da quest'ultimo ritenute manifestamente infondate -  e  in  parte
dedotte ex novo in questa sede. 
    Tali questioni non possono avere ingresso in questo giudizio. 
    Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'oggetto del
giudizio  di  legittimita'  costituzionale  in  via  incidentale   e'
limitato alle norme  e  ai  parametri  indicati  nelle  ordinanze  di
rimessione,  mentre  non  possono  essere  presi  in   considerazione
ulteriori questioni o  profili  di  costituzionalita'  dedotti  dalle
parti, diretti ad ampliare o modificare  il  contenuto  delle  stesse
ordinanze, quand'anche eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo
(ex plurimis, sentenze n. 203, n. 172, n. 149, n. 147, n. 119, n.  49
e n. 35 del 2021, n. 35 del 2017 e n. 203 del 2016). 
    Dall'estraneita'   al   thema   decidendum   della   censura   di
incompatibilita' con il diritto dell'Unione europea prospettata dalla
parte privata deriva l'estraneita'  ad  esso  anche  della  questione
interpretativa che la medesima parte chiede, in via  subordinata,  di
sottoporre alla Corte di giustizia dell'Unione europea con istanza di
rinvio pregiudiziale (sentenza n. 49 del 2021). 
    5.1.- Quanto alla richiesta di autorimessione della questione  di
legittimita' costituzionale dello stesso art. 11,  commi  1,  lettera
a), e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012 per violazione degli artt.  76  e
77 Cost., in relazione all'art. 1, commi  63  e  64,  della  legge  6
novembre  2012,  n.  190  (Disposizioni  per  la  prevenzione  e   la
repressione  della  corruzione  e  dell'illegalita`  nella   pubblica
amministrazione), essa e' inammissibile per diverse ragioni. 
    In primo luogo, in quanto l'obiettivo con essa perseguito e'  pur
sempre quello di estendere il giudizio di legittimita' costituzionale
a profili eccepiti nel processo principale, ma espressamente  esclusi
dal giudice a quo, che  si  e'  pronunciato  per  la  loro  manifesta
infondatezza, con la conseguenza che la sollecitazione a questa Corte
di sollevare di fronte a se stessa la relativa questione,  ove  fosse
considerata ammissibile, finirebbe per  configurarsi  nella  sostanza
come l'improprio ricorso a un mezzo di impugnazione  della  decisione
del giudice rimettente (sentenza n. 35 del 2017). 
    In secondo luogo, «[l]a possibilita' che questa Corte sollevi  in
via incidentale una questione davanti a se'  si  da'  solo  allorche'
dubiti della legittimita' costituzionale di  una  norma,  diversa  da
quella impugnata,  che  sia  chiamata  necessariamente  ad  applicare
nell'iter logico per arrivare alla decisione sulla questione  che  le
e' stata sottoposta: in  altri  termini,  si  deve  trattare  di  una
questione  che  si  presenti  pregiudiziale  alla  definizione  della
questione principale e strumentale rispetto alla decisione da emanare
(sentenze n. 122 del 1976, n.  195  del  1972  e  n.  68  del  1961)»
(sentenza n. 24 del 2018). Nella specie, la questione avrebbe  invece
per oggetto le stesse norme censurate dal  rimettente,  sicche'  deve
escludersi che sussista il nesso di pregiudizialita' che  consente  a
questa Corte  di  sollevare  davanti  a  se'  una  questione  in  via
incidentale (in questo senso, da ultimo, sentenza n. 203 del 2021). 
    5.2.- Ancora in via preliminare, va corretto il riferimento  agli
artt.  27,  primo  comma,  e  97,  primo  comma,   Cost.,   contenuto
nell'ordinanza del Tribunale di Catania, nel  senso  che,  alla  luce
della motivazione, si devono intendere invocati  i  principi  di  non
colpevolezza e di buon andamento dell'azione amministrativa  di  cui,
rispettivamente, agli artt. 27, secondo comma, e 97,  secondo  comma,
Cost. 
    Infine, nonostante il Tribunale di Catania censuri l'intero comma
1 dell'art. 11 del  d.lgs.  n.  235  del  2012,  le  questioni  vanno
circoscritte alla lettera a) del medesimo comma. E' questa,  infatti,
la disposizione che, prevedendo la sospensione di  coloro  che  hanno
riportato una sentenza di condanna non definitiva per uno dei delitti
indicati all'art. 10, comma 1, lettere a),  b)  e  c),  dello  stesso
decreto legislativo,  deve  essere  applicata  nel  giudizio  a  quo,
relativo a un provvedimento di sospensione dalla carica di un sindaco
condannato in primo grado per il delitto di peculato di cui  all'art.
314 cod. pen., compreso nell'elenco di cui al citato art.  10,  comma
1, lettera c). 
    6.- Nel merito, si esaminano per  prime  le  identiche  questioni
sollevate  dal  Tribunale  di  Genova  con  le  due  ordinanze  sopra
indicate. 
    Il rimettente lamenta, come visto, che la disposizione  censurata
non  gli  consentirebbe  di  sindacare  la   proporzionalita'   della
sospensione rispetto  alla  gravita'  dei  fatti  accertati  in  sede
penale, in quanto la misura sarebbe configurata dal legislatore  come
una conseguenza automatica della condanna non definitiva,  anche  per
fatti  di  lieve  entita',  sulla  base   di   una   presunzione   di
pericolosita' della permanenza in carica del condannato. 
    Tali considerazioni sono poste  a  fondamento  di  questioni  che
prospettano la lesione del diritto di difesa (art. 24  Cost.)  e  del
principio di effettivita' della tutela giurisdizionale nei  confronti
degli  atti  della  pubblica  amministrazione   (art.   113   Cost.),
sull'assunto che, pur offrendo l'ordinamento la facolta' di impugnare
il  decreto  di  sospensione   davanti   all'autorita'   giudiziaria,
l'impossibilita' di contestare la congruita' della misura rispetto al
comportamento che ha determinato la condanna  si  risolverebbe  nella
mancanza di reale «giustiziabilita'» del provvedimento impugnato. 
    6.1.- Le questioni non sono fondate. 
    Il presupposto da cui muove il rimettente - secondo cui esso  non
ha il potere di valutare  se  la  sospensione  del  condannato  dalla
carica  sia  proporzionata  in  concreto  alla  gravita'  del   fatto
accertato con sentenza non  definitiva  -  e'  corretto.  Il  decreto
prefettizio previsto all'art. 11, comma 5,  del  d.lgs.  n.  235  del
2012,  impugnato  davanti  all'autorita'  giudiziaria,  ha  carattere
vincolato e assolve a una funzione di mero accertamento  dell'effetto
sospensivo  derivante  direttamente  dalla  pronuncia   di   condanna
(sentenze n. 352 del 2008 e n. 407 del 1992, rese in riferimento alle
analoghe misure previste nella previgente disciplina di cui  all'art.
15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante «Nuove disposizioni  per
la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso  e  di  altre  gravi
forme di manifestazione di pericolosita' sociale»). Il legislatore ha
scelto  infatti  di  individuare  egli  stesso  le   condizioni   per
l'applicazione della sospensione e di riservare ai giudici il compito
di verificarne la sussistenza, senza  apprezzamenti  da  operare  nel
caso specifico. 
    Una soluzione normativa di questo tipo non integra, di  per  se',
la violazione degli artt. 24 e 113 Cost. 
    Secondo il costante orientamento di  questa  Corte,  «l'art.  24,
come pure il  successivo  art.  113  Cost.,  enunciano  il  principio
dell'effettivita' del diritto di difesa, il primo in ambito generale,
il secondo con riguardo alla tutela contro gli  atti  della  pubblica
amministrazione, ed entrambi tali parametri sono volti  a  presidiare
l'adeguatezza  degli  strumenti  processuali  posti  a   disposizione
dall'ordinamento per la tutela  in  giudizio  dei  diritti,  operando
esclusivamente sul piano processuale  (in  tal  senso,  ex  plurimis,
sentenza n. 20 del 2009)» (sentenza n.  71  del  2015).  La  garanzia
costituzionale  non  comporta  tuttavia  che   il   cittadino   debba
conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i
medesimi effetti, assicurando invece che «non vengano imposti oneri o
prescritte modalita'  tali  da  rendere  impossibile  o  estremamente
difficile  l'esercizio  del  diritto  di  difesa  o  lo   svolgimento
dell'attivita' processuale (tra le tante, sentenze n. 199  del  2017,
n. 121 e n. 44 del 2016)» (sentenza n. 271 del 2019). 
    Ne deriva che la violazione dei citati  parametri  costituzionali
si  puo'  considerare  sussistente  solo  nei  casi  di  «sostanziale
impedimento all'esercizio del diritto di azione  garantito  dall'art.
24 della Costituzione» (sentenza n. 237 del 2007) o di imposizione di
oneri  tali  da  compromettere  irreparabilmente  la  tutela   stessa
(ordinanza n. 213 del 2005) e non anche nel  caso  in  cui  la  norma
censurata non elimini affatto  la  possibilita'  di  usufruire  della
tutela giurisdizionale (sentenza n. 85 del 2013). 
    La valenza esclusivamente processuale propria degli  artt.  24  e
113 Cost. fa  si'  che  «"la  garanzia  costituzionale  della  difesa
oper[i] entro i limiti del diritto sostanziale" (sentenza n. 178  del
1975)» (sentenza n. 420 del 1998; in senso analogo,  sentenza  n.  98
del 2019) e non esclude che il sindacato del  giudice  «possa  essere
piu' o meno penetrante a seconda del tipo di  disciplina  legislativa
di carattere sostanziale che regola l'atto di volta in volta preso in
considerazione» (sentenza n. 409 del  1988,  con  specifico  riguardo
all'art. 113 Cost.). Non si puo' dunque  a  ragione  prospettare  una
tale violazione «in difetto di una norma che riconosca una situazione
di diritto sostanziale» (ex plurimis, sentenza n. 317 del 1990). 
    Alla luce di  queste  considerazioni,  il  richiamo  operato  dal
giudice a quo agli artt. 24 e 113 Cost. e' inconferente. 
    Una  disciplina  sostanziale  che  collega   automaticamente   la
sospensione alla condanna penale non definitiva per determinati reati
non e'  idonea  a  violare,  di  per  se',  a  cagione  del  previsto
automatismo,  il  diritto  di  difesa,   in   quanto   non   preclude
all'interessato la possibilita' di far  valere  in  giudizio  il  suo
diritto nei limiti in cui esso e' protetto dal diritto sostanziale. 
    Occupandosi di un automatismo sanzionatorio -  contenuto  in  una
disposizione in materia di procedimenti  disciplinari  a  carico  dei
notai, censurata per la violazione dei principi di proporzionalita' e
di  individualizzazione  delle  pene  (art.  3  Cost.),  e   per   la
conseguente compressione del diritto di  difesa  (art.  24  Cost.)  -
questa Corte ha affermato che, «[u]na volta escluso che la disciplina
sostanziale  incorra  essa  stessa  in  un  vizio  di  illegittimita'
costituzionale   [riferita   all'art.   3   Cost.]   nel    prevedere
l'automatismo sanzionatorio in parola, anche questa ulteriore censura
[riferita all'art.  24  Cost.]  deve  necessariamente  ritenersi  non
fondata», in quanto «[l]'allegata compressione del diritto di  difesa
del  notaio  incolpato,  che  discenderebbe  secondo  il   rimettente
dall'impossibilita' a carico dello stesso "di chiedere al giudice  di
apprezzare la sua condotta in concreto e di pervenire all'irrogazione
della sanzione piu' adeguata al caso", costituisce  infatti  il  mero
riflesso della preclusione  stabilita  sul  piano  sostanziale  dalla
disposizione  censurata,  che  vieta   per   l'appunto   al   giudice
(disciplinare) di irrogare una sanzione diversa  dalla  destituzione,
in presenza  dei  requisiti  indicati  dalla  disposizione  medesima»
(sentenza n. 133 del 2019). 
    In precedenza, lo stesso principio era stato enunciato da  questa
Corte proprio con riferimento alla  misura  della  sospensione  dalle
cariche  elettive,  nella  versione  disciplinata   dalla   normativa
previgente: «[u]na volta ammessa la legittimita' di  una  sospensione
obbligatoria in relazione alle circostanze specifiche individuate dal
legislatore, non puo' riconoscersi fondamento nemmeno alla censura di
violazione del diritto alla  difesa,  di  cui  all'art.  24,  secondo
comma, della Costituzione», in quanto «il diritto  costituzionale  di
difesa (come lo  stesso  diritto  alla  tutela  giudiziaria,  di  cui
all'art.  24,  primo  comma,   della   Costituzione)   attiene   alla
possibilita'  effettiva  di  far  valere  nel  giudizio  le   proprie
posizioni giuridicamente protette, e non riguarda  l'esistenza  e  il
contenuto di queste ultime, onde  non  puo'  essere  invocato  quando
manchi la posizione  di  diritto  sostanziale  di  cui  possa  essere
chiesta la tutela giudiziaria (cfr. sentenze nn. 317  del  1990,  146
del 1996, 420 del 1998; ordinanza n. 141 del 1990)» (sentenza n.  206
del 1999). 
    A maggior ragione si deve  pervenire  alla  medesima  conclusione
allorche', come nella specie, l'automatismo degli effetti  sospensivi
sia investito esclusivamente da una censura di violazione degli artt.
24 e 113 Cost., sull'assunto che  la  qualificazione  come  vincolato
anziche' come discrezionale del potere del prefetto  di  disporre  la
sospensione - potere ovviamente sempre contestabile in  giudizio  per
eventuali vizi nel suo esercizio - si tradurrebbe di per se'  in  una
lesione del principio costituzionale  di  effettivita'  della  tutela
giurisdizionale. 
    L'allegata compressione del diritto di difesa del titolare  della
carica colpito dalla sospensione costituisce infatti il mero riflesso
della preclusione stabilita sul piano sostanziale dalla  disposizione
censurata, della quale tuttavia il rimettente non si  duole  mediante
l'invocazione di parametri pertinenti. 
    7.-  Le  questioni  sollevate  dal  Tribunale   di   Catania   si
incentrano, come visto, sulla durata  della  sospensione,  in  quanto
stabilita  dal  legislatore  nella  misura  fissa  di  diciotto  mesi
anziche' in una misura graduale, entro il limite massimo di  diciotto
mesi, da riservare alla  determinazione  dell'autorita'  «deputata  a
decretare la sospensione». 
    Il giudice a  quo  lamenta  che  le  disposizioni  censurate  non
considerino l'entita'  del  pregiudizio  causato  all'amministrazione
presso la  quale  il  condannato  esercita  la  carica  elettiva,  un
pregiudizio che potrebbe variare a seconda della differente tipologia
dei reati accertati, vista la multiforme platea  dei  reati  ostativi
creata  dal  legislatore,  e  a  seconda  della  loro  gravita'.   Di
conseguenza,  la  stessa  natura  cautelare  della  misura  che  quel
pregiudizio  mira  a  scongiurare  imporrebbe  di  diversificarne  in
concreto la durata, entro un limite massimo predeterminato. 
    Non tenendo conto di  tale  esigenza  ed  equiparando  situazioni
differenti, le disposizioni censurate violerebbero  il  principio  di
uguaglianza (art. 3 Cost.). Non  sarebbero  bilanciati  correttamente
gli interessi in gioco, in particolare quello (tutelato dall'art.  97
Cost.)  al  buon  andamento  dell'azione  amministrativa   e   quelli
contrapposti (tutelati dagli artt. 48  e  51  Cost.)  dell'eletto  al
mantenimento della carica e degli elettori alla  continuazione  della
funzione da parte del  cittadino  da  essi  democraticamente  scelto,
nonche'  il  principio  di  non  colpevolezza  sino   alla   condanna
definitiva (art. 27 Cost.). 
    7.1.- Le questioni non sono fondate. 
    L'accento posto dal giudice a quo  sulla  necessita'  che  spetti
all'autorita' amministrativa che le applica - e  conseguentemente  al
giudice che ne controlli la scelta - di  calibrare  la  durata  della
sospensione sulla maggiore o minore gravita' dell'esigenza  cautelare
di  tutela  del  buon  andamento  e   della   legalita'   dell'azione
amministrativa  non  introduce  significativi  elementi  di   novita'
rispetto ai temi gia'  esaminati  a  piu'  riprese  da  questa  Corte
scrutinando, sotto diversi profili di legittimita' costituzionale, le
norme sulla sospensione dalle cariche elettive contenute  nel  d.lgs.
n. 235 del 2012. 
    Secondo l'orientamento cosi' formatosi - che si colloca nel solco
tracciato da sentenze di questa Corte rese su  analoghe  disposizioni
previgenti e che e'  stato  di  recente  fatto  proprio  dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo (sentenza 17  giugno  2021,  Miniscalco
contro Italia; decisione 18 maggio 2021, Galan contro  Italia)  -  la
sospensione in esame non ha natura sanzionatoria, ma  e'  una  misura
cautelare diretta a evitare che  coloro  che  sono  stati  condannati
anche in via non definitiva per determinati reati  gravi  o  comunque
offensivi della pubblica amministrazione - come il peculato,  per  il
quale e` stato condannato il ricorrente  nel  giudizio  principale  -
rivestano cariche  elettive,  mettendo  cosi'  in  pericolo  il  buon
andamento dell'amministrazione stessa e la sua onorabilita' (sentenze
n. 35 del 2021, n. 36 del 2019, n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015). 
    L'adeguatezza della misura a corrispondere a queste  esigenze  va
dunque apprezzata in una logica che prescinde dalla concreta gravita`
del reato contestato e dalla pena irrogata, e che si incentra  invece
sulla finalita' cautelare perseguita, che e' quella di evitare che la
permanenza dell'eletto nell'organo  elettivo  pregiudichi  lo  stesso
interesse  al  buon  andamento  e  all'onorabilita'  della   pubblica
amministrazione (ex plurimis, sentenze n. 35 del 2021 e  n.  276  del
2016). 
    Quanto al fatto che la scelta della misura e della sua durata sia
operata direttamente dalla legge, questa Corte ha gia' osservato  che
«non si puo' [...] negare al legislatore, nell'esercizio di  una  non
irragionevole  discrezionalita',  la  facolta'   di   effettuare   il
necessario bilanciamento  degli  interessi  coinvolti,  identificando
ipotesi circoscritte nelle quali l'esigenza cautelare su cui si  basa
la sospensione e' apprezzata in via generale  ed  astratta,  anziche'
essere rimessa  alla  valutazione  in  concreto  dell'amministrazione
interessata, cosi' come e' apprezzato in  via  generale  ed  astratta
l'ambito di applicazione  della  misura  cautelare  in  relazione  ai
soggetti e al nesso tra la condanna  non  definitiva  e  le  funzioni
elettive svolte» (sentenza n. 25 del 2002; in senso analogo, sentenza
n. 206 del 1999). 
    Ne' si  puo'  ritenere  che,  come  sostiene  il  rimettente,  la
necessita' di  graduare  la  durata  della  misura  cautelare  derivi
dall'ampliamento, rispetto  all'originaria  previsione  dell'art.  15
della legge n. 55 del  1990,  della  platea  dei  reati  per  cui  e'
prevista la sospensione dalla carica, ab initio limitata ai reati  di
criminalita' organizzata (onde le  pronunce  rese  sulla  sospensione
dalla carica disciplinata dalla normativa previgente, come la  citata
sentenza n. 206 del 1999,  si  dovrebbero  considerare  superate)  ed
estesa  poi  ad  altri  reati,  come  quelli   contro   la   pubblica
amministrazione. Non irragionevolmente, infatti,  il  legislatore  ha
accomunato nello stesso trattamento  normativo  reati  resi  omogenei
dall'essere «direttamente connessi alle funzioni che  [i  condannati]
sarebbero chiamati ad assumere, perche' di particolare gravita' [...]
o perche' commessi contro la pubblica  amministrazione»,  quindi  «di
specifico   rilievo   in   funzione   dell'attitudine   a    incidere
sull'immagine  e  l'onorabilita'  della   pubblica   amministrazione»
medesima (sentenza n. 35 del 2021). 
    Non puo' essere condiviso nemmeno l'assunto  del  giudice  a  quo
secondo cui sarebbe la natura cautelare della finalita' perseguita  a
imporre una sua variazione  in  rapporto  al  tipo  e  alla  concreta
gravita' del reato ostativo. La sospensione, invero, non fa altro che
anticipare in  via  interinale  l'effetto  interdittivo  -  anch'esso
peraltro «parimenti non diretto a finalita'  punitive»  (sentenza  n.
276 del 2016) - in attesa che l'accertamento  penale,  consolidandosi
nel  giudicato,  faccia  venire  definitivamente  meno  un  requisito
essenziale per il mantenimento  della  carica  da  parte  di  chi  la
ricopre, determinandone di diritto la decadenza (art.  11,  comma  7,
del d.lgs. n. 235 del 2012). 
    La non irragionevolezza del bilanciamento che il  legislatore  ha
ritenuto di operare  nell'esercizio  della  sua  discrezionalita'  e'
stata poi riconosciuta in plurime occasioni da questa Corte anche per
quanto riguarda la durata della prevista sospensione. 
    In particolare, sono state sottolineate «la  temporaneita'  e  la
gradualita' dei suoi effetti», trattandosi di  misura  «rigorosamente
circoscritta nel tempo e destinata a cessare immediatamente nel  caso
di sopravvenuti non luogo a procedere, proscioglimento o  assoluzione
dell'eletto» (sentenza n. 35 del 2021) ovvero a essere prolungata  di
ulteriori dodici mesi ove la condanna sia confermata in appello (art.
11, comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012). La disciplina in  esame  ha
in tal modo «ulteriormente bilanciato le descritte esigenze di tutela
della pubblica amministrazione, da un lato, e dell'eletto condannato,
dall'altro, temperando  in  maniera  non  irragionevole  gli  effetti
automatici della sentenza di condanna non definitiva in  ragione  del
trascorrere del  tempo  e  della  progressiva  stabilizzazione  della
stessa pronuncia» (sentenza n.  36  del  2019),  con  l'obiettivo  di
evitare un'eccessiva compressione del diritto di elettorato passivo. 
    Inoltre,  la  disciplina  della  sospensione,  valutata  nel  suo
complesso, non trascura  di  assegnare  conseguenze  differenziate  a
diverse condanne penali non definitive, come si desume dalla  lettera
b) del comma 1 dell'art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012,  che  prevede
la sospensione dalla carica in caso di  «condanna  ad  una  pena  non
inferiore a due anni  di  reclusione  per  un  delitto  non  colposo»
(diverso da quelli richiamati alla lettera a dello stesso  comma  1),
solo qualora la condanna intervenga dopo l'elezione o la nomina e sia
confermata in appello. La previsione di piu' rigorosi presupposti  di
applicabilita' della misura al di fuori del caso dei reati piu' gravi
e  dei  delitti   dei   pubblici   ufficiali   contro   la   pubblica
amministrazione sembra ispirata a un'evidente ratio differenziatrice,
fondata sull'assunto che, quando  si  tratti  di  reati  meno  gravi,
l'esigenza di tutela oggettiva dell'ente territoriale viene meno o si
indebolisce (in questi termini, sentenza n. 36 del 2019). 
    Tali conclusioni, e il giudizio di non  irragionevolezza  che  ne
costituisce l'esito, non sono scalfite dall'inserimento tra i  valori
in  gioco,  prospettato  dal  giudice  a  quo,  dell'interesse  degli
elettori, sotteso all'art.  48  Cost.,  a  che  l'eletto  continui  a
svolgere  la  funzione.  Scrutinando  la  stessa   disposizione   qui
censurata nella parte in cui non prevede  che  la  sospensione  dalla
carica  consegua  solo  alle  sentenze  non  definitive  di  condanna
pronunciate dopo  l'elezione  o  la  nomina,  questa  Corte  ha  gia'
disatteso analoghe censure. Nella citata sentenza n. 36 del 2019,  si
e' osservato,  infatti,  che,  se  «la  ratio  della  sospensione  e'
prevalentemente quella della tutela oggettiva del  buon  andamento  e
della legalita' nella pubblica  amministrazione,  e  solo  in  misura
limitata quella della protezione del rapporto di fiducia  tra  eletti
ed elettori [...],  la  scelta  del  legislatore  di  non  attribuire
rilievo, nei casi considerati, all'intervenuta  investitura  popolare
del condannato, e di far prevalere, nei termini e nei  limiti  detti,
l'interesse   alla   legalita'   dell'amministrazione   non   risulta
irragionevole»; cio' in  quanto,  «[i]n  questa  logica,  l'"atto  di
fiducia" di una parte dell'elettorato che elegge  il  candidato  gia'
condannato (in via non definitiva) non e'  sufficiente  a  far  venir
meno l'esigenza di tutela  oggettiva  dell'ente  territoriale.  Senza
considerare le esigenze di garanzia dell'intero corpo elettorale,  le
cui  altrettanto  meritevoli  aspirazioni  all'onorabilita'  e   alla
credibilita'  dell'eletto  possono  essere   messe   in   discussione
dall'elezione del condannato». 
    A fortiori, la non irragionevolezza della scelta  legislativa  di
far prevalere l'esigenza  di  tutela  oggettiva  dell'amministrazione
sugli interessi sottesi agli artt. 48 e 51 Cost. si deve  riconoscere
quando - come nel caso oggetto del giudizio a quo - la  condanna  non
definitiva  sopravvenga  all'elezione,  posto  che  in  tale  ipotesi
l'elettore ha espresso la propria scelta nella  mera  consapevolezza,
tutt'al piu', della pendenza del procedimento  penale  a  carico  del
candidato. 
    Infine, nessun rilievo assume nel contesto in esame il  principio
di non colpevolezza (art. 27, secondo comma,  Cost.),  in  quanto  la
sospensione,  come   piu'   volte   sottolineato,   non   ha   natura
sanzionatoria, essendo priva dei tratti funzionali tipici della pena;
essa, infatti, «non consegue a un giudizio di riprovazione personale,
ma e' semplicemente diretta a garantire l'oggettiva  onorabilita'  di
chi riveste la funzione di cui si tratta» (sentenza n. 276 del 2016).